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Primi passi

Nel 1903 Leone XIII moriva. Papa Sarto, Pio X, fu politicamente distensivo e ammorbidì l'intransigenza nei confronti dello Stato italiano. Non avendo piena nostalgia del potere temporale - se non "come mezzo per esercitare la sua missione indiscutibile di pace e civiltà" - concesse ai vescovi di attenuare il non expedit alle elezioni, e i cattolici poterono perfino, anche se caso per caso, votare a favore dei candidati liberali in nome della "salvezza del supremo bene sociale". In seguito a tale decisione entrò alla Camera una pattuglia di "cattolici deputati" cui si diede nome di clerico - moderati. Con l'avvento del nuovo papa, il giovane don Eugenio era stato promosso da praticante a minutante ancora alle dipendenze del suo protettore cardinale Gasparri, mentre la Segreteria di Stato era guidata dall'incredibilmente giovane cardinale di famiglia spagnola Rafael Merry del Val succeduto al sessantenne cardinale Mariano Rampolla del Tindaro. Durante il conclave, che aveva portato al soglio pontificio un trevigiano di modeste origini - il patriarca di Venezia Giuseppe Sarto, appunto - si era svolta una drammatica battaglia sulle candidature anche a base di tentati avvelenamenti, come appariva confermato dal fatto che una cinquantina di cardinali su sessantadue avevano dovuto far ricorso alle cure del medico. I francesi non erano convinti che Giuseppe Sarto fosse un papa più religioso che politico, e da politico lo trattò il presidente della repubblica Loubet, il quale, nella sua visita a Roma, evitò ovviamente di recarsi in Vaticano, tanto più che la curia avrebbe preteso che il programmato incontro fra lui e il re d'Italia si svolgesse in una città diversa dalla capitale. Per quella visita ci fu una nota di protesta della Santa Sede cui Clemenceau rispose per le rime: "Per aver sostenuto con le nostre armi il Papa e Roma contro l'Italia, abbiamo perduto l'alleanza e pagato con l'Alsazia e la Lorena la difesa del potere temporale. Pio X e il suo segretario di stato non ne hanno ancora abbastanza?". I francesi, nel rappresentare teatralmente la situazione, vedevano il papa che, con il dito levato contro di loro, escalmava: "Avete avuto l'impudenza di rendere visita a quel ladro del Savoia, che vi ha ricevuto nella casa rubata a Pietro!". Quindi decisero di cogliere l'occasione di quello scontro per denunciare il concordato napoleonico, che durava faticosamente da un secolo, e rompere le relazioni diplomatiche con la Santa Sede. Eugenio Pacelli non aveva avuto dimestichezza con Leone XIII, anche per la sua giovane età, ma ora col nuovo papa e grazie all'incarico di minutante il pontefice non era più per lui il nume invisibile del Vaticano. veniva quindi nominato cameriere segreto, cui spettava il titolo di monsignore, e poco dopo prelato domestico. Fra i collaboratori più vicini al pontefice prevalevano i conterranei veneti, e maliziosamente si diceva che egli avesse trasformato in gondola la barca di Pietro. Eugenio era uno dei pochissimi personaggi di curia che non parlava il dialetto veneto. In Vaticano prevaleva un tema scottante, quello del modernismo attraverso il quale molti pensatori cattolici italiani ed europei, sacerdoti e laici, si proponevano di superare l'arretratezza della Chiesa in nome dei fermenti innovatori e delle inquietudini della società in cammino verso nuovi traguadi. I fautori di queste idee, un po' per incomprensione, un po' per istintivo timore del nuovo, incorrevano nell'accusa di eresia. Come eretici venivano scomunicati dalla gerarchia i più noti modernisti, l'abate Alfred Loisy, il teologo Herman Schell, lo storico delle religioni Ernesto Buonaiuti, il sociologo Romolo Murri. Il peggio venne con l'emissione dell'enciclica Pascendi dominici gregis, dove ingenerosamente si rappresentava l'intero modernismo come una "sintesi di tutte le eresie" e come la "strada all'ateismo" accusandolo di ridurre Gesù Cristo con "ardimento sacrilego" alla stregua di un "semplice uomo", avviò una valanga di sospetti e di ipocrisie che non risparmiò neppure la curia romana. Si susseguirono nei seminari, nelle comunità ecclesiali nei chiostri, nelle università cattoliche censure e pesantissimi controlli tra crisi di coscienza e tutto un corollario di delazioni e vendette. Ci fu perfino un sacerdote perugino, Umberto Benigni, professore di storia al Sant'Apollinare, che riunì un centinaio di affiliati in un'associazione segreta, detta " sodalitium pianum". A questo organismo erano affidati, con l'imprimatur di papa Sarto, compiti di polizia segreta e di spionaggio per indagare sulle attività e sui comportamenti anche privati di chiunque fosse sospettato di modernismo, non esclusi né i cardinali né i responsabili degli ordini religiosi. I risultati delle indagini venivano infine sottoposti al severo giudizio del pontefice. I fulmini di condanna si abbattevano ora su questo ora su quel prelato, fin su quelli appartenenti all'empireo del Vaticano. Monsignor Della Chiesa fu spedito dalla curia romana in esilio a Bologna in sostituzione del cardinale Svampa, pur con gli onori di arcivescovo, e monsignor Radini Tedeschi si vide affidare la sede vescovile di Bergamo da dove egli prese a predicare la concordia degli animi, forse parlando a nuora perchè suocera intendesse. Poterono invece rimanere ai loro posti sia monsignor Gasparri, sia don Eugenio Pacelli, i cui rapporti di lavoro si facevano sempre più stretti. Don Eugenio si vide nominato segretario di una commissione presieduta da Gasparri. A questo organismo era demandata la formulazione di nuove norme di Codex iuris canonici. Alla scienza personale del giovane prete si aggiungeva un felice e solerte clima familiar in cui il padre e il fratello Francesco avevano raggiunto un alto grado di esperienza giuridica. Entrambi prestavano la loro opera in Vaticano come avvocati al servizio dei concistori cardinalizi, come consulenti legali della Santa Sede. I Pacelli si erano trasferiti in una palazzina al n°19 di via Boezio, nella nuova zona di Prati, passando sulla riva destra del Tevere. Ogni sera la famiglia si riuniva per recitare il consueto rosario, e ogni volta esso era peril giovane prete un momento di grande concentrazione. Al fianco di Gasparri, don Eugenio si prodigò nella compilazione del libro bianco in cui si illustravano le ragioni della Chiesa nelle vicende che avevano portato alla crisi delle relazioni diplomatiche fra santa Sede e Francia. Monsignor Gasparri chiamava Eugenio "il mio bravo aiutante", e con lui, per lavorare con maggior tranquillità all'ardua stesura del "Libro Bianco" che avrebbe dovuto "inchiodare" alle proprie responsabilità i governanti francesi, i Combes, i Briand, i Clemenceau, si era ritirato nelle Marche, nella sua natia Ussita. In quel di Macerata, nell'approssimarsi alla cittadina arrampicata sugli Appennini, i due prelati si accorsero che una loro valigia colma di documenti era scomparsa dalla carrozza. In preda alla disperazione sospettarono che nella sparizione ci fosse lo zampino di un qualche servizio segreto, ma in breve il loro cameriere giovanni rinvenne il bagaglio sulla strada di Spoleto, dove lo avevano chissà come smarrito. Riacquistata la serenità si misero al lavoro pieni di entusiasmo, anche se amareggiati per il contrasto con la Francia. Gasparri dettava e Eugenio scriveva, non senza aver prima riordinato i documenti. Vivevano anche momenti di svago nelle campagne di Ussita, e Gasparri si stupiva nel vedere quello spilungone di Eugenio arrampicarsi sugli alberi come uno scoiattolo, pur così fragile, così fine e distinto nel suo aspetto cittadino. Quando tornarono a Roma, monsignore raccontò le imprese campagnole di Eugenio, e ci fu chi non potè trattenersi dal dire che si erano visti diplomatici arrampicarsi sugli specchi, ma sugli alberi mai. Eugenio, sempre affaccendato in Vaticano, riusciva a svolgere una tale mle di lavoro da rappresentare per tutti una sorpresa continua. Nella sua attività c'era intelligenza e abnegazione. Ne era ammirato lo stesso pontefice, il quale non ebbe nulla da obiettare, anzi ne fu felice, alla proposta di promuovere il giovane prete alla carica di sottosegretario della congregazione degli affari ecclesiastici straordinari, l'ufficio cui era stato prima praticante poi minutante. La promozione avveniva il 7 marzo del 1911, quando Pacelli aveva appena compiuto i trentacinque anni, e a trentasei divenne consultore della congregazione del Sant'Uffizio. Al termine di un duro lavoro di prosegretario nella sua congregazione protrattosi per due anni, Eugenio fu premiato con la promozione a segretario, mentre all'orizzonte si addensavano nubi foriere d'un evento catastrofico di proporzioni mondiali. Era ancora vivo il ricordo d'una rivolta popolare esplosa nelle Marche e in Romagna che aveva preso il nome di "settimana rossa", rossa anche di sangue, quando si verificava un nuovo evento carico di conseguenze. Il 28 giugno scoppiava all'Est il bubbone del lungo dissidio fra l'Austria e la Serbia con l'assassinio a sarajevo dell'erede al trono austro-ungarico Francesco Ferdinando e della moglie morganatica Sofia. La reazione esplosiva che seguì al detonatore-Sarajevo si propagò fulmineamente in Europa, senza che la guerra potesse considerarsi opera del destino. Il conflitto scoppiò il 28 luglio del 1914. Già durante l'impresa libica, si poteva ascoltare Pio X che nelle stanze vaticane diceva di temere il peggio. Impensierito e addolorato, esclamava:"Verrà il guerrone. Non sarà un'altra guerra come questa di Libia, ma una grande guerra, un guerrone". Aveva appena compiuto ottant'anni, e la notizia che la sua tragica profezia si era avverata lo aveva talmente indebolito da non consentirgli di superare una pur leggera bronchite. Il papa si era intristito, lui ch'era sempre stato così gioviale, proprio come un prete di campagna. Erano ormai un ricordo certi suoi calembours, tra l'ironico e lo sferzante. Nei giorni della sua fatale bronchite trovò comunque la forza di fronteggiare una pretesa dell'ambasciatore austriaco. Questi gli chiedeva di benedire le truppe austro-ungariche che si accingevano a infrangere la neutralità belga invadendone il territorio. Ma lui semplicemente gli rispose: "Io benedico la pace". Suo inpinato successore fu Giacomo Della Chiesa col nome di Benedetto XV, proprio colui che nella tempesta del modernismo era stato allontanato dalla curia romana. Un'altra originalità della sua ascesa era rappresentata dal fatto di essere stato nominato cardinale da appena tre mesi. Accanto al giovane Pacelli, così alto, slanciato e austero, il nuovo pontefice appariva ancor più minuto e sgraziato nelle fattezze. Il lungo viso emaciato di Pacelli acquistava maggior nobiltà rispetto ai tratti irregolari del volto di Benedetto XV. Si poteva pensare che il papa fosse don Eugenio e non quell'omino deforme. La malformazione era causata da una scoliosi agli omeri. "Dura poco!", mormoravano i più maliziosi. Lo chiamavan "il piccoletto". Fin dalla sua prima enciclica il nuovo papa condannò fortemente il conflitto giudicandolo non soltanto una sciagura sociale, ma anche un pericolo morale e religioso per il mondo intero. Predicava in favore della neutralità italiana, ma non lo ascoltavano, anzi lo insultavano. Volevano che tacesse, ma lui alzava ancor più la voce: "cercano di condannarmi al silenzio. Il Vicario di Cristo non dovrebbe invocare la pace,ma non riusciranno a sigillare il mio labbro. Guai se il Vicario del Principe della pace fosse muto nell'ora della tempesta ! Sono e mi sento il padre spirituale dei combattenti dell'uno e dell'altro fronte. Nessuno potrà impedire al padre di gridare ai propri figli: pace, pace, pace!". Sempre nel tentativo di salvaguardare la neutralità italiana, lui, tramite il nunzio a Vienna monsignor Scapinelli premeva perchè l'Austria cedesse pacificamente all'Italia il Trentino soggetto alla monarchia danubiana. L'imperatore Francesco Giuseppe disse seccamente al prelato che avrebbe preferito abdicare anzichè cedere pur un piccolo pezzo dell'Erbland, dei territori aviti. Fu ancora più aspro con il cardinale Piffl, arcivescovo di Vienna. il papa, che non demordeva nei suoi tentativi di pace, decise allora di inviare come suo messaggero presso Francesco Giuseppe un'"autorevole persona" di sua piena fiducia, come diceva nella lettera autografa di presentazione di cui fornì l'autorevole persona, la quale non era altro che don Eugenio Pacelli. Nelle credenziali, Benedetto XV si diceva altresì certo che il suo rappresentante godeva dell' "alta considerazione imperiale". Nonostante tali premesse, e per quanto l'imperatore fosse stato meno sgarbato del solito, anche la missione di Pacelli si concluse con un nulla di fatto.

Tratto da: Antonio Spinosa, Pio XII. L'ultimo Papa, Collana "Le Scie", Mondadori