s

s

s

s

 

Links

Guestbook

Testimonianze

Galleria fotografica

Immagini dalla GMG 2000

E-mail

f

L'ultimo aggiornamento è stato effettuato a:

f

Segnalato da Clarence Links

f

Accedi al motore di ricerca cattolico

g

Habemus Papam

Con la morte di Pio XI, Pacelli cessava ipso facto dalla carica di segretario di stato e diventava camerlengo di Santa Romana Chiesa. Constatato il decesso del papa, prendeva possesso dei palazzi vaticani. Poi apponeva i sigilli alle stanze private dell'estinto di cui, dopo aver spezzato l'anello piscatorio, provvedeva alla conservazione delle spoglie terrene. Quindi convocava a Roma i cardinali per il conclave, destinato a eleggere il successore del papa scomparso. Pacelli dava ordine a suor Pascalina di etichettare tutte le sue carte e di imballare i mobili del suo appartamento, nutrendo il proposito di lasciare il Vaticano subito dopo la conclusione dell'imminente conclave. Sarebbe quindi partito alla volta del lago di Costanza, ospite dell'istituto Stella Maris, per qualche giorno di riposo. Ne aveva bisogno perchè la sua fibra dava segni di cedimento. Sollecitò suor Pascalina e le sue due consorelle di far vistare i loro passaporti, precisando che al proprio aveva già provveduto. Preparava in tranquillità il conclave che ebbe inizio nel pomeriggio del 1 marzo, un mercoledì. Erano in sessantadue. Passando per il cortile dei Pappagalli entrarono nel cortile di San Damaso. Il pefetto delle cerimonie pontificie - esaminato il regolare funzionamento delle rote che sarebbero servite a introdurre derrate e commestibili provenienti dalla cucina vaticana, e provata la sicurezza degli sportelli di chiusura - dava ad alta voce l' "extra omnes", tutti fuori. Al che le persone del seguito si avviarono rapidamente all'uscita, a esclusione di segretari, cerimonieri, cuochi, barbieri, inservienti e altri conclavisti, un frate confessore, un medico, un chirurgo, un farmacista, un paio di architetti, cui si imponeva, come ai cardinali, un giuramento di assoluta segretezza L'ingresso del conclave si trovava sulla scala che dal portone di bronzo conduce in San Damaso. Il prefetto, esattamente alle ore 19.15, chiudeva la porta, prendendone in consegna la chiave. Riuniti nella cappella Sistina i cardinali sedevano sotto il baldacchino dei loro tronetti damascati disposti lungo le pareti del presbiterio; indossavano paramenti luttuosi come era di obbligo per la morte di Pio XI: sottana nera con fascia di lana lana e fiocchi neri, camice liscio di lino bianco e senza merletto, mantelletta nera, berretta violacea con fiocco. Sopra l'altare era dispiegato un arazzo raffigurante la discesa dello Spirito Santo. Sul più alto gradino appariva imponente la poltrona papale destinata all'eletto. Accanto all'altare era collocata una piccola stufa nera, nella quale si sarebbero bruciate le schede dopo le votazioni, sormontata da un lungo tubo bianco. Su quegli eminentissimi padri gravava l'immane compito di scegliere il nuovo pontefice. Trentacinque erano italiani, ma non bastavano a garantire l'elezione di un loro connazionale, essendo richiesta la maggioranza di quarantadue voti. Appariva comunque certa l'esclusione di uno straniero. In proposito il governo mostrava indifferenza. I romani attendevano con trepidazione il responso del conclave. Anch'essi congetturavano sui papabili, e con ironia dicevano che Eugenio Pacelli era il candidato degli uomini, Massimo Massimi, di Dio; Ildefonso Schuster, del diavolo. Ogni cardinale si era ritirato durante la notte in una cella numerata estratta a sorte, ma ben pochi di quegli abitacoli erano comodi e accoglienti. Per un gesto di riguardo, Pacelli aveva potuto usufruire del suo vecchio appartamento, dai mobili imballati, nel quale aveva trascorso nove anni da segretario di stato. Tutte le finestre erano ermeticamente chiuse e oscurate, nè era consentito avvicinarvisi, secondo le regole di segretezza del conclave. Si trovavano nell'appartamento con Pacelli suor Pascalina e altre due consorelle addette al suo servizio. Al mattino i cardinali, richiamati dal suono della campana, tornarono in "Sacellum Sixtini" e si accinsero ad affrontare il primo scrutinio. Erano le ore 11 del 2 marzo. Pacelli compiva sessantatre anni. Sessantatre erano pure i cardinali in conclave, compreso lui stesso e l'americano O' Connell che era arrivato in ritardo da Honolulu. Scrutinate le schede si constatò che si erano concentrati sul suo nome trentasei suffragi. Non erano sufficienti all'elezione che richiedeva la maggioranza dei due terzi dei cardinali, e si ebbe la prima fumata nera. Gli erano mancati sei voti. In quel primo tentativo avevano votato per Pacelli gli stranieri, con in testa i tedeschi, e gli avevano dato il voto non più di dieci o undici dei trentacinque cardinali italiani, tra i quali si potevano certamente annoverare i cardinali Canali, Pizzardo, Piazza, Maglione, Tedeschini, Dalla Costa, Salotti, Marchetti Selvaggiani. Gli erano mancati il sostegno di Schuster e di alcuni cardinali di curia. Tuttavia al secondo scrutinio Pacelli guadagnò cinque voti, che gli provenivano da altri cardinali italiani impressionati dal plebiscito degli stranieri. Arrivò a quota quarantuno, ma non ragguinse il quorum per una scheda. Ci fu quindi una nuova fumata nera. Al di fuori del conclave serpeggiava una strana voce. Si diceva che Pacelli era stato eletto papa già da quello scrutinio, ma che egli stesso, sconcertato dalla fulminea designazione e preoccupato per aver ottenuto la maggioranza di un solo voto, aveva chiesto e ottenuto di ripetere la prova. Era ormai passato mezzogiorno, e fu deciso di rinviare al pomeriggio la terza votazione. I cardinali tornarono nelle celle, Pacelli raggiunse il suo appartamento. Con suor Pascalina parlò delle ultime casse che ancora dovevano essere chiuse. "Le chiuderemo domani, Eminenza. Siamo tutte molto stanche", azzardò a dire la suora. E lui, di rimando:"No, no. Perchè perdere tempo? Ci riposeremo quando tutto sarà finito". Poi si mise a tavola, ma non bevve che un bicchiere d'acqua. Scese nel cortile di San Damaso e, immerso nella lettura del breviario, passeggiò poco meno di un'ora. Appariva pallido. Pallido ma tranquillo. Nel pomeriggio i cardinali si avviavano nuovamente nella cappella Sistina. Pacelli camminava soprapensiero, quasi a occhi chiusi. Doveva scendere lo scalino che separa l'Aula dei Paramenti dalla Sala Ducale, ma non ci fece caso pur essendo padrone del luogo. Mise un piede in fallo e cadde a terra, senza sorreggersi al cardinale O'Connell, che gli era a fianco. Il cardinale di Parigi, Verdier, non potè trattenersi dall'esclamare: "Il vicario di Cristo in terra!". Pacelli subito si alzò, portando una mano al braccio sinistro dolorante. Ripresi i loro posti nella cappella Sistina, i cardinali diedero avvio al terzo scrutinio. Il cardinale di Lisbona, Gonçalves Cerejeira, precedeva per ragioni protocollari Pacelli e gli era quindi assai vicino. Durante le prime votazioni lo aveva visto completamente assorto in sé stesso, quasi il conclave non lo riguardasse. Apparendo ormai chiare le conclusioni, Pacelli si era messo a pregare con fervore: "Domine Jesu, miserere mei!". Era accanto a lui anche il cardinale Lavitrano, il quale cercava di animarl dicendogli che l'elezione avrebbe significato un segno di predilezione del Signore, e lui rispondeva: "Ma è pure una tremenda responsabilità". Lo scrutinio volgeva al termine. Gli eminentissimi padri videro Pacelli pallido e commosso, come "impietrito e terrificato in una profonda preghiera". Non c'erano più dubbi, egli era il nuovo papa. Aveva ottenuto quarantotto voti, sei in più del necessario. L'ottantenne decano, Granito di Belmonte, nel mettergli al dito l'anello piscatorio, gli chiedeva: "Acceptasne electionem te canonice factam in summum ponteficem?". Pacelli rispondeva: "Accepto". E subito aggiungeva: "Accipio in crucem". Contemporaneamente si piegavano tutti i baldacchini che sormontavano i seggi. Soltanto il suo rimaneva alzato. Quindi il decano gli domandava quale nome intendesse darsi: "Quo nomine vis vocari?". ed egli diceva: "Pius XII", richiamando nel proprio nome quello del predecessore. Ora il mondo poteva conoscere i risultati del rapidissimo conclave, sicchè alle ore 17.27 dal vecchio fumaiolo, che in una strana forma ad angolo retto sovrastava la cappella Sistina, si levò uno sbuffo di fumo bianco. Sconfinata era l'esultanza dei duecentomila romani che si erano raccolti ondeggiando in piazza San Pietro. Alle ore 18.07 il cardinale Caccia Dominioni, uno dei tre porporati che nel conclave avevano svolto il ruolo di Capi d'Ordine, si affacciava al balcone centrale della basilica di San Pietro addobbato con un bianco arazzo orlato di rosso. Davanti ai microfoni dava l'annuncio che, pur ripetuto nei secoli innumerevoli volte, appariva sempre nuovo: "Annuntio vobis gaudium magnum: habemus papam!...". Seguiva una sospensione che, pur brevissima, moltiplicava l'ansia nell'animo della gente. "Chi è, chi è il papa?", si chiedevano i romani in piazza San Pietro. e il nome fu detto: "Eminentissum ac reverendissimum dominum Eugenium, Sanctae Romanae Ecclesiae Cardinalem Pacelli, qui sibi nomen imposuit Pium duodecimum". Esplose un boato di gioia. Nella sacrestia della cappella Sistina, detta "stanza delle lacrime", era già avvenuta con grande lentezza e gravità la vestizione del nuovo papa il quale, fra le tre tonache di diversa misura disposte sul piccolo tavolo, aveva scelto naturalmente la più lunga. Forte era il contrasto fra l'abito bianco pontificale e il damasco scarlatto delle pareti. Altrettanto contrasto fra la solennità del momento e l'intervento del medico del conclave, il dottor Aminta Milani, chiamato a curare l'escoriazione a un dito causatagli dalla caduta nella sala Ducale. Il nuovo papa aveva cinto i fianchi con una fascia di seta bianca, indossato il rocchetto di pizzo, la mantellina scarlatta, lo zucchetto di velluto e le pantofole dorate tempestate di gemme. Al termine della cerimonia della vestizione Pio XII tornava nella cappella Sistina dove per la prima volta sedeva sulla sedia gestatoria che simboleggiava la suprema dignità papale. Attorniato dal michelangiolesco giudizio universale che campeggiava sulle pareti, i cardinali in ginocchio gli rendevano la loro prima e umile adorazione in rappresentanza del mondo cattolico. Subito dopo, lasciata la Sistina, il nuovo pontefice, il duecentosessantesimo vicario di Cristo, comparve sul balcone centrale della basilica di S. Pietro, dal quale aprì le braccia a imitazione della croce, elevando gli occhi al cielo impartì la benedizione apostolica Urbi et Orbi, tra la commozione e le manifestazioni di entusiasmo della gente. Il suo volto, lungo e scavato, era quanto mai esangue in un' intensa e infinita concentrazione, che ne faceva l'immagine di un doloroso interprete di tutte le pene umane. A quel balcone era già apparso al momento dell'elezione del suo predecessore Pio XI, che aveva ripreso l'antica usanza, interrotta nel 1870 a causa della lotta tra stato e chiesa. Nella piazza si propagava intensamente la sensazione che Pacelli fosse stato eletto plebiscitariamente al primo scrutinio, ma in realtà quattordici cardinali, per lo più italiani, non lo avevano votato, escludendo il voto che verosimilmente avevano dato all'ascetico arcivescovo di Firenze, Dalla Costa, il preferito dal regime in quanto ritenuto più malleabile. Per ammissione dello stesso Pacelli, perfino la scelta del nome, Pio XII, stava a dimostrare che, data la rapidità della decisione presa dai cardinali, egli non aveva avuto il tempo di pensare a un altro, per cui si era collegato al papa che aveva tanto amato con abnegazione e servito con ardore, nonostante la diversità di temperamento. I romani avevano un papa romano de Roma, un loro concittadino, ed erano felici. Gli abitanti del rione Borgo, una sorta di popolosa anticamera della basilica di San Pietro, erano i più entusiasti. Per tanti anni, i borghigiani avevano lamentato che Pio XI avesse riempito la Santa Sede di lombardi, che avesse fatto la Città del Vaticano milanese. Non ne potevano più, ma ora avevano perfino il papa romano. Un tale evento non si era più verificato dal 1670, quando era asceso al trono Clemente X, non Innocenzo XIII, che era nato a Poli. L'elezione del cardinale Emilio Altieri aveva richiesto cinque mesi, invece per Pacelli era bastato un solo giorno, e ciò non succedeva da secoli, dal 1534 con l'elezione di Paolo III. Era dal 1667 che non saliva un segretario di Stato al trono pontificio, da quando cioè fu papa Clemente IX. Si diffondeva l'opinione che Pacelli avesse anche sfatato la massima nemo pontifex in curia, che parafrasava la famosa nemo propheta in patria. Non poteva dirsi che Pacelli fosse il candidato sicuro per la succesione di Pio XI, poichè nonostante la fulminea velocità del conclave, le posizioni di un forte nucleo di cardinali italiani e di curia poteva mettere in forse l'elezione. Nemmeno lui era certo dei risultati, e lo dimostrava il proposito espresso da suor Pascalina di partire per la Svizzera l'indomani del conclave. Quando in quel memorabile pomeriggio tornò nell'appartamento con la veste bianca pontificale indosso, disse con semplicità a suor Pascalina e alle due consorelle che gli si gettavano ai piedi: "Loro vedono come mi hanno combinato". Poi, volgendo lo sguardo verso le casse e i mobili imballati (alcune casse gli servivano subito), aggiunse: "Questo almeno avrei potuto risparmiarvelo". Tra le note del Tu es Petrus e su quelle del Te Deum, il mattino successivo, ancora una volta, nella Sistina si svolse una sacra funzione. Al termine, il dodicesimo Pio lesse non senza trepidazione la sua prima allocuzione, che conteneva un'invocazione alla pace. I cardinali, gli arcivescovi e i vescovi ricevevano l'impressione di non avere mai visto Pacelli in tutta la nobiltà del suo portamento, l'ascetismo e l'intensità di fede. "Ieratico", si disse subito. Egli appariva immerso in un alone di misticismo con il suo eloquio di grande giurista dagli accenti latineggianti, ciceroniani. Era molto dissimile dal predecessore, che aveva un'oratoria nervosa, fatta di scatti, accelerazioni e improvvise cesure. Un giornale londinese scrisse: "Il conclave ha eletto papa il più esperto, brillante diplomatico della curia". Un quotidiano parigino commentava: "L'uomo asceso alla cattedra di Pietro è molto più di un diplomatico. E' un asceta che avrebbe preferito rinunciare a questo onore. E' un mistico, il più zelante sostenitore dell'ideologia cristiana, difensore dello spirito contro il materialismo". [...] I fortunati quarantamila possessori del biglietto si accalcarono sui gradini della basilica di San Pietro fin dalle tre del mattino del 12 marzo, giorno della cerimonia di incoronazione. Alle sei le porte bronzee della basilica si aprirono, e gli ospiti presero i loro posti all'interno. Alle otto ne arrivarono altri, che si sistemarono nella piazza, riempiendo tutta via della Conciliazione, dal Tevere al colonnato, facendo spintoni al freddo per delle ore. Hilaire Belloc, inviato dell'agenzia stampa americana Hearst, scrisse che "era uno spettacolo sorprendentemente bello, il più bello che abbia mai visto in vita mia. La stragrande maggioranza era di romani. Credo che il motivo di questa eccezionale eccitazione consistesse nel fatto che si trattava di un'opportunità per esprimere un'emozione in modo sincero". Sarebbe stata un'incoronazione come nessun'altra: la prima trasmessa in diretta via radio in tutto il mondo, la prima interamente filmata, la prima celebrata all'aperto dopo quella di Pio IX del 1848. Con Leone XIII e Benedetto XV si era svolta nella cappella Sistina, con Pio XI era stato allestito un palco davanti al baldacchino berniniano in San Pietro. Alle otto e trenta Pacelli appare dall'alto della sedia gestatoria sulla soglia della basilica, tra scrosci di applausi, per benedire reali e dignitari stranieri qui riuniti. A due a due, principi, ambasciatori e rappresentanti delle nazioni coinvolgevano in processione attraversando la navata sud per prendere posto sul palco allestito a sinistra dell'altare maggiore. Tra loro vi erano i principi di Piemonte, il conte delle Fiandre, il duca di Norfolk, Ferdinando di Bulgaria e Alfonso di Spagna, Joseph Kennedy, ambasciatore USA a Londra, Paul Claudel, scrittore, poeta e drammaturgo in rappresentanza della Francia, Eamon de Valera, premier irlandese, Galeazzo Ciano, ministro degli esteri dell'Italia fascista. Proprio in quel giorno di gloria, Pacelli si rese conto dell'odio che la Germania Nazista provava verso di lui: tra le delegazioni presenti mancava infatti quella della nazione tedesca, spia del dissidio profondo esistente tra Santa Sede e Berlino, che non aveva ritenuto opportuno inviare nessun altro oltre all'ambasciatore accreditato Diego Von Bergen. Su per la navata centrale intanto giungeva la processione più importante, composta da cardinali di curia e prelati, seguiti da quelli metropolitani e dagli abati delle grandi case benedettine. Apparve quindi Pacelli in persona, addobbato con una mitria dorata e un piviale rigido filigranato d'oro, mentre il coro della Cappella Sistina intonava il "Tu es Petrus". Davanti a lui, il maestro delle cerimonie pontificie, dopo aver guardato il nuovo papa per ben tre volte, diede fuoco ad un pezzo di lino posto in un turibolo d'argento. La fiamma, dopo aver arso per un attimo, incenerì la stoffa, mentre il cerimoniere, rivolto al pontefice, intonò: "Sancte Pater, sic transit gloria mundi". La cerimonia si protrasse dalle nove e trenta del mattino fino alle tredici, quando iniziò l'incoronazione vera e propria. Numerosi furono i corrispondenti accreditati per raccontare quel giorno di gloria. Tutti rimasero esterefatti davanti a una cerimonia così emozionante come quella: i fastosi paramenti liturgici, l'armonia dei vangeli cantati in latino e greco, la luminosità delle centinaia di candele accese, la compostezza dei canti gregoriani e la sontuosa polifonia barocca, ma soprattutto l'attenzione maggiore era rivolta a Pacelli il quale, come scrisse Douglas Woodruff, "non acusava il benchè minimo senso di stanchezza. Mentre benediceva a destra e a sinistra la sua voce restava chiara e forte come una tromba d'argento". Un altro osservatore dichiarò che la sua costituzione ascetica, l'alta figura, i primi accenni di grigio alle tempie, il volto scavato e il naso aquilino, lo facevano assomigliare in tutto e per tutto ad una creatura soprannaturale, eterea, sospesa come un ponte tra l'umano e il divino. Assistere ad un suo pontificale in San Pietro, notò un altro osservatore, costituiva "un'indimenticabile esperienza di edificazione". Il giornalista inglese Tom Dribberg, sempre attento alle grandi adunanze, rimase incantato vedendo che "i cardinali baciavano il piede e le mani del papa; gli arcivescovi e i vescovi gli baciavano il piede e le ginocchia; gli abati mitrati solo il piede" e notò lo squallore dei goffi raduni neopagani delle grandi dittature europee. Ciò che colpiva di più di Pacelli era quella sorta di "rapimento estatico" e il suo impressionante senso di devozione che lo presentava come un essere divinamente trasfigurato. Era effettivamente il "Pastor Angelicus" profetizzato da San Malachia, e i romani ne erano entusiasti. ll cardinale protodacono Camillo Caccia Dominioni calava il pesante triregno sul capo di Pio XII, mentre il coro della Sistina intonava "Una corona d'oro sulla Sua testa". "Ricevi questa tiara adorna di tre corone, e sappi che sei il padre dei principi e dei re, e il reggitore del mondo, Vicario in terra del salvatore nostro Gesù Cristo, a cui è onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen". Dopo di che il papa incoronato elargiva la benedizione Urbi et Orbi, segnando l'apoteosi di una giornata di gloria memorabile per la Chiesa e per il papato. [...] Pio XII, prendendo possesso dell' appartamento pontificio al terzo piano del palazzo apostolico, apportò alcune modifiche sulla posizione dei mobili. Lo scrittoio, che originariamente fronteggiava una finestra alla quale Pio XI volgeva le spalle, ora si trovava alla destra della porta d' ingresso, la stessa posizione preferita da Pio X e da Benedetto XV. Quello scrittoio, che con Pio XI era ingombro di carte, di libri, di giornali e di piccoli oggetti di ogni tipo, ora si mostrava nitido, come il tavolo del più ordinato degli uomini di gusto teutonico. Non cambiò invece la disposizione dei mobili della camera da letto, così come volle usare lo stesso letto nel quale il predecessore era morto. Sul tavolo del piccolo salotto d' attesa mise egli stesso una foto che lo ritraeva fanciullo, affettuosamente appoggiato alla madre. Tra i colori Pacelli preferiva il bianco. Di nero, sul suo tavolo, c' erano soltanto l' inchiostro e un nettapennini che usava prima di mettersi a scrivere, per assicurarsi che nel pennino (era un Perry) non si fosse infilato qualche fastidioso peluzzo. Non appena aveva finito di scrivere, puliva nuovamente il pennino, perchè altrimenti si arrugginiva e bucava il foglio. Bianchi dovevano essere i fiori che rallegravano la sua mensa, il tavolo di lavoro e ornavano l' altare. Bianco era il telefono che stava sullo scrittoio, bianca la macchina da scrivere, bianco lo scacciamosche di crine di cavallo con il manico in avorio. I suoi pasti erano sempre frugali e rapidi, e anch' essi sovente il bianco. Mangiava riso e beveva latte sotto lo sguardo attento di suor Pascalina che serviva a tavola. Pensava a tutto lei. Fu lei ad introdurre nell' appartamento pontificio alcuni lieti canarini assieme a un pappagallo brontolone, che il papa francescanamente accolse volentieri. Uno di quei canarini, dono di monsignor Kaas, si chiamava Gretchen, come aveva suggerito la suora, e gli si andava a posare sulla spalla mentre lui si faceva la barba. Usava un rumoroso rasoio elettrico, uno dei primi a Roma, dono del cardinale di New York Spellmann. Anche al pappagalo fu imposto un nome tedesco, Dompfaff. Il papa chiese perchè mai lo si dovesse chiamare "Canonicaccio", che era la traduzione italiana di dompfaff, e fu Kaas a spiegare la cosa dicendo: "Proprio come certi canonici: mangia tanto e canta poco". La figura severa di Pio XII, il gesto misurato, l' incedere solenne era in stridente contrasto con la passione che egli nutriva per la velocità. In automobile voleva sempre che l' autista pemesse a tavoletta il pedale dell' acceleratore della sua grossa macchina nera, con la targa SCV 1, sfrecciava per le strade di Roma e arrivava a Castel Gandolfo in un lampo. SCV, Stato della Città del Vaticano, che i romani traducevano in Se Cristo Vedesse, considerando troppo lussuose le automobili e la vita del pontefice. All' interno di ognuna delle sue automobili vi era un tronetto di velluto cremisi, ed aveva a disposizione un quadro di comandi, con alcuni bottoni con le scritte che corrispondevano ad altrettanti ordini per l' autista: avani, indietro, adagio, forte, destra, sinistra, ferma, Vaticano. Il tasto preferito era il "forte", per cui l' autista doveva spesso superare anche i centoventi chilometri orari, con evidente soddisfazione del pontefice, il quale aveva fatto di una parola, "presto, presto", il suo motto quotidiano. Quando era ancora cardinale negli anni di Nuvolari, nemmeno un incidente lo aveva indotto a moderare la velocità, o meglio il suo incalzante desiderio di fare ogni volta presto. L'autista da lui stimolato premeva sempre più l'acceleratore della macchina e ad una curva, per una brusca frenata, Pacelli urtando contro il sedile anteriore vide andare in frantumi le lenti dei suoi occhiali. Ci fu uno strano personaggio, che chiedeva al pontefice di sostituire le automobili con un asinello, e si presentò all' arco delle Campane, un ingresso del Vaticano, portando il somarello, a suo dire lo stesso cavalcato da Gesù Cristo nei suoi viaggi in Galilea. Glielo aveva affidato l'arcangelo Gabriele, con l' incarico di consegnarlo personalmente al papa perchè se ne servisse nelle sue predicazioni itineranti, tra una parrocchia e l'altra di Roma. Ancora un contrasto si ravvisava in lui, ed era conosciuto a pochissime persone, soltanto quelle che gli erano più vicine. Tanto era austero e magnifico nei suoi discorsi, quanto semplice e spontaneo nei suoi rapporti quotidiani. Gli piacevano le inflessioni e le cadenze del dialetto romano. In privato si avvertiva fortemente che era nato a Roma. Una mattina un giornalista sentì che si rivolgeva all'autista chiamandolo familiariamente "A' Giovà". [...] Gli Angloamericani sbarcarono in Sicilia il 10 luglio, accolti come liberatori, e quello fu un clamoroso sintomo di quanto il Fascismo non facesse più presa sugli italiani. Mussolini ne fu profondamente colpito, tanto da apparire stanco e sfiduciato a Hitler, che il 19 lo attendeva a Feltre, presso Belluno. Contemporaneamente alcuni alti gerarchi del regime, con l' ausilio e l' incoraggiamento di Vittorio Emanuele, avevano reclamato la convocazione del Gran Consiglio del Fascismo, proponendosi di ritirare la fiducia a Mussolini e di salvare il salvabile, ripristinando la legalità costituzionale, che la dittatura aveva calpestato per vent'anni. Nel pieno svolgimento dei colloqui di Feltre, arrivò sconvolgente la notizia che Roma era sotto bombardamento aereo. Per la prima volta la capitale subiva l' attacco delle fortezze volanti americane "Liberator", una sorte cui altre città italiane erano sottoposte da tempo. Per circa tre ore, dalle 11.10 del mattino alle 14 di quel caldo lunedì di luglio, cinquecento aerei sganciarono, in quattro ondate, milleduecento tonnellate di esplosivi sui quartieri popolari di Prenestino e Tiburtino, con l'intento di colpire la vicina stazione centrale e mettere fuori gioco l'intero sistema ferroviario italiano. Le ragioni spietate della guerra avevano indotto Roosevelt a trascurare il parere di trenta milioni di cittadini americani, i quali, essendo cattolici, avrebbero preferito lasciar fuori dalla contesa Roma, in quanto sede del papato e quindi capitale di tutti i cattolici del mondo. Mentre Mussolini tornava rapidamente indietro, il papa, alle ore 16, lasciava in automobile il Vaticano, per recarsi sul luogo del bombardamento. Dalla finestra del suo appartamento, appena ebbe visto le formazioni aeree sorvolare pesantemente Roma, a velocità contenuta e emettendo un sordo e impressionante rombo di motore. Poi vide sgandiare le bombe. Pallido ed emozionato chiedeva al telefono dove gli ordigni fossero caduti. Nessuno sapeva dirglielo con precisione, forse sull' Esquilino, nei pressi di Santa Maria Maggiore, forse a S. Lorenzo, intorno all' antica basilica fuori le mura. Gli diedero alfine notizie più precise, ed egli ordinò di chiamare immediatamente l'autista. "Vado sul posto", disse con fermezza, dopo essersi fatto consegnare tutto il denaro delle casse vaticane, compreso il contante della basilica di S. Pietro, proponendosi di distribuirlo agli abitanti dei quartieri colpiti dalle bombe. Suor Pascalina cercava di trattenerlo: "Per l'amor del cielo, Santo Padre, lei non può uscire di casa ora! ", ma il papa era già sceso nel cortile di San Damaso, dove ebbe la sorpresa di trovare la Fiat Topolino di un funzionario del Vaticano, poichè la sua vecchia auto di rappresentanza, l' unica che sembrasse disponibile, la celebre Graham Paige 837 ereditata da papa Ratti, non si era messa in moto a causa della lunga inattività. Rapidamente la suora riuscì a rintracciare monsignor Montini, benchè in quel momento non si trovasse nel suo ufficio di sostituto alla segreteria d stato, e lo pregò di accompagnare li pontefice. Quando la piccola automobile, che costringeva il papa a stare tutto rannicchiato su sé stesso accanto all' autista, lasciava il cortile di San Damaso, la suora chiamava al telefono anche Maglione: il cardinale d' impeto esclamò: "E' uscito? Ma non può farlo. E' pericoloso." "Eminenza, è già fuori dal Vaticano. Non abbiamo potuto trattenerlo". In un baleno si sparse la voce in tutta la città che il pontefice era arrivato in S. Lorenzo, e che accolto dalla folla atterrita tendeva le mani in segno di conforto. Era sceso dalla topolino e si confondeva con la gente in lacrime tra le macerie ancora fumanti, molti gridavano: "Santità

Tratto da: Antonio Spinosa, Pio XII. L'ultimo Papa, Collana "Le Scie", Mondadori