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Il presente che appare. Varela e la fenomenologia1

Fulvio Carmagnola2

 

Original experience

Che cos’è il presente che appare? Questa espressione traduce la locuzione specious present, che si trova nei Principi di psicologia di William James e indica “la parte del tempo cui ci si riferisce per mezzo del dato” o “che si riferisce al dato”. Con ciò si indicava il presente come tempo immediatamente ed effettivamente vissuto, a differenza del tempo concettualmente analizzabile (Valent, 1998, p. 371).
Il presente “specioso” diventa in Varela il singolare punto di congiunzione tra la ricerca della neuroscienza e la tradizione fenomenologica che fa capo a Husserl.
Specious può essere inteso in due tonalità differenti: può indicare ciò che è “apparente”, ha il valore di una superficie, contrapposta alla vera sostanza delle cose, ma anche il carattere di ciò che dà inizio, inevitabilmente, a ogni nostra esperienza e conoscenza del mondo. Secondo James, è precisamente questa la tonalità del presente specioso, “unico tratto della nostra esperienza immediata”, che ha un carattere di “originalità” (original experience). La “realtà del vissuto percettivo”, prosegue James, sarebbe allora il punto di appoggio necessario per comprendere, nel solco di una tradizione che risale fino ad Agostino, l’“autentica realtà del tempo” (ivi, p. 372).
Il presente che appare caratterizza anche l’atteggiamento tipico della tradizione fenomenologica, quello stile di pensiero “caratterizzato dalla tesi che tutto ciò che appare è apparenza di qualcosa di essenziale” e che “non si fa in nessun senso fenomenologia senza qualcosa sotto gli occhi” (De Monticelli, 1998, pp. 13 e 40). L’esperienza del presente come esperienza di una sede originaria del senso ha in Husserl uno dei suoi luoghi di meditazione più profondi e viene definita addirittura “principio di tutti i principi”: esso consiste nella consapevolezza che “tutto ciò che si dà originalmente nell’intuizione (per così dire, in carne e ossa) è da assumere come esso si dà, ma anche soltanto nei limiti in cui si dà” (Husserl, 1966, pp. 50-51).
È al presente che dobbiamo tornare, secondo questa linea di ricerca, per comprendere il nucleo di senso racchiuso nel tempo.


La strategia di ricerca neurofenomenologica

Varela si accosta alla tradizione della filosofia fenomenologica per un motivo simile a quello per il quale Husserl si sentiva portato a criticare e a mettere in discussione l’impostazione rigidamente epistemologica delle scuole neokantiane del suo tempo. Al neokantismo con cui Husserl polemizzava andava la responsabilità di una “riduzione” del pensiero di Kant in una chiave compatibile con l’evoluzione delle discipline scientifiche, del tutto simile al modo in cui, secondo Varela, i cognitivisti e i computazionalisti del nostro tempo riducono l’analisi della conoscenza. Il modello computazionale della coscienza e dell’attività mentale è anzi paragonato al modello tradizionale del tempo “oggettivo” come flusso uniforme che ci deriva dalla fisica classica: la “freccia composta da momenti infinitesimi, che scorre in un flusso costante” corrisponde perfettamente ai modelli dell’intelligenza come trattamento sequenziale dell’informazione. Il tempo di Newton e la macchina di Turing si somigliano, entrambi sono troppo semplici per rendere la complex texture dell’esperienza cognitiva.
Alla base della critica di Varela troviamo un principio che riveste lo stesso valore del “principio di tutti i principi” husserliano: la cognizione è un fenomeno strutturalmente inscindibile dalla corporeità, dall’embodiment, e in particolare dalle sue basi sensomotorie. Proprio come nella tradizione fenomenologica (Franzini, 1991), anche per Varela non c’è attività cognitiva senza corpo vivente.
Questo principio è la pietra di base della lunga ricerca che Varela condivise con Humberto Maturana: vivere è conoscere, e la vita è in se stessa un’attività cognitiva. Potremmo dire allora che l’atteggiamento fenomenologico è implicito fin dall’inizio nelle premesse e nella strategia di ricerca di Maturana e di Varela, anche se viene esplicitato molto più tardi, in occasione dell’incontro con la tradizione filosofica che fa capo a Husserl e a Merleau-Ponty.
Nel progetto di Varela “l’esperienza vissuta e la sua naturale base biologica sono collegate da mutui vincoli”, da qui il proposito di rianalizzare alla luce delle ricerche neurali l’esperienza qualitativa (Varela, in corso di stampa).
Pare che il proposito sia duplice: in primo luogo raggiungere una giustificazione strutturale, rigorosamente rispondente ai canoni di scientificità delle scienze moderne della natura, per le intuizioni e le analisi fenomenologiche, che verrebbero in tal modo sottratte al carattere aleatorio della pura speculazione. Se però tutto si riducesse a questo, si tratterebbe ancora una volta del dominio delle scienze della natura sul carattere più morbido e indeterminato dell’impostazione qualitativa delle scienze umane. In altre parole, l’intuizione fenomenologica richiederebbe una giustificazione esterna per reggersi. I filosofi hanno ragione, ma il loro linguaggio non è quello giusto e le conferme delle loro speculazioni vanno cercate altrove.
Quello che Varela si sforza di tracciare pare invece essere un percorso di più stretta complementarità: si tratta di sottrarre l’analisi fisiologica e neurologica al suo carattere strettamente empirico, per farne la base di una teoria più generale e comprensiva della coscienza e degli atti intenzionali (è sintomatico il “ripescaggio” di Searle operato da Varela), che non elimini ciò che è qualitativo dal percorso della scienza. È il proposito, condiviso da altri ricercatori di punta nell’epistemologia contemporanea, di cercare una linea di continuità fra “teorie fondamentali e descrizioni fenomenologiche” ma anche, come scrive Prigogine, di mettere in discussione “la concezione del tempo fisico nelle teorie fondamentali a partire dall’esperienza fenomenologica” (Prigogine, 1989). Qui il dato fenomenico, la original experience di James o l’aspetto “originalmente offerente” di Husserl, funziona come base per la costruzione scientifica. Il dubbio non tocca questa base percettiva, che viene invece ammessa nella sua verità, e la domanda cui la ricerca dovrebbe rispondere si presenta piuttosto così: data l’indubitabilità dell’esperienza in prima persona, benché sottoposta al criterio della riduzione per renderla pura e rigorosa, come possiamo costruire un modello scientificamente attendibile che non perda ricchezza rispetto alle descrizioni qualitative della fenomenologia?
Questo punto di vista è molto chiaro in un precedente lavoro di Varela, Neurofenomenologia (1997): l’esperienza è una “condizione ineludibile ... non abbiamo alcuna idea di come potrebbe essere il mentale o il cognitivo al di fuori della stessa esperienza che ne abbiamo”. Ancora prima, in un saggio celebre (Varela, 1988), aveva sottolineato il carattere circolare dell’intera esperienza cognitiva: “Quando percepiamo il mondo così come lo percepiamo, dimentichiamo che noi abbiamo agito in modo da percepirlo come tale ... In modo simile nell’incisione di Escher Galleria di stampe, vediamo un mondo che si trasforma proprio nel substrato che ci produce, chiudendo così il loop e incrociando i domini”.
Ne consegue, in uno stesso procedimento circolare, che le oggettivistiche analisi “in terza persona” a loro volta sono radicate in una comunità di vissuti concretamente embodied, nella collettiva esperienza qualitativa, naturale e sociale. A differenza di Galileo, che ammoniva in un celebre passo a eludere e ad accantonare le qualità sensibili e soggettive dell’animale vivente, per poter giungere alle regole universali della vera scienza, pare che Varela si sia posto sulle tracce di una scienza capace proprio di tener conto dell’apparenza fenomenologica senza scartarla come fenomeno di superficie.
Se dunque i resoconti fenomenologici della struttura dell’apparenza e le loro controparti nella scienza cognitiva devono essere “tra loro correlati e connessi da vincoli reciproci”, alla nozione di “vincolo” occorre conferire un carattere più rigoroso, nello stesso tempo più forte, di un’analogia e più elastico di una brutale derivazione causale monodirezionale.
Quel che Varela ci ha lasciato è purtroppo un progetto incompiuto, un sistema ancora in costruzione. In questa sistemazione ancora provvisoria appaiono quelli che lui definisce “tre ingredienti ... connessi in un modo strutturale” e con un “legame attivo” non univoco, conforme all’impegno di far fruttare creativamente quella struttura circolare sulla quale aveva insistito negli anni precedenti. Si tratta di un sistema nel quale sono in vigore dipendenze reciproche e non unidirezionali, e sul quale possiamo fare alcune ulteriori considerazioni. I tre ingredienti sarebbero: la base neurobiologica e strutturale indagata dalle scienze della cognizione orientate verso le componenti di hardware del sistema, “la natura dell’esperienza del tempo studiata in condizioni di riduzione”, ovvero con lo stile e i procedimenti della fenomenologia.
Questi due ingredienti primari vengono però mediati dalla presenza di un terzo ingrediente che forse, andando oltre le intenzioni di Varela, potremmo definire grammaticale. Si tratta della possibilità di descrivere sia l’uno che l’altro dei due ingredienti primari ricorrendo a un formalismo capace di reinterpretare due linguaggi eterogenei nei termini di un terzo linguaggio, che deriva dalla tradizione teorica dei sistemi dinamici non lineari. In altre parole, entrambe le componenti primarie possono “parlarsi”, rispecchiarsi reciprocamente ricorrendo a una sorta di metalinguaggio formale comune. È quello che Varela tenta di fare in particolare proponendo due excursus molto tecnici, inseriti nel corso del suo confronto con Husserl (Varela, in corso di stampa).
La componente rappresentata dal linguaggio della teoria dei flussi non lineari dovrebbe funzionare come un sistema di regole per stabilire una corrispondenza reciproca e un terreno comune tra le esperienze coscienti e le dinamiche neurali (incoscienti) che insieme presiedono, o insistono o concorrono, alla produzione dell’esperienza del tempo che ci caratterizza come esseri viventi umani. Questa componente ha insomma il ruolo di un sistema di regole di traduzione e di mediazione, un valore di posizione simile a quello che riveste la teoria dello schematismo nell’architettura della Critica della ragion pura kantiana. Non sono sicuro che questa interpretazione corrisponda al pensiero di Varela e alle sue intenzioni. In ogni caso, come in tutte le analogie, si tratta di una corrispondenza imprecisa, e tuttavia mi pare una strada interessante per cercare di capire il programma di ricerca neurofenomenologico.
Si tratta ora di vedere se, e come, il lessico concettuale di Husserl e quello di Varela possano corrispondersi e tradursi reciprocamente, originando una nuova e più ricca comprensione del punto chiave del tempo: la newness.


Coda di cometa e campo temporale


Perché il nucleo essenziale del tempo è il presente? Solo il presente risponde al progetto fenomenologico di partire “dalle cose stesse”, perché è l’unico tempo realmente vissuto. Husserl si accanisce, con un continuo ossessivo insistere, nell’analisi del presente. E la prima constatazione, che gli deriva dall’esame critico della teoria di Brentano, è che il presente non è un punto, ma contiene tempo. La percezione dell’ora è a sua volta temporalmente estesa: primo punto chiave. Husserl cerca per anni di comprendere lo statuto fenomenologico di questa stranezza, un presente che si dilata in un alone intorno a sé, per la precisione in un alone di passato prossimo, immediato, perché il presente con la sua coda di cometa di immediatamente-passato è, davvero, tutto ciò che ci è dato, tutto e solo ciò che possiamo definire phainòmenon.
Ciò che ci è dato è il primario, l’aspetto immediato del reale, l’“originalmente offerente” al quale la fenomenologia vuole arrivare. E tuttavia ci si arriva, al dato, il dato non è un inizio ma un punto finale, come ha intuito Gadamer: solo gli atti intenzionali possono procurare la Selbstgebung dell’evidenza intuitiva “che costituisce l’essenza della fenomenologia”. Le cose stesse non sono oggetti trascendenti ma “ciò che è intenzionato in quanto tale”, nota Gadamer. Sono ciò che è “esperito nel riempimento di atti intenzionali”. I fenomeni autoofferenti possono essere dischiusi quindi solo attraverso l’autoanalisi dell’atto di coscienza, perché, come ammette lo stesso Husserl, il reale è qualcosa che per principio è soltanto intenzionale (Gadamer, 1994, pp. 32 e 40).
Ora, ciò a cui il processo di riduzione fenomenologica arriva, è un “atto”. Precisamente, il sentire. Noi “sentiamo” il tempo. Prima di misurarlo come uno scorrere, prima dell’oggettivazione, sentiamo il tempo su di noi, dentro di noi, nel corpo. Il tempo è embodied, ripeterà Varela.
“Quello che ci interessa sono i vissuti”, dichiara con forza Husserl (1981, p. 48) all’inizio delle sue Lezioni. L’obiettivazione, la scienza, il calcolo vengono dopo. Il tempo lo si sente, prima di tutto, in se stessi. Quanto più lo sguardo fenomenologico si sforza di essere aderente, vicino alla cosa stessa come e in quanto appare, di scartare ogni trascendenza, tanto più vicino si troverà a questo nucleo incarnato. Il tempo è così davvero “in carne e ossa” presso di noi. Il tempo è apparire, non pura superficie da scartare per arrivare al nucleo invisibile. Ciò che è primario sono così i dati fenomenologici, le “apprensioni di tempo” e “quei momenti del vissuto che fondano l’appercezione del tempo come tale” (ivi, p. 45). Perciò questo atteggiamento non rivela nulla del tempo “là fuori”, ma “la coscienza del tempo”. I dati sono, inevitabilmente, dati di coscienza.
Tutto dunque comincia con l’“ora”. Il proposito di Husserl appare quello di braccare questo “ora”, di sostanziarlo, di dilatarlo, sottraendolo al suo carattere puntiforme, matematico, evanescente. L’“ora” deve potersi dilatare in un’area, in un continuum, deve avere intorno a sé un alone che gli impedisca di fuggire. Deve passare dalla dimensione zero del punto a una dimensione due: gli schemi grafici di Husserl cercano palesemente questa dimensionalità dell’“ora”. È l’area del triangolo che si ripete nei vari tentativi, a volte solcata da diagonali, da intersezioni trasversali per rendere graficamente questo spessore. Si tratta di ritrarre un presente che agguanta e trattiene con sé frazioni di passato, di un punto che si dilata in aree, che acquista una dinamica. Per esempio schemi come un triangolo, il più elementare (ivi, p. 66).
In tal modo il centro della riflessione si sposta inevitabilmente sulla ritenzione, il fenomeno o l’atto di coscienza che procede dal punto inesteso all’area estesa, alla coda di cometa appunto.
La ritenzione può essere definita la capacità di conservare, come una parte del presente stesso, anche una frazione del recente “appena trascorso”, di non lasciar precipitare il passato ma di aggregarlo all’ora, di modo che il nucleo di presente che appare si faccia più denso: segmento, area, non punto. Il punto allora “si adombra come un ‘ora’ nel senso della ritenzione” e ogni ritenzione non cade nel flusso, non sparisce a sua volta ma “reca in sé, nella forma di una serie di adombramenti [Abschattungen], il retaggio del passato”. In tal modo l’apprensione di “ora” è “come il nucleo di una coda di cometa di ritenzioni, rispetto ai precedenti punti ‘ora’ del movimento” (ivi, pp. 65-66).
Il presente acquista uno spessore. C’è un passato breve (che Varela misurerà, a cui attribuirà una durata reale, fisiologica, nella dinamica neurale) che riverbera sull’“ora”, un passato presente, che è ancora qui. “Un ‘ora’ è sempre ed essenzialmente un punto marginale di un tratto temporale.” E ancora: “noi abbiamo il punto-fonte originario, e una continuità di momenti di risonanza. Per tutto questo ci mancano i nomi” (ivi, pp. 99 e 102, corsivo mio).
Questo fenomeno sfugge alla nominazione: si potrebbe fare un elenco delle immagini verbali disseminate per tutta la sua lunga riflessione: così abbiamo il “percepire durativo” (ivi, p. 189) e l’“alone temporale” (ibidem) o il “campo temporale”, o anche un “digradare” dell’“ora” verso il passato (ivi, p. 225) o la “risonanza” (ivi, p. 319). Si tratta comunque di una “persistenza” (ivi, p. 267) o di una “espansione nel tempo” (ivi, p. 315). Questa stessa reiterazione delle immagini verbali mostra però chiaramente che quanto più Husserl intende braccare da vicino questo nucleo denso del tempo-ora, tanto più gli si presenta una serie di paradossi e di difficoltà.
Il cammino rigoroso dell’osservazione porterà Husserl a scoprire almeno tre grandi paradossi o meglio antinomie che si implicano e si appartengono reciprocamente. Il primo è appunto quello della presenza di differenti tempi nell’“ora” della ritenzione. Il secondo si presenta come antinomia tra la stabilità e la persistenza dell’oggetto percepito nel tempo, e la presenza di un “flusso” nel quale l’oggetto percepito pare scomparire, passare.
La terza e più importante delle antinomie appare connessa al problema dello statuto della coscienza del tempo: essa deve essere insieme precedente alla percezione, all’atto percettivo, e insieme auto-costituita nell’insieme degli atti.


L’antinomia tra stabilità e flusso


Husserl continua a essere affascinato da due főgure, due immagini mentali complementari che rivelano almeno due tonalità della sua riflessione: la prima è quella della coda di cometa, immagine longitudinale, che rende prevalentemente l’idea del flusso; la seconda è più simile a quella di James, una figura centro-bordi, dove prevale la dimensione trasversale, un’area dotata di una periferia digradante dove è accentuata la dimensione di spessore, di densità. La figura del triangolo poi pare essere un sorta di raffigurazione capace di comprendere entrambe le tonalità, che ritornano nella schematizzazione tormentata della “doppia intenzionalità”.
In questo “ora” esteso, avranno una paradossale forma di presenza, dunque, anche i momenti di passato recente, che si affollano nel presente dell’“ora” come un’area dotata di una struttura digradante (dimensione trasversale), oppure, a partire da un “adesso”, digradano in un “prima” (ivi, p. 332). E tuttavia l’oggetto temporale, il fenomeno, ha una sua stabilità nel tempo, nel momento stesso in cui il suo “posto temporale” cambia spostandosi verso il passato. C’è, osserva Husserl, un “tempo che non fluisce”, in seno allo stesso scorrere del flusso. “Questo è il problema”, scrive Husserl. L’oggetto temporale (oggetto non trascendente, esterno, ma semplicemente fenomenico, fatto dunque di quella stessa stoffa o materia che forma il tessuto dei nostri “atti” percettivi) ci sfugge nella sua costituzione. Scorre e permane. Passa, “si ispessisce e si oscura” scivolando indietro nel tempo, e insieme è stabile e unitario. La prima e la seconda immagine (lo spessore dei differenti “ora” che si affollano nel presente, e la co-appartenenza di flusso e stabilità) sono due facce dello stesso problema, ci presentano una forma che non ha nome, che ha nomi differenti, opposti. Non è istante, non è flusso. Una persistenza fatta di flussi, un flusso che non scompare. Un ferro di legno appunto, uno strano oggetto prodotto dalla coscienza fin troppo desta del filosofo rigoroso, su cui si accalcano nel corso degli anni, dei decenni, le immagini, gli schemi esplicativi.
La spiegazione della doppia intenzionalità è il tentativo di rendere in forma concettuale le due immagini mentali e linguistiche (la coda di cometa e l’area dotata di fringes temporali digradanti) e le due direzioni vagamente ortogonali presenti nella figura geometrica del triangolo. Quella longitudinale corrisponderebbe al lato orizzontale del triangolo che Husserl disegna e ridisegna in varie versioni, e che entra a sua volta in risonanza con la figura della coda di cometa della ritenzione. Quella trasversale sembra espressa sia dal lato verticale del triangolo (sprofondamento e affollamento di tutti i precedenti “ora” nella densità: dell’“ora” vissuto) sia dal lato diagonale che pare piuttosto esprimerne la dinamica che porta i precedenti “ora” a depositarsi sul presente:

Orizzontale: la direzione del flusso, la coda di cometa: A;

A x


Verticale: l’affollamento dei differenti “ora” su ogni presente “x”;

x







Diagonale: i passati dei punti A-x che nella ritenzione si depositano tutti in x.

A x








Avremmo così un sistema di corrispondenze:

– A: temporalità longitudinale del flusso di coscienza = lato orizzontale del triangolo, coda di cometa;
– B: temporalità trasversale = lati verticale e diagonale del triangolo, figura dell’area dotata di centro e periferia, temporal fringes.


Il paradosso della circolarità tra soggettività e tempo

La constatazione dello spessore dell’“ora” non è che la manifestazione iniziale di un più profondo paradosso fenomenologico, quello che mostra, insieme e senza possibilità di soluzione, la compresenza di una coscienza del tempo (il lato costitutivo, capace di ricondurre tutti i fenomeni del divenire a una comprensione unitaria) e di una coscienza nel tempo (ovvero una coscienza, una figura di soggettività che si forma attraverso gli atti percettivi del vissuto, che non preesiste a questi). Auto-costituzione, Selbat-gebung, è il “costituente” e il costituito, dice Husserl. Tempo che si dona, apertura del soggetto che si dà al tempo. Affect, dirà Varela. Ma chi vive questo tempo? Rispetto a che cosa o a chi il tempo può essere insieme unità e flusso? Per Aristotele, e poi per Agostino, era l’anima a vivere o a misurare il tempo, ma per Husserl le cose non sono così semplici, non si può presumere nessuna entità al di là dei dati di coscienza, come si è visto. Dunque, chi siamo noi che viviamo questa duplice condizione del tempo?
Noi siamo fatti di tempo, questa pare la direzione complessiva della riflessione di Husserl. Il noi che vive il flusso è lo stesso flusso, come il fuoco di Borges: mi divora ma io sono il fuoco. Tuttavia il pensiero filosofico ha vincoli maggiori dell’espressione poetica, e la necessità di andare in fondo nell’analisi dell’antinomia si traduce in un processo faticoso e incompiuto.
Pare che Husserl oscilli continuamente tra la seduzione di un’idea radicale e un continuo arresto in una situazione di compromesso. Una oscillazione tra l’irrigidimento nel postulato della “coscienza assoluta” (ivi, p. 101) e l’affermazione destabilizzante ma feconda di un’autocostituzione del flusso che si sdoppia e si presenta a se stesso in una duplice veste: ora come soggetto che osserva, ora come serie temporale dei vissuti.
La formula dell’auto-costituzione appare tuttavia l’unica veramente coerente con le premesse del pensiero fenomenologico. Se gli unici dati indubitabili sono i fenomeni della cogitatio, atto di osservare e oggetto osservato condividono la stessa condizione di fenomeni, per il fatto che “il tempo che appare” può essere tale solo come “tempo immanente al flusso di coscienza”, come abbiamo ricordato sopra. L’atto è il prodotto di una coscienza che dà forma come elemento cavo, accogliente, “per affezione”.
Questo ragionamento fondamentale, ripetuto nei successivi appunti degli anni 1905-11 (Husserl, 1981, pp. 80 e 354), ha un’implicazione sovversiva: non c’è nulla che preceda gli “atti”, gli atti sono il flusso, e il flusso è insieme l’attività di percepire e di ritenere l’“ora”, e l’oggetto percepito. Né la coscienza né l’oggetto possono precedere, il flusso di coscienza è insieme coscienza (atto) e oggetti temporali. Ecco la figura dell’auto-costituzione.
La soluzione fenomenologica alla domanda su chi o che cosa costituisce la sede, l’alveo che insieme riceve e raccoglie in unità la successione delle sensazioni non può essere che una: il flusso di coscienza non ha precedenti, appare a se stesso, in una strana forma in cui, appunto, “costituente e costituito coincidono”, anche se possono assumere figure differenti e complementari.
Per comprendere questo ragionamento, credo, è necessario ricordare la definizione di fenomeno che appare in questi testi. Fenomeno è sia l’atto che il suo oggetto, sia la coscienza che il suo contenuto di vissuto. La parola “fenomeno” ha un “doppio senso”, riguarda l’atto della cogitatio, e dunque “la coscienza effettiva”, e anche il suo contenuto intenzionale (ivi, p. 330). In altre parole, non c’è una coscienza prima dei fenomeni, eppure la coscienza, che è flusso, non sprofonda nel flusso, altrimenti non ci sarebbe unità e non ci sarebbe nemmeno tempo ma solo successione di istanti non collegati.
Resta, però, accanto a questa risoluzione radicale sempre una certa ambiguità, la tendenza a prospettare una più tradizionale immagine della coscienza che “precede” gli atti. Se alla base del mutamento deve esserci una capacità di unificazione, “ciò rimanda a forme essenziali della coscienza di un individuo” (ivi, pp. 112-113). Si tratta di un’espressione molto simile a quella che troviamo in Idee (Husserl, 1966, p. 182) dove si parla di una “forma” stabile che “riceve sempre un contenuto nuovo”.
E comunque la coscienza, se è primaria, non può essere che vuota o, come scrive Husserl, “impressionale” (Husserl, 1981, p. 115), come una coscienza senza atto o senza oggetto. Insomma, pare che la coscienza, in questa situazione, possa essere precedente solo se non contiene nulla e non è nulla, se aspetta che il flusso, sollecitato in occasione della sensazione, produca il tempo e produca lo stesso movimento che le permetterà, a sua volta, di produrre il tempo. Si affaccia continuamente l’ombra di una ricorsione, di una circolarità, che contrasta con ogni proposito di fondazione, di primarietà, di ancoraggio. Prima di esercitare la sensazione, la coscienza non è nulla, eppure ci deve essere...
Questa coscienza impressionale è una specie di recipiente virtuale che paga la sua precedenza con la sua vuotezza (e su di essa ben poco si può dire se vogliamo restare nell’ambito dei fenomeni senza addentrarci in speculazioni proibite come entità metafisiche, a priori, misteriose caratteristiche dell’animo umano e così via).


La teoria della doppia intenzionalità

Riassume questa oscillazione. È il tentativo di sistematizzare questa messe di osservazioni e questa scoperta, in modo da render conto della continua ricorrenza di immagini di raddoppiamento e di coesistenza che percorrono tutto il testo di Husserl sul tempo: permanenza e flusso, ora e passato recente, e soprattutto priorità e auto-costituzione, precedenza e circolarità: dunque coda di cometa e area dotata di centro e bordi, lato orizzontale del triangolo e lati diagonale e verticale...
D’altra parte il campo dei riferimenti di questa teoria è a sua volta non perfettamente univoco: ora essa si riferisce al “flusso di coscienza”, alla “coscienza interna”, ora si tratta di una “doppia continuità dei modi di decorso”, ora invece pare riferita alle due differenti dinamiche temporali della ritenzione e della rimemorazione. L’aspetto più evidente è che entrambe le possibilità dello sguardo intenzionale sembrano appunto essere elementi irriducibili di un sentire che è in grado di scindersi in due differenti attività: una che segue il flusso, l’altra che presentifica il campo temporale in una sorta di unità sincronica. La formulazione più chiara mi pare essere quella di un testo integrativo che risale al periodo immediatamente successivo alle Lezioni (Husserl, “Appendice viii”, in Husserl, 1981, p. 141): “Nella corrente di coscienza abbiamo una doppia intenzionalità. O noi consideriamo il contenuto del flusso con la sua forma di flusso, e allora consideriamo la serie dei vissuti originari ... oppure dirigiamo lo sguardo sulla unità intenzionale, su ciò di cui ... si ha coscienza come qualcosa di unitario. E allora lì per noi ... c’è un’oggettività, il vero e proprio campo temporale, di contro al campo temporale della corrente del vissuto”. Quindi, prosegue Husserl, rispetto a questo secondo sguardo trasversale “la corrente dei vissuti ... è anch’essa un’unità identificabile mediante retrospezione memorativa diretta su ciò che fluisce”.
In tutte le numerose versioni della teoria emerge comunque la duplice capacità della coscienza di percorrere il flusso, o di staccarsi riflessivamente dal flusso considerandone l’aspetto unitario, di essere insomma alternativamente parte del flusso ed esterna a esso (“o... o”). È un ruolo simile a quello rivestito dal linguaggio, che, nelle ipotesi di Maturana, possiede il doppio carattere di ambiente interattivo e di strumento di riflessione sulle nostre azioni (Winograd, Flores, 1987; Maturana, 1993).
Tuttavia è al secondo carattere dell’intenzionalità che spetta il titolo vero e proprio di coscienza. Solo la seconda modalità intenzionale “si costituisce come forma della coscienza costitutiva del tempo” (ivi, p. 365), solo l’intenzionalità trasversale possiede il potere di staccarsi dal flusso e di guardarlo “tutto intero”. Solo in questa “noi dirigiamo lo sguardo”. Solo in questa situazione si può presentare il paradosso di una coscienza che si stacca riflessivamente da sé per guardare i propri vissuti, che quindi può apparire a se stessa, appunto “auto-apparizione del flusso”. Anche se, nel fare questo, altro non è che, ancora e sempre, flusso: fenomeno che guarda il fenomeno che essa stessa è.
L’intenzionalità trasversale è pericolosa: essa porta irresistibilmente a pensare a un a priori, a una forma di precedenza, a ciò che Husserl chiama appunto “coscienza ultima”. Con la conseguenza di un ultimo e più straordinario paradosso.
Si è detto spesso che il grado delle difficoltà nelle quali un filosofo si imbatte, e alle quali soccombe, sono anche una misura della sua grandezza, e questo pare il caso di Husserl.
Il tentativo di risoluzione delle antinomie si basa sulle molteplici e tormentate versioni della doppia intenzionalità, per approdare infine a quella che pare un’aperta violazione del principio fenomenologico: ci deve essere una coscienza costituente, una coscienza ultima, una forma che appare ambiguamente come precedenza “assoluta” rispetto alla corrente dei vissuti. Certo Husserl finisce con il riaffermare (ma, appunto, si tratta di una sorta di deus ex machina filosofico) che coscienza e apparizione si coappartengono in quanto entrambe hanno la stessa materia, fatta di “atti”, la stessa stoffa costitutiva: sono entrambe “fenomeni”. Ma basta questo a mostrare, al di là di una petizione di principio, che “per strano che possa sembrare il flusso di coscienza costituisce la sua propria unità” (Husserl, 1981, pp. 362-362)?
Husserl pare oscillare fino all’ultimo tra l’affermazione di una precedenza e l’affermazione di un’identità tra coscienza e flusso: disseminate lungo l’arco della sua riflessione più che ventennale troviamo prove di entrambe le posizioni, ma infine ciò che pare prevalere è una posizione che chiamerei vagamente conservatrice. Perché? L’interpretazione di questo atteggiamento, credo, chiama indirettamente in causa proprio Varela e la sua ripresa del tentativo fenomenologico in un tessuto disciplinare e culturale profondamente cambiato.
Proprio il sofferto testo husserliano mostra come l’esercizio radicale ed esemplare del rigore porti a destabilizzare ogni forma di presupposto a priori della coscienza rispetto agli atti. Husserl lo avverte con grande profondità e pare sfiorare più volte l’idea che alla base non ci sia altro che un fenomeno ricorsivo e “infondato” di autogenerazione del senso del tempo. Tuttavia le sue coordinate concettuali e culturali – un po’ come era accaduto a Galileo rispetto alla figura sconvolgente dell’ellisse che affiorava come unica conclusione possibile dall’affermazione radicale del paradigma copernicano – resistono alla conseguenza: l’elisione, l’erosione o la rimozione del paradigma della coscienza che emerge come possibile conseguenza proprio attraverso le maglie strette del suo stesso discorso, nelle fibre più intime di ciò che il flusso del vissuto temporale rivela.
Di fronte alla possibilità radicale di tracciare la figura di un soggetto interamente costituita solo attraverso la ricorsione “senza fondamento” dei propri atti cognitivi, Husserl si arresta e continuamente ritorna su immagini più deboli, su affermazioni più conservatrici, sul bisogno di riaffermare una precedenza dell’io agli atti, accanto alla constatazione della loro identità. Una volta la coscienza è “assoluta”, una volta tempo e coscienza, contenente e contenuto, coincidono.
Il modello della doppia intenzionalità resta uno straordinario tentativo incompiuto ma anche un’intuizione così ricca da poter essere ripresa in termini ben più radicali. Ma come avrebbe potuto Husserl accedere all’idea delle “menti prive di un sé”, che rappresenta appunto la soluzione radicale dei dilemmi del tempo e del soggetto, se, come ha giustamente rilevato tra gli altri Gadamer, il suo fondo restava comunque tenacemente cartesiano?
La soluzione sfiorata, intuita e forse temuta nelle pagine di Husserl sarebbe appunto quella del riconoscimento di una figura del soggetto, del sé e della coscienza che dovrebbe conseguire proprio dall’insolubilità delle antinomie e dall’accettazione dell’infondatezza, dall’accettazione del dato fenomenologico (la cosa stessa) che il flusso di coscienza che costituisce tempo è costituito dal tempo, senza la possibilità di un punto di ancoraggio né in una percezione primitiva, né in una coscienza ultima incosciente, entrambe soluzioni presenti nel testo di Husserl, va precisato, e che non a caso saranno prospettate e scartate proprio nella riflessione di Varela.
Infine, questa indecisione porta a un ultimo e straordinario paradosso: appunto, l’idea di una “coscienza ultima” che, dati i caratteri dell’impostazione stessa della ricerca di Husserl, dovrebbe essere necessariamente non-cosciente: “Infatti, in quanto intenzionalità ultima, essa non può essere oggetto di attenzione ... quindi non può mai ... giungere alla coscienza” (ivi, p. 366).
Nello stesso tempo questa è una figura paradossale (e in quanto tale feconda) della coscienza come possibile affezione pura. Essa dovrebbe precedere ogni suo possibile oggetto come carattere di apertura (apertura al futuro, preciserà Varela), ma proprio perché l’indagine fenomenologica ha mostrato che oggetto e affezione, costituente e costituito, sono una sola e medesima materia, l’oggetto resterà oscuro, non potrà essere osservato da alcuna coscienza. O accettiamo la circolarità e la elaboriamo al di fuori dei presupposti classici della coscienza o ci troviamo, dati questi presupposti, con un ennesimo ferro di legno: la coscienza inconscia. Husserl non è in grado di guardare in faccia fino in fondo alle conseguenze che l’acutezza del suo occhio rigoroso ha fatto balenare.


Nowness

In che modo la ri-traduzione dei concetti husserliani in termini di neurofenomenologia arricchisce la nostra comprensione del tempo? Come abbiamo anticipato, per Varela non si tratta di superare la visione qualitativa del pensiero fenomenologico in una trattazione “rigorosa” secondo i canoni delle scienze della natura, ma di accedere semmai a un tipo di “rigore” conseguente a quello di Husserl, in un campo di indagine differente ma complementare. Il “tempo vissuto” (lived time) è considerato un punto di partenza ineludibile, nel rispetto delle conclusioni dell’analisi fenomenologica, in opposizione alle versioni di computational time che troviamo nelle scienze cognitive attuali.
Invece di pensare all’esperienza come effetto di superficie, prodotto di un livello “sottostante”, Varela cerca di esplorare le conseguenze che deriverebbero dall’assumere come elemento primario proprio la figura fenomenologica del presente esteso: la coda di cometa di Husserl, il nucleo circondato da bordi o fringes di cui parla James. È questo “il vero nucleo di una nuova figura del tempo” (Varela, in corso di stampa, p. 26).
Cercherò ora di discutere brevemente alcuni punti della sua scansione argomentativa.
Il tempo vissuto della tradizione fenomenologica può anche essere rappresentato con le modalità dell’embodiment della neurologia. Si tratta di una dinamica complessa dove sembrano essere presenti due differenti e complementari modalità di embodiment: la prima, che si trova per così dire sul confine tra organismo e ambiente, e che si presenta sotto forma di attività sensomotoria, e la seconda più interna alle dinamiche auto-organizzative dell’organismo stesso. C’è un accoppiamento strutturale (en-actment) tra l’agente vivente e l’ambiente, mediato dagli apparati sensomotori e c’è un’attività autonoma, interna all’agente cognitivo vivente, composta da “configurazioni endogene emergenti” (di patterns auto-organizzati) di attività neuronale. La temporalità risulta quindi essere un processo basato su differenti livelli di dinamica corporea, in pieno contrasto con il modello astratto-computazionale dell’information processing: “da un punto di vista enattivo ogni atto mentale [e dunque anche la percezione del tempo nella nostra esperienza] è caratterizzato dalla partecipazione combinata di differenti regioni del cervello e dalla loro incorporazione sensomotoria. È il complesso compito di mettere in relazione e di integrare queste differenti componenti che sta alla base della temporalità dal punto di vista del neuroscienziato” (Varela, in corso di stampa, parte iii-2, p. 6). C’è insomma quella che potremmo definire una neuro-temporalità, la corrispondente neurale del livello fenomenologico dell’esperienza vissuta e auto-percepita. Il “tempo vissuto” come atto cognitivo cosciente è l’emergenza che corrisponde a un’attività dinamica di sottoinsiemi in cooperazione e competizione, e al rapporto dinamico tra organismo e ambiente.
Se scartiamo l’idea della semplice determinazione del livello fenomenologico da un sottostante livello neurale, dobbiamo approfondire il tema dell’emergenza o della corrispondenza: ciò che noi percepiamo come presente vissuto corrisponde a eventi neurali. La base neurale dell’emergenza percettiva del tempo come presente esteso è costituita secondo l’ipotesi di ricerca neurofenomenologica da una “gerarchia ricorsiva” di tre differenti scale di durata che formano ciò che possiamo chiamare la struttura della neurotemporalità corrispondente alla “temporalità del presente vissuto”.
Il paradosso fenomenologico del presente multiplo può essere spiegato secondo questo schema che prevede la presenza di:

– eventi “basici” in scala 1/10 (durata corrispondente a un tempo che va da 10 a 100 millisecondi);
– eventi che emergono dall’integrazione tra regioni locali di aggregazione di popolazioni di neuroni (scala 1, ordine dei secondi);
– eventi che si definiscono come descriptive-narrative assessments (scala 10, tempo esteso della memoria narrativa).

Il primo livello è quello dei fenomeni “micro-cognitivi” che cadono al di sotto della soglia della coscienza, mentre il secondo corrisponde alla formazione di configurazioni temporanee di neuronal ensembles, ovvero alla formazione instabile o multistabile di sottoinsiemi neuronali dotati di forti connessioni reciproche. È solo a questo livello che emerge ciò che possiamo identificare come “atto cognitivo”, attraverso il collegamento di regioni locali di neuroni sollecitate in corrispondenza con “varie modalità sensoriali che formano associazioni” (ibidem). Al terzo livello infine, oltrepassata la soglia fenomenologica della percezione cosciente, si costituisce l’orizzonte temporale più vasto, linguisticamente accessibile, che corrisponde alla definizione di Dennett di un ego come “centro di gravità narrativo” (Dennett, 1993a; 1993b).
Da questa analisi emerge una ridefinizione della nowness: essa sembra risiedere al secondo livello (“scala 1”): “i processi ... alla scala 1 sono strettamente correlati alla coscienza del tempo presente” (corsivo mio). Questi processi consistono, precisa Varela, in atti di selezione tra sottoinsiemi neuronali che formano aggregati instabili e temporanei tra loro in competizione al di sotto della soglia percettiva (scala 1/10); l’esito di questa selezione si manifesta come “atti cognitivi incomprimibili e completi alla scala 1”.
Ciò che percepiamo come unità è insomma il risultato di un “assemblaggio” che, in occasione delle attività sensomotorie del vivente, seleziona rapidamente tra differenti popolazioni neuronali e produce la scelta sotto forma di “attività coerente di una sottopopolazione di neuroni con allocazioni multiple” (Varela, 1997).
Per i cognitivisti (Jackendoff, 1990) il livello fenomenologico, accessibile alla coscienza introspettiva, dipende dall’esistenza di un sottostante livello computazionale. Per Varela il livello fenomenologico non è successivo o dipendente da un sottostante livello neurale, ma corrisponde a uno dei gradi della “gerarchia ricorsiva” neurale, ovvero quello della formazione degli aggregati in scala 1. Lì è la sede neurale della nowness. È evidente lo sforzo di contrapporre un ordine di corrispondenza a un ordine deterministico in cui livello neurale e livello percettivo non starebbero sullo stesso piano. Come in Husserl, anche qui il problema del tempo ruota intorno al presente esteso: “è in relazione alla ricca struttura della nowness presente che tutti gli altri modi della temporalità prendono forma” (Husserl, 1981, p. 9).
Qui però ci si imbatte, come ho cercata di mostrare sopra, in uno dei caratteri paradossali del presente di Husserl: pare infatti che nell’“ora” si sommino, si sovrappongano, diversi tempi, e in particolare ci sia un passato che ha il singolare statuto della presenza.
Questo “passato che vive nel presente” (present-living past) è per Husserl “un ferro di legno”, ricorda Varela. Certo, il tempo, ripete Merleau-Ponty, “non è una linea ma un reticolo di intenzionalità”. Ma come procedere oltre l’immagine, oltre la metafora linguistica? La soluzione di Varela è quella di schematizzare questo paradossale fenomeno del present-living past per mezzo di un linguaggio formale, quello della dinamica dei fenomeni non lineari. La ritenzione, che rende sovrapposti l’“ora” presente presente e il recente passato in un medesimo “ora”, può essere interpretata per mezzo dello schema di “traiettorie dinamiche” di “oscillatori non lineari”.
Dal punto di vista di questa spiegazione il paradosso della molteplicità dei presenti è analogo al noto fenomeno della multistabilità percettiva, del quale Varela fornisce alcuni esempi. Nell’uno e nell’altro caso ciò che appare a livello fenomenologico è un’incertezza: sull’attribuzione del tempo nel caso di Husserl, sull’attribuzione di forma nel caso dei fenomeni di percezione multistabile. Entrambi i fenomeni possono essere attribuiti precisamente a una dinamica “oscillatoria”. Sia il “passato che vive nel presente” sia il fenomeno della multistabilità derivano da questa architettura neurale di competizione tra sottoinsiemi, che dà origine a un collective variable level. Quando le condizioni e i vincoli iniziali portano a un insieme di traiettorie che si stabilizzano in una ristretta regione dello spazio delle fasi, si crea un attrattore stabile, e l’osservatore ha davanti un percetto stabile nel tempo. Quando invece ciò non accade, si verifica il fenomeno della multistabilità e del rovesciamento istantaneo delle figure percepite. Analogamente nel tempo: il fenomeno della ritenzione che dà origine al present-living past pare risiedere in un’analoga “collaborazione su larga scala di neuroni localizzati in punti differenti” (ibidem). Ci sarebbe insomma, anche nel caso della percezione del presente molteplice, una “sequenza in movimento di elementi in transizione continua in un pattern complesso (ibidem).
La discussione sul presente vissuto come corrispondente fenomenologico di uno stato neurale definito dalla dinamica della multistabilità apre però anche un affascinante punto di vista su altri orizzonti disciplinari, che vorrei qui accennare. Si tratta di una figura della mimesi.
Ci sono due possibili interpretazioni della mimesi. Secondo la più nota, mimesi è l’attività dell’artista e dell’artigiano come riproduzione, rappresentazione riproduttiva “somigliante” alla realtà esterna. Come è noto, questa vulgata risale a Platone (Platone, ed. it. 1975). La seconda può invece essere fatta risalire a uno strato più arcaico dell’evoluzione culturale nel quale la mimesi “si riferiva alla danza e aveva un significato del tutto diverso; significava cioè l’espressione dei sentimenti e la manifestazione delle esperienze attraverso il movimento, il suono e le parole”(Tatarkiewicz, 1979, p. 30, cit. in Pezzella, 1996, p. 93).
Secondo questa interpretazione, la mimesi risale alla tradizione della danza e del rito dionisiaco, e avrebbe il significato di una forma espressiva incarnata nel gesto fisico, una riproduzione della dinamica e dell’essenza del vivente e del cosmo stesso, sotto forma di “gesto espressivo” che coinvolge l’intera corporeità (Pezzella, 1996, p. 94). Avremmo allora una contrapposizione tra lo strato concettuale, astraente e simbolico della rappresentazione, e lo strato più arcaico dell’espressione, che riemerge comunque tuttora in certe manifestazioni della cultura moderna come il teatro e naturalmente la stessa danza, e addirittura nel cinema.
Questa concezione della mimesi appare consonante con l’idea dell’embodiment che abbiamo trovato in Varela. La corporeità del gesto sarebbe una delle possibili espressioni fenomenologiche dell’embodiment, e una potente condensazione espressiva di quel tempo-presente, del quale sia Varela che Husserl braccano da vicino le densità e le articolazioni: il gesto è corpo, corpo espressivo che si muove nel presente del tempo.
Ai due terreni dell’introspezione del vissuto e della dinamica neurale, se ne potrebbe così aggiungere un terzo: quello della gestualità fisica, dei rituali della danza e della mimica, nei quali, non a caso, il livello del controllo della coscienza desta cede il passo a un più profondo livello di en-actment. La manifestazione del gesto mimetico non rappresenta, ma appunto esprime con tutto l’essere corporeo, al di là di ogni controllo intenzionale e di ogni dominio della volontà costruttiva.
Il gesto, e questo è un particolare di estrema importanza, riassume anche nella sua esistenza effimera il presente come tempo di oscillazione, in cui “tutto è ancora indeciso, e la decisione imminente è ancora sospesa. Il gesto che si arresta ... su questa soglia dell’attimo esprime nel modo più profondo l’essenza temporale” (ivi, p. 97).
Si verrebbe così a creare una possibile costellazione di indizi coerenti: il gesto fisico come condensazione embodied del presente temporale, che si basa sul corpo espressivo in contrapposizione all’immagine come prodotto di rappresentazione, esprime la visione del presente come oscillazione tra passato e futuro, corrispondente visibile dell’embodiment sensomotorio e anàlogon espressivo dello stato neurale di multistabilità percettiva.
Nel gesto come nel presente vissuto avremmo due manifestazioni di un tempo che appare: il presente vissuto del tempo interiore avrebbe una corrispondenza nel presente espressivo del corpo che si muove nel gesto. Entrambi implicano ed esprimono “ciò che attualmente è visibile e ciò che non lo è ma potrebbe esserlo” (ivi, p. 99).
La mimesi gestuale può essere interpretata, in questa ipotesi, come un’ulteriore prova della conoscenza come atto incorpato, en-actment tra organismo e ambiente. Ma il gesto è anche tempo, tempo condensato nell’attimo espressivo, tempo denso, area di intensità in bilico tra le possibili evoluzioni del presente, così come il percetto multistabile sta sul crinale incerto tra possibili e differenti configurazioni.
L’altro grande paradosso che troviamo in Husserl, come abbiamo visto, è quello della circolarità tra coscienza e tempo: il tempo deve esistere in me come a priori che rende possibile allineare i fenomeni, ordinarli rispetto a un punto di stabilità e insieme auto-manifestarsi, rispettando la convinzione fenomenologica di un “offrirsi” delle cose stesse. Il che porta alla figura di una coscienza che insieme dovrebbe precedere il tempo e la sua percezione, e conseguirne. Il tempo, per esistere, deve essere già in me, e insieme auto-prodursi, ripeteva Merleau-Ponty.
Varela rappresenta questa situazione con le parole di Brough: “Se la mia consapevolezza [awareness] interna fosse incollata alle mie esperienze volatili [fleeting] il passaggio del tempo farebbe a pezzi il mio ego” (cit. in Varela, in corso di stampa, p. 22).
E d’altra parte come evitare di reificare nuovamente l’entità che misura il tempo (anima o ego o spirito)? Dal punto di vista di Varela, si tratta di dare una rappresentazione o un “resoconto” della soggettività che sia compatibile non solo con l’intenzione fenomenologica ma anche con l’analisi neurologica. Di tracciare, con questi tratti complementari, una figura del soggetto capace di percepire il molteplice senza annullarsi nella successione istante per istante, e senza darsi per scontato come a priori, ponendosi come un diaframma impuro rispetto alle cose stesse, ai phainòmena.
La discussione su questo punto porta a una nuova versione del tormentato tema husserliano della doppia intenzionalità. Si tratta di una reinterpretazione di ciò che Husserl chiama auto-presentazione del tempo (Selbst-erscheinung). Questo tempo, che come abbiamo visto “si dà” da se stesso e insieme presuppone una coscienza che in qualche modo sia pronta ad accoglierlo, dovrebbe avere un corrispettivo neurale tratteggiato come segue.
Alla base c’è uno stato di “cambiamento permanente punteggiato da aggregati temporanei che sottostanno a un atto (cognitivo)” definito, secondo la scala di Varela, al livello 1 (vedi sopra). Il tempo come fenomeno primario, auto-manifestazione, può essere descritto come una dinamica di continua auto-organizzazione temporanea di collettivi neurali, un flusso costituito da traiettorie locali che corrispondono a un oggetto o evento temporale, a un’“apparenza” insomma.
Ciò che chiamiamo il nostro sé, o la coscienza ordinante il tempo, non sarebbe altro che un’attività ricorsiva di ritenzione, un continuo guardare indietro (background) nel quale appaiono oggetti ed eventi distinti dotati di una propria durata, anche se non esiste qualcosa come una coscienza prima o separata dagli atti intenzionali grazie ai quali appaiono oggetti. Questi stessi atti intenzionali circolarmente implicati nella coscienza interna del tempo e prodotti dal tempo come Selbstgebung sono corrispondenti ai fenomeni di ricorsione, ed entrambi possono essere descritti nel linguaggio formale delle traiettorie dinamiche non lineari.
Questo ritratto anche in Varela risulta comunque assai difficoltoso. Ciò che pare di poter dire nel complesso è che ne emerge una figura della soggettività non sostanziale (un ritratto che per alcuni aspetti somiglia a quello tracciato da un cognitivista come Dennett nella sua polemica con la figura tradizionale della coscienza come “teatro cartesiano”). Ne emerge una figura differente, nella quale tende infine a prevalere il carattere cavo, accogliente dell’affezione.
L’affezione ha un carattere duplice: è affezione di sé da parte di se stesso – il carattere fondamentale del tempo come senso interno, che risale a Kant (Chiereghin, 1998) – e insieme affezione come capacità del sé di essere affetto da parte di oggetti/eventi. Potremmo allora riassumere così.
Una coscienza fenomenologica esente dalle pretese fondazionali o dall’a priori classico può essere intesa come emergenza percettiva corrispondente a un’attività ricorsiva di sottoinsiemi neurali in aggregazione instabile.
La dinamica neurale, corporea, corrispondente al livello percettivo consiste in un’attività di aggregazione continua, temporanea e instabile di sottoinsiemi neurali, grazie alla quale si costituisce percettivamente ciò che chiamiamo, nel linguaggio fenomenologico, oggetto temporale.
D’altra parte la coscienza, costituita dalle sue stesse attività ricorsive, benché non sostanziale ha la capacità di “scindersi” ovvero di intendere come atti distinti la sua valutazione dei singoli atti/oggetti intenzionali, e la valutazione di se stessa (di distinguere insomma l’attività di ritenzione, rimemorazione e background dai singoli contenuti intenzionali). È ciò su cui Husserl insiste con la distinzione tra intenzionalità “longitudinale” e “trasversale”.
Grazie a questa doppiezza, ognuno degli atti, benché non sia distinguibile da una sostanza sottostante (che non c’è, essendo la coscienza niente altro che l’insieme delle attività intenzionali ricorsivamente strutturate) può “scivolare via’ (slide off: l’espressione è ripresa da Brough) senza portarsi dietro, nel precipitare di ogni istante del tempo verso il passato, l’intero sé.
A questo punto l’argomentazione può tornare al suo inizio: che cos’è dunque l’esperienza della nowness? Da un punto di vista neuro-fenomenologico essa è una struttura complessa in cui compaiono principalmente:

– una dinamica di flussi e instabilità (aggregazioni neurali temporanee);
– la presenza di una attività ricorsiva che costituirebbe la coscienza del tempo eludendo le pretese delle varie versioni tradizionali della soggettività;
– una figura del presente dotata di aree e spessori (coda di cometa, centro/bordi).

A questa figura molteplice, che è insieme figura del soggetto e dell’atto intenzionale, dovrebbero concorrere i tre “ingredienti” citati sopra: l’aspetto fenomenologico, quello neurale e il punto di reciproca traduzione, che come ho cercato di mostrare opera in qualità di linguaggio formale capace di render conto di entrambi gli aspetti precedenti.
Ora però possiamo farci una domanda: la reinterpretazione del quadro fenomenologico in termini di dinamica neurale ci fa fare qualche passo avanti nella comprensione del tempo vissuto, o si limita a riconfermare che, effettivamente, l’intuizione qualitativa del pensiero filosofico “rigoroso” può essere tradotta senza perdite nel linguaggio delle scienze della cognizione più avanzate (il che sarebbe già comunque un notevole risultato)? E soprattutto, la rilettura di Varela risolve i paradossi con i quali Husserl si misurava?
Non ho una risposta netta in proposito. Mi pare però che la risoluzione dei paradossi del tempo vissuto, nella versione di Varela, non consista in un’uscita logica o in una spiegazione aderente ai dati dell’apparenza, come in Husserl, ma piuttosto in un tentativo di “naturalizzazione”, consistente nella spiegazione di ciò che avvertiamo a livello cosciente per mezzo di una costruzione, appunto, in termini di funzionamento del sistema nervoso. In questo caso effettivamente i rischi del determinismo non sembrano evitati. C’è però un livello più interessante, a mio avviso, che riguarda soprattutto il paradosso della circolarità tra tempo e soggetto. La purezza radicale del movimento di sospensione delle certezze che Husserl mette in atto si trasforma in Varela in un esito quasi mistico che porta al riconoscimento dell’infondatezza come punto sorgivo di una liberazione del pensiero dalle schiavitù del sé (Varela, Thompson e Rosch, 1992, p. 132 ss.).
Che cosa accade quando l’atto fenomenologico della sospensione diventa così radicale da purificare la percezione da ogni residuo di “credenza nascosta” e ingiustificata? Che cosa accade insomma quando la filosofia diventa (se mai ciò sia possibile e non illusorio) davvero “scienza rigorosa” delle apparenze? Ciò che si scopre, sotto forma di affezione, è una sorta di vuoto creativo: lo stesso sé scompare, si rivela non necessario. Quando l’ego si ritira completamente, nota Wittgenstein, in un “punto inesteso”, fa spazio al mondo, e il solipsismo si trasforma in realismo.
Non c’è newness senza affect. Il tempo della newness giunge in virtù dell’opera singolare e paradossale dell’affect. A sua volta questa condizione, sembra, è l’esito di una lunga e faticosa costruzione dell’attenzione, che nel gergo fenomenologico prende il nome di esercizio dell’intenzionalità produttrice di epochè. Lo stesso statuto dell’intenzionalità è infatti paradossale: occorre molta fatica e molta attenzione per arrivare a sgombrare l’animo che osserva da tutti gli schermi delle credenze, insiste Husserl. E, alla fine di questo percorso, dovrebbe balenare alla comprensione la natura qualitativa del tempo puro dell’“ora”: tempo che si produce quando, insieme, si è affetti dal sé e dall’altro, prossimi alle cose nella loro purezza presentativa e presenti in ascolto del proprio sé.
L’ideale della nowness è il tempo pieno del senso, il tempo come presente completo. Però il coglimento della ricchezza del reale non può essere un’ingenuità iniziale, ma viene solo alla fine del percorso radicale dell’epochè, così come la rivelazione che libera la mente dai fantasmi del soggetto e della sostanza avviene alla fine dell’attività di meditazione.
Ho già ricordato l’osservazione di Gadamer a questo proposito: è solo la radicalità dell’atto intenzionale che produce l’epochè, e che può portare alla rivelazione della Selbstgebung intuitiva che costituisce l’essenza della fenomenologia. Pare tuttavia che quanto più rigoroso è l’atto intenzionale, tanto più radicale alla fine, almeno in Varela, dovrà essere l’elisione del soggetto.
In un modo assolutamente inaspettato rispetto all’eredità ufficiale di Husserl, il percorso fenomenologico nella versione di Varela ci porta dunque alla possibilità di liberazione dal soggetto stesso a favore di una nuova entità che, come Husserl aveva già chiaramente visto, ha la stessa stoffa delle apparenze che percepisce. La coscienza non precede gli atti, ma è essa stessa atto – atto ricorsivo di cognizione incorpata, che genera tempo e ne è generata. Il paradosso scompare quando il soggetto e il tempo possono essere entrambi visti come aggregazioni, emergenze corrispondenti a una dinamica di sottoinsiemi neurali, senza alcun bisogno dell’eredità della coscienza. Affezione è per questo una parola chiave nel programma neurofenomenologico. Un’osservazione di Varela colpisce perché rivela appunto la medesimezza di soggetto e tempo, entrambi basati sull’affezione: “Noi siamo alla ricerca di una sintesi non dualistica, dove l’affezione [affect] è anche costitutiva del sé, e il tempo stesso contiene una radicale apertura o un carattere inaspettato riguardo al suo accadere” (Varela, Thompson e Rosch, 1992, p. 24).
Il significato dell’essere-affetto, alla luce di queste considerazioni, è quello di una attesa creativa volta al futuro, come la protenzione di Husserl. Ma solo l’esercizio radicale di una sospensione che alla fine include anche la stessa soggettività può portare ad accogliere il tempo che appare, “nella verità e nei confini del suo apparire”, in virtù di una sospensione che è opera della stessa coscienza. In Varela, si direbbe, l’accentuazione della protenzione è, al contempo, celebrazione di ciò che Husserl chiamava sintesi passiva: un’accettazione della datità come ciò che viene nel tempo.
Husserl offre al programma neurofenomenologico due grandi eredità, quella dell’esercizio dello sguardo rigoroso sulle apparenze, e quella della possibile riformulazione della stessa soggettività, attraverso la meditazione sul tempo. È questo secondo elemento, a mio parere, il più radicale e vicino alla ricerca dell’ultimo Varela. Devo pensare che al fondo della fascinazione che Husserl esercitava su di lui ci sia questa suggestione, che è propria del suo personale percorso di ricerca.


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1 Pubblicato su Pluriverso, 4, 2001, pp. 99-117.

2 Fulvio Carmagnola, filosofo, consulente e formatore, è docente presso la facoltà di Architettura del Politecnico di Milano.

 

 

 

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