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Cardinale di Santa Romana Chiesa

Nel dicembre del '29 Pacelli lasciava la Germania nel rimpianto generale, dopo avervi risieduto per dodici anni e aver fatto ascoltare la sua parola in tutto il paese, da Breslavia a Treviri, da Friburgo a Magdeburgo, da Fulda a Stoccarda, da Hannover a Amburgo. Lo rimpiangevano i giornalisti, ai quali aveva parlato un anno prima in occasione del congresso berlinese della stampa estera. "Nei giornali moderni si raccoglie molto più potere di quello che alcune dinastie reali si attribuiscono. La stampa non è solamente uno specchio dell'opinione pubblica, quanto una creatrice. Essa è chiamata a giudicare le correnti spirituali dei popoli e guidare quelle sane e costruttive, a innalzare una diga contro ciò che è dannoso e velenoso". Lo rimpiangeva anche l'ambasciatore dell' URSS a Berlino, per la disponibilità dimostrata nel '27 nell' assumersi il compito di mediatore tra Roma e Mosca, affinchè Mussolini liberasse dal carcere Antonio Gramsci e Umberto Terracini, ottenendo in cambio la liberazione di due sacerdoti detenuti nelle carceri sovietiche. Pacelli era considerato il canale più adatto per un' operazione che tuttavia non ebbe esito, ma l'ambasciatore dell' URSS a Berlino, che aveva più volte incontrato il nunzio, aveva per lui una sincera ammirazione. Il feldmaresciallo Hindenburg, nel salutarlo con commozione, lo ringraziava per aver penetrato la cultura e l'anima germaniche, per aver stabilito utili legami di amicizia tra la Santa Sede e il popolo tedesco, per aver svolto con senso di giustizia e calda umanità il suo ufficio. "Con rimpianto la vediamo noi tutti allontanarsi", disse il vecchio generale. Il prelato rispose esaltando nell'ospite il grande coraggio civile e la mirabile fiducia in Dio, che avevano in ogni ora caratterizzato la sua vita. "Termino - disse - la mia missione di pace con un perenne grazie alle schiere di cattolici di tutta la Germania, la cui devozione ha dato a me, lontano dalla patria, l'affetto di una patria". Prese infine congedo dalla nobiltà cattolica della città che popolava la Furstensaal: "La mia missione in Germania è finita. Ne comincia un'altra più grande, più vasta nel centro spirituale e soprannaturale della chiesa cattolica. Ritorno là da dove son venuto, dalla tomba del principe degli apostoli sotto la cupola di Michelangelo, a Pietro che vive in Vaticano. Stare vicino a Pietro vuol dire stare vicino a Cristo". Consapevole del compito che lo aspettava, concluse affermando: "Percorro il cammino indicatomi dalla volontà di Dio per mezzo delle parole del pontefice". I giornali lo salutavano con sincero riconoscimento, un po' tutti: "Frankfurter zeitung", "Die welt", "Deutsche allegemeine zeitung", perfino l'organo dei protestanti, "Deutsche evangelische korrespondenz". Nonostante la giornata molto fredda Pacelli prese posto su un'automobile scoperta per recarsi alla stazione di Berlino. Lungo le strade della città fu scortato da masse di manifestanti. In quella capitale del protestantesimo tutti gridavano il suo nome, cantavano inni liturgici, impugnavano fiaccole ardenti come la loro anima e inalberavano vividi stendardi religiosi. La partenza era uno strappo doloroso per il nunzio che adorava la Germania, per i tedeschi che amavano lui. Mentre il treno si metteva in moto fu seguito per alcuni metri dagli appassionati. Mentre suonavano le note dell'inno pontificio, Pacelli disse: "La vita quaggiù non è che una serie di addii". Lasciava il paese della Riforma per tornare in quello della Controriforma. Suor Pascalina, prima di raggiungerlo a Roma, si trattenne ancora per alcuni giorni a Berlino. Scelse alcuni massicci mobili di quercia, di fattura nordica, e reperì la lista dei libri che i vescovi tedeschi desideravano regalare al nuovo cardinale, perchè anche a Roma egli avesse in qualche modo la presenza della Germania. Anche le posate d'argento e i bicchieri di cristallo provenivano da Berlino, così come la grande zuppiera, anch'essa d'argento, che troneggiava su una credenza, era di fabbrica tedesca, dono di Hindenburg. La nomina di Pacelli a cardinale avvenne il 16 dicembre del '29. In quel momento il prelato andò col pensiero a Sant'Agostino, al tema che gli aveva dedicato da scolaro. Dalla predicazione del santo trasse il motto per la sua nuova dignità: lux veritas, regina caritas, finis aeternitatis; la verità per luce, la carità per regina, l'eternità per fine. Non erano ancora trascorsi due mesi dall'assunzione di Pacelli al cardinalato quando papa Ratti, il 7 febbraio dell'anno successivo, lo nominava coram dominum, davanti a Dio, segretario di stato. Quella nomina era nell'aria, ma tutti sapevano come egli avrebbe ancora desiderato dedicarsi alla cura delle anime. I mobili ed i libri che suor Pascalina aveva scelto con grande cura arredavano il suo appartamento in Vaticano. Pacelli non sapeva nulla di quei doni ed ebbe la piacevole sorpresa di trovarsi immerso, a Roma, in un ambiente che gli avrebbe ricordato gli anno piacevoli trascorsi a Monaco e a Berlino. Fu la sua fedele assistente ad allestirgli l'appartamenti nel palazzo apostolico, nelle stesse stanze che erano state di Gasparri il quale, settantottenne, aveva dato le dimissioni e si era ritirato in una villetta sul colle Oppio con la visione del Colosseo, a scrivere le sue memorie. Un giorno il vecchio cardinale aveva chiesto al conte Dalla Torre di indicargli un giovinetto volenteroso, da aiutare, che trascrivesse i suoi appunti, e nel congedarlo esclamò: "E' l'unico modo perchè le mie memorie non siano inutili". Suor Pascalina fu subito accolta e trattata come una persona di famiglia anche dal marchese Francesco, che più frequentava la casa di via Boezio in cui il cardinale, nel suo appartamentino, si fermò per alcuni mesi dal suo rientro in Italia, rendendo felici, nelle ore dei pasti, i nipoti, che potevano chiacchierare un po' con lui. Carlo, il più grande, era già sposato. Marcantonio e Giulio ancavano ancora a scuola. I ragazzi cominciarono a chiamare la religiosa suor Pasqualina, e in Italia quello divenne il suo nome. Pio XI fronteggiava con energia quello che sembrava un ritorno di fiamma anticlericale post-conciliazione del regime. Avrebbe voluto dar retta al suo carattere, contrario alle mezze misure, domostrarsi ancor più duro nella diatriba con Mussolini. Ma Pacelli, così misurato e prudente, riusciva di tanto in tanto a contenerne l'irruenza. Un giorno il pontefice aveva scritto contro Mussolini una nota tanto drastica che avrebbe potuto riaprire l'intero dissidio tra stato e chiesa, al di là delle polemiche e dei tiri di aggiustamento di entrambe le posizioni. Alla lettura del documento che il pontefice gli aveva sottoposto, Pacelli escalmò: "Vostra Santità è il papa, può emettere questa nota. Ma se lo farà, lo farà senza di me". Pio XI, dopo avergli chiesto le ragioni del rifiuto, aveva fatto ritirare lo scritto. Un redattore dell' Osservatore Romano attendeva in anticamera, ma non gli rimase da fare altro che strappare le bozze di quella nota destinata a non vedere la luce. Pacelli tornò turbato nel suo appartamento, e sedendo a tavola, disse a suor Pascalina che lo guardava preoccupata: "Forse oggi ho contrariato il Santo Padre, ma non potevo fare altrimenti". Già altre volte aveva rivelato come, durante il suo ufficio di segretario di stato, non avesse mai detto "si" al pontefice quando pensava "no". Le gerarchie fasciste avevano un' idea diversa dei rapporti che intercorrevano tra Pacelli e papa Ratti, in base al quale Borgognini Duca raccontava a Ciano. Il nunzio diceva al giovane Ciano che Pio XI aveva un pessimo carattere, autoritario e quasi insolente. Aggiungeva che in Vaticano tutti erano terrorizzati, che egli stesso tremava al solo pensiero di dover entrare per un' udienza nel suo studio. Anche i più illustri porporati non erano trattati con alterigia. Quando Pacelli andava a rapporto col pontefice doveva, come un piccolo segretario, prendere nota sotto dettatura di tutte le istruzioni che Pio XI gli impartiva con malagrazia. Nonostante la mole di lavoro, lo scrittoio di Pacelli era sempre sgombro di carte. Il cardinale tirava a far tardi la sera e dedicava anche parte della notte alle pratiche del suo ufficio, e attutiva con un feltro il ticchettio della macchina da scrivere. Un accademico di Francia, Henri Bordeaux, chiese preoccupato quando mai si sarebbe riposato. E lui, con un sorriso disarmante rispose: "Un secondo dopo la morte". Bordeaux, impressionato dalla sua figura, la rapportava ad un personaggio del Greco: così emaciata e raffinata; lo sguardo era straordinario: aveva qualcosa di soprannaturale. Ormai Pacelli trascurava anche gli sport preferiti: si accontentava di una breve passeggiata quotidiana tra i viali di Villa Borghese. Pur camminando, rimaneva però immerso nella lettura del Breviario o di un giornale, o prendeva appunti su un quadernetto, affannosamente seguito da un segretario. I romani lo guardavano ammirati, e al suo passaggio si facevano da parte rispettosi di tanta austerità. L'ambasciatore francese presso la Santa Sede, Charles Roux, interpretò i sentimenti della gente: diceva che la vita interiore di Pacelli era tanto intensa che traspariva dal viso e dal contegno. La spiritualità gli era così naturale, talmente incorporata, che emanava dalla persona una sorta di imponderabile fluido. D'estare però il cardinale continuava a recarsi in Svizzera, sulle sempre amate sponde del lago di Costanza, o tra i manoscritti della biblioteca del monastero della Santissima Vergine Maria a Heinselden, dove poteva anche ascoltare della buona musica. Durante l'anno, se si allontanava da Roma, lo faceva solo per assolvere alle missioni che via via Pio XI gli affidava, soprattutto all'estero. Dopo i concordati regionali con la Baviera, la Prussia, il Baden e dopo quello con l'Austria, la Chiesa si accingeva a sottoscrivere una convenzione con il Reich hitleriano. Già Pacelli, in veste di nunzio a Berlino, aveva tentato l'accordo con la Germania, ma l'ostilità della Repubblica, la cui costituzione votata a Weimar sanciva la netta separazione tra lo Stato e la Chiesa, si era rivelata insuperabile, soprattutto nell'ambito della scuola. Adesso era Hitler che si rivolgeva ai cattolici. Il suo regime aveva bisogno di un alto riconoscimento, di una vera e prorpia legittimazione sul piano internazionale. Egli contava di ottenere a buon prezzo un prestigioso risultato, poichè si predisponeva a tendere o ritrarre la mano sul piano concordatario a suo piacimento. Von Papen, il traballante vicecancelliere di Hitler, arrivò a Roma con monsignor Kaas, che si rivolse immediatamente al cardinale Pacelli, le cui conoscenze del mondo tedesco non avevano uguali, sicchè veniva confermata l'avvedutezza di Pio XI, che lo aveva voluto segretario di stato, proprio mentre la Germania occupava con la sua politica gran parte della scena europea. Monsignor Kaas e Von Papen incontrarono naturalmente anche il pontefice. Kaas si mostrava ottimista, al punto da sostenere che il cancellierato di Hitler era un fatto provvisorio e che i Fuhrer era stato messo là soltanto per combattere il comunismo. Invece Von Papen si sbracciava ad agitare una minaccia. Diceva che qualora la Chiesa non avesse voluto il concordato, Htler avrebbe fatto sapere al mondo quanto grande era l'indifferenza del Vaticano per la sorte dei cattolici tedeschi. A Pacelli parvero credibili più le minacce evocate da Von Papen, che le assicurazioni di Kaas, a cui disse: "Mi puntano contro una pistola. Devo scegliere tra e proposte dei nazionalsocialisti e la possibile eliminazione della Chiesa Cattolica nel Reich". Con questo clima si aprivano le trattative, che ebbero uno svolgimento piuttosto rapido. Durarono tre mesi in tutto, mentre c'erano voluti cinque anni per concludere la convenzione con la Baviera e la Prussia, e due anni per la Conciliazione con lo stato italiano. Sia il Fuhrer, sia il papa, avevano fretta. L'ex cancelliere Bruning esprimeva l'avviso che nel concordato non vi era nulla di chiaro, se non la preminenza che il nunzio era decano del corpo diplomatico di Berlino. Al contrario, Pacelli se ne dimostrava soddisfatto. Alla cerimonia della firma Pacelli era al centro del tavolo, attorniato da Kaas, Von Papen e dai monsignori della segreteria di stato Pizzardo, Ottaviani e Montini. Due giorni dopo Pacelli scriveva a monsignor Franz Bonnewasser, vescovo di Treviri, dicendo che aveva creato qualcosa di utile, e aggiungeva: "Sarà una benedizione per la Chiesa e per il Reich. Terrà lontani gli infiniti pericoli per la salvezza delle anime, pericoli che fino a ieri abbiamo temuto con il cuore in gola". Ebbe inizio per Pacelli una intensa e proficua stagione di viaggi, tesa a diffondere e a difendere nel mondo il punto di vista della Santa Sede, preoccupata dagli eventi che investivano l'Europa, e anche nei paesi remoti come il Messico. Papa Ratti lo chiamava "l'oratore di Pentecoste". Era tradizione che il segretario di stato stesse sempre a fianco del pontefice e che mai si allontanasse da solo dalla Città del Vaticano. Con Pio XI e con Pacelli si verificò un cambiamento totale dell'antica consuetudine, per cui il segretario di stato non soltanto cominciò a vaggiare, ma si muoveva cnche con l'incarico di legato pontificio. Quella novità fu chiamata "rivoluzione itinerante". Già nel settembre del '34 Pacelli fu inviato in rappresentanza del papa al congresso eucaristico internazionale di Buenos Aires, nel cuore della terra latina d'America. La nave sulla quale si imbarcò a Genova, il Conte Grande, prese subito il nome di "cattedrale galleggiante". Sull'albero di maestra sventolava la bandiera pontificia, dono dell'azione cattolica argentina. Il cardinale disponeva a poppa di una cappella privata e di una palestra per svolgervi i suoi quotidiani esercizi ginnici. Aveva un seguito di quattro vescovi e numerosi altri religiosi. Sulla nave viaggiava anche don Orione, che aveva fondato la Piccola Opera della Divina Provvidenza, e con lui Pacelli si tratteneva a parlare sulla difficile condizione della Chiesa in America Latina. Mentre arrivava a Buenos Aires nuovi episodi di violenza insanguinavano l'Europa. Nei Balcani, eterna polveriera, l'odio tra serbi e croati sfociava in un regicidio, in disordini fratricidi. Alessandro I di Jugoslavia cadeva a Marsiglia per mano di terroristi croati, gli ustascia filofascisti di Ante Pavelic, durante una sua visita in Francia. Il cruccio per l tradgedia di Marsiglia, per le sue origini e le sue implicazioni, si rifletteva nei discorsi di Pacelli. Egli parlava perciò di pace, in castigliano e in altre lingue: "Si levi una fervida preghiera per la pace nel mondo, da ogni cuore sgorghi un grido ardente, veramente cattolico. Gesù Cristo, re della pace, concedi la pace al mondo". Il viaggio di Pacelli in Argentina fu un bagno di folla. Le masse provenivano da ogni dove, scendevano dalle Ande, salivano dalla Terra del Fuoco. Un milione di fedeli si raccoglieva nelle adorazioni notturne intorno a una gigantesca croce. Le solenni e fastose accoglienze che gli riservò alla Casa Rosada il presidente, generale Augustin Pedro Iusto, e in quelle che gli tributarono le alte autorità del paese erano in così forte contrasto con l'estrema semplicità della sua vita, tanto da farlo sentire a disagio. Una mattina, nel palazzo della marchesa De Olmos, di cui era ospite, un cameriere, che era entrato nella sua stanza per svegliarlo, lo scorse sdraiato sul pavimento. Allo stupito inserviente disse: "Così, tra tanti onori, non perdo il contatto con la terra". Anche a un prelato rivelava come fossero dispersivi i ricevimenti mondani, ai quali era costretto a partecipare, e al quale dava una risposta piena di saggezza: "Abbiamo sempre modo di rifugiarci nell'intimo della nostra anima". Ma egli cercava anche il contatto con la gente comune, e difatti, un giorno, vestito da semplice prete, con in testa un cappello tondo a cupola, uscì dalla porticina laterale del palazzo atrizio che lo ospitava. Si confuse tra la folla, ma la sua scappatella in incognito fu di brevissima durata, tradito dalla sua alta ed ascetica figura. Aveva condotto con sé la nipotina Elena, figlia di Elisabetta, la sorella più giovane alla quale era particolarmente affezionato. Elena era una bambina di una decina d'anni, diventata improvvisamente sorda in seguito ad un attacco di scarlattina. Lo zio soffriva immensamente per la sciagura che aveva colpito la piccola, e cercava di mostrarle in tutte le maniere la sua tenerezza. Per distrarla, e per alleviarle in qualche modo il peso della sventura, lo "zio don Eugenio", come lo chiamava, l'aveva voluta con sé in Argentina. Si era anche occupato a più riprese della sua salute, e infatti fin dal '23 l'aveva fatta visitare a Monaco dal più illustre specialista in otoiatria, il professor Vanner, ma tutto era stato inutile. Più efficaci si mostravano le lezioni che gli impartiva madre Edeltrude Poschmann, basate sulla lettura delle parole dalle labbra, ma la ragazza continuava a chiedere allo "zio don Eugenio": "Quando potrò sentire?". Nell'aprile del '35, sempre in rappresentanza del papa, partecipò a Lourdes al solenne triduo in preparazione al giubileo della Redenzione, tra i duecentocinquantamila pellegrini provenuti da ogni luogo ai piedi dei Pirenei, attorniato da cinque cardinali ,settanta vescovi e arcivescovi. Due giorni prima della partenza aveva perso il fratello Francesco, non molto anziano, sessantenne, ma ammalato di cuore. Francesco era il consigliere generale della Città del Vaticano, e la carica fu quindi attribuita al figlio Carlo, cui andava anche l'incarico di consulente legale dell'amministrazione dei beni della Santa Sede, della Congregazione di Propaganda Fide e quella dei religiosi e dei seminari, per i suoi meriti obiettivi e non solo per nepotismo. Don Eugenio era affezionato al fratello maggiore, e forte fu il dolore per la perdita. Lasciò ugualmente Roma. Non vorre sottoporre modifiche al programma della sua visita in Francia. Nei viaggi, fra gli accompagnatori del cardinale raramente mancava suor Pascalina, che aveva cura di lui, ne annotava i gesti e le parole. La visita in Francia, cioè nella terra più palesemente minacciata dall'imminente riarmo tedesco, confernava la sensibilità della Santa Sede per il mantenimento della pace. Hitler decidenva intanto, nel marzo del '36, di lanciare la Wehrmacht verso la Renania inferiore, la regione che era stata smilitarizzata in seguito al patto di Locarno. Tre battaglioni della Wehrmacht varcavano il Reno, per marciare sulle città di Acquisgrana, Treviri, Saarbrucken, tra le ovazioni delle popolazioni e ai lanci di fiori tra le grida di "Heil Hitler". Ma il Fuhrer si chiedeva realisticamente come avessero reagito i governi occidentali a quella invasione, e nell'attesa, trascorreva ore di indicibile ansia. "Tremo - diceva - come forse mai mi è accaduto finora. Se i francesi ci attaccano, avranno la meglio. I nostri mezzi non sono in grado di contrapporre la minima resistenza". Il mondo si sorprese per la quiescenza dimostrata da Parigi e da Londra. Mentre le democrazie occidentali non reagivano, Pacelli dettava per l'Osservatore Romano una nota di protesta, ma era troppo poca per fermare l'usurpatore, allora Pacelli stesso richiamò il governo di Parigi alle sue responsabilità, e disse all'ambasciatore francese Charles-Roux: "Se voi foste intervenuti con duecentomila soldati, avreste reso un grande, immenso servizio al mondo intero". Il Fuhrer si sentì incoraggiato a compiere nuovi colpi di mano. Ingoiò l'Austria, fingendo di legittimare l'aggressione con un plebiscito popolare. Pacelli, prevedendo all'ambasciatore Charles-Roux che la prossima vittima sarebbe stata proprio l'Austria, si era immediatamente adoperato per scongiurare l'Anschluss. Attraverso il nunzio Borgognini Duca, il gesuita Tacchi Venturi, si era rivolto a Mussolini cercando di convincerlo a prendere le distanze dal minaccioso Hitler, come aveva già fatto in occasione del putsch viennese e dell'assassinio del cancelliere Dolfuss. Ma nel frattempo i due dittatori avevano raggiunto un'intesa e marciavano uniti, e l'Anschluss si compì l'11 marzo. Alle proposte di Pacelli, il Fuhrer gli contrappose il parere a lui favorevole di alcuni autorevoli prelati, come il nunzio a Berlino, monsignor Cesare Orsenigo, l'arcivescovo di Breslavia, Adolf Betram, quanto mai sensibile al fascino del capo nazista, e soprattutto l'arcivescovo di Vienna, Theodor Innitzer, il quale, insieme all' episcopato austriaco, considerava utile e necessaria l'unione dei due stati tedeschi in funzione anticomunista. Su posizioni antiannessioniste era il vescovo di Munster, Clemens August Von Galen, e l'arcivescovo di Berlino, cardinale Kondrad Von Preising. Pacelli provò amarezza nel vedere Innitzer rivolgersi ai fedeli perchè votassero a favore dell'annessione, e la cosa fu di vantaggio a Hitler nella cattolicissima Austria. Innitzer volle innanzi incontrare il dittatore, nel quale ravvisava l'uomo della provvidenza, replicando la ben nota definizione usata da Pio XI nei confronti di Mussolini. C'erano giovani cattolici che a Vienna urlavano nelle strade: "Cristo è il nostro Fuhrer" "Innitzer tu comanda, noi ubbidiremo". Pacelli rivolse a Innitzer una severa reprimenda, con l'ordine di venire in Vaticano "ad audientum verbum". Nell'incontro gli chiese una ritrattazione, ma i giochi erano ormai fatti, tanto più che la notizia della retromarcia imposta dalla Santa Sede all'arcivescovo non vide mai la luce, nè in Austria, nè in Germania. Il cardinale Pacelli, pur sentendosi in sintonia con l'ambiente e la cultura germanica, sapeva di non poter chiudere gli occhi di fronte alla realtà degli Stati Uniti e al cattolicesimo di quella gente. Verso la fine del '36, mentre si svolgeva la battaglia elettorale per la rielezione a presidente di Franklin Delano Roosevelt, arrivò in America con la bella nave Conte di Savoia. Era assediato da frotte di giornalisti, ansiosi di sue dichiarazioni, ed egli disse: "State tranquilli. Pagherò la tassa giornalistica di entrata". Il cardinale romano si mosse in aereo da una parte all'altra dell'immenso paese: Washington, Boston, Filadelfia, Chicago, San Francisco, Los Angeles. Fin dai tempi della nunziatura in Germania era stato il primo monsignore a provare l'emozione del volo. Prorio a Los Angeles un giornale, osservando che Pacelli era arrivato in aereo disse: "Quale contrasto con il carro trainato dai buoi con il quale viaggiavano i primi missionari californiani". I fotografi lo riprendevano sulla scaletta del velivolo; i giornali ne pubblicavano le foto definendolo il "cardinale volante", per aver percorso in lungo e in largo l'America per seicento miglia. Il viaggio avrebbe dovuto rivestire un carattere privato, per dar modo all'ospite di penetrare lo spirito del Nuovo Mondo, ed entrare in relazione con le maggiori personalità ecclesiastiche e civili che ne guidavano le fortune. In verità, nè poteva essere diversamente. Tutto divenne pubblico e ufficiale tra lauree honoris causa e cori che intonavano "O sole mio". All'università cattolica di Fortland il rettore lo accolse chiamandolo il "cardinale della pace". Prima di lasciare l'America l'ospite si incontrò con una delle sue più cospicue famiglie, quella del finanziere Joseph Kennedy, che lo mise in contatto con altri personaggi in spicco nella società statunitense. A New York il cardinale romano si accomiatò infine dai cattolici del nuovo mondo, sotto la volta della cattedrale di St. Patrick gli rivolgeva con un saluto canoro il tenore italiano Giovanni Martinelli, che ogni sera al Metropolitan rinverdiva il ricordo della patria lontana. Sul ponte della Conte di Savoia, che lo riportava in Italia, Pacelli esclamò: "La potenza degli Stati Uniti promuova sempre la pace nel mondo". Da Berlino rispondevano accusandolo di essersi comportato in America come un galoppino elettorale di Roosevelt. Al suo rotorno papa Ratti gli fece omaggio di una foto, corredata da una sua scritta autografa: Pius papae XI carissimo cardinale suo transatlantico panamericano Eugenio Pacelli felicite redenti. 14/11/1936. Chiusa la fruttosa esperienza americana, Pacelli riprese a tessere i rapporti con la Francia. Nel giugno del '37 si doveva inaugurare a Lisieux, in Normandia, una basilica monumentale dedicata a Santa Teresa del Bambin Gesù, la carmelitana scalza canonizzata nel '25 dallo stesso Pio XI tra l'entusiasmo dei cattolici francesi, cone era già accaduto cinque anni prima con la canonizzazione di Giovanna D'Arco. Inizialmente era previsto che a presiedere alla manifestazione fosse il papa, per il quale, in segno di distinzione il governo capeggiato da Lèon Blum, avrebbe offerto come residenza la magnifica reggia di Versailles. In Vaticano si cambiarono i programmi, ritenendo eccessivo il viaggio di un pontefice nella Francia Frontista, e pacelli ricevette nuovamente da Pio XI l' incarico di rappresentarlo all'estero. Le autorità governative e il popolo francese gli tributarono accoglienze senza pari. Scrissero su di lui personaggi come Mauriac, Wladimir Donmasson, Rideaux, Schumann. I cardinali Verdier e Baudrillart non vollero essere da meno nelle manifestazioni di ospitalità. Parigi mostrava entusiasmo ovunque egli si recasse: all'Eliseo, al Quai d'Orsay, al Trocadero, agli Invalidi, al Sacro Cuore sulla collina di Montmartre, all'esposizione universale dove era allestito un padiglione del Vaticano, fin sulla motovedetta con la quale egli risalì la Senna. Era la prima volta che un segretario di stato tornava nella capitale della Francia, dal giorno dell'arrivo del cardinale Consalvi, che vi era arrivato nel 1801 per firmare il Concordato con Napoleone Bonaparte. Non erano solamente esteriori le coincidenze tra i due segretari di stato, entrambi convinti che per il bene della Chiesa si potesse firmare un concordato anche con il diavolo, e dello stesso avviso era papa Ratti, che anzi lo aveva dichiarato apertamente. I mali dell'Europa risuonarono nel discorso di Pacelli ai pellegrini di Lisieux. Definì "particolarmente doloroso" al cuore di Pio XI le "persecuzioni inflitte ai suoi figli in molti paesi" e che al papa avevano "già strappato solenni lamenti e strazianti proteste", ma che nè "la violenza rivoluzionaria e sacrilega delle masse, montate da falsi profeti, nè i sofismi dei dottori dell'empietà, di quelli che vorrebbero scristianizzare la vita pubblica hanno potuto incatenare la parola e la pena di questo vegliardo intrepido, che ha meravigliato il mondo con la pubblicazione quasi simultanea di tre encicliche". Pacelli fu dunque a Parigi, oltre che a Lisieux. Fu ognora acclamato a gran voce, onorato di un fastoso ricevimento all'Eliseo offertogli dal presidente della repubblica, anche perchè alla sua visita si attribuiva una chiara connotazione antinazista. Quando dal pulpito che era stato si San Francesco di Sales, di Boussuet e di Lacordaire nella chiesa di Notre Dame parlò in francese contro l'idolatria della razza, commosse fino alle lacrime la massa dei fedeli. Durante il precedente viaggio compiuto in occasione delle manifestazioni a Lourdes non aveva voluto recarsi a Parigi, per mantenere al più possibile la sua missione sul piano religioso, ma ora il tuono preannunciava la tempesta ed era necessario assumere posizioni più chiare. Anche a Lourdes si era astenuto dal "denuciare la superstizione del sangue e della razza", e dal condannare i "meschini plagiatori che rivestono vecchi errori di nuovi orpelli". Così in altre occasioni aveva condannato la "perfidia di alcuni profeti di nuovo mito, di una nuova fede che non è fede", dagli "invasati profeti di falsa fede che trovano rifugio tra le menzogne e le alterazioni della storia". Egli aveva avuto il sentore di una possibile affermazione di un succedaneo di religione, quando aveva letto nel '25 il Mein Kampf, nella prima edizione tedesca, così come aveva colto la pericolosità del razzismo dalle pagine di Alfred Rosenberg nel Mito del XX secolo. Il 14 marzo 1937 l'enciclica Mit brennender sorge (con bruciante preoccupazione) veniva promulgata in Vaticano, ed inviata clandestinamente in migliaia di copie al nunzio apostolico berlinese, monsignor Cesare Orsenigo, affinchè fosse distribuita in tutte le parrocchie e quindi letta nelle chiese, il che avvene il 21 marzo. Il suggerimento di seguire canali riservati per la diffusione della lettera pastorale, al fine di aggirare la censura dell'occhiuta Gestapo, era provenuto da Pacelli. Il Fuhrer si irritò enormemente, e rovesciò sulla Santa Sede un fiume di accuse. Disse che il Vaticano aveva violato il concordato. Lo dimostrava la massima segretezza con la quale l'enciclica era stata divulgata. Questa segretezza era una riprova del fatto che i rappresentanti del clero tedesco erano ben consapevoli dell'illegittimità del loro procedere e delle violazioni dei loro doveri di cittadini del Reich. L'enciclica fu avidamente letta in Germania, soprattutto dagli studenti, i quali, quando non riuscivano a procurarsene il testo, lo ricopiavano dai quotidiani svizzeri nelle biblioteche pubbliche e la diffondevano riproducendola al ciclostile. Al fianco di papa Ratti, nella stesura delle lettere apostoliche, c'era lui, il segretario di stato, e lui era preso di mira dai giornali tedeschi, che lo dipingevano nelle loro vignette satiriche come un ebreo e filocomunista. Nel Der Schwarze Korps lo ritraevano nell'atto di accarezzare una donna ebrea e comunista, alla quale diceva: "Non è bella, ma sa cucinare". Per ritorsione contro l'enciclica, Goebbels aveva fatto stampare alcune migliaia di copie destinate ai pellegrini tedeschi in visita a Roma. In esso si raccontavano i segreti del Vaticano, tra scandali finanziari e di valute e casi di immoralià, degli del peggior Sade, a danni non del solo Pacelli, ma di tutta la curia e del papa in persona. Nel maggio del '38, a soli tre mesi dall'Anschluss e in previsione dell'attacco della Cecoslovacchia, il Fuhrer visitava l'Italia per offrire all'Europa una solenne dimostrazione della rinsaldata alleanza nazifascista. All'annuncio del viaggio Pio XI, sollevando le ire del capo tedesco, deicise di anticipare le vacanze trasferendosi nella residenza estiva di Castelgandolfo. Così si diceva in giro, e si aggiungeva che il papa aveva preso quella decisione per non aver nulla a che fare col Fuhrer. Il 2 maggio, vigilia dell'arrivo di Hitler in Italia, usciva però sull'Osservatore Romano una noticina in cui si affermava che quell'anno il papa era partito per la villeggiatura la stessa data dell'anno precedente, cioè il 30 aprile, e che si era recato a Castelgandolfo non per fare della piccola diplomazia, ma perchè l'aria dei castelli romani gli faceva bene alla salute. Il giornale della Santa Sede non mancò tuttavia di dare la notizia della visita, e aggiungeva che dal 3 all'8 maggio, tempo della permanenza del dittatore a Roma, i Musei Vaticani non sarebbero stati aperti al pubblico. Ci fu, alfine, una più netta presa di posizione del papa durante lo stesso mese, davanti ai fedeli che lo acclamavano a Castelgandolfo, di come "si inalberava a Roma lo stendardo di una croce che non era quella di Cristo". Papa Ratti intervenne sulla questione razziale per contestare le affermazioni del Manifesto, ma sorprendendo un po' tutti, fu meno esplicito nel condannare le dottrine antisemite di quanto non avesse mai fatto nell'enciclica. In un'allocuzione del luglio alcuni alunni del Pontificio collegio Urbano di Propaganda Fide, avanzò qualche distinguo: dopo aver rammentato senza discordarsi con la Mit brennender Sorge sul genere umano come "una sola e grande razza", aggiunse che "non si può tuttavia negare che in questa razza universale non ci sia spazio per alcune razze particolari, come per tante diverse variazioni. Nella stessa guisa in cui nelle importanti composizioni musicali vi sono le grandi variazioni nelle quali pur si riscontra lo stesso generale motivo che le ispira, ritornare sovente ma con tonalità, intonazioni e espressioni diverse, così anche il genere umano è una sola grande, universale, cattolica razza umana, una sola grande universale famiglia umana, e con essa e in essa variazioni diverse". Ma con quella allocuzione il papa formulò la prima condanna ufficiale della chiesa contro il razzismo mussoliniano, in cui riconosceva la matrice nazista, nonostante il diverso avviso della Civiltà Cattolica, disse: "Ci si può chiedere come mai, disgraziatamente, l'Italia abbia avuto bisogno di imitare la Germania". Frattanto le condizioni degli ebrei andavano via via peggiorando. Gli italiani, sempre piuttosto tolleranti, si meravigliavano per la svolta razzista del fascismo, che sottoponeva gli israeliti a vessazioni e a persecuzioni continue. A Roma la gente vedeva gruppi di ebrei che il regime constringeva a scavare la sabbia sulle rive del Tevere nei pressi del Ghetto. Erano medici, avvocati, ingegneri, ragionieri, ai quali era stata messa una pala nelle mani con l'intento di avvilirli e degradarli spiritualmente e socialmente, per minarne ogni senso di dignità, come avrebbe detto Einstein. Molte erano le ragioni e le preoccupazioni per la chiesa cattolica di fronte agli sconvolgimenti di cui l'Europa era teatro. Nel maggio di quel 1938 il cardinale Pacelli, sensibile ai problemi che attanagliavano i paesi europei, si recava in Ungheria, con animo teso. Ancora un volta come legato pontificio, partiva per Budapest, dove risiedeva il Congresso Eucaristico Nazionale. C'era motivo per essere in ansia per l'Ungheria, la nazione che per la rabbia di aver perduto con la guerra due terzi del suo antico territorio, si lasciava attrarre nell'area di influenza del nazismo, se non altro perchè Hitler faceva intravedere cospicui risarcimenti ai danni della Cecoslovacchia. Alla stessa stregua si avvicinava l'Italia fascista. Il reggente ungherese, l'ammiraglio Miklòs Horthy, che pur apparteneva alla minoranza calvinista del paese, non lesinò al prelato onori e festeggiamenti. Al Congresso Eucaristico non poterono tuttavia partecipare i cattolici tedeschi, ai quali Hitler non aveva consentito di uscire dalla Germania, accampando difficoltà valutarie, ma in realtà, volendo vendicarsi con loro dello sgarbo, usatogli di recente durante un suo viaggio a Roma da papa Ratti. Tra le molte manifestazioni ungheresi, una processione notturna sul Danubio fu la più risplendente per entusiasmo di folla e scenografia. Sulla motonave che risaliva il fiume, Pacelli era attorniato da tredici cardinali, trecento arcivescovi. A Budapest parlò in tedesco, per sottolineare l'assenza di pellegrini cattolici dalla Germania. Disse che "i popoli, se minacciati da contrizioni politiche senza Cristo o, addirittura, contro Cristo, avevano il sacro dovere di contrastarle per spegnere le torce incendiarie della rivoluzione e della lotta di classe". Negli ambienti anticlericali si avvisò in questo accento un'implicito assenso del Vaticano al patto anti-Comintern tedesco - giapponese, che si proponeva di opporsi alla forza disgregatrice del comunismo. Al patto aveva aderito da alcuni mesi anche lo stesso Mussolini, anche se malvolentieri, per le sue ragioni di prestigio. La salute dell'ottantunenne papa Ratti peggiorava, e Pacelli, al suo ritorno dall'Ungheria, confidandosi con suor Pascalina, disse che non si sarebbe più mosso da Roma. "Credo che la mia assenza, - soggiunse - non faccia bene al Santo Padre". Erano trascorsi solo pochi mesi dal suo ritorno a Budapest, quando anche il premier inglese Chamberlain, nel tentativo di superare pacificamente le crisi dei rapporti tra Germania e Cecoslovacchia, causata dalle pretese di Hitler verso le minoranze tedesche dei Sudeti, propose attraverso Mussolini un incontro a quattro, fra Inghilterra, francia, Germania e Italia, con l'esclusione della Cecoslovacchia, sulla cui pelle si esercitava la violenza nazista. La conferenza si svolse a Monaco, da cui prese il nome, con il motivo di scongiurare un conflitto europeo. In realtà volevano evitare di scendere in campo contro l'Asse Roma - Berlino, che consideravano un utile baluardo antibolscevico. E a Monaco, disonorevole Canossa delle democrazie europee, si legittimò l'annessione nazista dei Sudeti. La violenza contro gli ebrei e contro i loro beni si esercitava con particolare accanimento rompendo vetrine dei negozi, quasi che l'isterismo dei nuovi vandali avesse bisogno del gelido frastuono dei cristalli in frantumi come riscontro alle loro urla, i colpi di pistola e il mutismo delle vittime sbigottite. L'intera operaizone prese nome di Notte dei cristalli, o Kristallnacht, tra il 9 e il 10 novembre, sebbene il pogrom si protrasse per una settimana. L'orrore si diffondeva in Vaticano. Papa Ratti, approfittando di una visita a Roma del premier inglese Chamberlain e del suo ministro degli esteri Halifax, decise di vederli, sebbene fosse febbricitante. Nell'incontro, che si svolse a metà gennaio del '39, li richiamò alla responsabilità del momento, rilevando come, con le loro esitazioni di fronte all'espansionismo hitleriano, si rischiasse di preparare al peggio l'Europa. Nonostante le pessime condizioni di salute, il papa si accingeva a celebrare solennemente sia i suoi diciassette anni di pontificato, sia il decennale della Conciliazione, anche perchè pensava che l'esaltazione dei Patti Lateranensi potesse frenare Mussolini sulla strada di un'eventuale guerra al fianco di Hitler. Aveva ridotto al minimo le udienze pubbliche e private, non riceveva che Pacelli, al quale dava via via da leggere le pagine di un discorso che avrebbe potuto pronunciare come testamento spirituale davanti ai vescovi italiani da lui convocati a Roma per l'11 febbraio. La mattina del giorno 7, martedì, non riuscì a alzarsi dal letto, ma volle ugualmente proseguire alla stesura del discorso, dopo aver detto al suo medico, Aminta Milani, di tenerlo in vita almeno fino a tutto sabato. Pacelli lo scongiurava di non affaticarsi, d soprassedere ad ogni impegno. Il pontefice non gli diede ascolto, e all'alba del giorno 10, venerdì, un attacco cardiaco lo stroncava. Pacelli, che quattro anni prima era stato nominato camerengo di Santa Romana Chiesa, ebbe la responsabilità dell'organizzazione della sepoltura e delle esequie, come anche dei preparativi del conclave. Rimase presso il letto del pontefice defunto e, secondo una venerabile tradizione, ne proclamò la morte. Come osserva un agiografo: "Quelli che videro il cardinale Pacelli chino sul corpo del papa defunto, baciargli la fronte e le mani, capirono quanto lo avesse amato. Per una volta tradì le sue emozioni".

Tratto da: Antonio Spinosa, Pio XII. L'ultimo Papa, Collana "Le Scie", Mondadori