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Sacerdos in Aeternum

Sulla scena dei tribolati rapporti tra stato e chiesa si affermavano alcune novità, anche grazie a Leone XIII che mostrava di voler sottrarre la Santa Sede alla condizione di isolamento in cui l'aveva posta il suo predecessore. Si poteva o no già prevedere una possibile conciliazione tra Vaticano e Quirinale, per quanto l'Osservatore Romano continuasse a pubblicare quotidianamente con pervicacia una nota di protesta contro l'occupazione di Roma? Era arduo dare una risposta a questo interrogativo. Con l'enciclica Rerum Novarum sulla condizione degli operai sempre più organizzati, papa Pecci prestava comunque orecchio alle istanze sociali della nazione. La chiesa si manteneva ostile al liberalismo e al socialismo, confermava di privilegiare il sistema sociale corporativo, ma non intendeva più farsi isolare dall'intransigente predicazione del Sillabo di Pio IX che aveva peraltro reso particolarmente insensibile gran parte del clero alle legittime richieste di giustizia delle classi meno abbienti. Sulla strada aperta da Leone XIII altri avrebbero definitivamente assunto la difera dei più poveri. Questa presa di coscienza era già qualcosa e apriva le porte a un'azione dei cattolici fra le masse lavoratrici. Veniva tuttavia confermato il non expedit, il divieto dei cattolici di partecipare alle elezioni politiche, non a quelle amministrative, in una nazione ch'era caduta nelle mani d'una casa reale di scomunicati. Il paese era in una crisi profonda, fra repressioni delle proteste popolari, stati d'assedio e tribunali militari contro i sovversivi; fra protezionismo e tendenze imperialistiche che andavano a danno della classe lavoratrice e a vantaggio dei fabbricanti d'armi; fra inasprimenti fiscali e ogni altra conseguenza della fallimentare politica coloniale di Crispi. Saliva il prezzo del pane che era il principale alimento della povera gente, e un operaio doveva lavorare due ore e mezzo per comprarne un chilo. Al litigioso parlamento si addossavano gravi colpe, quindi si reclamava una svolta politica e istituzionale al fine di fronteggiare gli opposti estremismi rossi (socialisti, repubblicani, radicali) e neri (cattolici). A Palermo, Bari, Napoli, Benevento, Pesaro, Rimini, Firenze, un po' dovunque si verificavano scioperi e tumulti popolari contro la prepotenza delle classi al potere. A Milano il generale Bava Beccaris aggrediva ciecamente a cannonate la folla dei manifestanti che protestava contro il rincaro del prezzo del pane. In molti reclamavano la soppressione delle organizzazioni cattoliche, delle "conventicole clericali" cui rivolgevano l'accusa di essere "nemiche della patria". Il governo accolse l'appello e non si limitò a sciogliere soltanto le associazioni clericali, ma estese il provvedimento liberticida anche a quelle socialiste e sindacali, sospendendo anche il loro giornali. Alla soppressione delle associazioni clericali, dichiarate sovversive, il pontefice reagì con un'enciclica che intitolò Spesse volte. Riandava in essa alle vicende seguite alla caduta del principato civile dei papi, come la chiusura dei monasteri e dei conventi, la confisca dei beni ecclesiastici, l'imposizione del servizio militare ai chierici, la dispersione di adunanze e congressi, le "odiose vessazioni" cui era sottoposta la religione cattolica a vantaggio dei "culti dissidenti" e delle sétte massoniche col risultato di far "progredire i mali" del socialismo e dell'anarchia e di "spargere i germi" dell'irreligione e dell'immoralità. A pochi mesi da una così dura enciclica, e quindi in un clima di tensione, Eugenio veniva consacrato sacerdote. Era il 2 aprile del 1899, giorno di Pasqua. Il nuovo prete aveva appena conpiuto ventitrè anni. Nel volto, se gli si rifletteva la luce d'una grande forza d'animo, vi apparivano anche i segni di un fisico ancora troppo gracile. Si dovette evitare al giovane di sottoporsi all'estenuante manifestazione pubblica che il giorno precedente si era svolta nella basilica patriarcale di San Giovanni in Laterano per consacrare in gruppo i nuovi sacerdoti, e si decise perciò di predisporre per lui una cerimonia privata. Fu così che monsignor Paolo Cassetta, patriarca di Antiochia, vice gerente di Roma e amico di famiglia, gli conferì il sacerdozio nella sua cappella privata all'Esquilino. Il lunedì dell'Angelo, don Eugenio Pacelli celebrò per la prima volta la messa nella basilica di Santa Maria Maggiore, sempre sul colle dell'Esquilino, di cui era arciprete il cardinale Serafino Vannutelli, assumendo perciò gli auspici della Vergine. Alla presenza del cardinale, il rito si tenne all'altare della Madonna "Salus Populi Romani" nella stupenda cappella intitolata a Paolo V Borghese, nella cui cripta riposavano in una povera bara di legno le spoglie di Paolina Bonaparte, sposa del principe Camillo Borghese. Come qualcuno non mancava di osservare, ai piedi della salma di Paolina, in un'urnetta d'oro con incisa l'aquila napoleonica, ne era conservato il cuore. Il giovane prete, nella sua alta statura resa più solenne dal luccichio dei paramenti, si avvicinava all'altare movendo con la sicurezza di chi sapeva di aver preso la strada giusta. Risuonò netto il suo Introibo ad altare dei. E quando, dopo il Confiteor, sui gradini dell'altare il novello levita spalancò le braccia, il suo gesto apparve come l'espressione più carismatica della sua vocazione sacerdotale. L'indomani l'Osservatore Romano presagiva per lui "una carriera ammirabile a servizio di Dio e della Chiesa". Volle celebrare la seconda messa sul sacello di san Filippo Neri nella Chiesa Nuova. Non poteva essere diversamente nel ricordo dell'infanzia trascorsa nella Roma papalina del rione Ponte, all'ombra del tempio del santo misericordioso e avendo ancora nelle orecchie l'eco della predicazione di padre Lais. L'icontenibile gioia di quei primi giorni di ministero fu un mattino turbata dalla villania d'un garzone di fornaio che dalla bicicletta gli gridò: "A nerooo! A bacarozzo de sacrestiaaa!". Altre sue messe si susseguirono nella navata della Chiesa Nuova, mentre vi cominciava un'opera di assistenza religiosa fra confessioni e lezioni di catechismo impartite ai ragazzi del rione. Non prestava la sua opera soltanto nella chiesa dei filippini, ma numerosi altri erano i luoghi del suo ministero, come il convento dell'Assunzione, retto da suore francesi nei pressi di villa Borghese. Qui egli insegnava religione e teneva corsi specifici di teologia, uno dei quali riguardava la grazia. Svolgeva il suo apostolato anche nella congregazione delle Figlie di Maria presso le religiose del Cenacolo in via della Stamperia, frequentato da fanciulle della nobiltà romana, e nelle aule delle Religiose Riparatrici di via de' Lucchesi dove si raccoglievano sciami di ragazze operaie. Infine nella congregazione di Sant'Ivo, un'opera pia che raggruppava avvocati di grido pronti a difendere gratuitamente i meno abbienti, ricopriva il ruolo di assistente ecclesiastico. Per dedicarsi a questa sua intensa attività pastorale Pacelli sottraeva tempo prezioso ai corsi di teologia che tuttavia frequentava con particolare profitto laureandosi a pieni voti. Conseguì ulteriormente il dottorato in uroque iure, e l'ateneo di Sant'Apollinare gli affidava la cattedra di istituzioni canoniche. Dalla Catholic University di Washington gli perveniva l'invito a insegnarvi diritto romano, ma dovette rinunciarvi per quanto ancora pensasse che la carriera del professore potesse essere la sua. Si era infatti già verificata una nuova svolta nella sua vita sotto forma di un'improvvisa visita di monsignor Pietro Gasparri. Il prelato, che ricopriva l'importante ufficio di segretario per la congregazione degli affari ecclesiastici straordinari, si era presentato in casa di Filippo Pacelli per proporre al figlio di entrare come apprendista nella segreteria di Stato e precisamente nei suoi uffici che costituivano il ministero degli esteri del Vaticano. Il suggerimento a compiere questo passo era pervenuto dal cardinale Vannutelli, estimatore di Filippo, che nel frattempo era diventato avvocato concistoriale. Gasparri era un marchigiano dai modi sbrigativi. Lo chiamavano il "pecoraro" o il "montanaro di Ussita", suo luogo di nascita, ma seppe usare gli argomenti più appropriati per convincere il riluttante Pacelli - che diceva di voler fare più semplicemente l'insegnante o il pastore d'anime - ad abbracciare la carriera del diplomatico con la tonaca. Piuttosto bruscamente Gasparri gli aveva anche detto: "Va bene, allora ti insegneremo a fare il cane da pastore", e lui poteva dirlo essendo appunto soprannominato il pecoraro.

Tratto da: Antonio Spinosa, Pio XII. L'ultimo Papa, Collana "Le Scie", Mondadori