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Gli ultimi giorni - fine di un'epoca

C'era nell'aria la sensazione di qualcosa che stava per finire, in quelle calde giornate d'estate. La radio diffondeva la voce sofferente del papa che si rivolgeva alle suore di clausura nei tremila monasteri di tutto il mondo. Pacelli parlò loro della vita contemplativa per tre sere in una "invisibile udienza" che le accomunò in un unico sentimento di lode a Dio. A fine settembre, quando già si trovava nella consueta residenza estiva alla sommità del colle di Castelgandolfo, cadde nuovamente in preda al singhiozzo, cui si erano aggiunti continui conati di vomito. Un singulto ininterrotto e lacerante gli straziava la gola, il torace, l'intera persona, concedendogli rare tregue, impedendogli di bere, di mangiare o semplicemente di riposare. Non sempre riusciva a mantenere l'appuntamento con i fedeli che affollavano la cittadina papale, tuttavia il 2 ottobre parlò ai librai delle stazioni ferroviarie ai quali raccomandava di non diffondere le pubblicazioni immorali. Il giorno 3 ottobre un migliaio di pellegrini americani guidati dal cardinale Spellmann, sempre a lui fedele. Il 4 si rivolse a un gruppo di chirurghi plastici rlevando una sia pure "pallida e lontana" analogia tra l'opera di quei medici e l'azione divina del Creatore che aveva plasmato con l'argilla il primo uomo. In quella stessa giornata ricevette l'attore inglese Alec Guinness che si era convertito al cattolicesimo e per il quale nutriva viva simpatia. Nella mattinata del 5 parlò in francese ai componenti del Notariato Latino, ed era così debole che dalle mani gli scivolò a terra l'orologio, mentre cercava di guardarvi l'ora. Al temine del discorso aprì le braccia nel gesto consueto che lo aveva reso celebre nel mondo e che ne faceva una croce umana, ma non potè muoverle. Voleva aggiungere ancora qualche parola, ma in un sussurro disse: "A Dio!" Al tramonto riuscì a trascinarsi fino al balcone della sua camera per benedire la gente che affollava il cortile del palazzo, traendo un filo di energia dal fatto di doversi mostrare ai fedeli. Dov'era l'agilità di una volta e il vibrare della sua alta figura? Permaneva però in lui un'alta e misteriosa forza che, al contatto con la gente, lo trasformava straordinariamente in un essere serafico animato dall'ardore di salire in cielo. Con le notizie sulla malattia, Pacelli tornava prepotentemente sulle prime pagine dei giornali dopo una eclissi segnata da un certo disinteresse per un ruolo che andava perdendo l'antica forza di seduzione. La crisi grave sopraggiunse la mattina del 6, mentre si trovavano al suo capezzale i medici Galeazzi Lisi e Corelli. Il professor Corelli stava introducendo un cannello nell'esofago del pontefice, il quale all'improvviso perse la vista. Aveva fatto appena in tempo a dire che non ci vedeva più quando cadde in deliquio, vittima di un'ischemia del sistema arterioso vertebro-basilare. Urgentemente Corelli intervenne con una terapia endovenosa, ottenendo tenui risultati. Lo assistevano anche l'urologo Ermanno Mingazzini e Gasbarrini, mentre arrivava nella stanza una bombola di ossigeno. L'urologo praticò un'intervento sulla vescica per liberarla artificialmente. Il papa trascorse ancora una giornata nel dormiveglia, ascoltando un po' di musica - chiese un disco di Beethoven, la prima sinfonia -, rivolgendo qualche parola ora ai medici, ora a padre Leiber che gli offriva l'Ostia consacrata, ora al nipote Carlo - "Vai a lavorare, qui si perde tempo", ora a monsignor Dell'Acqua - " Quali sono gli affari più urgenti?" "Non ce ne sono, Santità."- , ora al gesuita padre Heinrich che gli somministrava l'estrema unzione. Con suor Pascalina si mostrava addolorato di nin aver potuto concludere il processo di beatificazione di madre Bernarda Heimgarten, la fondatrice delle suore insegnanti della Santa Croce, l'ordine al quale lei apparteneva. Poi cominciò a ripetere il nome del cardinae Samorè. I presenti se ne chiedevano il motivo, e la suora spiegò che il papa attendeva il cardinale in udienza. Parlava confusamente di Monaco: "Ci assalivano. Avevano le armi", ricordando l'aggressione degli spartachisti alla nunziatura, un evento che talvolta lo ossessionava anche in sogno. Con ansia diceva: "Conservate i crocifissi", e i presenti si rivolgevano sguardi interrogativi. Allora venne ricordata una preoccupazione da lui espressa in quei giorni e che riguardava le chiese ormai spoglie di immagini sacre. A sera infine disse a monsignor Tardini: "Questa è la mia giornata", e aggiunse: "Suspice Domine". Quindi mormorò alcune parole in tedesco. Intorno a lui tutti si misero a recitare le preghiere dei moribondi. Suor Pascalina disse di abbassare un po' la voce perchè il pontefice non si rendesse ben conto che quelli erano forse i suoi ultimi istanti di vita. Ma Nasalli Rocca ribattè: "E' meglio che senta". Nella tarda mattinata di mercoledì 8 tre grando quotidiani della capitale uscirono in edizioni straordinarie listate a lutto con l'annuncio della morte di Pio XII. Ma in realtà l'evento non era ancora sopraggiunto. L'errata notizia, che forniva persino l'ora del decesso, qualche minuto prima delle 11, era il frutto di un grave e clamoroso incidente giornalistico originato dalla spasmodica ricerca di uno scoop al di fuori delle corrette regole dell'informazione. Ne era responsabile il redattore di una agenzia il quale, nel tentativo di battere comunque la concorrenza si era accordato con un inserviente o forse con lo stesso Galeazzi Lisi che nel palazzo di Castelgandolfo frequentava le stanze del pontefice. L'inserviente doveva dare al cronista in agguato il segnale della morte aprendo una certa finestra del palazzo. Il diavolo, che secondo un detto tedesco mette la coda tra i particolari, intervenne anche in quella occasione, inducento un altro personaggio ad aprire proprio la finestra dalla quale il giornalista, un redattore dell'agenzia Italia, da ore ed ore non staccava lo sguardo. Effettivamente però il pontefice era in condizioni disperate. I medici sapevano che non c'era nulla da fare e che soltanto un miracolo avrebbe potuto salvarlo. Egli chiese di essere comunicato, ma non se ne potè esaudire il desiderio perchè da ore non riusciva a deglutire neppure un sorso d'acqua. A un collasso cardiopolmonare seguì uno stato preagonico., e già la temperatura sfiorava i 42 gradi. A mezzanotte Pio XII entrava in agonia e spirava alle 3.52 del mattino di giovedì 9 ottobre, a ottantadue anni. Suor Pascalina escamava: "Ora egli ha visto Dio". Tardini recitava il Magnificat, il canto delle anime umili. La mano che si era levata benedicente nei due decenni di pontificato, che aveva tenuto il governo della chiesa in un mondo tormentato, ora giaceva inerte e scheletrita sui paramenti sacri. L'austero volto d'aquila del papa mistico non era altro che un velo di pelle giallastra, come già scolpito nel bronzo. La salma, sottoposta a un nuovo metodo di imbalsamazione di cui Galeazzi Lisi si gloriava essendone l'inventore, cominciò però a dissolversi fin nella camera ardente allestita nella sala degli svizzeri a Castelgandolfo, mentre lo stesso archiatra si ingegnava a fotografarla per lucrare sui negativi venduti a un periodico francese. E lo aveva già fatto anche nei giorni precedenti durante la malattia, quando con una piccola Leica aveva ripreso il papa pallido ed emaciato, accasciato sull'altro lettino dalla spalliera di ottone, la testa tra due cuscini, con la cannula dell'ossigeno alle narici e le palpebre abbassate. In alcune foto suor Pascalina sedeva amorevolmente sul bordo del lettino, accanto all'uomo che aveva assistito per oltre quarant'anni. Posta nel sarcofago la salma fu trasportata, su un furgone funebre del comune di Roma, da Castelgandolfo al Laterano e quindi in Vaticano con le televisioni che ne riprendevano il passaggio fra turbe in preghiera e gente incuriosita. La traslazione avveniva dunque su un semplice carro municipale, eppure il cardinale Roncalli poteva dire che forse mai, neppure il trionfo di un imperatore romano verso il Campidoglio avrebbe potuto eguagliare in quanto a maestà spirituale un così intenso spettacolo di commozione popolare. Il carro funebre, che aveva percorso via Appia nuova, stava già per superare porta San Giovanni, quando si udì intorno al feretro un grande scoppio. La salma, maldestramente imbalsamata, era esplosa nella cassa, sicchè appena raggiunto San Pietro, fu necessario sottoporla segretamente e in tutta fretta nel corso della notte ai tradizionali e sperimentati metodi di imbalsamazione per tamponare alla meglio i guasti provocati dagli esperimenti dell'inabile archiatra. Alcune guardie nobili svennero per i miasmi che da essa si sprigionavano. La salma verdastra e disfatta del "Pastor Angelicus", del "Defensor civitatis", fu l'indomani offerta per nove giorni su un alto catafalco all'estremo omaggio dei fedeli che sfilavano in massa sotto le volte maestose della basilica vaticana davanti al bronzeo baldacchino del Bernini, al suono luttuoso delle campane e al canto del Miserere. L'umanità ne piangeva la scomparsa. Dall'America giunse la voce del presidente Eisenhower: "si è spenta una luce nel mondo". Tumulate le spoglie nelle grotte vaticane accanto al sepolcro del principe degli apostoli, Pacelli fu consegnato alla storia e alla leggenda. In quel momento moriva Gretchen, il suo canarino preferito. Suor Pascalina veniva estromessa dal Vaticano.

Tratto da: Antonio Spinosa, Pio XII. L'ultimo Papa, Collana "Le Scie", Mondadori