Circolo Speleologico Sesamo 2000   Specus News 

Specus News numero due

 

Lo scorso agosto, a Cagliari, è stato individuato un graffito paleocristiano

I SEGNI DELLA FEDE

di  Franco Randaccio

Dovuta al ricercatore Mauro Dadea ed effettuata in una gigantesca cisterna romana sotto la chiesa dei Cappuccini,la scoperta consiste in una raffigurazione della “Navicula Petri”,la Nave della Chiesa. Difficile dire chi possa esserne stato l’autore; tuttavia si potrebbe legittimamente pensare ad un credente che, incatenato in quel luogo, attendeva d’essere sottoposto al martirio.La  fortunata manifestazione “Cagliari Monumenti  Aperti”, tenutasi il 10 ed 11 maggio 1997 grazie all’Associazione Culturale “Ipogeo” e con il patrocinio del Assessorato alla Cultura e Spettacolo del Comune di Cagliari, ha consentito la riapertura di molti luoghi storici purtroppo solitamente preclusi al pubblico.Tra questi l’Orto dei Cappuccini, un vastissimo giardino, sino a ieri in completo  abbandono, tra il viale Merello e Viale Fra Ignazio, che grazie alla manifestazione e all’interessamento di persone sensibili alla salvaguardia e tutela dell’ambiente ha convinto   l’amministrazione comunale a finanziare una serie di interventi di pulizia, che garantiranno la riapertura definitiva al pubblico del giardino.Trattandosi di un’area con moltissime cavità artificiali, i visitatori partecipanti alla succitata manifestazione sono stati accompagnati dal Gruppo Speleologico “Specus”, che da diverso tempo esegue dei lavori di studio, ricerca e  valorizzazione delle numerose cavità artificiali presenti nella città di Cagliari. Esattamente sotto la chiesa dei Cappuccini, a circa 15 metri di profondità, si apre il più famoso tra questi ipogei, noto come “Cisternone Vittorio Emanuele”: una monumentale cisterna scavata nella roccia calcarea, la cui superficie interna sfiora i 1800 mq., l’altezza media gli otto metri, e che poteva contenere attorno al milione di litri d’acqua.     Un’opera veramente grandiosa, che nel secolo scorso suscitò l’ammirazione del canonico Giovanni Spano, il quale la considerava punica. Essa è invece una cava di età romana, aperta probabilmente per costruire il vicino anfiteatro, agli inizi del II secolo, e poi riutilizzata. Gli architetti romani infatti, con il senso pratico che li contraddistingueva, una volta completato l’anfiteatro pensarono di recuperare la preziosa acqua piovana raccolta nelle sue gradinate e la convogliarono verso l’immenso invaso della vecchia cava.Pertanto, oltre ad impermeabilizzare le pareti con un’accurata intonacatura in cocciopesto, la cisterna fu collegata al fondo dell’arena con un canale sotterraneo lungo 96 metri, alto due e largo uno. La cisterna venne utilizzata per parecchio tempo, come testimoniano le tracce dei vari livelli via via raggiunti dall’acqua. Ma, successivamente, alcune profonde fenditure apertesi nelle pareti – forse per l’assestamento naturale del banco roccioso, ferito in modo così profondo dai cavatori – imposero di interromperne l’uso. Come spesso accadeva nel mondo antico, essa fu così adibita a carcere, destinato probabilmente a coloro i quali dovevano morire nei giochi circensi. In questo ambiente umidissimo e tenebroso, davvero disumano, sotto un robusto maniglione scavato nella viva roccia – uno dei circa trenta che ancora si scorgono lungo le pareti – lo scorso mese di agosto sono stati casualmente individuati alcuni interessanti graffiti di tipo cristiano. Secondo lo studioso Mauro Dadea, autore della scoperta, essi potrebbero essere stati tracciati da un prigioniero tenuto incatenato. Di esso non si conosce nulla, ma è forse legittimo ravvisare in lui uno dei primi seguaci del cristianesimo a Cagliari, perseguitato per la sua fede.Questi graffiti consistono per lo più in immagini simboliche. Quella meglio conservata raffigura la Navicula Petri, la Nave della Chiesa: le altre devono essere ancora liberate dalle spesse incrostazioni di terra e salnitro che ne impediscono la lettura. In attesa dello scavo archeologico, che potrà consentire una datazione definitiva, questo graffito si annuncia molto importante, soprattutto se nel suo autore possa identificarsi un Martire della persecuzione di Diocleziano (304/305), damnatus ad bestias  o a chissà quale altro supplizio. In questo caso, avremmo un documento assolutamente unico al mondo, cioè la prima testimonianza diretta, a noi pervenuta, dell'estremo atto di fede attribuibile ad un Martire cristiano. Ma veniamo dunque alla lettura iconografica o se vogliamo sull’interpretazione che l’archeologo Mauro Dadea ha svolto sul graffito. Nelle ore trascorse all’interno della cisterna, assieme all’amico Mauro e con alcuni amici e soci del Gruppo Speleologico “Specus”,  per eseguire una serie di osservazioni sul reperto archeologico, ho avuto l’opportunità di conoscere alcuni aspetti riguardanti le origini del cristianesimo a Cagliari e la sua evoluzione sia dal punto  storico che teologico.   Come dice  Mauro Dadea  un esempio simile a quello ritrovato nel Cisternone di cui parlano le fonti storiche è la Passio Perpetuae et Felicitatis, una sorta di diario personale tenuto dalla martire africana Perpetua fino ai giorni immediatamente precedenti la sua esecuzione. Di questo testo, tuttavia, non ci è pervenuto l’originale, ma solo varie copie medioevali. Nel caso del graffito cagliaritano, invece, saremmo in possesso dell’originale. Sempre secondo il Dadea la portata simbolica delle raffigurazioni realizzate dal prigioniero – che forse si chiamava Ian[ua]rius o Ian[uaria] – sembrerebbero indicare una profonda cultura teologica e biblica e dimestichezza con la lettura patristica. L’immagine per il momento meglio leggibile, la Navicula Petri, che entrò a far parte del patrimonio iconografico paleocristiano quasi subito, perché, suggerito dal Vangelo di Luca: “Gesù salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedutosi, si mise ad ammaestrare le folle dalla barca”. La barca di Simon Pietro fu perciò considerata lo strumento scelto dal Signore per evangelizzare gli uomini. In questo modo, divenne segno della Chiesa pellegrina sulla terra, che appunto nel Principe degli Apostoli ha il suo timoniere. I primi scrittori cristiani fecero tesoro di un’immagine tanto felice, sviluppandone ulteriormente il simbolismo. Così, ad esempio, San Giustino Martire nel II secolo scrisse: “Scrutate pure tutte le cose che sono nel mondo, per vedere se senza la figura della croce si faccia alcunché, e si possa avere una qualche unione. Non si naviga il mare, se quel trofeo che si chiama vela non rimane spiegato, a forma di croce, al centro della nave”. Per Mauro Dadea nel graffito cagliaritano il concetto risulta interpretato in maniera assolutamente fedele: l’albero di maestra presenta la vela spiegata, ed il suo lembo inferiore forma la traversa della croce, dalla quale pendono le lettere alpha e omega, che aprono e chiudono l’alfabeto greco. Sempre secondo Dadea le due note lettere, nel linguaggio dell’Apocalisse, esprimono l’eternità e quindi la divinità di Cristo: “Io sono l’alpha e l’omega il primo e l’ultimo, il principio e la fine”.Ripulendo dal salnitro la croce incisa nella parete si è notato, tracciato a circa quattro quinti  della sua linea verticale, un occhiello ricurvo, a formare la lettera P (il rho dell’alfabeto greco, corrispondente alla R latina), che sovrapposta alla X (la chi greca, la C latina), compone la “Croce monogrammatica”, cioè una sigla con le iniziali della parola greca Chr(istòs).Sempre in cima all’albero, raffigurante la croce, si nota una sorta di tabella. Poiché, le navi romane avevano un solo ordine di vele, non possiamo pensare ad un controvelaccio, come nei velieri moderni, ma formulare altre ipotesi. Secondo Dadea potremmo riconoscervi il Titulus Crucis, ricordato dall’evangelista Matteo: “Al di sopra del suo capo misero un cartello con la motivazione scritta della sua condanna: questi è Gesù, il re dei Giudei”. Tuttavia, oltre quello fittizio, provocatoriamente scelto da Pilato, i cristiani sapevano bene che il motivo per cui il loro Signore fu condannato a morte era un altro: il sacrificio espiatorio del Figlio di Dio, finalizzato a salvare il mondo.Altri importantissimi elementi che sono stati riscontrati da Mauro Dadea riguardano l’autore del graffito il quale, senza ombra di dubbio, era un esperto conoscitore della dottrina cristiana di quell’epoca.Nei primi secoli della cristianità, si diffusero varie sette eterodosse le quali, partendo dal presupposto filosofico secondo cui la materia è imperfetta, negavano che Gesù Cristo – in quanto Dio e per definizione perfetto – potesse realmente essersi incarnato nel seno della Vergine Maria. I loro esponenti sostenevano, al contrario, che il corpo visibile del Signore fosse stato formato da una sostanza eterea – insomma, una specie di fantasma – e conseguentemente che la sua morte sulla croce, in quanto non necessaria ad un Dio onnipotente, non fosse mai avvenuta.Contro costoro si pronunciava in maniera esplicita già l’Apostolo Giovanni, specie nella sua Seconda Lettera: “Molti sono i seduttori apparsi nel mondo, i quali non riconoscevano Gesù venuto nella carne. Ecco il seduttore e l’anticristo!”.Quindi, disegnando il Titulus Crucis, il prigioniero cagliaritano potrebbe aver voluto esprimere l’ortodossia della propria fede, cioè che Cristo, nella sua doppia natura divina e umana, fosse stato davvero condannato e ucciso per redimere il mondo.Pertanto la citata conoscenza della dottrina cristiana del prigioniero cagliaritano troverebbe conferma nel pesce crocifisso, osservabile nel punto in cui i bracci della croce si intersecano.Ebbene, il pesce era il simbolo per eccellenza degli antichi cristiani, perché in greco le lettere di questa parola formano ciascuna le iniziali della frase: Iesùs Christòs Theù Uiòs  Sotèr (“Gesù Cristo, Figlio di Dio Salvatore”). Per loro la carne del pesce rappresentava la carne stessa di Cristo e, dunque, crocefiggevano simbolicamente il vero corpo del Signore, in aperta polemica con le strane dottrine degli eretici.La valenza sacrificale ed eucaristica del pesce era stata indicata dallo stesso Gesù, specialmente nell’episodio della sua apparizione ai discepoli presso il Lago di Tiberiade, dopo la resurrezione: “Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane. Disse loro Gesù: Portate un po’  del pesce che avete preso or ora (…). Allora si avvicinò, prese il pane e lo diede loro, e così pure il pesce”. Sant’Agostino in proposito sentenziava: “Piscis assus Christus est passus”, che significa: “Il pesce arrostito è Cristo sacrificato”.Il pesce, quindi, è un simbolo della Carità, cioè l’amore infinito riversato sull’uomo da Gesù fino all’effusione del proprio sangue. Nella teologia cristiana la Carità è unita alla Fede, rappresentata dalla croce, ed alla Speranza, che ha come simbolo l'ancora.Quest’ultima espressione della fede cristiana è ben raffigurata nel graffito, ai piedi della croce che rappresenta l’albero maestro, sul quale è impresso il simbolo cristiano del pesce, è osservabile distintamente un’ancora di tipo romano.Secondo Dadea si avrebbe così una tra le più antiche espressioni simboliche delle tre Virtù Teologali.Il prigioniero, prima di morire, parrebbe aver voluto affermare anche altre cose, e tra queste la sua fede nell’apostolicità dell’unica vera Chiesa, fondata, come si legge nell’Apocalisse, “su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici Apostoli dell’Agnello”.Pertanto oltre alla Chiesa  di Gesù Cristo raffigurata dalla Navicula Petri il prigioniero ha tracciato nel ponte di prua dodici sbarrette verticali che rappresentano l’intero collegio dei dodici Apostoli.Mentre alla base della Navicula Petri si diparte un oggetto bislungo, trattenuto da tiranti, nel quale sembrerebbe riconoscibile una rete da pesca.Secondo Dadea il riferimento evangelico in questo caso, è la chiamata dei Dodici Apostoli da parte di Gesù: “Venite con me, vi farò Pescatori di uomini”.Un esempio di iconografia del tutto simile al graffito del Cisternone è stato scoperto nel secolo scorso nel cimitero paleocristiano di Bonaria a Cagliari.In questo caso si trattava di un affresco che rappresentava la Chiesa - nave degli Apostoli -   pescatori, databile alla prima metà del IV secolo. Umidità ed incuria hanno oramai completamente distrutto quell’immagine, ma ne rimangono perlomeno disegni e fotografie.La nave era del tutto simile, tipologicamente, a quella del graffito, compreso il raro particolare della vela di artimone (quella più piccola, a prua), l’alto castello di poppa, lo scafo profondo e il grande timone a pala. I romani chiamavano questo tipo di imbarcazione oneraria cladivata.Si potrebbe pertanto ritenere che entrambe le figure, quella del graffito e quella affrescata, in quanto sostanzialmente contemporanee si rifacessero ad un autorevole modello comune. Non è escluso che esso si identifichi in una decorazione parietale a soggetto marino, che nel III secolo, in piena persecuzione cristiana, eventualmente ornasse la casa adibita alle riunioni segrete della primitiva Chiesa cagliaritana. In questo caso si avrebbe perfino una testimonianza, sebbene indiretta, del primo luogo di culto cristiano finora noto in Sardegna.Le ipotesi, però, non sono certezze.Le possibilità interpretative, eseguite dall’archeologo Mauro Dadea, appaiono abbastanza chiare, ma ancora mancano prove e riscontri definitivi.Prudentemente, bisognerà quindi attendere la prosecuzione della ricerca: solo da essa potremmo sapere se i contenuti di questa scoperta – nella loro inaspettata unicità – rivestano davvero tutta l’importanza che le apparenze sembrerebbero attribuirle.Nel ringraziare Antonello Floris per la disponibilità a pubblicare questo articolo esprimo un cortese ringraziamento a Mauro Dadea che con la sua profonda cultura e  costante caparbietà nello svolgere la propria professione,   mi ha permesso di conoscere, come precedentemente accennato, alcuni interessanti aspetti  dell’archeologia cristiana.Esprimo inoltre un vivissimo ringraziamento a tutti gli amici e soci dell’associazione Specus, i quali hanno contribuito  a riportare in luce un importante documento storico che arricchisce ulteriormente il patrimonio artistico e culturale della città di Cagliari.