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Missione in Germania

Sebbene fosse stata proprio l'intransigenza di Guglielmo II di Hohenzollern a rendere inevitabile l'esplosione della guerra, era verso la Germania che si rivolgevano i maggiori sforzi del pontefice nella ricerca della pace, essendo poi partite dalla cancelleria tedesca talune proposte di pacificazione. A due anni e mezzo dall'inizio del conflitto, Berlino pensava di aver vinto la guerra e di poterla interrompere per non perdere i vantaggi acquisiti. I paesi dell'Intesa non vollero raccogliere le proposte di pace che definirono generiche presentandole come un'astuzia, una manovra di guerra volta a dividere i nemici della Germania. Il premier britannico Lloyd George, disse che la proposta di pace veniva formulata da Hindenburg dall'"alto del carro trionfale del militarismo prussiano" e quindi bisognava proseguire la guerra fino alla totale distruzione della Germania. La sempre più accentuata sensibilità che Pacelli rivelava per il mondo tedesco indusse il papa a sceglierlo in quel difficile frangente come nuovo nunzio a Monaco, alla morte del suo predecessore, monsignor Aversa. Quando il cardinale Gasparri gli comunicò la decisione pontificia che lo riguardava, aveva ancora nelle mani il telegramma con la notizia della scomparsa del collega. Nell'accomiatarlo, Gasparri esclamò: "Mi hanno tagliato il braccio destro!". Prima che Pacelli partisse per la Baviera, Benedetto XV volle elevarlo alla dignità episcopale, a dimostrazione della stima e della fiducia che riponeva nel giovane diplomatico. Procedette di persona alla consacrazione proclamandolo arcivescovo di Sardi, una città asiatica e antica diocesi dell'impero romano d'Oriente distrutta dai musulmani, di cui però non aveva obbligo di risiedere. Fu prescelta per la cerimonia la Cappella Sistina, uno dei luoghi più solenni del Vaticano. La manifestazione ebbe momenti di alta spiritualità mentre il pontefice imponeva a Eugenio, dopo averne unto con i sacri oli il capo e le mani, la bianca mitra di broccato e d'oro, l'anello di zaffiro e il pastorale anch'esso d'oro, simboli della sua nuova dignità. E altri simboli dei suoi poteri erano le calze violette, i sandali, il succintorio, la tunicella, la dalmatica e i guanti. In segno di venerazione per la madre, Eugenio volle che nell'anello episcopale venissero fusi gli orecchini che lei portava da ragazza e che gli aveva donato.Nella cappella si diffondevano le note del Tu es Petrus del Perosi al suono trionfale di trombe d'argento, del Sicut cervus del Palestrina e del Te Deum. Il papa era assistito dai monsignori Mario Nasalli Rocca e Zampini, l'uno elemosiniere segreto, l'altro sagrista dei sacri palazzi apostolici. fra gli eccelsi personaggi presenti figuravano in primo piano i cardinali Vannutelli, Gasparri, Merry del Val. E tra loro Andreas Fruhwirth ch'era stato nunzio a Monaco, la sede verso la quale Pacelli si avviava. Numerosi erano i rappresentanti degli stati esteri e dell'aristocrazia romana, i Borghese, i Barberini, gli Aldobrandini, i Rospigliosi, i Chigi, i Lancelotti, i Colonna, i Ruspoli. All'abbraccio del papa e dei cardinali si unirono i baci commossi della madre, delle sorelle Giuseppina ed Elisabetta, con i consorti Mengarini e Rossignani, e del fratello maggiore Francesco divenuto il capo della famiglia in seguito alla scomparsa del genitore. Era il 13 maggio del 1917. In quello stesso giorno per una stupefacente e beneaugurante coincidenza appariva nel villaggio portoghese di Fatima a tre ragazzetti pastori, in mezzo a un lampo, l'immagine della Madonna che raccomandava al mondo di raccogliersi in preghiera e ottenere così un'immediata cessazione della guerra. Per la conclusione del conflitto lavorava il Vaticano, e con questo viatico il nuovo nunzio partì alla volta della Baviera il 20 di quel mese di maggio, conscio, come diceva, delle difficoltà della missione che lo rendeva "inquieto, preoccupato, tremante". Sei giorni dopo a Monaco si recava, in berlina di gala, a presentare le proprie credenziali al vecchio re Luigi III di Wittelsbach. "La missione di collaborare a un'opera di pace", diceva il nunzio al sovrano, "è affidata alle mie deboli forze, in un tempo che nella storia non ha eguali. Con la benevola protezione della maestà vostra, cui si unirà senza dubbio la feconda collaborazione del regio governo di stato, voglio sperare che i saggi e amorevoli sforzi del Santo Padre, mio sovrano, non resteranno infruttuosi". Le sue parole e la sua figura suscitarono vivo interesse presso la corte e la classe politica bavarese. Il presidente del consiglio, Georg von Hertling, pensatore cattolico, disse: "Il papa ci ha inviato non soltanto un nunzio. Questo Pacelli vale più d'un esercito". Su un giornale di Monaco si lessero commosse parole: "Una maestosa figura cammina per le strade della città. Attraverso le lenti degli occhiali cerchiati d'oro i suoi occhi brillano così vivi, così luminosi come animati da una fiamma inestinguibile". Pacelli, quarantatreenne, partica successivamente per Berlino, ch'era priva di nunziatura, dove il 26 giugno si incontrava alla Wilhelmstrasse con il cancelliere dell'impero. Il moderato Theobald Bethmann Hollwegg si mostrava disposto ad ascoltarlo, e lo affermava egli stesso riassumendo in termini positivi il colloquio. pacelli gli aveva fatto presente come sarebbe stato utile al pontefice conoscere con esattezza il pensiero dei tedeschi sui problemi del conflitto, e ciò per poter svolgere una mediazione di pace con cognizione di causa. Pacelli aveva posto sul tappeto essenzialmente tre problemi, ricevendo in verità risposte interlocutorie. il cancelliere imperiale si diceva infatti disponibile alla riduzione degli armamenti purchè tutti gli altri avessero fatto altrettanto. Era altresì favorevole a restituire la piena indipendenza al Belgio, a condizione che quel paese non entrasse nell'aera politica, militare ed economica anglo-francese. Riteneva infine possibile, sulla base di reciproche rettifiche di frontiera, un'intesa sull' Alsazia e la Lorena che la Germania aveva sottratto nel 1871 alla Francia. Alla luce di questo colloquio con il cancelliere imperiale, qualche giorno dopo Pacelli s'incontrava con Guglielmo II, il "signore della guerra", Kriegsherr, nel quartier generale tedesco di Bad Kreuznach, nel Palatinato renano. In una splendida scenografia che contrastava con gli orrori della guerra, si trovavano di fronte un torvo omaccione nell'uniforme di generalissimo prussiano e un esile sacerdote dall'aria ispirata. Il nunzio consegnava all' imperatore una lettera autografa del papa sull'esigenza di porre fine al flagello della guerra, anche se ciò doveva costare ai tedeschi, disse, una rinuncia ai territori occupati. Subito l'imperatore cominciò a recriminare sulla mancata accettazione delle sue precedenti offerte di pace, quelle del dicembre dell'anno prima, ma poi si proclamò lieto dei propositi pontifici. reclamava però che Benedetto XV, a riprova della sua buona volontà, impartisse severe istruzioni ai suoi sacerdoti in tutti i paesi affinchè smettessero di "predicare odi e vendette".L'indomani Pacelli corse a incontrare l'mperatore d'Austria Carlo I che era a sua volta sopraggiunto a Monaco. Anche l'Asburgo gli parlò d'un suo "sincero desiderio di pace", dicendosi perfino disposto a cedere il conteso Trentino all'italia. Al termine di questa missione del nunzio si poteva pensare che stessero realmente emergendo le condizioni per una mediazione vaticana. Ma tutto si arenò in seguito a una crisi politica che nel luglio del '17 travolse il cancelliere Bethmann Hollwegg. I capi militari Hinenburgh e Lundendorff vollero sostituirlo con un nuovo cancelliere, Georg Michaelis, riconquistati all'idea d'una superiorità bellica che avrebbe potuto condurli alla vittoria nonostante tutto e senza compromessi. Il Reichstag battè la casta militaristica prussiana. il giorno 19 dello stesso mese su iniziativa del deputato cattolico Matthias Erzberger, la maggioranza di centrosinistra votava nell'aula del parlamento una risoluzione di pace, assai prossima al progetto del Vaticano. L'esercito italaino si accingeva ad affrontare un'ulteriore ed estenuante battaglia sull'Isonzo, l'undicesima, che doveva sfociare nella rotta di Caporetto, quando si levò questa drammatica invocazione del papa: "Il mondo civile dovrà dunque ridursi a un campo di morte? L'Europa, così gloriosa e fiorente, correrà, quasi travolta da una follia universale, nell'abisso, incontro a un vero e proprio suicidio?". Il generale Cadorna la definiva crudamente una "pugnalata" alla schiena dell'esercito italiano. Si diffondeva l'opinione che le iniziative pacifiste del Vaticano traessero origine dal timore d'una sconfitta del grande impero cattolico degli Asburgo e dalle minacce sociali provenienti dalla Russia dove la rivoluzione bolscevica aveva abbattuto il dominio zarista. Il nuovo passo del Vaticano indusse il kaiser a riunire il consiglio della corona. Ancora una volta prevalse l'orgogliosa pressione dei militari. Parlando con alcuni rappresentanti del clero tedesco, Pacelli in un torrente di lacrime disse: "tutto è perduto, anche la vostra povera patria. Sono avvilito". Di quella povera patria cominciò con spirito evangelico a visitare instancabilmente i campi di prigionia. Entrò in contatto con la sofferenza di gente d'ogni fede religiosa e credo politico. erano vittime della guerra appartenenti alle più varie nazionalità, e ad esse Pacelli poteva spesso rivolgersi nella loro lingua. Fra i prigionieri c'erano anche soldati italiani. Uno d essi ne raccontava l'arrivo: "Scoppiò un boato che fece tremare la baracca. Tutti gli ufficialiin piedi si protendono verso l'austera figura di monsignor Pacelli. Chi getta baci, chi agita le braccia, chi piange. Lui, eretto e fiero nella persona, calmo e sereno, volge lo sguardo pensoso velato di malinconia, su quella folla di cui ha fatto vibrare le più intime fibre del cuore". Uno scrittore a sua volta prigioniero, Carlo Emilio Gadda, ricordava in un diario come aveva visto il nunzio in visita al suo campo e come i carcerieri tedeschi si erano comportati in quella occasione. Pacelli era il primo italiano non prigioniero che metteva piede a Celle Lager, nei pressi di Hannover. In attesa del nunzio i tedeschi avevano piantato lungo il viale del campo alcuni pini e qualche abete nano per dargli a intendere che quel verde fosse permanente e tale da allietare le giornate dei prigionieri. Finalmente entrò il nunzio: "E' alto, lungo, con occhiali, ha un cappello da prete di feltro liscio, ma più piccolo e tondo dei soliti, ornato di un cordone verde e oro; naso adunco e affilato, tunica nera". Poichè veniva giù acqua rada e fredda, Pacelli aprì un ombrello castano scuro, "da prete di campagna". In quella visita non aveva seguito ecclesiastico. Pacelli parlò: "La sua voce era acuta, il tono untuoso e calcolato, il discorso sembrava preparato. Tuttavia suonò in esso, o mi parve, la voce della pietà e della religione. Gli occhi mi si riempirono di lacrime e il cuore di lacerante tristezza quando egli disse dell'amore di patria e dell'amore di Dio". In quell'inferno, Gadda si chiedeva che cosa di concreto avrebbe fatto per loro il nunzio: "La sua visita è stata una pura formalità del Vaticano e nulla più, oppure, oltre a questo, è stata la visita di un uomo di cuore, capace di rappresentarsi la sofferenza dei suoi simili? Le sue parole erano dettate dalla convenienza o sgorgavano dal sentimento?" Nel doloroso pellegrinaggio il nunzio, oltre che a Celle, fu a Ingolstadt e a Ratisbona in Baviera, nel Lechefeld sempre in Baviera, a Munster e a Minden in Vestfalia, ad Halle in Sassonia, a Ellwangen nel Baden-Wurttemberg. In ognuno di quei campi distrbuiva pacchi con beni di prima necessità, dicendo che li mandava il papa da Roma.Il vescovo di Berlino, Schreiber, raccontava della grande impressione suscitata dal nunzio in un prigioniero francese. Era un ufficiale apertamente anticlericale che disse, dopo averlo incontrato: "Pacelli non è soltanto un gran signore. E' quello che si dice un santo. Ed è possibile che questo nunzio diventi papa.". Non solo ai vivi Pacelli riservò le sue attenzioni. Intense furono le visite anche ai cimiteri di guerra, punteggiati di croci, a ricordare il sacrificio della gioventù dei popoli. L'arcivescovo Faulhaber lo definiva il "terzo apostolo della Germania, dopo Bonifacio e Pietro Canisio". Sempre nuovi avvenimenti bellici e politici si accavallavano sulla scena europea. In Russia la rivoluzione era sfociata in repubblica; i tedeschi avanzavano nelle province baltiche inseguendo l'esercito bolscevico, e Lenin accettava di firmare la pace con Berlino. Nonostante ciò il destino degli austriaci e dei germanici era ormai segnato. Le grandi sconfitte patite sul fronte occidentale nel luglio-agosto del '18 furono il segnale della fine cui si aggiunse il colpo di grazia sferrato dagli italiani con la riscossa di Vittorio Veneto. Fra le popolazioni stremate, affamate e demoralizzate degli imperi in agonia esplodevano scioperi, moti di protesta, insurrezioni di massa. C'era ovunque un'impressionante sventolio di bandiere rosse. La crisi ebbe sbocchi rivoluzionari in tutte le più grandi città tedesche, da Lubecca ad Amburgo, da Hannover a Monaco. E Pacelli si trovava a svolgere la sua funzione nel pieno d'una rivoluzione che pareva totale. In Baviera cadeva la dinastia dei Wittelsbach con la precipitosa abdicazione di Luigi III, mentre un socialdemocratico ebreo, Kurt Eisner, s'impadroniva in maniera incruenta del parlamento e fondava la repubblica riuscendo a evitare l'estremismo bolscevico. Una repubblica nasceva anche a Berlino, ad opera d'un altro socialdemocratico, Philipp Scheidemann, e il kaiser Guglielmo II aveva dovuto darsi alla fuga. A loro volta gli Asburgo, in Austria e in Ungheria avevano preso la via dell'esilio, e a Vienna si era instaurata una Raterrepublik sovietizzante. A Berlino erano esplose le sommosse di comunisti, o meglio degli spartachisti capeggiati da Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg che propugnavano l'unione mondiale del proletariato non senza empiti di libertà, ma che presto caddero assassinati per mano di ufficiali della controrivoluzione col sostegno abbastanza palese del governo. Nonostante le tensioni del momento si poterono svolgere in Germania le elezioni che condussero a una forte affermazione dei socialdemocratici e alla formazione dell'assembela costituente. Con il partito dello Zentrum cattolico e con i liberali di sinistra, i socialdemocratici avevano dato vita alla coalizione di Weimar. L'assemblea aveva eletto alla presidenza del nuovo stato che fu chiamato Repubblica di Weimar. Il socialdemocratico revisionista di idee monarchiche Friedrich Ebert, uno dei più tenaci e anche subdoli avversari del rivoluzionarismo estremista. In una rigida giornata dell'inverno bavarese, nel febbraio del '19 viene assassinato a Monaco il premier Eisner, che era al potere da soli tre mesi ad opera di un fanatico ufficiale monarchico, così in aprile la repubblica della Baviera, da democratica che era, assumeva le sembianze di uno stato bolscevico, tanto da assomigliare alla pur breve dittatura che un israelita, Bela Kun, imponeva agli ungheresi. Gli scomvolgimenti politici rendevano ancora più difficili la già gravi condizioni economiche del paese. Il nunzio Pacelli toccava con mano la crisi nelle sue visite ai quartieri più poveri di Monaco. Ogni giorno, nelle prime ore del mattino, usciva dalla residenza di Briennerstrasse, al centro della città, per incontrare gruppi di derelitti che gli si facevano incontro. Una sera, tre o quattro disoccupati lo seguirono fin sotto il portone della nunziatura e lasciarono capire che per tutta la notte non si sarebbero allontanati dal marciapiede essendo affamati. Allora Pacelli disse a una suora di portare ai poveretti il pentolino con il riso della sua cena. Il riso era infatti uno degli alimenti cui era obbligato dal mal di stomaco che gli dava raramente tregua. L'opera caritatevole del nunzio si interruppe per tre o quattro settimane, fra i mesi di aprile e maggio, essendosi ammalato di un'influenza, detta spagnola, che lo aveva tenuto immobilizzato in una clinica a Zanzberg, in Svizzera. Pacelli aveva tuttavia continuato a lavorare avvolto in coperte e scialli. Si era un po' ripreso, e i prelati del luogo talvolta lo sorprendevano in preghiera, inginocchiato sulla ghiaia del cimitero del convento o davanti ad una piccola cappella nell'annesso parco della clinica. Un pomeriggio, durante la sua permanenza in Svizzera si presentarono sul portone della nunziatura di Briennerstrasse sei o sette urlanti omaccioni agli ordini di un certo comandante Seidler, armati di rivoltelle e con fazzoletti rossi al collo. Erano spartachisti, cioè aderenti alle frange estremiste della socialdemocrazia, che reclamavano la consegna della Mercedes del nunzio chiusa in garage.Li affrontò una giovane suora, opponendosi vivacemente alla loro pretesa e mostrandosi incurante delle armi spianate. Gli aggressori già stavano per entrare a forza nel garage, quando apparve il nunzio che, pur non essendo ancora pienamente guarito, aveva lasciato la clinica e stava facendo ritorno a casa. Mentre la sua figura si stagliava alta davanti a loro, rapidamente la suora, allargando le braccia, si gettò fra lui e gli aggressori, per ripararlo con il proprio corpo. gli spartachisti, fortemente impressionati dal gesto, abbassarono le armi e lasciarono passare indenne il prelato. Pacelli, salendo le scale della nunziatura, si rivolse all'impavida suora dicendo: "Lei mi ha salvato la vita. Come potrò mai ringraziarla?". La religiosa si chiamava Josephine Lehnert. Non aveva che venticinque anni. Settima di dodici figli, era venuta alla luce nell'ottobre del 1894 a Einsberg, nei dintorni di Monaco, da genitori campagnoli. Era di diciotto anni più giovane del nunzio, essendo nata nello stesso anno in cui aveva deciso di farsi prete. Apparteneva alle Suore Insegnanti della Santa Croce, come si arguiva dall'ampio copricapo nero col rovescio di stoffa bianca. Entrando tra le suore di Santa Croce Josephine aveva assunto il nome di suor Pascalina. Di media statura, sottile il profilo, gli occhi celesti, gli zigomi alti e pronunciati, le mascelle forti, le labbra leggere. Era presso la nunziatura al servizio di Pacelli già dal marzo dell'anno prima, insieme ad altre due consorelle. Esse costituivano un'eccezione, perchè la regola delle nunziature prescriveva esclusivamente l'impiego di personale maschile, ma don Eugenio aveva ottenuto una deroga da quella disposizione, rivolgendosi direttamente al pontefice. Quando suor Pascalina fu chiamata a Monaco aveva da non molto preso i voti. Si trovava nel convento di Menzingen e aveva le valige già pronte per un'altra destinazione, la missione dei cappuccini in Cile. Al primo incontro col nunzio lei non fu colpita solo dalla sua alta figura, ma anche soprattutto, nel momento del bacio dell'anello di zaffiro, dalla diafana delicatezza della mano che le si protendeva. La ragazza non sapeva una parola di italiano, quindi da quel momento la conversazione con il nunzio di svolse necessariamente in tedesco. A poco a poco parlando con lei Pacelli aveva corretto molti errori di pronuncia e di grammatica, sicchè il suo tedesco si era già fatto più scorrevole. Il loro primo incontro era avvenuto in Svizzera, nel convento di Heinselden, nel '17. Il nunzio vi si era recato per un breve periodo di riposo, ma in quei giorni riapparvero insopportabili i dolori allo stomaco. Chiese alla madre superiora del convento se poteva consigliargli una dieta, un rimedio qualsiasi pur di lenire il male. Nel convento c'era appunto suor Pascalina, che aveva frequentato un corso d'infermiera e aveva un'infarinatura di dietetica. La madre superiora non aveva altro di meglio da offrirgli, il quale disse: "Va bene. Provo". All'indomani della prima aggressione, il 30 aprile, si verificò un vero e proprio tentativo di assalto spartachista alla nunziatura, con l'impiego di mitragliatrici piazzate intorno al vecchio edificio. L'ordine dell'operazione era ufficialmente partito dal comandante della guardia rossa della cttà, Eglhofer, un giovane ventunenne che per l'efferratezza delle sue esecuzioni sommarie si era guadagnato il soprannome di "tigre". Il drappello era agli ordini di un personaggio non meno sanguinario di Eglhofer, Fritz Seidl von Cheminitz, arrivato sul posto con animo collerico, deciso a sgombrare la nunziatura dai preti, dalle suore, dai crocifissi, magari facendo volare tutti e ogni cosa dalle finestre. Seidl affrontò Pacelli puntandogli la pistola contro il petto. Il nunzio, immobile, fissando gli occhi del suo aggressore, disse: "Non ho paura di voi. Sto nelle mani di Dio e ho il compito di salvare i miei fedeli. Ecco perchè non mi muoverò di un passo davanti a qualsiasi prepotenza terrena". La fermezza del nunzio ebbe ragione sulla violenza dei suoi avversari. Era accorso il capitano De Luca, rappresentante della missione militare italiana a Monaco, il quale così rappresentò la scena: "Col viso composto da una serenità perfetta e l'alta persona impavidamente eretta di fronte al pericolo mortale, egli seppe tener testa mirabilmente ai suoi aggressori, e seppe vincere, poichè le armi finirono per abbassarsi di fronte all'uomo inerme". Gli spartachisti, a causa del precipitare degli eventi a loro sfavore, non ebbero altro tempo per tornare a minacciarlo. Già dal primo maggio i comunisti di Monaco furono rovesciati da una nuova e sanguinosa offensiva, dalla reazione ultranazionalista mediante reparti di truppe regolari e soprattutto con l'intervento dei Frei Korps, i Corpi Franchi, strettamente collegati allo stesso presidente tedesco Ebert, dal ministro della difesa, uomo forte dei socialdemocratici di destra. Monaco appariva come un terreno fertile alla rivincita della borghesia indebolita dalle violenze spartachiste, cui però erano succeduti non meno feroci controrivoluzionari del terrore bianco. La Baviera diventava una sacca della destra anticomunista, e offriva a ogni agitatore l'occasione di menare le mani. Un trentunenne disadattato austriaco, il piccolo caporale Adolf Hitler, si rivelava abile orchestratore di un'efficace azione propagandistica antiebraica e antibolscevica. Egli godeva di autorevoli protezioni.Erano infatti suoi sostenitori il premier bavarese, Knilling, e il ministro della giustizia, Gunther. Il ministro degli interni non intendeva invece sopportare ulteriormente le sanguinose scorribande delle squadre naziste. Sia Knilling sia Gunther pensavano di servirsi dei nazionalsocialisti come baluardo anticomunista. Il ministro degli interni minacciava invece di rimpatriarlo, in quanto straniero indesiderabile. E sebbene non avesse l'appoggio di tutto il governo, era sostenuto dagli esponenti della Bayerische Volkspartei e da monsignor Pacelli. Il nunzio condannava senza mezzi termini "l'estremismo di certa gente non bavarese". Definiva Hitler un "invasato egocentrico, un distruttore, un uomo capace di calpestare cadaveri e di abbattere tutto ciò che gli è di ostacolo". Pacelli doveva placare la grande tensione nervosa che riusciva ad occultare sotto un'apparente quiete. Accogliendo l'invito del cardinale Gasparri, o eseguendone piuttosto un ordine, Pacelli si recò in Svizzera per quattro settimane di riposo. Scelse la località di Rosrach, sul lago di Costanza, che già conosceva per altre brevi vacanze trascorse nell'accogliente villa dell'istituto Stella Maris, appartenente all'ordine delle religiose della Santa Croce. Troppe erano le incombenze, che anche a Rosrach movimentavano le sue giornate. La superiora, madre Carmela, sorella del presidente della confederazione, il cattolico conservatore Giuseppe Motta, non sapeva darsi pace di avere un ospite che in vacanza lavorava come un ossesso. Lo stesso Pacelli parlava di tutto quel lavoro in una lettera ad un amico: "Non ho nemmeno qui il riposo, dovendo solo e da lontano trattare tutti gli affari della nunziatura. E dopo tutto non si è a questo mondo nè per godere, nè per vivere tranquillamente. Basta la grazia di Dio e la pace interna che da essa deriva". Riusciva però a fare qualche passeggiata, di pomeriggio, poichè il medico gli aveva consigliato di non starsene sempre dietro la scrivania o inginocchiato nella piccola cappella dell'istituto. E allora lui se ne andava per i prati a conversare di tanto in tanto con i piccoli guardiani delle mucche al pascolo. A Rosrach, con il costante ausilio di suor Pascalina, trovò tuttavia il modo di migliorare la conoscenza del suo tedesco, al cui studio aveva già dedicato a Monaco alcune ore delle sue giornate. Alla superiora dell' istituto aveva già spiegato perchè si era fatto accompagnare da suor Pascalina: "E' un' angelo" disse. Il personale della nunziatura, comprese le suore, non sapeva l'italiano, ed egli era costretto sempre e ancora a parlare in tedesco. Ormai aveva imparato alcune tipiche sfumature del dialetto bavarese. Una sera, conclusa la recita del rosario, disse a suor Pascalina: "Ha sentito come l'altra suora dice il credo? Ich glaube in eine heilische, katolische, kirsche". E sottolineava il fatto che in dialetto bavarese kirche, chiesa, si pronuncia come kirsche, ciliegia. Da tempo era tornato a Monaco Quando dovette improvvisamente partire per Roma, alla notizia che una grave malattia aveva colpito la madre. Non ebbe la consolazione di vederla per l'ultima volta viva, poichè al suo arrivo, il 12 febbraio del 1920, erano già in corso i funerali. Un intenso lavoro diplomatico si svolgeva tra la Santa Sede e alcuni stati europei, molti dei quali, a guerra finita, avevano cominciato a ritenere utile regolarizzare sotto una nuova luce i rapporti con la chiesa. Alcuni anni prima Pacelli aveva contribuito in una piccola parte alla realizzazione di un' intesa con la Serbia; ora invece egli appariva come protagonista plenipotenziario dei concordati che si preparavano con la Baviera e la Prussia. L'obiettivo di una convenzione con l'intera Germania si rivelava estremamente ardua, quindi si cercavano accordi parziali con i singoli stati tedeschi. Erano trattative faticose. Nelle estenuanti sedute in cui egli si trovava solo davanti a una schiera di funzionari tedeschi emergeva tutta la sua preparazione giuridica e l'abilità dialettica. Perchè potesse solvere meglio al suo ruolo di mediatore, gli fu affidata la nuova nunziatura di Berlino, mentre gli veniva conservato l'ufficio di Monaco. Era altresì necessario che si trasferisse nella capitale prussiana, nel cuore della Germania luterana, il paese della riforma, e ciò lo rese triste, essendosi affezionato al mondo bavarese, in particolare all'arcivescovo di Monaco, Michael Von Faulhaber. Le sue visite brevi ma intense nei castelli della Baviera non sarebbero rimaste che un ricordo di alcune ore di svago. Il distacco dai fedeli e dai governanti del Land, dal premier Heinrich Held e dal borgomastro di Monaco avvenne con una cerimonia di commiato all'Odeonsaal, che risuonò nelle parole di un suo commosso discorso. Suor Pascalina seguì Pacelli a Berlino, com' era naturale, perchè ormai le era affidato l'incarico di economa. Fu lei ad interessarsi sia dell'acquisto dell' edificio nei pressi del Tiergarten, fra elci e castagni, cui ebbe sede la nunziatura, sia dei mobili e di ogni altro oggetto di arredamento. Il nunzio non se ne occupava. Raccomandava soltanto di non fare spese inutili, perchè la semplicità era la sua divisa. Egli si comportava da francescano, salvo la sua passione per l'equitazione, disdegnando di montare un aggeggio elettrico avuto in regalo che simulava i movimenti di una cavalcatura in carne e ossa, percorreva un paio di volte alla settimana su un magnifico cavallo i boschi dell' Eberswald. Si vestiva da cavallerizzo, ma per il resto era la povertà fatta a persona. Addosso non aveva fronzoli. La sua stanza da letto appariva spoglia e sullo scrittoio dello studio non aveva che l'essenziale. In un angolo si accovacciava sul tappeto il gatto. La sua naturalezza lo rendeva ancora più severo. Un giorno, durante una breve passeggiata nel Tiergarten, come raccontava egli stesso sorridendo, fu avvicinato da un ragazzetto che disse: "Chi sei tu? Mi sembri diverso dalle altre persone. Sei alto, elegante e hai gli occhi tanto belli. Sei forse il buon Dio?" Suor Pascalina era dunque con lui a Berlino, e per l'insorgere di fatali gelosie, cominciarono a serpeggiare intorno a questo evento alcune voci sui rapporti troppo stretti che si erano instaurati fra lui e la religiosa. Sembrava che soltanto a suor Pascalina egli concedesse un po' di familiarità. Si diceva che fosse ormai lei ad organizzare le giornate secondo le sue personali regole e che si permettesse perfino di interrompere le udienze del nunzio perchè troppo lunghe o perchè concesse a personaggi che non godevano della sua simpatia. Più di tutti arricciava il naso uno storico molto vicino a Pacelli, il gesuita Robert Leiber, un tipo un po' noioso e mesto, un po' confusionario e sempre ritardatario. Diceva che il nunzio avrebbe dovuto liberarsi di suor Pascalina, ma che non si decideva mai a farlo poichè la suora si era rivelata una buona reggitrice della casa, pur avendo cominciato con semplici lavori domestici. Una volta il nunzio rimbrottò padre Leiber, il quale aveva scritto nelle bozze di un suo discorso che la statua della Madonna si era diretta verso monsignor Pacelli "quasi per salutarlo". Pacelli cancellò queste righe replicando: "Sono io che devo salutarla. Ci mancherebbe altro". Nel gennaio del '22 era morto Benedetto XV e, fra la sorpresa generale, gli era succeduto un personaggio pressochè sconosciuto, un topo di biblioteca da non molto asceso al rango di arcivescovo di Milano e cardinale, Achille Ratti. L'elezione del nuovo papa, il quale prese il nome di Pio XI, fu accolta dal capo del fascismo con ulteriori dichiarazioni di ossequio per il mondo cattolico. Ricordò e lodò il grande spirito di comprensione che Achille Ratti aveva dimostrato da arcivescovo di Milano, consentendo alle camice nere e ai gagliardetti di entrare nel duomo per celebrare il milite ignoto. Con quel papa, pensava Mussolini, sarebbero certamente migliorate le relazioni tra l' Italia e il Vaticano. Aveva ragione, poichè con il nuovo pontefice si intensificava felicemente l'azione diplomatica volta ad avvicinare tra loro la Chiesa, l' Italia e gli altri stati, non soltanto europei. Da par suo Pacelli intratteneva cordiali rapporti con le autorità politiche della repubblica di Weimar, soprattutto con il primo presidente della repubblica, Friedrich Ebert, il quale era di umili origini, avendo esercitato in giovane età la professione del sellaio, sia con il suo successore Von Hindenburg. L'anziano feldmaresciallo, pur evitando sistematicamente di accogliere gli inviti dei rappresentanti diplomatici, aveva per il nunzio particolare riguardo. Difatti, ogni anno, ricorrendo l'anniversario dell'incoronazione di Pio XI, si fermava suo ospite a colazione. Egli era salito al potere con il voto delle destre e della grande industria, sostenuto dalla casta militare prussiana che ancora parlava della pugnalata alla schiena, dolchstross, inferta dai politici all'esercito tedesco. Il '29, l'anno dei concordati con l'Italia e con la Prussia, si avviava ad una tragica conclusione di portata mondiale. Il 29 ottobre si verificò un gigantesco crollo della borsa valori di Wall Street, e la Germania fu particolarmente investita da un' ondata catastrofica. Il numero dei disoccupati superava i tre milioni, le liste di povertà non avevano fine, si susseguivano gli scioperi, dilagava la violenza. La crisi economica travolse la Grosse Koalition del socialdemocratico Hermann Muller, e fu la fine dell'ultimo ministero a base parlamentare della Repubblica di Weimar. Nel marzo dell'anno successivo il cancelliere Muller cedeva il potere all'uomo forte dell'ala sindacale dello Zentrum cattolico, Heinrich Bruning, che volle tentare nuove elezioni, i cui risultat andarono a beneficio dei nazionalsocialisti. Il partito di Hitler balzava dal nono al secondo posto nella graduatoria nazionale delle forze politiche, riscuotendo il 18,3% dei suffragi, mentre nella precendente legislatura si era fermato al 2,6%. Pacelli, costretto ad operare in questa confusa situazione politica, non si perdeva d'animo; anzi, moltiplicava gli sforzi. Trascorreva molte ore della giornata nel suo studio ad elaborare le disposizioni che il pontefice gli impartiva da Roma, a prendere appunti con una scrittura nitida e minuta su piccoli fogli rettangolari, a vergare rapporti che poi una giovane addetta prussiana alla nunziatura, suo Maria Ignazia, copiava con diligenza battendo sui tasti di un'antiquata macchina da scrivere. La nunziatura diventava un centro di attività politico-diplomatica. Pacelli veniva definito il più abile componente del corpo diplomatico, del quale era decano, essendo nunzio apostolico. Ma lui non era esclusivamente un diplomatico o un politico. Come sempre si sentiva un pastore, e ciò gli accattivava non soltanto l'ammirazione della Berlino cattolica, ma anche di larghi strati della Berlino luterana. Visitava i quartieri periferici più poveri della città e anche le acciaierie e i grandi stabilimenti industriali, per entrare in contatto con le masse di operai già soggiogate dalle macchine, per annunciare i principi della dottrina sociale cattolica. Particolare pietà nutriva per i minatori, quei prigionieri che la terra tratteneva a sé come sepolti vivi. Non si accontentava di raggiungere le imboccature delle gallerie, ma scendeva nel cuore delle miniere, come accadde a Gelsenkirchen, in Westfalia. L'evento incuriosiva l'opinione pubblica, perciò la sua foto in tenuta da minatore, con tuta e elmetto, apparve su tutti i giornali.Per il nunzio si schiudevano nuovi orizzonti. Egli aveva avuto il sentore di una sua imminente nomina a cardinale, ma sembrava che cercasse di evitarla. Come rivelava a suor Pascalina, aveva chiesto al fratello Francesco, l'avvocato della Conciliazione, di intercedere presso il pontefice affinchè desistesse dal fare una cosa simile. Avrebbe preferito che gli si fosse assegnata una diocesi, per confessare, cresimare, predicare, visitare gli infermi, come diceva a due religiosi suoi amici, monsignor Giuseppe Pizzardo e monsignor Michèl D'Herbigny. D'Herbigny aveva lo spirito del missionario e poteva capirlo più di ogni altro. A lui Pacelli era legato da antica amicizia, da quando il gesuita, quattro anni prima, aveva cercato di portare la parola di Cristo in Russia attraverso una chiesa clandestina, consacrandovi segretamente alcuni vescovi. Da entrambi non aveva ottenuto lumi sufficienti, per cui decise di parlare direttamente al papa durante il suo nuovo viaggio a Roma. Al cospetto di Pio XI premise un sommesso interrogativo: "Posso rivolgermi a Vostra Santità come a un padre?" "Noi lo siamo", fu la risposta. Allora Pacelli chiese a papa Ratti ciò che egli si immaginava che gli avrebbe chiesto: di essere lasciato libero di dedicarsi al ministero delle anime. "Ci penseremo", rispose il papa, ma aveva già deciso di farlo cardinale.

Tratto da: Antonio Spinosa, Pio XII. L'ultimo Papa, Collana "Le Scie", Mondadori