LA DOMINAZIONE SPAGNOLA
Il 6 aprile 1297 Bonifacio
VIII investì Giacomo II d'Aragona Re della Corsica
e della Sardegna.
Questa decisione che dovette
restare inoperante per decenni, costituì la premessa
della conquista aragonese della Sardegna, con moventi di
fondo economico-strategici. L'isola, infatti, per la sua
posizione offensiva-difensiva al centro dell'area occidentale,
era il cardine e il presidio della politica di espansione
economico-catalana(1). Inoltre la Catalogna aveva bisogno
del grano che la Sardegna prometteva di dare in abbondanza.
Inizialmente vi fu un accordo
fra il Giudicato d'Arborea e Giacomo II per scacciare i
pisani e i genovesi dall'isola.
Quando i pisani, nella
primavera del 1322, seppero delle rinnovate intenzioni espansionistiche
aragonesi sull'isola, non si preoccuparono eccessivamente.
Politicamente Pisa era in una posizione migliore, rispetto
ai primi anni del secolo, anche se non aveva alleati diretti
effettivamente validi.
Comunque, non appena si
rese conto che Giacomo II d'Aragona intendeva agire senza
indugi, la città dell'Arno cercò di dare maggiori
presidi alla struttura difensiva isolana.
La guerra contro i pisani
iniziò l'11 aprile 1323 quando Ugone III d'Arborea
attaccò ed annientò un contingente di armati
toscani, che aveva sconfinato nei suoi territori.
In aiuto del Giudice e
dei sardi comunali ribelli, Giacomo II d'Aragona inviò
in Sardegna il 15 maggio tre galere con ottocento uomini.
Seguì il 31 maggio l'intera squadra navale composta
da trecento imbarcazioni, di cui ottanta galere, agli ordini
dell'Ammiraglio Francesco Carroz(2).
Comandava la spedizione
militare il Principe ventiquattrenne Alfonso, primogenito
del Re. Dopo la resa d'Iglesias, l'Infante Alfonso si scontrò
per la prima ed unica volta in linea presso lo stagno di
Santa Gilla a Cagliari, con un esercito pisano venuto in
soccorso dei pisani di Sardegna.
Vinsero con grande difficoltà
gli aragonesi.
Subito dopo venne posto
l'assedio al Castello di Cagliari, che si arrese il 19 giugno
1324. Pisa cedeva al Re d'Aragona tutti i diritti che aveva
sulle città, ville, terre, porti, miniere e saline
in Sardegna e Corsica(3).
Ma la conquista della Sardegna
era tutt'altro che consolidata. Aragonesi e arborensi, prima
alleati e poi nemici perchè miravano entrambi a conquistare
tutta la Sardegna si combatterono dal 1353 al 1355 e dal
1364 al 1410 quando i sardi giudicali, battuti nella battaglia
di Sanluri, furono costretti ad arrendersi.
Il trattato di pace stipulato
il 25 aprile 1326 fra il Re d'Aragona Giacomo II ed il Comune
pisano, a conclusione delle operazioni di guerra, confermava
a Pisa alcuni territori nell'isola. Una clausola di
esso stabiliva che Pisa
ricevesse in feudo dalla Corona aragonese le Curatorie di
Gippi e di Trexenta, quest'ultima rinomata ancora oggi per
la sua imponente produzione cerealicola.
La Curatoria di Trexenta
era composta dalle seguenti ville: "Goy de Silla, Goy
Majoris, Selaghe, Siunis, Suellis, Segolay, Arigy, Sancti
Basilis, Donigaglie alte, Alute, Sinorbi, Simieri, Archo,
Ortacessus, Separe, Bagni Donnici, Turris, Scoccho, Dei,
Arilis, Bagni Arilis, Segarii, Frius", ed aveva per
capoluogo Goy de Silla.
Di queste ville, quasi
tutte esistenti fino al 1358, nel primo cinquantennio del
XV secolo risultano scomparse(4): Alute (o Aluda), disabitato
nel 1421; Archo (o Arcuasila), ancora ricordato in carte
del 1389-91, e disabitato nel 1421; Bagni Donnici (o Bangiu
Donnigo), disabitato nel 1421; Bagni Arilis (o Bangiu de
Liri), disabitato nel 1421; Dei, disabitato nel 1421; Donigaglie
Alte (Donigala Alba o Donichadalba), abbandonato fra il
1397 e il 1416; Arilis (o Liri), ricordato nei conti del
sale del 1389-93 e disabitato nel 1432; Separe (o Sebera),
disabitato nel 1421; Scoccho (detto anche Sebocu, Siocco,
Sebogas), disabitato nel 1584; Segolay, abitato nel 1421,
come nel 1584 e nel 1684, spopolato fra il 1688 e il 1698:
lo costeggiavano Suelli, Arixi e Senorbì, ed era
situato presso la chiesa di San Nicolò di Bari (ora
Santa Mariedda), a mezzo Km. a Nord-est di Senorbì;
Turris (o Turri, Zuri, Surri), disabitato nel 1421; Simieri,
disabitato nel 1421.
Dalla disfatta, dunque,
Pisa salvava le Curatorie di Gippi (Campidano meridionale)
e di Trexenta, la cui importanza dal punto di vista economico
e dal punto di vista dell'estensione territoriale, non era
trascurabile. L'unico lato negativo consisteva nel fatto
che i due distretti restavano isolati e nessuno di essi
aveva sbocco diretto al mare.
Le ville e le terre site
nelle due Curatorie venivano concesse al Comune in feudo,
non gravato da servitù né da censi, con gli
uomini e le donne che ivi abitavano o avrebbero abitato,
e con tutti i possessi e terre colte, incolte e abbandonate,
e con le giurisdizioni, redditi, proventi e pertinenze(5).
Col trattato, veniva concesso
ai pisani di estrarre o far estrarre dal Regno di Sardegna,
tutte le merci che desiderassero, a patto che pagassero
il diritto stabilito o da stabilirsi. Erano esenti dal pagamento
di diritti i frutti e gli altri redditi che il Comune avrebbe
rittrato dalle terre ad esso concesse in feudo. Di più:
i pisani potevano esportare grani (granum et hordeum et
alia grana) dal Giudicato di Gallura. D'altro canto, veniva
proibito al Comune di costruire, nelle due Curatorie, castelli
e fortezze(6).
L'Aragona, non solo concedeva
il mero e misto imperio e l'alta e bassa giurisdizione,
ma rinunciava ad ogni servizio e censo(7).
Il valore della concessione
doveva essere esclusivamente patrimoniale. Perciò
la scelta era caduta su territori che avevano, sì,
la possibilità di garantire buone rendite, ma che,
nello stesso tempo, erano per la loro posizione geografica,
lontana dal mare, inadatti a
costituire possibili punti
di partenza per eventuali progetti di riconquista. Del resto,
una serie di limitazioni militari era minuziosamente fissata
nel testo stesso del trattato.
Nonostante queste precauzioni,
i problemi ed i contrasti non mancarono ed, anzi, furono
numerosi negli anni successivi.
Al Comune pisano, in base
ai redditi delle Curatorie di Trexenta e Gippi che la Corona
stimò in quell'occasione in libbre 1953 di alfonsini
minuti, furono richieste 40 libbre e 10 soldi di alfonsini
minuti quali corrispettivo del servizio preteso, e, secondo
i pisani, non dovuto, di cavalli armati e 20 libbre e 5
soldi per il preteso servizio di cavalli non muniti di armatura(8).
Furono, inoltre, richieste
agli uomini a piedi delle due Curatorie libbre 117 e 10
soldi, quali corrispettivo di un preteso servizio che 47
uomini a piedi ivi abitanti avrebbero dovuto fornire; 200
libbre della stessa moneta furono richiesti ai 40 liberi
ab equo, anch'essi abitanti nelle due Curatorie, sul preteso
servizio che costoro avrebbero dovuto fornire(9).
Le richieste furono presentate
al Vicario e al Camerario nelle due Curatorie, per conto
del Comune: i due funzionari non aderirono a quanto da essi
si pretendeva; e protestarono, allegando valide motivazioni
politiche e giuridiche(10).
Malgrado l'opposizione
dei due, che subirono anche atti di violenza personale,
i funzionari aragonesi fecero mettere alla subasta, pubblicamente
nel Castello di Cagliari, le rendite di un anno di tutte
le ville e terre della Curatoria di Gippi e delle ville
di Goy de Silla,
Goy Majore, Selegas e Segario
appartanenti alla Trexenta. Ordinarono, inoltre, ai due
funzionari pisani che si adoperassero presso i giurati della
Curatoria di Gippi e delle quattro ville ricordate perchè
essi si presentassero ai funzionari Regi, per garantire
all'acquirente o agli acquirenti, dei redditi e dei frutti
impegnati(11).
In seguito la situazione
delle due Curatorie si fece più difficile e si aggravò
progressivamente.
Contrasti sorsero per l'attribuzione
delle ville di Goy Maggiore e Goy de Silla, che pur essendo
state assegnate, nel trattato a Pisa, il Re Alfonso IV,
ordinò che fossero assegnate all'Arcivescovo di Lerida(12).
Non mancarono altri motivi
di frizione.
Il libero esercizio della
giurisdizione nelle ville e nei luoghi che Pisa possedeva
a titolo feudale fu turbato ripetutamente dagli Ufficiali
Regi; inoltre, molto spesso, gli abitanti di Gippi e della
Trexenta erano obbligati a servizi personali o al pagamento
di somme, in surrogazione alla guardia al Castello di Cagliari
o alle mura delle città di Sassari e di Oristano(13).
Le navi pisane, a loro
volta, erano sottoposte ad atti di pirateria da parte di
navi catalane(14).
Alla mancanza di sicurezza
per mare, si accompagnava la mancanza di sicurezza per terra.
I mercanti pisani non esercitavano
più la mercatura, neppure nelle ville delle due Curatorie;
non osavano vendere o comprare merci; o tenere bottega,
perchè ostacolati dagli aragonesi(15). Se poi riuscivano
ad ammassare le granaglie
prodotte nell'annata e ad avviarle alla madrepatria, dovevano,
contrariamente a quanto stabilito dal trattato, pagare i
dazi d'esportazione(16).
Nel 1355, dopo il passaggio
aperto dell'Arborea alla causa anti-aragonese e come frutto
del diretto impegno di Pirtro IV, personalmente nell'isola,
la politica aragonese conobbe un più sistematico
tentativo di unificazione della Sardegna con l'eliminazione
di quelle forze preesistenti alla conquista, le quali solo
formalmente e precariamente erano state inquadrate nel generale
assetto feudale dell'isola.
Così, in quell'anno
fu fatto qualche tentativo nei confronti delle Curatorie
di Gippi e Trexenta. Prendendo, probabilmente, a pretesto
le resistenze opposte dai funzionari pisani alla partecipazione
al primo Parlamento sardo, indetto da Pietro IV e svoltosi
a Cagliari nei primi mesi di quell'anno, proprio con il
fine dichiarato di una generale riorganizzazione dell'isola
e del suo governo, una spedizione aragonese, capitanata
da Artale de Pallars, attaccò le due Curatorie, nel
mese di giugno(17).
Il mese stesso in cui l'iniziativa
fu presa sembra, peraltro, suggerire un certo interesse
per l'imminente raccolto. E, nel mese di luglio, Pietro
IV poteva, così, decidere dei cereali della Trexenta.
Un documento del 15 luglio
1355 riferisce di una concessione fatta agli abitanti di
Decimo da parte del Re: essi potevano comprare grano della
Trexenta e della Curatoria di Nuraminis, purchè lo
vendessero nella villa di Sanluri, nella quale si trovava
uno dei castelli Regi di maggiore importanza(18).
Ragioni di ordine internazionale,
influirono, tuttavia, a favore della restituzione dei territori
occupati alla città toscana.
Una deliberazione degli
Anziani del Comune di Pisa disponeva, nel 1358, che un cittadino
del Comune, Ser Costantino Sardo, coordinato dal Notaio
Pietro da Calci, procedesse all'elenco ed alla stima degli
introiti, redditi, proventi in denaro, in grano ed in orzo,
derivanti al Comune dai beni mobili e immobili da esso posseduti
nelle Curatorie di Gippi e Trexenta, nonché alla
stesura dell'elenco degli abitanti delle ville delle due
Curatorie, soggetti al pagamento delle contribuzioni(19).
Dalla Composizione(20)
-con questo termine era indicato il censimento- la popolazione
risulta strutturata in senso verticale. Alla sommità
stavano i "liberi et terralis ab equo", non più
tenuti al pagamento del "donamentum"; seguiti
da coloro che vengono qualificati come maiores, mediocres,
minores. Al disotto dei minores sono indicati i palatori.
La distinzione fra maiores,
mediocres e minores, scaturisce dalla maggiore o minore
capacità contributiva, che deriva dalla stima indicata
accanto a ciascun nome, e dal numero dei gioghi di buoi
che ciascuno possiede ed impiega nel lavoro dei campi. Si
dà pure il caso di appartenenti ai mediocres, che
possiedono il giogo, ma seminano il seme avuto in prestito.
I palatori non arano, perchè non possiedono gioghi,
ma traggono il sostentamento dal lavoro della terra; possiedono,
talvolta, qualche bene immobile di limitato valore, hanno
un domicilio e vivono stabilmente in una villa.
I tributi che le ville
erano tenute a versare annualmente al Comune pisano consistevano
in prodotti dell'agricoltura ed in denaro. Le imposizioni
non riguardavano le singole persone, ma ciascuna villa considerata
nella totalità dei suoi contribuenti.
A ciascuna villa era imposto
il versamento di una quantità di grano e di orzo,
espressa in starelli, determinata dalle stime attuate nei
confronti dei suoi abitanti. Tali quantità di grano
e di orzo variavano, quindi, secondo il numero degli abitanti
e secondo l'estensione della terra coltivata. Il grano e
l'orzo dovevano essere misurati a starello vecchio di Cagliari,
raso alla sommità con un ferro.
Ciascuno dei palatori era
tenuto a contribuire alla quantità di cereali richiesti
alla villa di appartenenza con uno starello di grano ed
uno di orzo.
Il versamento dei cereali
al Comune pisano doveva avvenire il primo settembre di ogni
anno.
I contributi in denaro
derivavano: dalla datione, dal diritto delle taverne, dalla
locazione delle terre aratorie e dai salti.
Per quanto riguarda Selegas,
la Composizione del 1359-62, inizia nel modo seguente:"Villa
Selaghe curatorie tregende suprascripte cuius ville homines
debent dare et solvere suprascripto Comuni pisano seu suprascripto
camerario recipienti ut supra singulo anno in Kalendis septembris
pro eorum datio libras viginti suprascripte monete incipiendo
solutionem ut supra.
Item debent dare et solvere
suprascipti homines suprascipto Comuni pisano seu suprascipto
camerario recipienti ut supra singulo anno in Kalendis septembris
grani starellos centum triginta et hordei starellos centum
triginta ad infrascriptum starellum ita videlicet quod quilibet
palator dicte ville teneatur et debeat solvere de suprascripta
summa starellum unum grani et starellum unum hordei et non
plus.
Item debent dare et solvere
suprascripti homines suprascripto Comuni pisano seu suprascripto
camerario recipienti ut supra singulo anno in Kalendis septembris
pro dirictu tabernarum vine dicte ville libras duodecim
suprascripte monete...".
Segue un elenco dei terreni
di pertinenza del Comune pisano ed, infine, un elenco dettagliato
dei liberi et terrales ab equo, e dei maiores, mediocres,
minores e palatori della villa.
Dal documento si evince
che la villa di Selegas, considerata nella globalità
dei suoi contribuenti, deve pagare, il primo settembre di
ogni anno, per il datium: libbre 20, 130 starelli di grano
e 130 starelli di orzo, a cui deve aggiungersi uno starello
di grano e uno di orzo per ognuno dei sette palatori presenti
nella villa. Inoltre, sempre al primo settembre di ogni
anno, sono dovute 12 libre per il diritto di taverna.
Gli uomini censiti sono
complessivamente 36.
I liberi et terrales ab
equo sono 2: Gomita Mancosus e Simon Diana; ciascuno di
essi deve poter disporre di un cavallo buono e adatto, il
cui valore non sia inferiore ad almeno otto libbre di alfonsini
minuti, e di armi che valgano non meno di cinque libbre
della stessa mo
neta. I liberi et terrales
ab equo risultanti dalla Composizione sono complessivamente
-per le due Curatorie- 63, e solamente coloro che vi sono
iscritti devono ritenersi tali.
I maiores, che arano con
due gioghi di buoi sono 4: Barsolus de Culcas, Nicola Pinna,
Gomita Pilia.
I mediocres sono 14: Johannes
de Lacchono, Molentinus Schala, Morrone Coccho, Guantinus
Pizellus, Johannes Pizzellus e i suoi figli, Salvatore Lapias,
Johannes Conchas, Nicola Locii, Assai Caino, Gomita Piso,
Henrighus Schala, Gomita de Serra, Gomita de Schala; "Isti
vero sunt de mediocribus et quilibet eorum arat ad jocum
unum": questi arano ad un giogo di buoi.
I minores "Isti vero
sunt de minoribus tamen quilibet eorum arat ad jocum unum
sed est pauper", sono 10: Campodampruus de Forro, Gonnarius
de Orro, Guantinus de Montis, Guantinus Cara, Gomita Medas,
Gonnarius Medas, Gonnare de Hunale, Pasqualinus Lepore,
Laurentius Sorigha, Andreas Locii.
Al disotto dei minore sono
indicati 6 palatori, che sono dei minori che non arano,
ma traggono il sostentamento dalla terra: Nicola Stefani,
Arzocchus Mele, Nicola Mulargia, Barsolus de Lacchono, Barsolus
Soriga, Antiochus Pilia.
La somma complessiva risultante
dalla stima di ciascuno degli uomini della villa è
di 769 monete alfonsine.
Secondo un documento non datato, intorno al 1360 Pietro
IV averebbe espresso l'intenzione di comparare le due Curatorie;
e, forse, per questo, nel 1359 il Comune di Pisa aveva ordinato
la Composizione; cosa che in sostanza, equivaleva ad una
stima dei beni, utile per una eventuale vendita.
L'affare non venne concluso
e Gippi e Trexenta, furono coinvolte nel conflitto tra l'Arborea
e gli aragonesi, rincominciato nel 1364.
Probabilmente da subito
schierate con i sardi giudicali, le due Curatorie avevano
abbandonato il loro ultimo Vicario pisano, Filippo della
Scala, in mano a Mariano IV, il quale, durante l'assedio
di Sanluri, nell'autunno del 1365, lo aveva fatto impiccare.
Già nel 1362, il
governo pisano, la cui situazione toscana si era fatta più
pesante, decise di avviare trattative ben precise con il
Giudice d'Arborea. Tali trattative furono affidate ad un
Procuratore speciale, Ricucco Ricucchi, munito, appunto,
di una ampia procura a lui data dagli Anziani, nel luglio
di quell'anno(22).
Nel 1366, infine, le due
Curatorie furono date in pegno da Pisa allo stesso Mariano
d'Arborea.
Le due Curatorie seguirono
la sorte del Giudicato d'Arborea sino al 1409, quando dopo
la battaglia di Sanluri, furono riprese dalla Corona d'Aragona(23).
Sotto il profilo istituzionale
una delle conseguenze più rilevanti della conquista
catalano-aragonese della Sardegna fu l'introduzione del
feudalesimo attraverso il quale Giacomo II mirò a
dare all'isola un assetto organizzativo che consentisse
il mantenimento e la difesa dei territori acquisiti.
La Sardegna non aveva conosciuto
un vero sistema feudale, nel senso tradizionale che si dà
al termine, anche se nella realtà giuridica isolana
preesistente sono rilevabili elementi tipici del feudo.
Le principali città
dell'isola, un tempo rette a Comune, quali Cagliari, Sassari,
Iglesias ed Alghero, rimasero, invece, ai Sovrani ed ebbero
un'organizzazione di tipo municipale a regime vicariale,
che ricalcava gli ordinamenti di Barcellona.
Sopra tutti stava un Governatore
generale di Sardegna e di Corsica (talvolta due, con rispettive
competenze sul Capo di Cagliari e Gallura e sul Capo di
Logudoro), dal quale dipendevano una schiera di Ufficiali:
giudiziari (vicario, podestà, banaiolo, avvocato
e procuratore fiscale, ecc.), patrimoniali (camerlengo,
doganiere, portolano, saliniere, ecc.), e militari (capitano
e castellano)(24).
Tramite le città
e le ville Regie, il Sovranno tendeva ad equilibrare il
potere dei feudatari delle campagne(25).
Nel 1348 si diffuse la
peste in tutta l'isola. Si ripeterà negli anni 1362-1376,
dal 1398 al 1405, nel 1528-1571, e dal 1652 al 1656(26).
Spesso associate alle carestie
ed alle pestilenze oppure seguito da questi eventi, uno
dei maggiori flagelli dell'economia sarda, essenzialmente
basata sull'agricoltura e sulla pastorizia, furono le cavallette.
E ciò sino agli
anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale,
quando il fenomeno ha cominciato a regredire grazie al famoso
D.D.T.. In altri tempi anche in annate feconde, nembi di
cavallette giunte in formazione dall'Africa, potevano distruggere
colture e pascoli, gettandosi in picchiata sulla terra,
per poi levarsi nuovamente in volo, così numerose
da oscurare il cielo.
Il fenomeno ebbe uno dei
momenti di maggiore recrudescenza nel XVII secolo durante
il quale le cavallette sono segnalate nel 1629 e nel 1687(27).
Nel 1421, il Sovrano riunì
il Parlamento a Cagliari con la precisa volontà di
dare all'isola, ora tutta conquistata, un assetto modellato
su quello degli Stati continentali della Confederazione.
L'Assemblea parlamentare, che riuniva nei suoi tre bracci
o Stamenti i rappresentanti del clero, della feudalità
e delle città Reali, aveva lo scopo di dettare nuove
leggi riguardanti gli interessi del Regno, sulla base delle
richieste presentate; in cambio veniva offerto al Re un
Donativo.
Lo stesso Parlamento riconobbe
la Carta de Logu arborense come quella "ab la qual
la justicia entre los sarts es administrada". Ciò
forse lo si deve alla sua consonanza con la legislazione
catalana di
terraferma ed anche ad
una serie di ragioni tecniche, come la sua codificazione
scritta e la sua affinità con la Carta de Logu cagliaritana.
La Carta de Logu regolava,
tuttavia, solo le realtà rurali dell'isola, e non
quelle cittadine, che avevano propri ordinamenti.
Legato alla presenza iberica
è l'attuale stemma sardo dei "quattro mori",
antico emblema della Corona d'Aragona, che fu riprodotto
per secoli nei sigilli della Cancelleria Reale, e venne
attribuito al Regnum Sardiniae dopo la sua completa unificazione.
Nel 1434 la Trexenta era
in possesso di Giacomo de Besora, al quale era stata infeudata
da Alfonso V.
I de Besora appartenevano
ad una famiglia catalana un cui ramo si trasferì
in Sardegna con i fratelli Ruggero e Giovanni, al seguito
del Re Martino(28).
Giacomo, figlio di Ruggero,
nel 1427 sposò Aldausa Civiller, che gli portò
in dote i feudi di Pimentel, Villacidro e Parte Gippi. La
sua influenza politica aumentò quando fu Vicerè,
dal 1434 al 1437, e fu fra i principali artefici della conquista
del castello di Monteleone durante l'ultima ribellione dei
Doria.
Da Giacomo, il feudo passò
a Ruggero ed, infine, a Galcerando, uno dei suoi figli.
Egli ebbe un'unica figlia, che sposò Salvatore Alagon,
per cui tutti i feudi dei Besora furono ereditati da quella
famiglia.
Gli Alagon appartenevano
ad una famiglia aragonese un cui ramo si trasferì
in Sardegna nella seconda metà del secolo XV, quando
un Artale sposò Benedetta, figlia del Marchese di
Oristano Leonardo Cubello.
Dai suoi figli discesero
diversi rami della famiglia, fra cui: Leonardo, che all'estinzione
della discendenza maschile dei Cubello ereditò dalla
madre il Marchesato di Oristano e la Contea del Goceano;
e Salvatore, feudatario della Trexenta, di Villasor e di
Parte Gippi.
Salvatore combattè
per il fratello Leonardo quando per la rivalità fra
quest'ultimo e Nicolò Carroz, anch'egli imparentato
con la famiglia giudicale, si accese una cruenta guerra
feudale, che si concluse con la sconfitta, l'arresto dell'Alagon
e con la confisca dei suoi beni. Leonardo morì prigioniero
in Spagna ed i suoi figli furono perdonati agli inizi del
XVI secolo.
Salvatore ebbe il perdono
Reale nel 1497. I suoi figli formarono due diverse linee
della famiglia.
Giacomo, il maggiore dei
figli di Salvatore ereditò i feudi della famiglia;
i suoi figli ebbero delle difficoltà finanziarie
e nel 1506 furono costretti a staccare dal Parte Gippi,
Serramanna e Villacidro.
Blasco, figlio di Giacomo
ebbe elevato il feudo di Villasor, a cui era incorporata
la Trexenta, in Contea, e Martino, nipote di Blasco, nel
1598, ottenne l'elevazione del feudo in Marchesato, divenendo
così uno dei più potenti feudatari della Sardegna.
Verso la metà del
XVII secolo, gli Alagon divennero i capi riconosciuti del
partito Realista in Sardegna, in contrapposizione ai Castelvì.
Durante la guerra di successione spagnola si schierarono
a favore degli Asburgo e, nel 1708, un Artaldo ottenne il
Granducato di Spagna.
La famiglia si estinse
nel corso del XVIII secolo.
Nel 1703, l'eredità
degli Alagon passò alla famiglia spagnola dei de
Silva, per l'unione di Giuseppe con Emanuela, Marchesa di
Villasor.
I de Silva Alagon mantennero
il patrimonio feudale ereditato, fino all'abolizione dei
feudi.
Nel corso del 1400, a Selegas,
venne ricostruita la parrocchiale di Sant'Anna, in stile
gotico-aragonese.
Sempre nel XV secolo, con l'unione della Castiglia all'Aragona,
la Sardegna passò alla Spagna, e, nel 1492, lo zelante
Vicerè Giovanni Dusai, riuscirà a far pagare
ai sardi la quota del donativo dovuto per il matrimonio
di Donna Isabella, figlia del Re Ferdinando detto il Cattolico(29).
Con Decreto del Papa Alessandro
VI, del 12 aprile 1502, cessò la Diocesi Doliense,
che in seguito alla morte di Pietro Ferrer, ultimo presule
della Diocesi, venne soppressa e incorporata nell'Archidiocesi
cagliaritana.
La bolla ufficiale e definitiva
della soppressione del Vescovado di Dolia fu promulgata
dal Papa Giulio II l'8 dicembre 1503.
Nel 1516 muore Ferdinando
il Cattolico, per cui la Spagna viene riunita anche di diritto
sotto un solo scettro: regna Carlo V.
Raggiunto e consolidato
il controllo dell'isola, l'attenzione dei Sovrani fu dedicata
in prevalenza alle questioni istiruzionali, ai problemi
della difesa, a quelli dei rapporti con le forze sociali
e dell'economia.
Le vaste pianure e i terreni
collinari presenti nel paesaggio sardo continuarono a concentrare
le maggiori possibilità agli effetti della produzione
di quei generi che avevano maggiore importanza economica
e commerciale. Tuttavia, l'incremento produttivo non poteva
realizzarsi senza tener conto dei limiti imposti alle tradizionali
colture del grano e dei cereali dal sistema giuridico-istituzionale
delle terre feudali e dalle tecniche di produzione.
Accanto alle città
Regie con tutti i conseguenti diritti e privilegi, il resto
dell'isola apparteneva al potere feudale ed era suddivviso
in baronie ed Encontrade.
L'Encontrada di Trexenta,
di cui Selegas faceva parte, era una Signoria del Marchesato
di Villasor, che risultava composto da 16 ville appartenenti:
Villasor, Decimoputzu e Vallermosa, all'Encontrada di Parte
Gippi; Guasila, Selegas, Pimentel, Barrali, Ortacesus, Senorbì,
Arixi, Sant'andrea Frius e Seuni all'Encontrada di Trexenta;
Giave e Cossoine alla Baronia di Capu-Abbas(30).
L'economia di queste terre
era rappresentata in prevalenza da una agricoltura condotta
con metodi arrettrati e da una pastorizia sempre legata
alla transumanza, ma su di esse pesava, soprattutto, l'onere
derivante da un eccessivo fiscalismo il quale si esplicava
attraverso l'imposizione, spesso arbitraria, di tributi
feudali e Regi di ogni genere.
Una eloquente testimonianza
delle modeste condizioni di vita dei contadini si trova
descritta negli atti notarili custoditi negli archivi isolani.
Le case, quasi sempre composte da uno o due ambienti
-di cui il principale era
la cucina- erano costruite utilizzando pietra locale oppure,
come nei Campidani, nella Marmilla e nella Trexenta, con
mattoni di terra argillosa impastata con paglia. Alla modestia
delle strutture corrispondeva sempre la modestia dell'arredamento,
ridotto all'essenziale(31).
La produzione agricola
costituì un motivo di riferimento quasi costante
nelle attenzioni dei governanti iberici.
Essere produttori di grano
significava poter affrontare con relativa sicurezza situazioni
anche critiche di politica interna ed esterna. Ecco perchè
le Autorità statali intesero sempre controllare l'intero
ciclo produttivo dalla semina al raccolto, la costituzione
delle scorte, i permessi di esportazione.
Anche in Sardegna furono
applicate le norme annonarie spagnole, le quali prevedevano
l'ammasso nelle città Reali di tutto il grano e dei
cereali(32).
E' da notare che non sempre
gli interessi delle città coincidevano con quelli
degli abitanti delle campagne e, soprattutto, dei feudatari.
In genere, non solo il prezzo imposto annualmente risultava
insufficientemente remunerativo, ma certe disinvolte operazioni
messe in atto dai grossi feudatari consentivano di occultare
notevoli quantità di prodotto, che prendevano la
strada del mercato nero e dell'esportazione clandestina(33).
A scoraggiare i tentativi
di migliorare quantitativamente la produzione, non erano
soltanto le pretese cittadine; erano anche le forti imposizioni
doganali disposte per le esportazioni, che rendevano sempre
meno competitivi i prodotti isolani(34).
Una Carta Reale del 16
marzo 1615 ordinò che le mandorle fossero sottoposte
al diritto di Dogana, senza specificare l'ammontare; il
che attesta che in quel secolo la coltura del mandorlo fosse
molto curata se dette vita ad un commercio di esportazione;
per la qual cosa era necessaria una produzione di massa,
tale che provocò un Reale provvedimento fiscale(35).
Per contro, per il disordine
delle campagne, la frutticoltura, all'infuori degli agrumi,
in alcune località, era ridotta a piccole superfici.
Il grano, in Sardegna era
tutto: pane e moneta. Per qualsiasi necessità, stante
la continua insolvenza della Tesoreria, si pagava in grano.
I raccolti cerealicoli spessissimo, o per la siccità
o per le cavallette, andavano perduti e allora erano anni
di fame nera.
Anche la viticoltura, che
era praticata in tutte le regioni dell'isola, ebbe a subire
un sensibile regresso.
A risolvere un pò
le sorti di questa coltura contribuirono le Prammatiche
del 1686, nelle quali, l'estirpazione delle vigne fu considerato
un efferato delitto, soggetto alle pene più severe.
Con il dominio aragonese
e spagnolo erano stati introdotti nelle vigne sarde i vitigni
iberici, come il Nasco, il Torbato (coltivato nelle campagne
di Alghero), il Semidano, il Cannonau bianco o Camedda e
vitigni ad uve nere fra cui il Cannonau ed il Bovale(36).
Sino all'arrivo degli aragonesi,
l'agricoltura, in Trexenta e a Selegas era stata in continuo
sviluppo per i contratti favorevoli che praticava Pisa per
valorizzare le sue terre. La politica aragonese, con l'aggravio
dei balzelli sui prodotti agricoli finì, col tempo,
con l'inaridire le fonti produttive agricole.
Con la scoperta dell'America
furono introdotte in Europa nuove piante alimentari, di
cui diverse orticole come la patata, la melanzana, il pomodoro
ed il mais.
Al secolo XVII si deve
anche l'introduzione nell'isola del ficodindia, che venne
diffuso, nel secolo successivo, per la recinzione degli
orti e delle vigne, specie nelle zone di pianura e in genere
vallive. E' probabile che l'introduzione sia avvenuta per
seme.
In tutela degli orti e
delle vigne, il Parlamento del 1624, decretò la pena
di cento staffilate e cinquanta giorni di carcere, a chi
fosse entrato in orto o vigna, cintati, senza l'autorizzazione
del proprietario.
Tra il 500 ed il 600 l'antico
rapporto tra gli uomini e la terra subì una radicale
modificazione rispetto al passato, dando luogo ad una nuova
realtà sociale caratterizzata da considerevoli differenze
anche tra chi lavorava. Vi erano coloro che potevano offrire
solamente
le loro braccia, e chi,
coltivando direttamente con i propri mezzi i terreni avuti
in affitto o in enfiteusi, necessitava di poter contare
sul lavoro di collaboratori a giornata(37).
le figure del "Sotzu",
del "Partiariu" e del "Juariu" si trovano
numerose nei contratti stipulati tra le parti nel periodo
spagnolo.
Il "Sotzu" corrispondeva
all'attuale figura del mezzadro, mentre il "Partiariu"
richiama quella del colono partecipe. La terza figura era
quella riguardante il salariato agricolo fisso, impegnato
da contratto annuale per le operazioni di aratura, zappatura,
semina e raccolto, dietro compenso, che seguiva tariffe
fisse, ma variava secondo le consuetudini locali(38).
La scala gerarchica dei
lavoratori della terra era infine completata dai mietitori,
assunti stagionalmente per le grandi operazioni del raccolto,
e dai guardiani, incaricati di sorvegliare le vigne durante
la maturazione del frutto e prima della vendemmia(39).
Come si è avuto
modo di accennare, la vita nelle campagne isolane risentì
non poco del ripetersi di gravi calamità naturali.
Sebbene con frequenze meno ravvicinate rispetto a quelle
dell'epoca medioevale, non mancarono disastrose pestilenze
anche durante il periodo spagnolo.
L'evento certamente più
pesante fu l'epidemia che imperversò in tutta l'isola
tra il 1652 e il 1656, con conseguenze negative mai registrate
prima, sia per il numero dei decessi, sia per i riflessi
negativi che essa ebbe in tutti i settori della produzione
e, naturalmente, dell'economia in generale(40).
Non vi fu centro della
Sardegna, piccolo o grande che fosse, che non ne rimase
colpito.
Nel 1690 e 1691 si ebbero
raccolti pessimi, addiritura, in Ogliastra, il popolo fu
costretto a nutrirsi esclusivamente con pane di ghiande(41).
Nel 1694, a causa delle
cavallette, e per il rigore eccezionale dell'inverno si
ebbero ingentissime perdite di bestiame.
Dicono gli studiosi dell'epoca
che la moria di bestiame fu spaventosa e fu una delle più
gravi che la Sardegna subì nella sua storia.
In materia granaria, aveva
preminente importanza la sopravvivenza delle città,
di quelle, in ispecie che fungevano da piazzeforti marittime,
fuori del ricatto baronale. Queste esigenze strategiche
impedivano ai feudatari di sfondare sul fronte del grano:
la politica protettiva dei propri vassalli andava sotto
il segno della tenuta giurisdizionale e delle convenienze
del baronato(42).
A cavallo del 1540 si era
combattuta la battaglia contro la tendenza di ecclesiastici
e feudatari, complici taluni mercanti, a sottrarsi all'"afforramentum
tritici", vinta dalla città di Cagliari in via
legale (oltre che parlamentare), con il Conte di Villasor(43).
Combinati con la facoltà,
in casi estremi, di ricorrere con sgravi fiscali al granaio
siciliano, i privilegi di magazzino e di afforo mettevano
l'Annona di Cagliari e quella di altre città al riparo
dai crudi soprassalti delle crisi cerealicole(44).
Ma, né essi, né
l'altro privilegio di fungere da caricatore unico, per i
cereali, per tutta la Sardegna meridionale, garantivano
alla città di Cagliari un controllo effettivo del
mercato interno.
Molti erano i metodi a
disposizione dei feudatari e dei loro funzionari per salvaguardare
le proprie facoltà di drenaggio, ivi compresi piccoli
espedienti: come il farsi corrispondere in frumento tutte
le rendite feudali; il baratto con i prodotti dell'allevamento;
ed anche forme di occultamento e di esportazione clandestina,
d'intesa coi mercanti cittadini(45).
La cerealicoltura, estensiva
di nome, era nei fatti affidata ad un tessuto di piccole
aziende contadine, le quali scremate del surplus dai mercanti
e dai ceti privilegiati, vivevano ai limiti della sussistenza,
pur accompagnata da misure di sollievo esistenziale(46).
Al produttore doveva essere
lasciato l'occorrente per la semina e una quota di sussistenza
pari ad un anno e mezzo.
Così, con la presa
usuraia (mercantile e/o signorile) sulla cerealicoltura,
si dava un qualche respiro all'azienda contadina, condannata,
però, ad una assoluta subordinazione(47).
Nella prima metà
del XVII secolo, ad una generalizzata ripresa demografica
e della produzione agricola, faceva riscontro un manifesto
declino della potenza spagnola.
L'allentamento del potere
centrale sui territori periferici, quali la Sardegna, agevolò
l'emergere e l'affermarsi all'interno dei feudi, dei ceti
economicamente più forti, interessati a profondi
mutamenti in campo politico-organizzativo e, soprattutto,
in campo economico-fiscale.
Nelle Incontrade di Gippi
e Trexenta la fase più acuta dello scontro tra comunità
e feudatario si ebbe nei primi anni del XVII secolo.
Ad essere messo in discussione
era tutto il meccanismo fiscale feudale. la vertenza approdò
ad uno sbocco positivo soltanto nel 1651, anno in cui la
gran parte dei villaggi appartenenti al Marchesato stipularono
importanti convenzioni, conosciute col nome di "Capitoli
di grazie".
Caratteristico è
l'atto accordato dal Marchese di Villasor Don Blasco di
Alagon ai vassalli di Selegas nel 1651, redatto in forma
di supplica dei diversi Articoli o Capitoli approvati dal
Signore.
Dall'atto si deduce che
di simili Capitoli ne erano stati concordati antecedentemente
altri coi suoi predecessori:
Essi domandano in primo
luogo che mancando di terreni le terre di corte della villa
siano divise fra i vassalli ugualmente, senza pagare portadia.
(Accordato).
Chiededono di poter alienare
e permutare vigne, case e terre con qualunque persona della
Trexenta senza licenza del Signore:. (Accordato, purchè
non si tratti di ecclesiastici, chiese o vassalli forestieri).
Supplicano che dal Signore
siano restituite le case, le vigne, i forni, i molini e
le cose loro tolte: (Accordato).
Morendo qualsiasi persona
laica od ecclesiastica, gli eredi più vicini (se
i defunti non lascino figli e muoiano ab intestato) possano
dividersi i beni senza che il Signore o i successori lo
impediscano: (Accordato).
Mancando qualsiasi persona
laica od ecclesiastica, gli eredi più vicini (se
i defunti non lascino figli e muoiano ab intestato) possano
dividersi i beni senza che il Signore o i successori lo
impediscano. (Accordato).
Essendo troppo vessati
da comandamenti dominicali da parte del Signore e del Commissario
Reale, domandano di esservi obbligati una sola volta all'anno
e non con carro, esclusi i mesi da settembre ad aprile.
Non si accorda, invece
la domanda di cambiare gli Ufficiali di giustizia ogni tre
anni e che essi siano del luogo.
Chiedono e ottengono di
non essere obbligati a lavorare solo nella vidazzoni, ma
dove vorranno, perchè non si potrebbe trovare lavoro
tutti.
Che gli Uffici di Capitano,
Luogotenente e Scrivano non si appaltino, essendo ciò
dannoso ai vassalli e contrario alle R. Prammatiche. (Risposta:
cercherà di accontentarli).
Che le pene imposte dai
Ministri di giustizia non siano di 25 lire, ma di 4 lire
e 9 soldi, come nelle altre ville del Regno. (Accordato,
purchè non sia il caso di maggior pena).
Che i salti di legnatico
non siano appaltati dai Ministri di giustizia a persone
fuori del feudo. (Accordato).
Che i vassalli di Guamaggiore
non possano legnare nel PARDU DE SIDDU con loro danno, perchè
possiedono salti propri ove prender legna. (Non accordato,
essendo il legnatico diritto comune anche a quelli di Guamaggiore).
Che i figli ed eredi dei
vassalli viventi fuori del feudo possano succedere. (Si
concede, purchè paghino i diritti dovuti solitamente).
Che i padroni di bestiame
e i pastori delle ville che lavorano terre non corrispondano
il deghino, pagando essi già la laurera (llaor de
Corte) il feudo e il donativo . (Non accordato).
Che non paghino l'intera
roadia quelli che lavorano meno di due starelli di terra.
(Si osservi la consuetudine).
Quelli che serviranno da
maggiori di prato non paghino più di sei lire e mezzo
all'anno. (Si osservi la consuetudine).
Che non paghino diritto
di vino perchè, non avendo terre sufficienti, hanno
bisogno di piantar vigne. (Si osservi la consuetudine).
Si annullino le pene imposte
dai pregoni del feudatario sulla compra e vendita di case,
vigne e chiusi. (Accordato).
Che il deghino si paghi
in ragione di 50 capi, due; di 100, quattro; per meno di
50 uno; per meno di 100, due; e da 100 in sù la stessa
quantità. (Risposta: si osservi l'uso com'è).
Che i Ministri di giustizia
che vanno a prendere il deghino non prendano una pecora,
ma solo 5 soldi, poichè percepiscono altri diritti.
(Si osservi il solito).
Grazia di 1/3 della machizie
o multa a perpetuo. ( Si osservi il già decretato
in altro capitolo).
Che il bestiame forestiero
non entri en las estulas, stoppie, se non vi è entrato
prima quello del luogo. (Accordato).
Che i vassalli non siano
costretti a condurre i Commissari fuori del feudo sino los
clamorantis. (Risposta: nel caso si paghi la giornata).
I pastori del feudatario
facevano trasportare il loro formaggio a Cagliari sotto
il pretesto che fosse del Signore, senza pagarlo e così
il sale per salare i formaggi. Che paghino loro il trasporto
prima di caricarlo. (Accordato).
Mancando di terreni, possano
sboscarne per 500 starelli fino al termine di confine di
Selegas e Trexenta e dividerseli. (Accordato).
Che il Procuratore del
feudatario non possa maccellare né accusare pena
alcuna senza istanza di parte. (Non accordato, essendo ciò
dannoso agli stessi vassalli).
Che possano entrare in
qualsivoglia salto senza impedimento dei Ministri di giustizia.
(Accordato per i luoghi di legnatico).
Che i buoi domiti si possano
far pascolare in qualsiasi ora senza che i Ministri lo impediscano,
perchè la maggior parte del giorno i vassalli sono
sul lavoro col mestiere loro. (Accordato).
Che pagata la gallina di
Corte non siano obbligati ad altre galline se non a loro
piacere. (Accordato).
Che non si molestino dai
Ministri i vassalli acquirenti di terre, allegando che sono
terre de Cort. (Accordato).
Che gli Scrivani per registrare
i cuoi e altre cose che si vendono, non prendano nulla,
perchè il diritto pagato è certe volte superiore
al valore della cosa. (Si osservi la consuetudine, non potendo
i Ministri vivere senza stipendio).
Si annullino i processi
per spossessarli di vigne, tanche, etc.. (Accordato).
Che nessun Ministro di
giustizia feudale possa far sgomberare le aie per farne
prati per cavalli anche se confinanti. (Accordato).
Circa la misura richiesta
sui tributi feudali si concorderà atto a parte.
Che i vassalli non siano
perturbati nel possesso delle aie che possiedono, e le detengano
senza contradizione dei baroni e dei successori. (Accordato).
Che non si paghi nulla
allo Scrivano per registrare i porchetti della scrofa che
si tiene in casa. (Si osservi la consuetudine).
Che il Maggiore di prato
possa entrare per valutare il danno che si farà nei
seminati anche nel territorio d'altra villa, senza contraddizione.
(Nessuna risposta).
Avendo i vassalli poche
bestie, possano tenere fino a 10 vacche nei salti della
villa, senza trarli dai detti salti alla montagna, se non
superano i 10, e senza pagare il cadell de Cort per qualsiasi
quantità di vacche. (Accordato, con la riserva che
arrivando a 10, paghino il solito diritto).
Che possano tener a pascolo
nei salti della villa senza obbligo di trarli alla montagna,
fino a 20 porci e senza pagare il deghino. (Si accorda il
pascolo, ma pagando il diritto).
Che le giumente e vacche
non entrino nei salti dati ai vassalli dal Barone in MONTICORONA
dal 1° novembre fino a che si trasporti il grano alle
aie essendo ciò di gran danno al grano. (Si osservi
la consuetudine).
Che possano tagliare la
ramaglia senza licenza dei Ministri. (Accordato).
Non siano spossessati delle
terre e case che possiedono in qualsiasi parte della Trexenta
sia per eredità o compra. (Accordato, ma passando
i fondi con i pesi loro).
Che i Ministri di giustizia
allegando l'ordine del Barone non prendano, come fanno,
i cavalli dei vassalli per molti giorni senza il loro consenso.
(Risposta: che siano comandati solo in caso di hoste general).(48)
Il secolo XVII segnò nell'isola la diffusione delle
armi portatili e da fuoco, posto che affianco all'archibugio
comparve il moschetto. Nel secolo XVII furono emanati ben
dieci Pregoni vietanti l'uso delle armi da fuoco. Col Pregone
datato 29.5.1643 fu vietato non solo il portare addosso
armi da fuoco, ma anche "tenir" ossia possedere
pistole, pistolette, carabine e "pedrignales",
fucili che si caricavano a palle legate o anche con pietruzze,
d'onde il termine sardo "perdigonis" per indicare,
oggi, i pallini di piombo(49).
Altro Pregone fu fatto
gridare l'8 aprile 1644, ma il popolo continuò a
portare le armi, spesso ostentandole, malgrado le minacciate
pene. L'uso delle armi fu, nel XVII secolo, comune a tutto
il popolo(50).
LA
PREISTORIA - I
FENICIO PUNICI - LA
DOMINAZIONE ROMANA - IL
MEDIOEVO - LA
DOMINAZIONE SPAGNOLA - IL
PERIODO SABAUDO E IL XIX SECOLO - IL
XX SECOLO
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