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Infanzia e giovinezza

Nella Roma papalina del rione Ponte, al n° 34 di via Monte Giordano, al terzo piano di palazzo Pediconi nei pressi della Chiesa Nuova, viveva un avvocato della Sacra Rota, Filippo Pacelli, terziario francescano, con sua moglie Virginia Graziosi. Il palazzo aveva le persiane chiuse, come le altre dimore dei nobili romani, in segno di protesta contro la conquista regia. Lui era il secondo di dodici figli. Lei aveva dieci fratelli e due sorelle; due maschi indossavano l'abito talare, mentre entrambe le sorelle si erano fatte monache. Erano romani, ma di origini provinciali. La famiglia di Filippo proveniva da un paesino nei dintorni di Viterbo, la trecentesca Onano, mentre quella di Virginia traeva le radici dalla solenne Tivoli e apparteneva al novero dei ricchi mercanti di campagna. Virginia aveva trentadue anni quando all'alba del 2 marzo 1876, giorno di Quaresima, partorì il terzo figlio, Eugenio, che succedeva a Giuseppina e a Francesco. L'avvocato Filippo ne aveva compiuti trentanove. A soli due giorni dalla nascita, Eugenio fu battezzato dallo zio paterno don Giuseppe Pacelli nella piccola chiesa parrocchiale dei santi Celso e Giuliano, a pochi passi da casa. Faceva un gran freddo e tirava vento. Alla cerimonia erano tutti imbaccuccati. Il padrino fu Filippo Graziosi, fratello della madre. Gli imposero, oltre al primo nome, quelli di Maria, Giuseppe e Giovanni. Il bambino piangeva irrefrenabilmente, e perciò un prete del rione che partecipava alla cerimonia lo tolse dalle braccia della madre e lo alzò al cielo. il prete, don Jacorbacci, godeva fama di santo lì fra la gente di Ponte Castel Sant'Angelo, sicchè suscitarono grande impressione le parole da lui pronunciate nel sollevare il neonato. "Ora," disse il prete, "abbiamo festeggiato Eugenio in questa piccola chiesa. E un giorno tutti i cristiani lo saluteranno nella basilica di San Pietro". Il bimbetto non smise di piangere. Il nonno di Eugenio, Marcantonio Pacelli, era arrivato a Roma sessant'anni prima. Aveva lasciato Onano, sua cittadina natale, perchè lo zio, il giovane prelato Prospero Caterini, vagheggiava per lui la carriera nei tribunali ecclesiastici, ed ebbe la soddisfazione di vederlo avvocato rotale. In piena intemperie risogimentale che investiva gran parte della penisola, la capitale dello Stato pontificio era squassata da una insurrezione che il 24 novembre del 1848 metteva in fuga Pio IX, a pochi giorni dalla morte del primo ministro Pellegrino Rossi, caduto sotto il pugnale di fanatici patrioti. Marcantonio seguiva il papa il quale nelle mentite spoglie di semplice abate abbandonava il Quirinale, rifugiandosi nella cittadella napoletana di Gaeta sotto la protezione dei Borboni, mentre a Roma arrivava Garibaldi, fra gli applausi della folla. Qui un triumvirato di democratici mazziniani proclamava la Repubblica e dichiarava decaduto il potere temporale dei papi tra salve di artiglieria e il suono delle campane di Montecitorio e del Campidoglio. Egualmente il papa a Gaeta nominava un suo governo provvisorio. Ma con straordinaria rapidità, grazie alle armi francesi che costrinsero alla resa le truppe di Garibaldi, in una giornata di sole, il 12 aprile 1850, Pio IX riconquistava in carrozza la sua città animato da spirito di rivincita antiliberale, mentre le campane di tutte le chiese suonavano a festa e il popolo lo accoglieva agitando ramoscelli d'olivo. Il papa affidava al fedele Marcantonio alcuni incarichi di rilievo consentendogli peraltro l'iscrizione nella lista dei nobili di Acquapendente. Nella capitale essi appartenevano al cosiddetto "generone" romano, costituito in gran parte da funzionari e da politici, cioè da una nuova borghesia in competizione con l'aristocrazia della città. Eugenio cresceva stentamente. Era di costituzione gracile e mostrava un difetto di pronuncia. Nonostante le cure materne e l'attenzione dei medici rimaneva mingherlino, tutto pelle e ossa. Cesceva però in altezza, tanto da superare d'una spanna i coetanei. Aveva quattro anni quando i genitori gli diedero una seconda sorellina, Elisabetta, e lui di tanto in tanto si avvicinava alla culla per ascoltarne il sommesso respiro, in preda a misteriosi timori. Si rivelava tendenzialmente solitario e malinconico, e non sempre gli altri ragazzi riuscivano a trascinarlo nei loro giochi. Portava la frangetta sulla fronte, una cravatta a fiocco e una sottanina plissettata. Virginia voleva evitare che i figli scendessero a giocare in strada in un rione ormai brulicante di "pericolosi infedeli", sempre più indifferenti alle tradizioni papaline della città e ormai dimentichi del fatto che in un'urna della Chiesa Nuova si conservavano da quattrocento anni le spoglie mortali del grande apostolo di Roma San Filippo Neri. Aveva perciò destinato a loro luogo di ricreazione una grande stanza del nuovo appartamento nella vicina via della Vetrina, al n. 19, a ridosso di Monte Giordano, in cui si erano trasferiti dopo aver rinunciato a convivere col nonno Marcantonio nell'abitazione di palazzo Pediconi. Lo stanzone diventava un vero e proprio campo di battaglia quando i giovani Pacelli e gli altri ragazzi del vicinato si affrontavano nel gioco di guardie e ladri. Eugenio preferiva stare dalla parte delle guardie, ma spesso si sottraeva a quell'affannosa gara per piantar chiodi nelle pareti. Le sorelle e le loro compagne attaccavano ai chiodi uno spago per stendervi ad asciugare i vestitini delle bambole, a mo' di piccole lavandaie. Un po' più grandicello mutò gusti. Davanti a un altarino, da lui stesso eretto nella sua camera, rifaceva i gesti del cugino sacerdote don Vincenzo Cirilli nell'atto di celebrare messa. Ripeteva con aria assorta i passaggi del rito, evitando rispettosamente di pronunciare le parole riguardanti la consacrazione. Indossava i paramenti religiosi che i genitori gli avevano acquistato e si faceva servire all'altare dalla sorella Elisabetta. Diceva spesso "voglio" per una cosa o per l'altra, dimostrando di avere un carattere forte. La balia, una ciociara, ricordava che fin da bimbetto quando diceva "no" era "no". Non lasciava passare un Natale senza addobbare in casa un presepio, che illuminava con le primissime lampadine elettriche, così come immancabilmente in occasione della settimana santa costruiva in un angolo dello stanzone un piccolo "sepolcro" ornato da folti crisantemi. La madre, che lo proteggeva dai pericoli della strada, lo affidò prima alle suore della Divina Provvidenza in piazza Fiammetta e poi lo iscrisse a una scuola elementare privata, quella del professor Giuseppe Marchi all'Arco dei Ginnasi, per salvaguardarlo dall'insegnamento pubblico, troppo laico, massone e mangiapreti. Spesso nell'andare e tornare da scuola sostava a lungo nella grande chiesa del Gesù nella cappella della Madonna della Strada. Un giorno la madre gli domandò perchè si tratteneva così a lungo e con tanta frequenza nella cappella di quella Madonna e lui rispose "io racconto tutto alla Madonna della Strada". Col fratello Francesco frequentava un circolo di ricreazione giovanile in cui padre Giuseppe Lais, seguace di San Filippo Neri, accendeva nei ragazzi la passione per la natura con passeggiate fuori porta San Pancrazio, di memoria garibaldina,e per i misteri della volta stellata avendo costruito sulla terrazza di casa un rudimentale osservatorio astronomico. Infine la famiglia, rompendo gli indugi, decise di fargli frequentare a nove anni il ginnasio presso un regio istituto, l'Ennio Quirino Visconti, il vetusto Collegio Romano confiscato dai savoiardi ai gesuiti all'atto della presa di Roma, tuttavia ancora denso di memorie per il segno che vi avevano lasciato grandi personaggi della chiesa come Ignazio di Loyola, Luigi Gonzaga, Roberto Bellarmino. Nel Cinquecento vi erano passati due pontefici, Urbano VIII e Innocenzo X, e più recentemente vi si era formato Leone XIII. Eugenio studiava con profitto e raggiungeva senza sforzo il massimo dei voti. Le sue pagelle erano un'impressionante sfilata di "lodevole" in italiano, latino, greco, storia, filosofia, matematica, fisica, storia naturale. E veniva perciò dispensato dal sostenere gli esami di fine anno. Si rivelava dotato di una memoria tanto eccezionale da sorprendere quotidianamente i compagni di classe e gli insegnanti. La sua valentia non ingelosiva oltre misura gli altri ragazzi essendo mitigata da un'istintiva gentilezza d'animo. Pur tuttavia una volta ebbe contro l'aula intera. Il professore aveva assegnato un tema, "illustrate la figura di uno dei più grandi artefici della storia", ed Eugenio aveva scelto sant'Agostino. Quando il ragazzo lesse ad alta voce il suo componimento, in piedi dal suo banco in seconda fila, la classe insorse stupita e irritata. Come era possibile annoverare tra i geni dell'umanità un esponente dell'oscurantismo religioso? Ci volle la fermezza dell'insegnante, il filologo Ildebrando Della Giovanna, a frenare l'irruenza della classe. Eugenio era rimasto immobile, a fissare orgogliosamente il vuoto con le sue pupille profonde. Eugenio aveva compiuto tredici anni, e frequentava la quarta ginnasio. Con entusiasmo studiava le materie letterarie e con diligenza le materie scientifiche. Mostrava propensione anche per la musica, come scriveva egli stesso nello svolgimento di un tema, "il mio ritratto". Si dilettava a suonare il violino, e talvolta la sorella Elisabetta lo accompagnava pizzicando un mandolino. Cominciò quel tema con una dichiarazione di principio: "Dovendo io fare il mio ritratto fisico e morale procurerò in ogni modo di non tralasciare nulla di buono, né di cattivo, che trovo in me, e di descrivermi quale veramente sono. se quello che dirò sarà vero, tutti avranno agio di conoscere". Quindi affrontò la descrizione del suo aspetto fisico: "Ho tredici anni e per l'età ben si vede che la mia statura non eccede né per bassezza, né per altezza. La mia persona è snella, la mia carnagione bruna, il mio volto piuttosto pallido, i miei capelli di color castagno e sottili, i miei occhi neri, il mio naso piuttosto aquilino. Non parlerò del mio petto, che a dire il vero non è molto largo. Finalmente ho un paio di gambe piuttosto secche e lunghe e due piedi di non piccole dimensioni. Da ciò si può facilmente comrendere come fisicamente io sia un giovinetto mediocre". Passò poi a rappresentare l'aspetto morale della sua personalità. "La natura mi ha dotato di un sufficiente ingegno, onde con un poco di buona volontà riesco a fare molte cose. Volentieri io vengo alla scuola e studio con amore, poichè conosco che tutto ciò che posso fare, sarà poi di mia utilità. i miei genitori, il mio capo professore mi amano sommamente ed io procuro di contraccambiare in ogni modo le loro affettuose premure. Certo menzognero sarei se io vi venissi a dire che merito questo loro amore; no, poichè né io trovo in me bastante virtù per esserne degno, né perciò pretendo di averla; tutto è per la loro bontà. Infatti, quel pochissimo, che in me può esservi di buono, tutto lo devo a Dio, che mi ha dato sì savi superiori, ed a questi, che coi loro ammaestramenti cercano d'infondere nell'animo mio la vera virtù. Stolto sono stato io, che non ho saputo sempre approfottare dei loro saggi consigli! ". Sulle sue inclinazioni scrisse: "Posso dire che qualche volta son alcun poco ispirato alle Sacre Muse; sento poi in me molta passione per i classici e specialmente lo studio della lingua latina mi è di sommo diletto. Essendo amantissimo della musica, mi compiaccio nelle ore di ozio e specilalmente durante il tempo delle vacanze nel suonare qualche istrumento musicale". Con la famiglia, abbonata alle recite del teatro Costanzi, assisteva alle rappresentazioni liriche, canticchiando in sordina qualche romanza in voga. E della sua indole che cosa pensava? "Il mio carattere è piuttosti impaziente e violento, ma coll'educazione sento il dovere di moderarlo. Solo mi conforta il vedere che, albergando nel mio cuore un'istintiva generosità, come non soffro contraddizioni, altrettanto son facile a perdonare chi m'offende. del resto io mi auguro che l'età e la riflessione varranno a far sparire questi, che in me riconosco, dannosi difetti. Mi pare con ciò di avere detto il vero". Fra le coetanee delle sorelle che frequentavano la sua casa, c'era una ragazzetta di nome Lucia. Eugenio ne era attratto e per lei scrisse un romantico sonetto cui diede il titolo "Santa Marinella 1889", luogo d'una breve vacanza marina. Con quei versi invitava sommessamente una "verginella, grata, dolce, pietosa, docile, pura" a diventare "più vaga d'olezzante fiore" al fine di risplendere "qual fulgente stella, per virtude e per beltà". Superata la quarta classe ginnasiale Eugenio, debole di polmoni, fu costretto proprio dalla gracile costituzione fisica a disertare per un anno il Visconti e ad affrontare privatamente gli esami di licenza. Affettuosamente accolto dalla cugina Angelica, trascorse una vacanza ristoratrice nelle terre degli avi tra le lievi alture di Onano, raggiungendo spesso l'Amiata e il Radicofani. Quindi gli fu possibile tornare nelle aule del severo istituto e concludervi il liceo, mentre fuori dell'ambito scolastico comiciò a praticare alcuni sport, l'equitazione, il nuoto, il canottaggio, per desiderio di svago ma anche per sviluppare il carattere e rendere più saldo il fisico che rimaneva fin troppo delicato. Con un cavallo, che gli prestava un parente, si perdeva per ore nella campagna romana lungo la via Appia Antica, oltre la visione dell'antico acquedotto e dei ruderi sepolcrali. Con puntiglio s'impegnava altresì a liberarsi del difetto di pronuncia che lo infastidiva, e quando esso sparì quasi completamente dalle sue labbra gli parve di aver ottenuto una nuova, grande vittoria sulla materialitàdel corpo. Privatamente e nelle ore libere studiava con profitto il francese, l'inglese e in particolare il tedesco. Con questo curriculum non potva non concludere gli studi superiori con una splendida licenza ad honorem. E così fu. Si trovò indeciso di fronde a un bivio. Aveva compiuto diciotto anni e disponeva di un diploma. Che fare? Raramente aveva pensato al sacerdozio, anzi non era neppure certo di possedere una gran fede. I suoi sentimenti religiosi vacillavano, pur continuando a rispettare gli obblighi e a praticare i riti del cattolicesimo. Dall'infanzia era aggregato alla Confraternita carmelitana dello Scapolare, e ne aveva portato sempre il sacro distintivo. Le sue intime certezze le aveva espresse, quindicenne, in un problematico scritto intitolato "A me stesso". Vi si rappresentava come un uomo che aveva l' "inferno nell'animo" poichè, entrato nella vita "buono, fedele, amante di Dio e della religione", si era lasciato accecare da "vani sofismi" e aveva "cominciato a dubitare". Scriveva di sé in terza persona: "Infelice! Dove troverà conforto? Ricorrerà alla preghiera, a quest'ultimo sollievo dei mortali? Ahi! Che mentre egli tenta di innalzare al Signore la sua mente, il dubbio con più fiera violenza lo assale: "Se Dio non esiste!". Ma questo è troppo, questo è il colmo del dolore: l'infelice più non resiste, il suo respiro diventa affannoso, la voce gli si strozza nella gola; egli caccia le mani nei capelli, chiude gli occhi...desidera forse ora la morte, o piuttosto desidera dinon essere nato? Mio Dio, illuminatelo!". La madre lo sosteneva moralmente e di tanto in tanto,ma discretamente, lo incoraggiava a indossare la tonaca. Che fare?, si chiedeva ancora Eugenio. Poteva diventare avvocato concistoriale come il padre, ma più congeniale gli appariva l'insegnamento della storia, la materia prediletta. Aveva continuato a prendere lezioni di violino. Suonava il pianoforte a orecchio, e in quello studio aveva quasi raggiunto una preparazione da concertista, particolarmente esperto nell'esecuzione di musica tedesca. Capì che doveva raccogliersi in se stesso prima di scegliere la sua strada. Per un ritiro spirituale non c'era luogo migliore della suburbana basilica di sant'Agnese sulla Nomentana, dove si trattenne per una decina di giorni visitando anche le catacombe. Nel settembre del 1894, al termine d'una solitaria e serena meditazione sull'intensità della sua vocazione religiosa, decise alfine che si sarebbe fatto prete pur proponendosi di non allontanarsi dalla tradizione familiare degli studi giuridici, già intrapresi dal fratello maggiore Francesco. Il padre, con l'ausilio d'una lettera commendatizia di don Pietro Monti, il parroco del tempio dei santi Celso e Giuliano, chiese al cardinale Parocchi, cui spettava la decisione, di aprire al giovane le porte del Capranica. Il Capranica era un famoso seminario di antiche memorie che aveva preparato numerosi ecclesiastici alla carriera diplomatica. Eugenio studiò intensamente per un anno intero. Seguì le lezioni di filosofia alla Pontificia Università Gregoriana e, in un momento di particolare fulgore tomistico, si appassionò agli insegnamenti di teologia che venivano impartiti da austeri professori nell'Ateneo Pontificio di Sant'Apollinare che sorgeva nei pressi di piazza Navona e quindi non lontano da casa sua. S'infiammo anche ai corsi di letteratura e di storia nelle aule della Sapienza, ispirandosi allo scrittore tedesco Karl Beloch che con grande successo insegnava storia antica in quel celebre ateneo romano. Quell'anno vinse una medaglia d'oro sbaragliando gli altri allievi del seminario proprio con un tema di argomento storico, e prese perfino parte nelle vesti del cardinale Rampolla a una delle recite collegiali. Ma come era già successo al ginnasio, dovette ancora una volta interrompere i corsi regolari per un incrudirsi del male allo stomaco che da qualche tempo lo affliggeva. Quindi lasciò il seminario e continuò gli studi come chierico esterno. Soprattutto non gli si confaceva il cibo della mensa del Capranica. Ogni domenica i genitori gli portavano perciò da casa qualche buon piatto che egli gradiva oltre modo. Se ne nutriva con appetito, ma di tanto in tanto rinunciava al dolce imponendosi un fioretto per le anime sante del purgatorio. Fin da ragazzo aveva mostrato una tendenza alla mortificazone, e spesso invitava il fratello e le sorelle a privarsi di qualche buon bocconcino o, in estate, di una bibita fresca. Nuovamente padrone delle sue giornate riprese a praticare all'aria aperta nell'estate del 1895 gli sport preferiti, il nuoto, il canottaggio, l'equitazione e ogni altra attività che in seminario gli era proibita. Si era fatto crescere due sottili baffetti. Raggiungeva la costa tirrenica dove prendeva in affitto una barca per spingersi al largo. E lì nuotava a lungo. Tornò per qualche settimana nelle campagne di Onano, dove - in compagnia d'un giovane, Bosquet, seminarista come lui - un giorno incontrò una zingara che volle loro leggere la mano. "Uno di voi", disse la megera, "diventerà papa". Col nuovo tenore di vita, Eugenio riuscì a superare anche se lentamente il deperimento organico e a debellare i dolori allo stomaco che nelle camerate del collegio lo avevano lungamente perseguito.

Tratto da: Antonio Spinosa, Pio XII. L'ultimo Papa, Collana "Le Scie", Mondadori