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L'Unione Sarda

venerdì 12 aprile 2002,pagina 9

Il caso.
L’incredibile storia delle famiglie costrette a vivere nelle caverne ai confini della civiltà
Nella grotta nascerà un bambino
Anche una donna incinta tra i senzatetto di Tuvixeddu

(…) Sono tanti, sono uomini e donne che non sanno più cosa sia una casa. Per loro è ormai normale abitare tra pareti di roccia e umidità. Quell’umido che ti entra dentro e quasi ti aggrinzisce, ti rende mollicci anche i pensieri e la volontà. Sul colle di Tuvixeddu, accanto al futuro parco archeologico, c’è un’altra città. Una comunità fuori dal tempo, a pochi metri di distanza, in linea d’aria, dalla città normale, ammesso che questa definizione abbia senso.
Per arrivarci bisogna lasciare il grande viale e sfiancarsi salendo per vico II Sant’Avendrace. Centodue scalini scrostati dividono la civiltà dei parcheggi, dei cassonetti, del bar con le paste calde calde, dalla vita dei cavernicoli moderni. È lassù che nascerà il bambino. Non si sa ancora il nome, né se sarà maschietto o femminuccia. Per ora gira nel grembo di Monica Scano, che indica il pancione mentre gli occhi si inumidiscono. «È umiliante farlo nascere qui»: ed è comunque l’ipotesi meno tragica. «Se ci mandano via, io e il mio compagno non sapremo dove andare».
Il suo compagno si chiama Salvatore Garau, 37 anni (cinque più di lei), senza lavoro. «Un mestiere lo sa anche fare», precisa Monica: «È pianellista, muratore, insomma si aggiusta. Ma lavora saltuariamente». Lei un impiego ce l’aveva: infermiera al Sant’Orsola di Bologna. È rientrata a Cagliari per colpa di un lungo fidanzamento finito ingloriosamente. Sognava un matrimonio col velo e l’organo e i testimoni, e gli amici che buttano il riso. Si è ritrovata a portare avanti una gravidanza in una caverna.
Da quattro mesi Monica e Salvatore fanno parte del popolo delle grotte. A dire il vero pochi giorni fa hanno lasciato il rifugio scavato nella roccia e si sono spostati nella capanna di fronte: ancora più squallida, se possibile. Trasloco obbligato: «Ci è crollato addosso il tetto della grotta, ce la siamo vista brutta». Dove prima c’era il letto della coppia, ora ci sono massi del peso di qualche chilo. Al soffitto pericolante Salvatore ha appiccicato dei fogli di cartone, nel tentativo di impedire altri crolli. Ma è pericoloso, meglio sgombrare il campo. «Per fortuna Ñ riprende Monica Scano Ñ è andato via quello che stava nella capanna dall’altra parte dello spiazzo. Ma lì si sta peggio».
Soprattutto per colpa dei topi. Nella grotta c’era freddo, ma i topi almeno giravano al largo. Troppo umido anche per loro, forse. Invece dallo scarico della capanna salgono ogni notte. Sono l’incubo di tutta la comunità di Tuvixeddu. Bisogna fare i turni di notte per bloccarli. Pino Soro praticamente non chiude più occhio: deve difendere dagli assalti notturni il resto della famiglia. Anzitutto sua moglie Antonella Pes, che una volta, mentre dormiva, ha sentito delle zampette sui capelli e per un attimo ha pensato che fosse il cane Billy.
Non era Billy. Appena Antonella lo ha scoperto le è passato il sonno per tutta la notte. Adesso suo marito sta sveglio per proteggere lei e anche la piccola di casa, la loro figlia che ha tre anni e da sette mesi vive in grotta con mamma e babbo. Anche per Pino stare a Tuvixeddu non ha niente di poetico, non è una scelta controcorrente. Il problema, ancora una volta, è il lavoro. «La domenica faccio il custode in un centro commerciale. Centomila lire, e mi devono bastare per tutta la settimana». L’America, in queste condizioni, è un impiego semplice: «Lo spazzino, per esempio. Io lo farei. Sono iscritto all’ufficio di collocamento, ma dal 1989 non mi hanno più chiamato. Sì, vorrei proprio fare lo spazzino. Quando sei povero non fai sogni difficili», sentenzia Pino, e abbassa gli occhi. «Mi basta il tanto per pagare un affitto. Prima abitavamo da mia madre, ma c’erano anche i miei fratelli. Non poteva durare».
Altro che fuga dalla società. Una casa come tutte, camera cucina soggiorno e soprattutto bagno, Pino la vorrebbe eccome. A 41 anni (sua moglie invece ne ha 28) vorrebbe lasciarsi alle spalle il ricordo della grotta. «Ogni giorno vado al Comune per la graduatoria delle case popolari», racconta: ma non riporta mai buone notizie. Il punteggio è insufficiente. Nella triste gara tra poveri, Pino non è povero abbastanza per meritare l’alloggio comunale.
E allora si resta lì, nella cava, a combattere coi topi. «Ormai sono tre settimane che non dormo per colpa loro. Sto seduto su quella sedia e guardo i buchi da cui escono». Un occhio alla tv, giusto per combattere un po’ la noia. E l’altro ai tanti tagli nella roccia da cui, nonostante tutti i tentativi di tapparli, può sbucare il nemico.
La lotta ai topi unisce Pino, Monica e gli altri cittadini delle grotte che si affacciano nello stesso spiazzo: un gruppetto di marocchini («ma loro li vediamo raramente»), un’altra coppia di disperati, e infine quello che ormai è il decano di Tuvixeddu, Gianni Matta, da tredici anni lassù e ormai decisamente integrato. Per lui è un po’ diverso, occupa una casupola resa col tempo appena più confortevole. Non ha voglia di fuggire. Gli altri sì. Non ne possono più di vivere a lume di candela, di scendere a prendere l’acqua con i bidoni vuoti e poi risalire quando sono pieni e spaccano la schiena. Di dover inventare qualche gioco di prestigio per creare uno scarico al water. O quel che funge da water.
Pino Soro, in realtà, al suo angoletto ci tiene. Fuori, sopra l’ingresso, ha scritto con la vernice blu “famiglia Soro-Pes”. Non si sa mai che un giorno arrivi il postino con una splendida notizia, magari una casa in regalo, e non sappia dove trovarli. Dentro, Soro ha cercato di ricreare un ambiente domestico. Ha tinteggiato le pareti, color azzurro cielo. Ha messo le cornici con le fotografie: c’è quella in cui indossa un abito elegante, era il matrimonio di un amico. Qualsiasi cosa può servire per fare arredamento: i piccoli personaggi che spuntano fuori dagli ovetti di cioccolato della bambina («non le facciamo certo mancare la roba da mangiare», dicono i genitori con orgoglio), le lucette dell’albero di Natale disposte sul letto come semplice ornamento.
Persino accogliente, umidità a parte. Ma è più forte la voglia di fuggire via. «Per mia figlia sogno un futuro lontano da qui. Un fratellino? Mia moglie lo dice sempre, ma finché non ce ne andiamo non si può. Certo, per la bambina sarebbe bello avere una compagnia. Vorrei una famiglia numerosa. Ma soprattutto vorrei che lei si dimenticasse di aver vissuto in questo posto, quando avremo la nostra casa». Un miraggio ricorrente, questo nido che chissà come sarà: «Non importa come sarà, io lo immagino bello. Non lussuoso: diciamo abitabile». Niente di più: i poveri, si sa, non fanno sogni difficili.

Giuseppe Meloni