William Shakespeare

 

CORIOLANO

 

 

 

PERSONAGGI

 

CAIO MARZIO, più tardi CAIO MARZIO CORIOLANO, patrizio romano

TITO LARZIO, COMINO: generali contro i Volsci

MENENIO AGRIPPA, amico di Coriolano

SICINIO VELUTO, GIUNIO BRUTO: tribuni della plebe

Il piccolo MARZIO, figlio di Coriolano

Un Araldo romano

TULLO AUFIDIO, generale dei Volsci

Luogotenente di Aufidio

Cospiratori con Aufidio

NICANORE, Romano al servizio dei Volsci

ADRIANO, Volsco

Un Cittadino di Anzio

Due Guardie volsce

VOLUMNIA madre di Coriolano

VlRGILIA, moglie di Coriolano

VALERIA, amica di Virgilia

Dama di compagnia di Virgilia

Romani, Volsci, Senatori, Patrizi, Edili, Littori, Soldati, Cittadini, Messaggeri, Servitori di Aufidio, e altri

 

 

Scena: Parte a Roma e nelle vicinanze; parte a Corioli e nelle vicinanze; parte ad Anzio

 

 

 

ATTO PRIMO

 

SCENA PRIMA - Roma. Una via

(Entra un gruppo di Cittadini rivoltosi con mazze, bastoni e altre armi)

 

PRIMO CITTADINO: Prima di andate più oltre, uditemi.

TUTTI: Parla, parla.

PRIMO CITTADINO: Siete tutti risoluti a morire piuttosto che a patire la fame?

TUTTI: Risoluti, risoluti.

PRIMO CITTADINO: E prima di tutto sapete che Caio Marzio è il principale nemico della plebe?

TUTTI: Lo sappiamo, lo sappiamo.

PRIMO CITTADINO: Uccidiamolo e avremo il grano al prezzo nostro. E' un verdetto?

TUTTI: Non se ne parli più: che sia fatto: via, via.

SECONDO CITTADINO: Una parola, buoni cittadini.

PRIMO CITTADINO: Noi siamo stimati poveri cittadini: buoni, i patrizi.

Quel di più di cui i reggitori si rimpinzano, sarebbe di sollievo per noi; se essi ci cedessero solo il superfluo, mentre non è ancora avariato, potremmo credere che ci aiutassero per umanità; ma essi ritengono che noi siamo troppo cari: la magrezza che ci affligge, lo spettacolo della nostra miseria, è come un inventario che mette in rilievo la loro abbondanza; le nostre sofferenze sono un guadagno per loro. Vendichiamoci di questo con le nostre forche prima di diventar secchi come rastrelli: perché gli dèi sanno che io parlo per fame di pane, non per sete di vendetta.

SECONDO CITTADINO: E vorreste voi prendervela specialmente contro Caio Marzio?

TUTTI: Contro di lui prima di tutti: egli è un vero cane per il popolo.

SECONDO CITTADINO: Non pensate ai servigi che ha reso al suo paese?

PRIMO CITTADINO: Certo, e saremmo disposti a dargliene merito, se egli non si ripagasse da sé coll'esser orgoglioso.

SECONDO CITTADINO: Via, non parlare con malizia.

PRIMO CITTADINO: Io ti dico che quanto ha compiuto gloriosamente, l'ha fatto con questo scopo; benché uomini di facile coscienza siano pronti ad affermare che l'ha fatto per il suo paese, egli lo fece parte per compiacere sua madre, e parte per esserne orgoglioso; il che egli è nella misura stessa del suo coraggio.

SECONDO CITTADINO: Quel che non ha potuto evitare nella sua natura, lo considerate come colpa in lui: ma non avete a dire in alcun modo che egli sia cupido.

PRIMO CITTADINO: Se non devo dirlo, non per questo mi troverò a corto di accuse: egli ha difetti, e molti più di quanti ne occorrano per stancare chi li enumera. (Grida dal di dentro) Che grida son queste?

l'altra parte della città si è sollevata: che stiamo qui cianciando?... al Campidoglio!

TUTTI: Andiamo, andiamo.

PRIMO CITTADINO: Piano: chi è che viene qui?

SECONDO CITTADINO: Il degno Menenio Agrippa: uno che ha sempre amato il popolo.

PRIMO CITTADINO: E' abbastanza per bene; oh se tutti gli altri fossero come lui!

 

(Entra MENENIO AGRIPPA)

 

AGRIPPA: A quale impresa vi accingete, miei concittadini? Dove andate con queste mazze e clave? Cosa è successo? Parlate, ve ne prego.

PRIMO CITTADINO: Il nostro intento non è ignoto al Senato: hanno avuto sentore in questi ultimi quindici giorni di quello che ci proponiamo di fare, e che ora faremo loro vedere in atto. Dicono che i poveri postulanti hanno il fiato forte: sapranno ora che abbiamo anche le braccia forti.

AGRIPPA: Ma come, signori, miei buoni amici, miei onesti concittadini, volete rovinarvi?

PRIMO CITTADINO: Non possiamo, signore: siamo già rovinati.

AGRIPPA: Vi assicuro, amici, che i patrizi hanno per voi la più caritatevole sollecitudine: per quel che riguarda i vostri bisogni, le vostre sofferenze in questa carestia, tanto vale colpire il cielo con i vostri bastoni, che levarli contro lo Stato romano, il quale continuerà nel suo corso, spezzando diecimila freni, fossero anche molto più forti di quanto la vostra opposizione potrà mai crearne.

Questa carestia l'hanno prodotta non i patrizi, ma gli dèi: e le vostre ginocchia, non le vostre braccia, debbono aiutarvi. Ahimè, vi lasciate trascinare dalla sventura là dove altre sventure vi attendono: e voi calunniate i piloti dello Stato che hanno cura di voi come padri, mentre li maledite quasi fossero nemici.

PRIMO CITTADINO: Si curano di noi! Sì, in verità! non si sono mai curati di noi, finora: lasciano che noi si muoia di fame, mentre i loro granai sono pieni zeppi di grano: fanno editti sull'usura, che proteggono gli usurai: aboliscono ogni giorno le leggi salutari stabilite contro i ricchi: e ogni giorno metton fuori aspri decreti per incatenare e tener schiavo il popolo. Se le guerre non ci divorano, penseranno loro a farlo: ecco tutto l'amore che hanno per noi!

AGRIPPA: O dovete confessare di essere tremendamente malevoli, o dovete lasciarvi accusare di pazzia. Vi racconterò una graziosa storiella: forse l'avrete già udita, ma poiché serve al mio scopo, mi arrischierò a invecchiarla un altro po'.

PRIMO CITTADINO: L'ascolterò, signore, però non dovete credere di farci dimenticare con una storiella i nostri malanni: ma se vi fa piacere, raccontate pure.

AGRIPPA: Vi fu un tempo che tutte le membra del corpo si ribellarono contro il ventre e lo accusarono nel seguente modo: che egli se ne stava nel mezzo del corpo come una voragine oziosa e inerte a insaccar cibo, senza mai partecipare alle fatiche comuni, mentre gli altri organi vedevano, udivano, progettavano, istruivano, camminavano, sentivano, e con mutua partecipazione servivano gli appetiti e i desideri comuni a tutto il corpo. Il ventre rispose...

PRIMO CITTADINO: Bene, signore: che risposta dette il ventre?

AGRIPPA: Amico, ve lo dirò: con un certo sorriso, che non venne mai dai polmoni, ma pur così (perché, vedi, io posso far sogghignare il ventre come farlo parlare) esso rispose sarcasticamente alle membra malcontente, agli organi ribelli che invidiavano il suo profitto:

proprio come voi malignate, con altrettanta ragione, contro i nostri senatori perché non sono come voi.

PRIMO CITTADINO: Sentiamo la risposta del ventre. Ma come! se la testa regalmente coronata, l'occhio vigile, il cuore che consiglia, il braccio che ci difende, la gamba che ci porta, la lingua che è nostra aralda, con tutti gli altri sostegni e minori aiuti di questa nostra macchina, se essi...

AGRIPPA: Bene, e poi? per gli dèi, come parla questo messere! bene, e poi? e poi?

PRIMO CITTADINO: ...dovessero essere oppressi da questo cormorano di ventre che è la sentina del corpo...

AGRIPPA: Bene, e poi?

PRIMO CITTADINO: ...se questi membri principali si lagnassero, che cosa risponderebbe ad essi il ventre?

AGRIPPA: Ve lo dirò: se mi accordate per un momento un po' di pazienza (e ne avete poca) udrete la risposta del ventre.

PRIMO CITTADINO: Voi la fate lunga.

AGRIPPA: Amico mio, nota ben questo: il ventre molto grave era ponderato e non impetuoso come i suoi accusatori; e rispose cosi: "è vero, miei amici ed associati - disse egli - che io ricevo da principio tutto il nutrimento di cui voi vivete: ed è giusto, perché io sono la riserva e il magazzino di tutto il corpo: ma se ve ne ricordate, io mando, attraverso i fiumi del sangue, questo nutrimento fino alla corte, il cuore, e alla sede del cervello; e attraverso i meandri e gli apparati interni dell'uomo, i più forti nervi e le vene più piccole ricevono da me quel tributo naturale di cui vivono. E sebbene voi tutti insieme, miei buoni amici" questo disse il ventre, state attenti...

PRIMO CITTADINO: Sì, signore: avanti, avanti.

AGRIPPA: "...sebbene tutti insieme non possiate vedere quello che io distribuisco a ciascuno, pure io posso rendere i miei conti e dimostrare che tutti ricevete da me di ritorno il fior della farina di ogni cosa, mentre a me non lasciate che la crusca". Che ne dite?

PRIMO CITTADINO: E' una risposta: ma come l'applicate?

AGRIPPA: I senatori di Roma sono il buon ventre, e voi le membra rivoltose. Perché, ponderate i loro consigli e le loro cure, vagliate giustamente le cose che riguardano il benessere comune: e troverete che non vi è alcun beneficio pubblico che vi tocchi, il quale non vi provenga e derivi da essi e in nessun modo da voi stessi. Che ne pensate? che ne dite voi che siete il pollice del piede di questa assemblea?

PRIMO CITTADINO: Io il pollice del piede? E perché il pollice del piede?

AGRIPPA: Perché essendo uno dei più bassi, dei più ignobili, dei più miserabili di questa savissima rivolta, tu vai avanti a tutti: tu, granbestia, che sei meno gagliardo di tutti nel correre, ti metti in testa agli altri per guadagnar qualcosa. Ma su, preparate le vostre mazze e i vostri bastoni: Roma e i suoi topi sono sul punto di venire a battaglia: e una delle due parti ne avrà il danno.

 

(Entra CAIO MARZIO)

 

Salve, o nobile Marzio!

MARZIO: Grazie. Che c'è di nuovo, sediziose canaglie, che grattando la trista rogna delle vostre opinioni, vi coprite di pustole?

PRIMO CITTADINO: Noi abbiamo sempre una buona parola da voi.

MARZIO: Chi vi dirà buone parole sarà un adulatore troppo basso per muovere a schifo. Cosa vorreste avere, cani, che non amate né pace né guerra? l'una vi atterrisce, l'altra vi fa insolenti. Chi si fida di voi, dove dovrebbe trovarvi leoni, vi trova lepri, e dove volpi, oche:

voi non siete, no, più sicuri di un carbone acceso sul ghiaccio, o di un chicco di grandine al sole. La vostra virtù sta nel far meritevole colui che è oppresso dalle sue colpe, e nel maledire quella giustizia che lo ha condannato. Chi merita grandezza, incorre nel vostro odio: e il vostro affetto è come l'appetito del malato che desidera, più di tutto, ciò che aumenterebbe il suo male. Chi conta sul vostro favore, vuol nuotare con pinne di piombo o segar querce con dei giunchi.

Andatevi a impiccare! Fidarsi di voi? mutate d'opinione ogni momento e chiamate nobile colui che era poco prima l'odio vostro, e vile chi era il vostro serto di gloria. Per qual motivo andate gridando in varie parti della città, contro il nobile Senato che, guidato dagli dèi, vi tiene a freno, voi che altrimenti vi divorereste l'un l'altro? Che cosa vogliono?

AGRIPPA: Grano al prezzo loro: perché, essi dicono, la città ne è ben provvista.

MARZIO: Impiccateli! Essi dicono! stanno seduti al canto del fuoco e pretendono sapere quello che accade in Campidoglio: sapere chi sorge, chi prospera, chi declina: schierarsi con questa o quella fazione e annunciare matrimoni immaginari: vantare la forza di alcuni partiti e abbassare gli altri, che loro spiacciono, fin sotto le suole delle loro scarpe rattoppate. Dicono che vi è grano a sufficienza! Oh se la nobiltà volesse metter da parte la sua misericordia e mi lasciasse usar la spada! io farei di migliaia di questi schiavi tagliati a pezzi una catasta alta quanto potessi piantare la mia lancia!

AGRIPPA: Però, questi sono quasi completamente persuasi: perché, sebbene manchino anche troppo di cervello, pure sono più che vigliacchi. Ma, vi prego, cosa dice l'altra mandria?

MARZIO: Si sono dispersi, che l'impicchino! dicevano che avevano fame, e sospiravano proverbi: che la fame rompe i muri di pietra; che anche i cani debbono mangiare: che il cibo è fatto per la bocca: che gli dèi non mandano il grano solo per i ricchi: con queste frasi trite, sfogavano i loro lagni: e quando a questi fu risposto e venne accordata loro una petizione, strana davvero (tale da spezzare il cuore dei nobili e far impallidire l'orgoglioso potere), hanno gettato in aria i berretti che pareva volessero appenderli ai corni della luna, e hanno fatto a gara a chi gridava di più.

AGRIPPA: Che cosa è stato loro concesso?

MARZIO: Cinque tribuni, di loro scelta, che difendano la loro saggezza plebea; uno è Giunio Bruto, un altro Sicinio Veluto, e non so più chi altri. Morte e dannazione! la canaglia avrebbe dovuto scoperchiare tutte le case prima di ottenere questa concessione da me; essa col tempo prevarrà sul potere del Senato e genererà più forti argomenti per giustificare le rivolte.

AGRIPPA: Questa è una strana cosa...

MARZIO: Via, tornate alle vostre case, frammenti!

 

(Entra un Messaggero, in fretta)

 

MESSAGGERO: Dov'è Caio Marzio?

MARZIO: Eccomi: che c'è?

MESSAGGERO: La notizia è, signore, che i Volsci sono in armi.

MARZIO: Ne sono lieto: così avremo mezzo di liberarci di questo fetido superfluo di cittadini. Ecco i nostri migliori senatori.

 

(Entrano COMINIO, TITO LARZIO e altri Senatori; poi GIUNIO BRUTO e SICINIO VELUTO)

 

PRIMO SENATORE: Marzio, avete recentemente detto: i Volsci sono in armi.

MARZIO: Hanno un condottiero, Tullo Aufidio, che vi darà da fare: io pecco nell'invidiargli il suo valore, e se io fossi altro da quello che sono, non vorrei esser che lui.

COMINIO: Avete combattuto insieme.

MARZIO: Se metà del mondo fosse alle prese con l'altra metà, ed egli stesse dalla parte mia, mi rivolterei per combattere solo con lui:

egli è un leone a cui io sono fiero di dare la caccia.

PRIMO SENATORE: Allora, o nobile Marzio, accompagnate Cominio in questa guerra.

COMINIO: E' la promessa che avete già data.

MARZIO: E' vero, e non muto: Tito Larzio, tu mi vedrai ancora una volta vibrare i miei colpi al viso di Tullo: ma che? sei tu irrigidito? ti tieni fuori dei nostri ranghi?

LARZIO: No, Caio Marzio; piuttosto che rimanere indietro in questa guerra, mi appoggerei ad una stampella e combatterei coll'altra.

AGRIPPA: O ben nato!

PRIMO SENATORE: Accompagnateci al Campidoglio dove so che i nostri migliori amici ci attendono.

LARZIO (a Cominio): Conduceteci; (a Marzio) segui Cominio; noi seguiremo voi; voi ben meritate la precedenza.

COMINIO: Nobile Marzio!

PRIMO SENATORE (ai Cittadini): Via di qua: alle vostre case: andatevene!

MARZIO: No, lasciate che ci seguano: i Volsci hanno abbondanza di grano: conduciamo là questi topi che rodano i loro granai. Onorevoli rivoltosi, il vostro valore promette bene: di grazia, seguiteci.

 

(I Cittadini se la svignano. Escono tutti tranne Bruto e Veluto)

 

VELUTO: Vi fu mai uomo orgoglioso come questo Marzio?

BRUTO: Egli non ha l'uguale.

VELUTO: Quando siamo stati nominati tribuni della plebe...

BRUTO: Avete notato le sue labbra e i suoi occhi ?

VELUTO: Sì, ma soprattutto i suoi sarcasmi.

BRUTO: Quand'è irato, egli non risparmierebbe con i suoi frizzi neppure gli dèi.

VELUTO: Si farà beffe della casta Diana.

BRUTO: Che la guerra attuale lo divori! è divenuto troppo superbo d'esser tanto valoroso.

VELUTO: Un carattere tale, solleticato dal buon successo, sdegna perfino l'ombra che egli calpesta al meriggio. Ma mi sorprende che la sua tracotanza si adatti a servire agli ordini di Cominio.

BRUTO: La fama a cui egli aspira e da cui egli è già molto favorito, non può esser meglio conservata né meglio acquistata, che servendo al secondo rango: perché ciò che andrà male sarà colpa del generale, anche se egli faccia quanto è possibile ad un uomo di fare: e la stolta critica griderà allora di Marzio: "oh! se avesse egli condotto l'impresa!".

VELUTO: Invece, se le cose andranno bene, l'opinione pubblica, che è già tutta in favore di Marzio, spoglierà Cominio di ogni merito.

BRUTO: Andiamo: metà degli onori di Cominio saranno attribuiti a Marzio, anche se egli non se li sarà guadagnati: e tutte le colpe di Cominio si trasformeranno in onori per Marzio, anche se in realtà egli non se li sarà affatto meritati.

VELUTO: Andiamocene: rechiamoci ad udire come è decisa la spedizione:

e in qual modo, oltre la sua solita stranezza di carattere, egli vada a questa guerra.

BRUTO: Andiamo.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SECONDA - Corioli. Il Senato

(Entrano TULLO AUFIDIO e vari Senatori)

 

PRIMO SENATORE: Così è vostra opinione, Aufidio, che quelli di Roma abbiano avuto sentore dei nostri consigli, e sappiano come intendiamo agire?

AUFIDIO: Non è questa anche la vostra? Quale decisione è stata mai presa in questo Stato, che si sia potuta tradurre in atto prima che Roma ne fosse informata? Non sono ancora quattro giorni dacché io ho avuto notizia da Roma: queste sono le precise parole: credo di aver la lettera con me, sì, eccola qui: (legge) "Hanno preparato un esercito ma non si sa se per mandarlo ad Oriente o ad Occidente; la carestia è grande; il popolo è in rivolta, e corre voce che Cominio, Marzio (il vostro antico nemico, che in Roma è più odiato che da voi), e Tito Larzio, valentissimo romano, questi tre conducano la spedizione dovunque sia diretta: molto probabilmente è contro di voi. State in guardia".

PRIMO SENATORE: Il nostro esercito è in campo; non abbiamo mai dubitato che Roma fosse pronta a risponderci.

AUFIDIO: Né avete mai dubitato che fosse follia il mascherare i vostri grandi progetti, fino al momento in cui dovessero di necessità mostrarsi: progetti che, sembra, mentre si stavano ancor maturando, furono svelati a Roma. Questa scoperta ci impedirà di raggiungere il nostro fine, che era di impossessarci di molte città prima che Roma sapesse che eravamo sulle mosse.

SECONDO SENATORE: Nobile Aufidio, prendete il comando: correte alle vostre truppe e lasciate noi soli a difendere Corioli; se essi si accamperanno dinanzi alla città, riconducete il vostro esercito per sloggiarli: ma ritengo che voi troverete che essi non si sono armati contro di noi.

AUFIDIO: Oh! non dubitatene! Io parlo per informazioni certe. Anzi, dico di più: alcune parti del loro esercito sono già in marcia, dirette contro di noi. Io prendo congedo dalle signorie Vostre: se noi, io e Caio Marzio, avremo occasione di incontrarci, abbiamo giurato a vicenda di combattere senza tregua sino a che uno dei due non possa più farlo.

TUTTI: Gli dèi vi assistano.

AUFIDIO: E proteggano le signorie Vostre.

PRIMO SENATORE: Addio.

SECONDO SENATORE: Addio.

TUTTI: Addio.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA TERZA - Roma. Una stanza in casa di Caio Marzio

(Entrano VOLUMNIA e VIRGILIA, si mettono a sedere su due piccoli scanni e cominciano a cucire)

 

VOLUMNIA: Cantate, figlia mia, vi prego, o almeno, esprimetevi in maniera più lieta: se mio figlio fosse mio marito, io mi rallegrerei più dell'assenza in cui acquistasse gloria, che non degli amplessi del talamo, in cui desse prova di grandissimo amore. Quando era ancora tenero fanciullo e l'unico figlio uscito dal mio grembo, quando la giovinezza colle sue grazie attirava tutti gli sguardi su di lui, quando per una giornata intera di preghiere regali, una madre non avrebbe consentito ad allontanarlo per un'ora dal suo sguardo, io, considerando come l'onore si addiceva a una tale persona e come essa non era nulla di meglio di un quadro appeso ad una parete, se la fama non l'animava, mi compiacqui di lasciarlo sfidare il pericolo dove avrebbe potuto trovar la gloria. A una crudele guerra lo mandai: e da essa ritornò con la fronte cinta dalla corona di quercia. Te lo assicuro, figlia; non trasalii più di gioia al primo apprendere che era nato uomo, che allora, al primo vedere che egli si era dimostrato un uomo.

VIRGILIA: Ma se egli fosse morto nell'impresa, signora: che avreste fatto allora?

VOLUMNIA: Allora la sua buona fama sarebbe stata il mio figliuolo: in essa avrei trovato la mia discendenza. Ascolta quanto ti dico in tutta sincerità: se io avessi dodici figli, tutti eguali nel mio affetto e nessuno meno caro del tuo e mio buon Marzio, io preferirei piuttosto che undici morissero nobilmente per il loro paese, anziché uno solo vivesse nella voluttà lontano dall'azione guerresca.

 

(Entra una Dama di compagnia)

 

DAMA: Signora, la signora Valeria è venuta a farvi visita.

VIRGILIA: Vi scongiuro, permettetemi di ritirarmi.

VOLUMNIA: No davvero, non lo permetto: mi sembra ora di sentir di qui il tamburo di vostro marito: di vederlo trascinare a terra Aufidio per i capelli: e i Volsci fuggire dinanzi a lui come i ragazzi alla vista dell'orso: mi sembra di vederlo così battere col piede, gridando: "Su, codardi; foste generati dalla paura sebbene nati in Roma": e poi, asciugandosi la fronte coperta di sangue colla mano inguantata di ferro, egli si precipita innanzi, simile a un mietitore, il cui compito è di mieter tutto o di perdere la sua giornata.

VIRGILIA: La sua fronte coperta di sangue! Oh Giove, no, del sangue, no.

VOLUMNIA: Via, sciocca; si addice all'uomo più che l'oro ai suoi trofei: le mammelle di Ecuba quando allattava Ettore non erano più belle della fronte di Ettore quando sprizzava sangue sotto la spada greca, sprezzandola. Dite a Valeria che siamo pronte a darle il benvenuto.

 

(Esce la Dama di compagnia)

 

VIRGILIA: Il cielo protegga il mio signore contro il feroce Aufidio.

VOLUMNIA: Egli premerà la testa di Aufidio sotto il suo ginocchio e gli porrà il piede sul collo.

 

(Entra VALERIA, seguita dalla Dama di compagnia e da un Servo)

 

VALERIA: Signore, buon giorno a tutte e due.

VOLUMNIA: Cara amica.

VIRGILIA: Sono lieta di vedervi, signora.

VALERIA: Come state? siete veramente due massaie. Cosa state cucendo?

un bel ricamo, in fede mia. Come va il bambino?

VIRGILIA: Bene, signora: grazie.

VOLUMNIA: Preferisce veder la spada ed ascoltare il tamburo, anziché far attenzione al maestro.

VALERIA: In fede mia, egli è figlio di suo padre: ve l'assicuro, è un graziosissimo ragazzo. Davvero: l'osservai per una mezz'ora mercoledì scorso; aveva un'aria così risoluta. Lo vidi correre dietro a una farfalla dorata, e quando l'ebbe presa la lasciò andare di nuovo: e poi di nuovo a correrle dietro: ed ecco che egli ruzzola per terra e si rialza, e l'acchiappa di nuovo; e allora, sia che la caduta lo avesse irritato o comunque fosse, digrignò i denti e la fece a pezzi:

e come la conciò, ve l'assicuro!

VOLUMNIA: Una delle collere di suo padre.

VALERIA: Davvero, è un fiero ragazzo.

VIRGILIA: Un demonietto, signora.

VALERIA: Su, mettete da parte il lavoro: dovete venire con me a far la massaia oziosa, questo pomeriggio.

VIRGILIA: No, cara signora: io non voglio uscire di casa.

VALERIA: Non volete uscire?

VOLUMNIA: Uscirà, uscirà.

VIRGILIA: No davvero, perdonatemi: non varcherò la soglia di casa, fino a che il mio signore non sarà tornato dalla guerra.

VALERIA: Eh via! avete torto a rinchiudervi così: orsù, voi dovete venire a visitare la buona signora che sta per partorire.

VIRGILIA: Le auguro di rimettersi presto in forze, e la visiterò con le mie preghiere, ma non posso andare da lei.

VOLUMNIA: E perché, di grazia?

VIRGILIA: Non per evitare l'incomodo, né per mancanza d'affetto.

VALERIA: Vorreste essere una seconda Penelope: eppure, a quel che dicono, tutta la lana che filò nell'assenza di Ulisse non servì ad altro che a riempire Itaca di tarme. Su, vorrei che la vostra batista fosse sensibile come il vostro dito, sì che per pietà voi cessaste di bucarla; su, voi verrete con noi.

VIRGILIA: No, mia buona signora, scusatemi; ma davvero io non uscirò.

VALERIA: Davvero, su, venite con me: vi darò ottime notizie di vostro marito.

VIRGILIA: Oh, cara signora, non ve ne possono essere ancora.

VALERIA: Sinceramente, non 'scherzo con voi: ieri sera sono giunte notizie da lui.

VIRGILIA: Davvero, signora?

VALERIA: Sul serio, è proprio vero: ho udito un senatore che le ripeteva, ed eccole: i Volsci hanno un esercito in campo; contro di esso si è mosso Cominio, il generale, con una parte delle forze romane; vostro marito e Tito Larzio si sono accampati dinanzi a Corioli; essi non dubitano affatto che la conquisteranno e concluderanno presto la guerra. Questo è proprio vero, sull'onor mio; ed ora, via, vi prego, venite con noi.

VIRGILIA: Vogliate scusarmi, buona signora: io vi obbedirò in tutto un'altra volta.

VOLUMNIA: Lasciatela stare; così come è ora, non farebbe che guastare il nostro buon umore.

VALERIA: Davvero, credo di sì... addio, dunque: venite, cara amica.

Virgilia, ti prego, scaccia la tua melanconia e vieni con noi.

VIRGILIA: No, una volta per tutte, signora, non posso. Vi auguro buon divertimento.

VALERIA: Va bene allora: addio.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA QUARTA - Dinanzi a Corioli

(Entrano, con bandiere e tamburi, CAIO MARZIO, TITO LARZIO, Ufficiali e Soldati)

 

MARZIO: Giungono nuove di laggiù: scommetto che si sono scontrati.

LARZIO: Il mio cavallo contro il vostro: scommetto di no.

MARZIO: Accettato.

LARZIO: D'accordo.

 

(Entra un Messaggero)

 

MARZIO: Di', il nostro generale si è azzuffato con il nemico?

MESSAGGERO: Sono accampati in vista l'uno dell'altro; ma per ora non sono ancora venuti alle armi.

LARZIO: Così il tuo buon destriero è mio.

MARZIO: Lo ricomprerò da te.

LARZIO: No, non voglio venderlo, né cederlo: te lo presterò per mezzo secolo. Intimate la resa alla città.

MARZIO: A che distanza stanno accampati due eserciti?

MESSAGGERO: A un miglio e mezzo di qui.

MARZIO: In questo caso sentiremo il loro grido di guerra ed essi il nostro. Adesso Marte, ti prego, facci spediti nell'impresa sì che con le fumanti spade si possa marciare di qui in aiuto dei nostri amici in campo. Su, suona la tromba.

 

(Si suona a parlamento. Appaiono sulle mura alcuni Senatori e altri)

 

E' dentro le mura Tullo Aufidio?

PRIMO SENATORE: No, né un uomo che vi tema meno di lui; il che è a dire meno di niente. Sentite? (Suono di tamburi in distanza) I nostri tamburi chiamano a battaglia i nostri giovani; noi abbatteremo le nostre mura, piuttosto che lasciarci stabbiare dentro. Le nostre porte che sembrano chiuse, le abbiamo solo assicurate con dei giunchi: si apriranno da sé. Udite, laggiù lontano: (altri suoni marziali) là è Aufidio; sentite quale strage egli compie tra le vostre soldatesche in rotta?

MARZIO: Oh, sono alle prese!

LARZIO: Lo strepito della loro battaglia ci sia d'esempio. Olà, le scale!

 

(I Volsci appaiono sulla scena)

 

MARZIO: Non ci temono, ma escono dalla loro città. Ora mettete i vostri scudi dinanzi al petto, e combattete con cuori più temprati del bronzo degli scudi. Avanti, valoroso Tito: ci disprezzano oltre ogni nostro credere, e questo mi fa sudar di rabbia. Su, amici miei: chi si ritira lo prenderò per un Volsco ed egli sentirà il filo della mia spada.

 

(Segnale di battaglia: escono Romani e Volsci pugnando: i Romani sono ricacciati alle loro trincee. Rientra CAIO MARZIO, maledicendo)

 

MARZIO: Tutti i contagi del mezzogiorno ricadano su di voi, onta di Roma: vil gregge di... Ulcere e piaghe vi copran tutti, sì che siate aborriti prima ancora d'esser visti, e vi infettiate a vicenda a distanza di un miglio contro vento! Anime di oche che portate sembianze umane, come siete fuggiti davanti a schiavi che sarebbero stati sbaragliati perfino da scimmie! Per Plutone e l'inferno: tutti feriti nella schiena! Rosso di sangue il dorso e il viso pallido per la fuga e la febbrile paura! Riprendetevi, e caricate a fondo: o, per le luci del cielo, io lascerò il nemico e mi avventerò su di voi.

Venite avanti: se tenete duro, noi li ricacceremo fino nelle braccia delle loro mogli, come essi ci hanno incalzato fino alle nostre trincee. (Altro segnale d'armi. I Volsci fuggono e Marzio li insegue alle porte) Ecco, le porte ora sono aperte: ora secondatemi validamente: la fortuna le apre per quelli che inseguono, non per quelli che fuggono: guardate me e fate lo stesso.

 

(Entra dalla porta)

 

PRIMO SOLDATO: Pazzo ardire: io no davvero!

SECONDO SOLDATO: E neppur io!

 

(Marzio è rinchiuso dentro)

 

PRIMO SOLDATO: Guarda, l'hanno chiuso dentro.

TUTTI: E' caduto in trappola, te lo assicuro.

 

(Continua il segnale di battaglia)

(Rientra TITO LARZIO)

 

LARZIO: Che cosa ne è di Marzio?

TUTTI: Ucciso, signore, non v'ha dubbio.

PRIMO SOLDATO: Inseguendo i fuggiaschi alle calcagna, egli è entrato dentro con loro: essi ad un tratto hanno chiuso le porte ed egli è rimasto solo a tener testa a tutta la città.

LARZIO: O nobile compagno! che essendo sensibile, sorpassi in audacia la tua spada insensibile, e quando essa si piega, rimani inflessibile!

Tu sei perduto, o Marzio: un diamante intero grande come te, non sarebbe un gioiello altrettanto prezioso. Tu fosti un soldato secondo l'idea di Catone: fiero e tremendo non solo quando colpivi; ma col tuo occhio grifagno, e col rimbombo della tua voce simile a tuono, facevi tremare i tuoi nemici, quasi che il mondo fosse febbricitante e si scuotesse.

 

(Rientra CAIO MARZIO insanguinato, assalito dai nemici)

 

PRIMO SOLDATO: Guardate, signore.

LARZIO: Oh, è Marzio: corriamo a liberarlo o a morir con lui.

 

(Combattono, e tutti entrano in città)

 

 

 

SCENA QUINTA - Dentro la città. Una strada

(Entrano alcuni Soldati romani col bottino)

 

PRIMO SOLDATO: Questo lo porterò a Roma SECONDO SOLDATO: E io questo.

PRIMO SOLDATO: Gli venga il canchero, l'avevo preso per argento!

 

(Il segnale di battaglia si ode ancora in distanza)

(Entrano CAIO MARZIO e TITO LARZIO con un Trombettiere)

 

MARZIO: Guardateli, questi poltronieri che stimano il loro tempo al prezzo di una dramma fessa. Cuscini, cucchiai di stagno, ferri vecchi, giacche che il boia seppellirebbe con quelli che le portavano, di tutto questo, prima ancora che la battaglia sia finita, questi vili marrani fanno il sacco; al diavolo! Ascoltate quale strepito fa il nostro generale? Andiamo da lui. Ivi è l'uomo che è l'odio dell'anima mia, Aufidio, che massacra i Romani. Perciò, o valoroso Tito, prendi con te un numero sufficiente di uomini a tener la città: mentre io con quelli che ne hanno l'animo correrò in aiuto di Cominio.

LARZIO: Degno amico, tu sanguini! il tuo sforzo è stato troppo violento, per una nuova serie di combattimenti.

MARZIO: Signore, non mi lodate: l'opera mia non mi ha ancora riscaldato: addio: il sangue che io verso è più salutare per me che pericoloso. Così io voglio apparire dinanzi ad Aufidio e combatterlo.

LARZIO: Ora la graziosa dea, la Fortuna, si innamori pazzamente di te, e i suoi potenti incantesimi deviino da te le spade dei nemici. Ardito signore: il successo sia il tuo paggio. MARZIO: E sia amico di te non meno che di quelli che esso pone più in alto. E ora, addio.

LARZIO: O nobilissimo Marzio! (Esce Marzio) Vai, e suona la tromba sulla piazza del mercato, chiama qui tutti i magistrati della città onde far conoscere le nostre decisioni... Via.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SESTA - Nei pressi del campo di Cominio

(Entra COMINIO, come se fosse in ritirata, con Soldati)

 

COMINIO: Riposatevi, amici miei: avete ben combattuto; ce la siamo cavata in modo degno di Romani, senza temerità nella resistenza, senza viltà nella ritirata. Credetemi, amici, saremo assaliti di nuovo.

Mentre ci azzuffavamo, a intervalli, nelle folate del vento, abbiamo udito le cariche dei nostri amici. Che gli dèi romani favoriscano la loro impresa, come noi ci auguriamo per la nostra, sì che i nostri due eserciti, incontrandosi con lieto aspetto, possano render loro sacrifici di grazie.

 

(Entra un Messaggero)

 

Che notizie rechi?

MESSAGGERO: I cittadini di Corioli hanno fano una sortita e dato battaglia a Larzio e a Marzio. Ho visto i nostri ricacciati fino alle loro trincee, e poi me ne sono venuto via.

COMINIO: Anche se tu dici il vero, non mi sembra che tu parli bene.

Quanto tempo è trascorso da allora?

MESSAGGERO: Più di un'ora, mio signore.

COMINIO: Non c'è neppure un miglio di distanza e da poco abbiamo udito i loro tamburi: come hai potuto perdere un'ora per fare un miglio, e portar così tardi questa notizia?

MESSAGGERO: Spie dei Volsci mi hanno inseguito, sì che io sono stato costretto a fare un lungo giro di tre o quattro miglia: altrimenti, signore, da più di mezz'ora avrei recato il mio messaggio COMINIO: Chi si avanza laggiù che sembra come se fosse scorticato? O dèi, egli ha il portamento di Marzio e altra volta l'ho visto così.

MARZIO (dall'interno): Arrivo troppo tardi?

COMINIO: Il pastore non distingue meglio il tuono dal tamburo, di quello che io non distingua la voce di Marzio dalla voce di ogni altro comune mortale.

 

(Entra CAIO MARZIO)

 

MARZIO: Arrivo troppo tardi?

COMINIO: Sì, se tu vieni qui coperto non del sangue altrui, ma del tuo proprio.

MARZIO: Oh, fate che io vi stringa nelle mie braccia col vigore di quando corteggiavo mia moglie: e col cuore festante come nel giorno delle nozze, quando le torce mi scortarono al talamo nuziale.

COMINIO: O fior dei guerrieri, come sta Tito Larzio?

MARZIO: Come un uomo affaccendato a far decreti condannando alcuni a morte, altri all'esilio: accettando il riscatto di uno, avendo pietà di un altro, minacciando un terzo: tenendo Corioli in nome di Roma, come si tiene al laccio un levriero festante, che si può lasciar libero a volontà.

COMINIO: Dov'è quel manigoldo che mi ha detto che eravate stati respinti nelle trincee? dov'è? fatelo venire qui.

MARZIO: Lasciatelo stare; vi disse il vero: ma in quanto ai nostri signori, quelli dei ranghi comuni (la peste li colga: tribuni a loro?) il topo non fuggì mai davanti al gatto, com'essi se la diedero a gambe dinanzi a dei miserabili più vili di loro.

COMINIO: Ma come siete riusciti a vincere?

MARZIO: E' proprio il momento di raccontarlo? non lo credo. Dov'è il nemico? siete voi padroni del campo? se non lo siete perché cessate dal combattere finché non lo divenite?

COMINIO: Marzio, abbiamo combattuto svantaggiosamente e ci siamo ritirati per raggiungere il nostro scopo.

MARZIO: Come è disposto il loro esercito? sapete da qual lato hanno posto i loro uomini migliori?

COMINIO: A quanto posso indovinare, le loro prime file, Marzio, sono formate dagli Anziati sui quali fidano di più; li comanda Aufidio, che è il cuore delle loro speranze.

MARZIO: Vi prego per tutte le battaglie che abbiamo combattuto insieme, e per il sangue che insieme abbiamo versato, per i voti fatti di rimaner sempre amici, che mi poniate subito a fronte di Aufidio e dei suoi Anziati, e che non vogliate frapporre alcun indugio, ma riempiendo l'aria delle nostre spade brandite e dei nostri giavellotti, si venga subito alla prova.

COMINIO: Sebbene io dovessi piuttosto desiderare che foste condotto a un bagno ristoratore e che dei balsami fossero applicati alle vostre ferite, pure non oso rifiutare la vostra richiesta: prendetevi a scelta quelli che più possono aiutarvi nell'impresa.

MARZIO: Sono quelli che si mostrano meglio disposti. Se vi è alcuno qui (e sarebbe delitto il dubitarne) che ami questo colore sanguigno di cui mi vedete coperto; se qualcuno vi è che teme meno per la sua persona che per il suo buon nome; che ritenga una morte eroica più nobile di una vita cattiva, e la sua patria più cara di se stesso; quegli solo o altri che la pensino ugualmente, agiti la mano così, per manifestare la sua volontà e seguir Marzio. (Tutti gridano e roteano le loro spade, lo sollevano sulle braccia e gettano in aria i berretti) O, me solo! volete far di me una spada? se queste dimostrazioni non sono semplicemente esteriori, chi di voi non vale quattro Volsci? non vi è alcuno di voi che non sia capace di opporre al grande Aufidio uno scudo duro come il suo. Sebbene io sia grato a tutti, debbo scegliere solo un certo numero: gli altri faranno il loro dovere in qualche altro combattimento, secondo il bisogno. Piaccia a voi, Cominio, di marciare: e quattro sceglieranno subito, al mio comando, quelli che sono più disposti a seguirmi.

COMINIO: Marciate, o miei compagni: giustificate questa dimostrazione di coraggio e condividerete ogni cosa con noi.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SETTIMA - Alle porte di Corioli

(TITO LARZIO, dopo aver posto un presidio a Corioli, avviandosi, preceduto da tamburi e trombe, verso COMINIO e CAIO MARZIO, entra con un Luogotenente, una compagnia di Soldati e una Guida)

 

LARZIO: Dunque, che le porte siano ben custodite: state agli ordini come io ve li ho prescritti. Se mando per soccorso, spedite quelle centurie in nostro aiuto: il resto servirà per una breve resistenza.

Se perdiamo in campo, non potremo conservare la città.

LUOGOTENENTE: Non dubitate della nostra vigilanza, signore.

LARZIO: Andate, e chiudete bene le porte dietro di voi. Tu, nostra guida, vieni: conducimi al campo romano.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA OTTAVA - Un campo di battaglia tra l'accampamento romano e quello dei Volsci

(Segnale di battaglia. Entrano da lati opposti CAIO MARZIO e TULLO AUFIDIO)

 

MARZIO: Non combatterò con altri che con te, perché ti odio più di uno spergiuro.

AUFIDIO: Ci odiamo in modo uguale. L'Africa non possiede un serpente che io aborra più della tua fama che io invidio. In guardia.

MARZIO: Che il primo che retrocede, muoia schiavo dell'altro e gli dèi lo condannino dopo!

AUFIDIO: Se io fuggo, Marzio, urlami dietro come a una lepre.

MARZIO: In queste tre ore, Tullo, da solo ho combattuto dentro le mura della tua Corioli e ho fatto quello che mi è piaciuto fare. Questo di cui mi vedi coperto, non è sangue mio: per vendicarti, tendi al massimo tutta la tua forza.

AUFIDIO: Fossi tu quell'Ettore che fu il nerbo della tua razza tanto vantata, non mi sfuggiresti qui. (Combattono e alcuni Volsci accorrono in aiuto di Aufidio) Zelanti ma non valorosi amici, mi avete disonorato col vostro maledetto aiuto.

 

(Escono combattendo, ricacciati da Marzio)

 

 

 

SCENA NONA - Il campo romano

(Allarme. Si suona la ritirata. Fanfara. Entrano da un lato COMINIO con i Romani; dall'altro CAIO MARZIO con un braccio al collo)

 

COMINIO: Se io dovessi raccontarti l'opera tua di questa giornata, non presteresti fede alle tue gesta; ma io le narrerò là dove i senatori uniranno le lacrime ai sorrisi, dove i grandi patrizi ascolteranno scrollando le spalle e infine ammireranno; dove le signore mostreranno spavento e tremando di piacere vorranno ascoltare ancora, dove gli ottusi tribuni che, con gli ammuffiti plebei, odiano la tua gloria, diranno contro voglia: "siano grazie agli dèi, che la nostra Roma ha un tale soldato". Eppure tu sei venuto solo per un boccone di questo festino, avendo ampiamente banchettato prima.

 

(Entra TITO LARZIO con i suoi Soldati, reduce dall'inseguimento)

 

LARZIO: O generale! Ecco il destriero: noi la bardatura: se avessi visto...

MARZIO: Vi prego, basta; mia madre, che ha il privilegio di vantare il suo sangue quando mi elogia, mi addolora. Io ho fatto come voi avete fatto: cioè, quanto ho potuto; mosso, come lo siete stati voi, dall'amore per la patria. Chi ha soltanto recato in atto la sua buona volontà, ha compiuto quel che ho compiuto io.

COMINIO: Voi non sarete la tomba dei vostri meriti. Roma deve conoscere il valore dei suoi figli: sarebbe un nascondere peggiore del furto, non inferiore a una calunnia, il tener celate le vostre gesta, il passar sotto silenzio quello che, proclamato sulle più alte vette dell'elogio, apparirebbe sempre modestamente lodato: quindi io vi scongiuro, in segno di ciò che voi siete, non in compenso di ciò che avete fatto, ascoltatemi qui in presenza dell'esercito.

MARZIO: Ho delle ferite, ed esse bruciano nel sentirsi ricordate.

COMINIO: Se non fossero ricordate, esse ben potrebbero ulcerare di fronte all'ingratitudine, e aver per sola tenda la morte. Di tutti i cavalli (e ne abbiamo preso dei buoni e in buon numero), di tutte le ricchezze ammassate nel campo e nella città, noi vi accordiamo la decima parte, da prendersi prima della ripartizione comune, a vostra scelta.

MARZIO: Vi ringrazio, generale; ma non posso far sì che il mio cuore consenta a prendere un dono come salario della mia spada. Rifiuto il dono e mi contento della mia parte comune con quelli che hanno partecipato all'azione. (Una lunga fanfara. Tutti gridano: "Marzio! Marzio!" e gettano per aria i berretti e le lance: Cominio e Larzio si scoprono) Possano questi stessi strumenti che voi profanate non risuonare mai più! Quando le trombe e i tamburi si dimostreranno adulatori sul campo di battaglia, che le corti e le città siano popolate di perfida piaggeria. Quando l'acciaio diviene morbido come la seta del parassita, possa questa servire di armatura nelle battaglie. Basta, vi dico, basta! Per il fatto che non mi sono lavato il naso che sanguinava, o che ho abbattuto qualche debole nemico, il che molti qui hanno fatto senza esser lodati, voi mi circondate con acclamazioni iperboliche, come se io amassi che i miei scarsi meriti fossero nutriti di lodi condite di menzogne.

COMINIO: Troppo modesto voi siete: più crudele verso la vostra rinomanza che grato a noi che ve la diamo sinceramente. Con vostra licenza, se voi siete irritato contro voi stesso, vi metteremo le manette come a uno che vuole il proprio danno: e poi ragioneremo tranquillamente con voi. Dunque sia noto a tutti, come lo è a noi, che Caio Marzio ha meritato il serto di questa guerra: e in testimonianza di questo, io gli dono il mio nobile destriero, conosciuto da tutto l'accampamento, con tutti i finimenti; e da oggi innanzi per ciò che ha fatto davanti a Corioli lo si chiami, con il saluto e l'applauso dell'esercito: Caio Marzio Coriolano. Possa tu portare sempre questo soprannome, nobilmente!

 

(Applausi. Suoni di trombe e tamburi)

 

TUTTI: Caio Marzio Coriolano!

CORIOLANO: Voglio andare a lavarmi: e quando il mio viso sarà pulito, vedrete se arrossisco o no. Comunque, io vi ringrazio. Intendo cavalcare il vostro destriero, e in ogni occasione, aggiunger nuovo lustro, per quanto in me, al soprannome che mi avete dato. COMINIO: E ora alle nostre tende, dove prima di riposarci, scriveremo a Roma del vostro trionfo. Voi, Tito Larzio, dovete tornare a Corioli e mandare a Roma i migliori cittadini con i quali si possa trattare per il nostro e il loro vantaggio.

LARZIO: Lo farò, mio signore.

CORIOLANO: Gli dèi cominciano a farsi beffe di me. Io che ho ricusato or ora doni principeschi, mi vedo costretto a mendicare un favore dal mio comandante.

COMINIO: Prendetelo, è vostro: di che si tratta?

CORIOLANO: Un tempo io abitai qui in Corioli in casa di un povero uomo; egli mi trattò cortesemente: si è rivolto a me per aiuto; l'ho visto prigioniero; ma in quel momento Aufidio mi venne dinanzi e l'ira sopraffece la mia pietà. Vi prego di concedere la libertà al mio povero albergatore.

COMINIO: Oh, ben chiesto! fosse anche l'assassino di mio figlio, sarebbe libero come l'aria. Liberalo, Tito.

LARZIO: Marzio, il suo nome?

CORIOLANO: Per Giove, l'ho dimenticato. Sono stanco, la memoria non mi regge. Non avete del vino qui?

COMINIO: Andiamo nella nostra tenda: il sangue sul vostro volto si raggruma: è tempo che sia curato. Venite!

 

(Escono)

 

 

 

SCENA DECIMA - L'accampamento dei Volsci

(Fanfare e cornette. Entra TULLO AUFIDIO, sanguinante, con due o tre Soldati)

 

AUFIDIO: La città è presa!

PRIMO SOLDATO: Ti sarà restituita a buone condizioni.

AUFIDIO: Condizioni! volesse il cielo che io fossi Romano, perché essendo Volsco non posso essere quello che sono. Condizioni! quali buone condizioni può contenere un trattato per il partito che è alla mercé dell'altro? cinque volte, o Marzio, io ho combattuto con te: e altrettante volte mi hai vinto, e mi vinceresti, credo, se dovessimo incontrarci così spesso come mangiamo. Per il cielo! se mai l'incontro faccia a faccia egli sarà mio, o io sarò suo. Il mio odio non ha più quegli scrupoli di onore che aveva prima: perché mentre prima pensavo di schiacciarlo in un combattimento uguale, spada leale contro spada, ora lo colpirò in qualunque modo l'ira e l'astuzia potranno raggiungerlo.

PRIMO SOLDATO: Egli è il diavolo.

AUFIDIO: Più audace, non così scaltro. Il mio valore è avvelenato solo perché è offuscato dal suo; e per lui devierà dal suo corso naturale; né sonno, né santuario, né l'esser nudo o malato, né tempio, né Campidoglio, né preghiera di sacerdoti, né tempo di sacrifici, tutti impedimenti al furore, innalzeranno il loro putrido costume e privilegio contro il mio odio per Marzio; e dovunque lo troverò, fosse anche a casa mia, sotto la protezione di mio fratello, anche lì, contro le leggi dell'ospitalità, mi laverò la mano feroce nel suo sangue. Andate alla città: informatevi del modo in cui è governata, e chi sono quelli che dovranno essere ostaggi a Roma.

PRIMO SOLDATO: Non venite anche voi?

AUFIDIO: Sono atteso al bosco dei cipressi. Vi prego, portatemi laggiù (è a sud dei mulini della città) notizie di come va il mondo, sì che io possa sul passo suo regolare il mio cammino.

PRIMO SOLDATO: Lo farò, signore.

 

(Escono)

 

 

 

ATTO SECONDO

 

SCENA PRIMA - Una piazza pubblica in Roma

(Entra AGRIPPA con i due Tribuni della plebe VELUTO e BRUTO)

 

AGRIPPA: L'àugure mi dice che avremo notizie questa sera.

BRUTO: Buone o cattive?

AGRIPPA: Non secondo le preghiere del popolo, perché non ama Marzio.

VELUTO: La natura insegna agli animali a conoscere i loro amici.

AGRIPPA: Di grazia, il lupo chi ama?

VELUTO: L'agnello.

AGRIPPA: Sì, per divorarlo, come gli affamati plebei vorrebbero divorare il nobile Marzio.

BRUTO: Davvero, egli è un agnello che bela come un orso.

AGRIPPA: E' un orso invero, che vive come un agnello. Voi due siete uomini maturi: ditemi una sola cosa che io vi chiederò.

I TRIBUNI: Dite, signore.

AGRIPPA: Di quale difetto Marzio è povero di cui voi non abbiate abbondanza?

BRUTO: Egli non è povero di alcun difetto, ma anzi ben provvisto di tutti.

VELUTO: Specialmente di superbia.

BRUTO: E supera tutti nel vantarsi.

AGRIPPA: Questo sì che è strano; sapete voi come siete giudicati qui in città? intendo da noi del miglior ceto: lo sapete?

I TRIBUNI: Ebbene, come siamo giudicati?

AGRIPPA: Poiché voi ora parlate di superbia, non vi arrabbierete mica?

I TRIBUNI: Via, via signore, dite.

AGRIPPA: E poi non è cosa di grande importanza, perché una piccola ladruncola di occasione basta per derubarvi di molta della vostra pazienza. Abbandonate pur le redini al vostro temperamento e arrabbiatevi a vostro piacere, almeno se avete piacere ad arrabbiarvi.

Voi rimproverate a Marzio di esser superbo?

BRUTO: Non lo facciamo noi soli, signore.

AGRIPPA: So che potete fare assai poco da soli, perché sono molti ad aiutarvi: altrimenti le vostre azioni diverrebbero meravigliosamente meschine: i vostri talenti sono troppo infantili perché possiate far molto da soli. Voi parlate di superbia: oh se poteste volgere i vostri occhi verso la nuca e fare un'ispezione intima delle vostre degne persone: oh, se poteste!

BRUTO: E che dunque, signore?

AGRIPPA: Eh, allora scoprireste una coppia di magistrati senza merito, orgogliosi, violenti, testardi, in altre parole, sciocchi, quali non ve ne ha altri in Roma.

BRUTO: Menenio, anche voi siete ben conosciuto.

AGRIPPA: Io sono conosciuto per un patrizio bisbetico, per uno che ama una coppa di vino caldo senza una goccia del Tevere che lo mitighi; per uno che viene considerato incauto nel favorire di primo acchito chi si lamenta; impetuoso e facile a prender fuoco per motivi troppo futili, per uno che è più familiare col posteriore della notte che colla fronte del mattino. Quello che penso, lo dico: e tutta la mia malizia, la consumo in ciarle. Incontrandomi con due uomini di Stato come voi (non vi posso chiamare Licurghi), se la bevanda che mi offrite urta il mio palato, faccio una smorfia. Non posso dire che le Signorie Vostre abbiano presentato bene la cosa, quando trovo che la maggior parte dei vostri discorsi sono sommari: e sebbene debba rassegnarmi a sopportare quelli che dicono che voi siete uomini gravi e degni di reverenza, pure mentono per la gola quelli che affermano che voi avete delle facce oneste. Se voi vedete tutto questo nella mappa del mio microcosmo, ne segue forse che io sia ben conosciuto da voi? e qual male il vostro acume da orbi può scoprire in questo mio carattere, dato pure che io sia ben conosciuto da voi?

BRUTO: Via, via, signore, noi vi conosciamo bene.

AGRIPPA: Voi non conoscete né me, né voi stessi, né niente. Voi siete ambiziosi soltanto del levar di cappello e del piegar dei ginocchi della povera gente; voi sciupate una mattinata sana nell'ascoltare una questione tra una venditrice di aranci e un venditor di zipoli e poi rimettete la controversia di tre soldi a un secondo giorno di udienza.

Quando state ascoltando il dibattimento tra due parti, se per caso vi prende la colica, fate delle facce da mascheroni: dichiarate guerra ad ogni pazienza, e vociando per avere un vaso da notte, sospendete la discussione ancora accesa, e più imbrogliata di prima per la vostra audizione: e tutta la pace che portate nella controversia consiste nel chiamar i due contendenti, ribaldi; siete una bella coppia davvero!

BRUTO: Via, via; voi siete ben stimato per un più perfetto motteggiatore a tavola, che necessario magistrato in Campidoglio.

AGRIPPA: I nostri stessi sacerdoti debbono divenire dei dileggiatori, se incontrano dei tipi ridicoli come voi. Quando voi parlate meno a sproposito, le parole vostre non valgono l'agitarsi delle vostre barbe: e le vostre barbe non meritano una sepoltura così onorevole come quella di riempire il cuscino di un rammendatore, o di esser sepolte in un basto d'asino. Eppure andate dicendo che Marzio è orgoglioso! Marzio, che, a stimarlo poco, vale tutti i vostri predecessori da Deucalione in poi, anche se per avventura alcuni di loro, tra i migliori, siano stati boia per professione ereditaria.

Buona sera alle signorie Vostre! il prolungare la mia conversazione con voi mi infetterebbe il cervello, essendo voi i guardiani di quelle bestie di plebei. Io sarò così ardito da prender congedo da voi.

 

(Bruto e Veluto si appartano. Entrano VOLUMNIA, VIRGILIA e VALERIA)

 

Che c'è di nuovo, mie graziose quanto nobili signore - e se la luna fosse terrena non sarebbe più nobile - e verso qual mèta seguite così in fretta il vostro sguardo?

VOLUMNIA: Oh, onorando Menenio, il mio figliuolo Marzio si avvicina:

per l'amor di Giunone, lasciateci andare.

AGRIPPA: Ah! Marzio ritorna a casa?

VOLUMNIA: Sì, degno Menenio, e con le più onorevoli lodi.

AGRIPPA: Prenditi il mio berretto, Giove: io ti ringrazio. Oh! Marzio ritorna a casa!

VIRGILIA: e VOLUMNIA: Sì, è proprio vero.

VOLUMNIA: Guardate, ecco una lettera di lui: lo Stato ne ha un'altra:

sua moglie un'altra: e credo che ve ne sia una a casa anche per voi.

AGRIPPA: Farò ballar la tresca perfino alla mia casa, stasera: una lettera per me?

VIRGILIA: Sì, certamente: vi è una lettera per voi: l'ho vista io.

AGRIPPA: Una lettera per me? Questo mi dà un patrimonio di sette anni di salute: nel qual tempo, farò le boccacce ai medici. La più sovrana ricetta di Galeno non è che empireutica, e a petto a questo preservativo, non ha più valore di un beverone da cavallo. Non è ferito? era solito tornare a casa ferito.

VIRGILIA: Oh, no, no, no.

VOLUMNIA: Oh sì, è ferito: ne ringrazio gli dèi.

AGRIPPA: Ed io pure, se non è troppo grave: porta in tasca una vittoria? le ferite gli si addicono.

VOLUMNIA: La porta sulla fronte, o Menenio: egli ritorna per la terza volta con la corona di quercia.

AGRIPPA: Ha egli dato una buona lezione a Aufidio?

VOLUMNIA: Tito Larzio scrive: "Hanno combattuto insieme, ma Aufidio se l'è svignata".

AGRIPPA: Ed era tempo, glielo garantisco io; se fosse rimasto a combattere non avrei voluto essere così aufidiato per tutti gli scrigni di Corioli e l'oro in essi contenuto. E' il Senato al corrente della cosa?

VOLUMNIA: Mie care, andiamo. Sì, sì, il Senato ha ricevuto lettere del generale, in cui egli attribuisce a mio figlio tutta la gloria di questa guerra; in essa egli ha superato del doppio le sue precedenti gesta.

VALERIA: In verità, si dicono di lui cose meravigliose.

AGRIPPA: Meravigliose! è certo, ve lo garantisco, e non senza che egli ne abbia realmente acquistato il grido.

VIRGILIA: Gli dèi facciano che siano vere!

VOLUMNIA: Vere? neanche a dirlo.

AGRIPPA: Vere? Sono pronto a giurare che sono vere. In che parte è ferito? (Ai Tribuni) Dio salvi le Vostre Signorie! Marzio ritorna a casa: egli ha maggior ragione di esser superbo. Dove è ferito?

VOLUMNIA: Nella spalla e al braccio sinistro. Egli avrà delle belle cicatrici da mostrare al popolo, quando si presenterà per l'ufficio che gli spetta. Sette ferite ebbe nel respingere Tarquinio.

AGRIPPA: Una nel collo e due nella coscia: io so di nove ferite.

VOLUMNIA: Prima di quest'ultima spedizione aveva venticinque ferite.

AGRIPPA: Ed ora sono ventisette: ogni ferita fu la tomba d'un nemico.

(Grida e suono di fanfara) Udite: le trombe!

VOLUMNIA: Sono gli annunciatori di Marzio: dinanzi a sé porta il frastuono del trionfo; dietro a sé lascia lacrime: la morte, tenebroso spirito, si annida nel suo braccio nerboruto: esso si stende e si abbassa, e allora gli uomini muoiono.

 

(Un segnale e uno squillo di tromba. Entrano COMINIO e TITO LARZIO; tra loro è CORIOLANO con una corona di quercia; poi Capitani, Soldati e un Araldo)

 

ARALDO: Sappi, o Roma, che Marzio ha combattuto entro le mura di Corioli, solo; dove insieme con la fama, egli ha conquistato un nome da aggiungersi a Caio Marzio: a questi due segue ora, in segno di onore, Coriolano. Salve in Roma, o illustre Coriolano!

 

(Fanfara)

 

TUTTI: Salve in Roma, o illustre Coriolano!

CORIOLANO: Basta di questo, offende il mio animo; vi prego, non più.

COMINIO: Guarda, signore: tua madre.

CORIOLANO: Oh, voi avete, lo so, pregato tutti gli dèi per la mia vittoria.

 

(Si inginocchia)

 

VOLUMNIA: No, mio valoroso guerriero: alzati, mio dolce Marzio, mio nobile Caio. Ed ora, per l'onore conquistato con gloriose gesta, di recente chiamato... come? Coriolano debbo io chiamarti? Ma, oh, tua moglie...

CORIOLANO: O mia graziosa taciturna, salve: avresti tu riso se io fossi ritornato a casa sulla bara, tu che ora piangi nel vedermi tornare in trionfo? Ah, mia cara, tali occhi hanno in Corioli vedove e madri orbate dei figli!

AGRIPPA: E ora che gli dèi ti incoronino!

CORIOLANO: Ecco che dunque vi rivedo! (A Valeria) Oh, mia gentile signora, perdonatemi.

VOLUMNIA: Non so dove voltarmi; siate benvenuto a casa: benvenuto, o generale, benvenuti tutti.

AGRIPPA: Centomila benvenuti! potrei piangere e potrei ridere: mi sento ilare e triste: benvenuto: una maledizione consumi alle radici il cuore di chi non è lieto nel vederti! Voi siete tre di cui Roma dovrebbe andar superba: eppure, in fede mia, abbiamo qui, tra noi, alcuni meli selvatici che non vogliono esser innestati a vostro gusto.

Con tutto ciò siate benvenuti, o guerrieri. Noi chiamiamo l'ortica, ortica, e i difetti degli sciocchi, sciocchezza.

COMINIO: Sempre a proposito.

CORIOLANO: Sempre, sempre, Menenio.

ARALDO: Fate largo, olà, e procedete.

CORIOLANO (a Volumnia e a Virgilia): La vostra mano, e la vostra; prima che nella nostra casa io riposi il mio capo, debbo recarmi a far visita ai buoni patrizi dai quali ho ricevuto non solo felicitazioni, ma anche nuovi onori.

VOLUMNIA: Io ho vissuto abbastanza per vedere attuati i miei desideri e le costruzioni della mia fantasia: non manca che una sola cosa, la quale non dubito punto che Roma ti concederà.

CORIOLANO: O madre mia, sappi che io preferirei esser loro servitore a modo mio, anziché comandarli a modo loro.

COMINIO: Andiamo al Campidoglio.

 

(Fanfara: escono in corteo come prima)

(BRUTO e VELUTO si avanzano)

 

BRUTO: Tutte le lingue parlano di lui, e i difettosi di vista si metton gli occhiali per vederlo: la garrula nutrice lascia che il bambino pianga fino ad aver convulsioni, mentre essa chiacchiera di lui: la sguattera di cucina si appunta il suo più ricco scialle intorno al collo bisunto, e sale sui muri per adocchiarlo; i banchi, gli sporti dei venditori, le finestre, sono tutte cariche di persone; le altane sono gremite, e sui comignoli sta a cavalcioni gente diversa di aspetto ma tutta concorde nell'ansia di vederlo; i flamini, che raramente si vedono, si pigiano tra la folla e si affannano per conquistare un umile posto; le nostre matrone velate concedono il bianco e il rosa, che lottano sulle loro guance delicatamente colorate, in licenziosa preda ai baci ardenti del sole. Il tumulto è così grande come se quel dio che lo guida si fosse abilmente insinuato nelle sue membra mortali e gli donasse un incesso pieno di grazia.

VELUTO: Sarà eletto console di colpo, ne son sicuro.

BRUTO: Allora il nostro ufficio, durante il suo governo, può andare a dormire.

VELUTO: Egli non sa portare con moderazione gli onori da dove dovrebbero cominciare a dove dovrebbero finire, ma perderà quelli che avrà guadagnato.

BRUTO: Vi è un conforto in questo.

VELUTO: Non temere che i plebei, dei quali noi siamo i difensori, non dimentichino, per il più piccolo motivo, a cagione del loro antico odio, questi nuovi onori da lui ottenuti; e che questo motivo lo offrirà egli stesso a loro, è per me cosa tanto poco dubbia quanto non è dubbio che egli sarà orgoglioso di farlo.

BRUTO: L'ho udito giurare che se dovesse presentarsi per il consolato, non apparirebbe mai nel foro, né indosserebbe la veste logora dell'umiltà: né mostrerebbe, secondo il costume, le ferite al popolo per mendicare il loro fetido fiato.

VELUTO: Proprio così.

BRUTO: Fu il suo giuramento: oh, egli al consolato rinuncerebbe anziché ottenerlo altrimenti che per la richiesta dell'aristocrazia e per il desiderio dei nobili.

VELUTO: Non desidero di meglio che egli si tenga fermo a questo proposito e lo metta in atto.

BRUTO: E' molto probabile che lo faccia.

VELUTO: Sarà allora per lui, come noi ardentemente auguriamo, una sicura rovina.

BRUTO: Dovrà succedere così o a lui o all'autorità nostra. Infine, dobbiamo far capire al popolo in quale odio egli lo ha sempre tenuto:

e che se avesse potuto, egli ne avrebbe fatto dei muli; avrebbe imposto silenzio ai loro difensori, e soppresse le loro libertà:

poiché li considera, in quanto alle loro azioni e alle loro capacità umane, di non maggiore intelletto o attitudine per il mondo, che i cammelli in guerra, che hanno il loro foraggio solo per portar fardelli, e solenni bastonate quando piegano sotto la soma.

VELUTO: Questo, come tu dici, suggerito al momento opportuno, quando la sua altezzosa insolenza urterà il popolo (e l'occasione non mancherà se egli vi è spinto, il che è tanto facile quanto aizzare cani contro pecore) sarà il fuoco che accenderà le loro stoppie secche, la cui vampa lo offuscherà per sempre.

 

(Entra un Messaggero)

 

BRUTO: Cosa c'è di nuovo?

MESSAGGERO: Siete chiamati in Campidoglio: si crede che Marzio sarà fatto console. Ho visto i muti fendere la folla per vederlo, e i ciechi per udirlo parlare. Le matrone gettavano i loro guanti, le donne e le fanciulle le sciarpe e i fazzoletti su lui, mentre passava:

i nobili si inchinavano come dinanzi alla statua di Giove: e i popolani facevano pioggia e tuoni con i loro berretti e le loro grida.

Non ho mai visto nulla di simile!

BRUTO: Andiamo al Campidoglio, e portiamo con noi orecchi ed occhi per la circostanza, ma cuori per l'evento...

VELUTO: Sono con voi.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SECONDA - Il Campidoglio

(Entrano due Ufficiali per stendere i cuscini)

 

PRIMO UFFICIALE: Su, presto, sono qui tra poco. Quanti aspirano al consolato?

SECONDO UFFICIALE: Tre, a quanto dicono: ma si ritiene da tutti che Coriolano l'otterrà lui.

PRIMO UFFICIALE: Quello sì che è un valoroso! ma è maledettamente orgoglioso e non ama il popolo.

SECONDO UFFICIALE: In fede mia, vi sono stati molti grandi uomini che hanno adulato il popolo che non li ha amati mai: e vi sono molti che il popolo ha amato senza sapere il perché; così che se il popolo ama e non ne sa la ragione, odia senza miglior fondamento. Quindi per Coriolano, il non preoccuparsi se il popolo lo ama o se lo odia, è prova della buona conoscenza che egli ha della sua indole; e con la sua nobile noncuranza egli lo lascia chiaramente intendere.

PRIMO UFFICIALE: Se egli non si curasse di ottenere o no l'affetto della moltitudine, gli riuscirebbe indifferente il fare ad essa del male o del bene; ma invece egli cerca l'odio dei popolani con più grande cura di quanto essi possano renderglielo: e non tralascia cosa alcuna che lo riveli come loro nemico. Ora il far vista di desiderare l'odio e il malanimo della plebe è altrettanto mal fatto quanto ciò che egli aborre: cioè l'adularla per conquistarne l'affetto.

SECONDO UFFICIALE: Egli ha ben meritato della patria; e la sua ascesa non è avvenuta per facili gradi come quella di coloro che, mostratisi pieghevoli e adulatoli verso il popolo, gli han fatto di cappello, senza far altro per acquistarne la stima e il rispetto; ma egli ha così ben fondato i suoi onori ai loro occhi, e le sue azioni nei loro cuori, che per le loro lingue il restar silenziose e il non riconoscere questi meriti sarebbe una specie di offesa piena d'ingratitudine, e lo svisarli sarebbe una malizia che, dandosi da se stessa la smentita, raccoglierebbe soltanto i rimproveri e lo sdegno d'ognuno che l'udisse.

PRIMO UFFICIALE: Non ne parliamo più: è un degno uomo. Facciamo posto, essi vengono.

 

(Suona un segnale. Entrano, preceduti dai Littori, il Console COMINIO, AGRIPPA, CORIOLANO, Senatori, VELUTO e BRUTO. I Senatori occupano i loro seggi: i Tribuni prendono posto separatamente. CORIOLANO rimane in piedi)

 

AGRIPPA: Avendo stabilito la sorte dei Volsci e di mandare a chiamare Tito Larzio, resta come principale oggetto di questa seconda adunanza, di ricompensare i nobili servigi resi da colui che ha così ben combattuto per la sua patria. Vi piaccia dunque, o molto onorandi e gravi senatori, di pregare il console attuale e già nostro generale nelle recenti e fortunate imprese, di raccontarci un po' delle nobili gesta compiute da Caio Marzio Coriolano per ringraziare il quale noi ci siamo qui riuniti, e per compensarlo con onori degni dei suoi meriti.

PRIMO SENATORE: Parlate, prode Cominio: non tralasciate nulla per tema di esser troppo lungo, e fateci sentire piuttosto che allo Stato fanno difetto i mezzi per la ricompensa anziché a noi la volontà di darla quanto più grande è possibile. (Ai Tribuni) Signori del popolo, vi chiediamo di prestarci la più benevola attenzione e, in seguito, il vostro affettuoso ufficio presso la comunità perché conceda quello che qui si decide.

VELUTO: Siamo convocati per una proposta che ci aggrada: e abbiamo cuori disposti ad onorare e ad innalzare quegli che è l'oggetto della nostra riunione.

BRUTO: Il che noi saremo tanto più felici di fare, se egli si rammenterà di stimare più benevolmente il popolo di quanto lo abbia apprezzato finora.

AGRIPPA: Questo non c'entra, questo non c'entra: avrei preferito che foste rimasto zitto. Siete disposti ad udire Cominio?

BRUTO: Dispostissimi: pure il mio avvertimento era più pertinente alla causa, che il rimprovero che voi gli avete mosso, AGRIPPA: Egli ama il vostro popolo, ma non obbligatelo ad esser loro compagno di letto. Nobile Cominio, parlate. (Coriolano fa l'atto di andarsene) No, restate al vostro posto.

PRIMO SENATORE: Sedete, Coriolano: non vergognatevi mai di udir narrare ciò che avete nobilmente compiuto.

CORIOLANO: Domando scusa alle Vostre signorie; vorrei piuttosto che le mie ferite fossero ancora da sanare, che udire come io le abbia ricevute.

BRUTO: Spero, signore, che le mie parole non vi abbiano spinto a lasciare il vostro seggio.

CORIOLANO: No, signore; però spesso, quando dei colpi mi hanno indotto a rimanere, sono fuggito davanti alle parole; ma voi non mi avete piaggiato, quindi non mi avete fatto del male. In quanto al vostro popolo, lo amo per quel che pesa.

AGRIPPA: Ora vi prego di sedere.

CORIOLANO: Preferirei farmi grattar la testa al sole mentre è già suonato l'allarme, che sedere qui ozioso a udir le mie imprese da nulla magnificate come meraviglie.

 

(Esce)

 

AGRIPPA: Signori del popolo, come può egli adulare la moltiplicantesi genia dei plebei in cui vi è uno buono su mille, quando voi vedete che egli preferisce arrischiare tutte le sue membra per la gloria, anziché prestare uno dei suoi orecchi per sentirla celebrare? Parlate, Cominio.

COMINIO: Mi mancherà la voce. Le gesta di Coriolano non dovrebbero esser narrate debolmente. Si ritiene che il coraggio sia la più alta virtù, quella che più nobilita chi la possiede; se così è, l'uomo di cui parlo non ha alcuno che gli stia a pari nel mondo. A sedici anni, quando Tarquinio mosse coll'esercito contro Roma, egli combatté superando tutti gli altri; il nostro dittatore del tempo, che io qui segnalo con ogni elogio, lo vide combattere allora, e col suo mento amazonio cacciar davanti a sé le irsute bocche; si piantò a gambe aperte su un Romano prostrato e sotto gli occhi del console uccise tre nemici. Affrontò lo stesso Tarquinio e lo colpì sì da farlo cadere in ginocchio; nelle imprese di quel giorno in cui egli avrebbe potuto recitar la parte di donna sulla scena, si rivelò il miglior uomo in campo, e per ricompensa ebbe la fronte incoronata di quercia. Entrato così dall'adolescenza nell'età virile, egli crebbe come il mare; e da allora, nell'urto di diciassette battaglie, ha privato tutte le spade della palma della vittoria. In quanto a quest'ultima battaglia, dinanzi e dentro Corioli, permettetemi di dire che io non posso elogiarlo degnamente. Egli fermò i fuggenti e col suo raro esempio fece sì che i codardi cambiassero il terrore in giuoco. Come le alghe sotto una nave a vele spiegate, così gli uomini gli ubbidivano e cadevano sotto la sua prora. La sua spada, punzone di morte, dove toccava, lasciava l'impronta. Dalla testa ai piedi era un essere di sangue, ed ogni suo movimento era accompagnato da grida di morenti, da solo egli varcò le fatali porte della città che segnò con un inevitabile destino; senza aiuto ne uscì fuori, e con un improvviso rinforzo colpì Corioli come un pianeta; ora tutto è suo: ed ecco ad un tratto il tumulto della battaglia cominciò a colpire il suo orecchio sempre vigile; ed allora subito il suo coraggio raddoppiato ravvivò quello che era stanco nella sua carne, ed egli si diresse alla battaglia; e là egli corse fumante di sangue sui corpi degli uomini come se perpetua dovesse esser la strage; e fino al momento in cui proclamammo nostra la città e nostro il campo, non si fermò mai per dar sollievo al suo petto ansimante.

AGRIPPA: Oh, prode!

PRIMO SENATORE: Egli è tagliato alla misura degli onori che noi gli destiniamo.

COMINIO: Egli respinse col piede le spoglie e considerò gli oggetti preziosi quasi fossero il vile fango del mondo. Desidera ancor meno di quello che la povertà stessa darebbe; compensa le proprie gesta col compierle, ed è contento di spendere così il suo tempo, per finirlo.

AGRIPPA: E' un uomo veramente nobile: che sia chiamato.

PRIMO SENATORE: Chiamate Coriolano.

GUARDIA: E' qui.

 

(Rientra CORIOLANO)

 

AGRIPPA: Il Senato, o Coriolano, è lieto di nominarti console.

CORIOLANO: Io gli debbo sempre la vita e i miei servigi.

AGRIPPA: Rimane ora che tu parli al popolo.

CORIOLANO: Vi scongiuro, lasciatemi passar sopra quest'uso: perché io non posso indossare l'abito di circostanza, denudarmi il petto, e pregarli che a motivo delle mie ferite mi diano i loro voti: vi piaccia che mi sia permesso tralasciare questo costume.

VELUTO: Signore, il popolo deve usare dei suoi suffragi, né è disposto a rinunciare ad un sol punto della cerimonia.

AGRIPPA: Non date loro appiglio: adattatevi, vi prego, alla costumanza, e conquistatevi quest'onore, come hanno fatto i vostri predecessori, rispettando tutte le forme.

CORIOLANO: e' una parte che io arrossisco di fare, e un diritto che potrebbe benissimo esser tolto al popolo.

BRUTO (a Veluto): Udite questo?

CORIOLANO: Ostentare avanti a loro: " Ho fatto questo, e questo": mostrare delle cicatrici che più non dolgono e che dovrei invece nascondere, come se le avessi ricevute solo per il salario del loro fiato.

AGRIPPA: Non insistete su questo: è per mezzo vostro, o tribuni, che raccomandiamo il nostro progetto al popolo; e al nostro nobile console auguriamo ogni gioia ed onore.

I SENATORI: Gioia ed onore a Coriolano.

 

(Fanfara: escono tutti tranne Bruto e Veluto)

 

BRUTO: Vedete come intende trattare il popolo.

VELUTO: Che possan capire il suo intento! egli andrà a chiedere il loro suffragio, come se disprezzasse che spetti a loro il dare ciò che egli domanda.

BRUTO: Andiamo ad informarli di quello che si è fatto qui: so che ci attendono nel Foro.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA TERZA - Il Foro

(Entrano parecchi Cittadini)

 

PRIMO CITTADINO: Insomma, se egli ci chiede il voto, non dobbiamo negarglielo.

SECONDO CITTADINO: Possiamo, signor mio, se vogliamo.

TERZO CITTADINO: Abbiamo in noi il potere di farlo, ma è un potere che non abbiamo potere di esercitare; perché se egli ci mostra le sue ferite e ci narra le sue gesta, noi dobbiamo metter le nostre lingue in quelle ferite e parlare per esse; così, se egli ci narrerà le sue nobili imprese, noi dobbiamo dire a lui che le accettiamo nobilmente.

L'ingratitudine è mostruosa, e per la moltitudine essere ingrata sarebbe come fare un mostro della moltitudine: e poiché noi siamo membri della moltitudine renderemmo noi stessi dei membri mostruosi.

PRIMO CITTADINO: E per fare che non si sia considerati più di così, basta una piccola spinta; perché una volta, quando ci sollevammo per l'affare del grano, egli, Coriolano, non esitò a chiamarci "la moltitudine, mostro dalle mille teste".

TERZO CITTADINO: Siamo stati chiamati così da molti: non già perché le nostre teste siano alcune brune, altre nere, altre castagne, altre calve, ma perché i nostri intendimenti sono di diversi colori: e davvero io credo che se tutti i nostri intendimenti dovessero uscire fuori da un solo cranio, volerebbero a oriente, a occidente, a settentrione, a mezzodì; e il loro accordo su una sola direzione sarebbe quello di volare simultaneamente in tutte le direzioni della bussola.

SECONDO CITTADINO: Credete che sia così? e in quale direzione credete che volerebbe il mio intendimento?

TERZO CITTADINO: Oh, il vostro intendimento non uscirebbe così presto come quello di un altro, perché è solidamente incastrato in una testa di legno: ma se riuscisse a liberarsi, volerebbe certo verso mezzodì.

SECONDO CITTADINO: E perché in quella direzione?

TERZO CITTADINO: Per perdersi in un nebbione, dove, dopo essersi sciolto per tre parti nelle putride rugiade, la quarta tornerebbe per scrupolo di coscienza per aiutarvi a trovare moglie.

SECONDO CITTADINO: Voi scherzate sempre: fate pure, fate pure.

TERZO CITTADINO: Siete tutti decisi a dare il vostro voto? Ma questo non importa: basta la maggioranza; per me, vi dico che non vi è stato mai uomo più meritevole, se soltanto volesse mostrarsi più incline verso il popolo.

 

(Entrano CORIOLANO nella toga dell'umiltà, e AGRIPPA)

 

Ecco che egli viene, e nella toga dell'umiltà: osservate il suo contegno. Non dobbiamo rimanere tutti insieme, ma avvicinarci a lui dove si è fermato, a uno, a due o a tre per volta: egli deve rivolgere la sua domanda a ciascuno: e così ognuno di noi avrà l'onore personale di dargli il proprio voto, con la propria voce: perciò seguitemi e io vi mostrerò come dovete avvicinarvi a lui.

TUTTI: Bene, bene!

 

(Escono)

 

AGRIPPA: Signore, avete torto. Non sapete che gli uomini più degni lo hanno fatto?

CORIOLANO: Che debbo io dire? "Vi prego, signore"... maledetto quest'uso! Io non posso indurre la mia lingua a questo passo!

"Guardate. signore, le mie ferite; le ho ricevute nel servire la mia patria, quando alcuni dei vostri urlavano e fuggivano al rumore dei nostri tamburi".

AGRIPPA: Povero me! O dèi! non dovete parlare di questo: dovete pregarli di pensare a voi.

CORIOLANO: Pensare a me? Che il diavolo li porti! Vorrei che si dimenticassero di me come delle virtù che i sacerdoti perdono il tempo a insegnar loro!

AGRIPPA: Voi guasterete tutto: vi lascio; parlate loro vi scongiuro, in modo ragionevole.

CORIOLANO: Dite loro di lavarsi la faccia e di pulirsi bene i denti.

 

(Esce Agrippa. Rientrano due Cittadini)

 

Così, eccone un paio! Voi sapete, signore, il motivo per il quale mi presento qui?

PRIMO CITTADINO: Lo sappiamo, signore; diteci, che cosa vi ci ha condotto?

CORIOLANO: Il mio proprio merito.

SECONDO CITTADINO: Il vostro proprio merito?

CORIOLANO: Certo, non il mio desiderio.

PRIMO CITTADINO: Come, non il vostro desiderio?

CORIOLANO: No, signore: non fu mai mio desiderio importunare i poveri col chieder loro l'elemosina.

PRIMO CITTADINO: Dovete ben capire che se vi diamo qualche cosa, speriamo di guadagnare qualcosa per mezzo vostro.

CORIOLANO: Benissimo: allora qual è il vostro prezzo del consolato?

PRIMO CITTADINO: Il prezzo è di chiederlo cortesemente.

CORIOLANO: Cortesemente? signore, vi prego, concedetemelo, ho ferite da mostrarvi, che sono a vostra disposizione in privato. Il vostro buon voto, signore: cosa ne dite?

SECONDO CITTADINO: Voi lo avrete, nobile signore.

CORIOLANO: Patto conchiuso, signore: ecco già due onesti voti mendicati. Ho la vostra elemosina: addio.

PRIMO CITTADINO: Ma questo è un modo piuttosto strano...

SECONDO CITTADINO: Se dovessi concederlo di nuovo... ma non importa.

 

(Escono i due Cittadini. Rientrano altri due Cittadini)

 

CORIOLANO: Vi prego, se si accorda col tono delle vostre voci che io sia console, io ho indosso il vestito richiesto dal costume.

TERZO CITTADINO: Avete meritato nobilmente della vostra patria e non avete meritato nobilmente.

CORIOLANO: La soluzione del vostro enigma?

TERZO CITTADINO: Siete stato un flagello per i suoi nemici, e una frusta per i suoi amici: non avete in verità amato il popolo basso.

CORIOLANO: Dovreste considerarmi tanto più virtuoso, in quanto non sono stato basso nel mio affetto. Io voglio, signore, adulare il mio diletto fratello, il popolo, per conquistarmi una più alta stima da parte sua; è un'azione, questa, che esso reputa graziosa: e dacché la saggezza della sua scelta è di avere il mio cappello, anziché il mio cuore, io voglio esercitarmi nel saluto insinuante e mi caverò il cappello davanti a loro simulando nel miglior modo: cioè a dire contraffarò le lusinghe di alcuni uomini popolari e sarò largo nel dispensarle a quelli che le desiderano. Perciò, vi scongiuro, fatemi console.

QUARTO CITTADINO: Speriamo di trovarvi nostro amico: e perciò vi diamo il nostro voto, di buon grado.

TERZO CITTADINO: Voi avete ricevuto molte ferite per il vostro paese.

CORIOLANO: Non suggellerò la vostra conoscenza col mostrarvele: farò gran caso dei vostri voti e così non vi annoierò più oltre.

TERZO e QUARTO CITTADINO: Gli dèi vi diano felicità, signore, ve lo auguriamo di cuore.

 

(Escono)

 

CORIOLANO: Dolcissimi voti! è meglio morire, meglio crepar di fame, che mendicare il salario che ci siamo meritato. Perché dovrei rimanere qui, in questa veste lanosa, per mendicare gli inutili attestati di Tizio e di Caio, man mano che si presentano? La costumanza vuole che io faccia così: ma se si facesse in tutte le cose quello che la costumanza vuole, la polvere si poserebbe sul passato senza essere spazzata via, e montagne di errori si accumulerebbero troppo alte per permettere alla verità di spuntar fuori. Piuttosto che fare così il buffone, vadano quest'alta carica e quest'onore a chi sia disposto a comportarsi in tal modo. Ma ho già fatto metà del cammino: e poiché ho sofferto una parte del male, sopporterò l'altra.

 

(Entrano altri tre Cittadini)

 

Ecco che vengono altri voti. I vostri voti: per i vostri voti ho combattuto, ho vegliato per i vostri voti; per i vostri voti porto due dozzine e più di ferite, e ho visto e sentito diciotto battaglie; per i vostri voti ho compiuto molte cose, alcune minori, altre maggiori; i vostri voti: davvero, vorrei esser console.

QUINTO CITTADINO: Egli ha operato nobilmente e non può partire senza il voto di ogni uomo onesto.

SESTO CITTADINO: Dunque, che egli sia console: gli dèi gli diano gioia e lo rendano buon amico del popolo.

QUINTO e SESTO CITTADINO: Amen, amen; Dio ti salvi, magnanimo console.

 

(Escono)

 

CORIOLANO: Degni voti.

 

(Rientra AGRIPPA con BRUTO e VELUTO)

 

AGRIPPA: Siete rimasto tutto il tempo prescritto, ed i tribuni vi investono del potere con i voti del popolo: non resta altro che, rivestito delle insegne ufficiali, vi presentiate tra poco al Senato.

CORIOLANO: E' finito?

VELUTO: Avete soddisfatto la costumanza della richiesta: il popolo vi accetta ed è convocato tra breve per la vostra conferma.

CORIOLANO: Dove? al Senato?

VELUTO: Sì, là, Coriolano.

CORIOLANO: Posso ora cambiarmi questa veste?

VELUTO: Lo potete, signore.

CORIOLANO: Lo farò subito: e tornato quale ero prima, mi recherò al Senato.

AGRIPPA: Vi terrò compagnia. Venite anche voi?

BRUTO: Attendiamo qui il popolo.

VELUTO: Addio! (Escono Coriolano e Agrippa) Il consolato è suo, adesso, e per quanto posso giudicare dal suo aspetto, il suo cuore ne è lieto.

BRUTO: Con orgoglioso cuore portava l'umile veste: volete congedare il popolo?

 

(Rientrano i Cittadini)

 

VELUTO: Ebbene, miei padroni? Avete scelto quest'uomo?

PRIMO CITTADINO: Egli ha i nostri voti, signore.

BRUTO: Preghiamo gli dèi che possa meritare il vostro affetto.

SECONDO CITTADINO: Amen, signore. Secondo la mia povera e modesta impressione, egli si è fatto beffe di noi quando ci ha chiesto i voti.

TERZO CITTADINO: Certo, ci ha apertamente presi in giro.

PRIMO CITTADINO: No, è il suo modo di parlare: non si è burlato di noi.

SECONDO CITTADINO: Non v'è nessuno tra noi, voi eccettuato, che non dica che ci ha trattato sprezzantemente: avrebbe dovuto mostrarci i segni del suo merito, le ferite ricevute per la patria.

VELUTO: Ma l'avrà fatto certamente, non ne dubito.

CITTADINI: No, no, nessuno le ha viste.

TERZO CITTADINO: Disse che aveva ferite che poteva mostrarci in privato: e agitando il cappello così con atto di sprezzo, "vorrei esser console - diceva: - l'antico costume non me lo permette se non con i vostri voti: quindi datemi i vostri voti". Quando noi glieli abbiamo concessi, ecco ciò che ha detto: "vi ringrazio per i vostri voti; vi ringrazio; i vostri carissimi voti; ora che mi avete dato i vostri voti, non so più che farmene di voi". Non era una canzonatura?

VELUTO: Ma come siete stati così stolti da non accorgervene? o, essendovene accorti, siete stati di una indulgenza così infantile da concedergli i voti?

BRUTO: Non avreste potuto dirgli, come vi avevamo insegnato, che quando non aveva alcun potere ed era l'umile servitore dello Stato fu vostro nemico? parlò sempre contro la vostra libertà e contro i privilegi che voi godete nel corpo dello Stato? e che, giungendo ora a una posizione autorevole, al governo della repubblica, se dovesse continuare ad essere, malignamente, fiero nemico dei plebei, i vostri voti potrebbero convertirsi in maledizioni contro voi stessi? Avreste dovuto dire che, come le sue gloriose gesta gli danno diritto a non minor ufficio di quello per cui si presentava, così la sua graziosa natura avrebbe dovuto interessarsi a voi, in compenso dei vostri voti, e trasformare la malevolenza in affetto, mostrandosi un benevolo signore.

VELUTO: Se aveste parlato così, come eravate stati consigliati prima, avreste sperimentato il suo animo, e messa alla prova la sua indole, e gli avreste strappato o una graziosa promessa, alla quale avreste potuto vincolarlo appena l'occasione si fosse presentata, oppure avreste irritato la sua arrogante natura che non sopporta facilmente un impegno che lo leghi a checchessia; e così, facendolo andar sulle furie, avreste potuto trar motivo dalla sua collera, per lasciarlo da parte e non eleggerlo.

BRUTO: Avete notato con quale aperto disprezzo vi ha sollecitato quando aveva bisogno della vostra amicizia: e non credete che il suo disprezzo sarà rovinoso per voi, allorché avrà il potere di schiacciarvi? E che, eravate solo dei corpi? non avevate un cuore in voi? avevate la lingua solo per gridare contro il governo della ragione?

VELUTO: Non avete prima d'ora opposto un rifiuto a chi vi pregava? e ora prodigate i vostri voti, così ricercati, a chi non li ha chiesti, ma si è fatto beffe di voi?

TERZO CITTADINO: Non è stato confermato: possiamo ancora rifiutarlo.

SECONDO CITTADINO: E lo rifiuteremo: io avrò cinquecento voci per cantar quest'aria.

PRIMO CITTADINO: Io due volte cinquecento e i loro amici per rinforzo.

BRUTO: Partite subito di qui, e dite a questi vostri amici che hanno scelto un console che toglierà loro ogni libertà; e li ridurrà a non aver più voce di un cane che è picchiato spesso perché abbaia, eppure è tenuto per abbaiare.

VELUTO: Che si riuniscano, e, dopo più maturo giudizio, revochino questa stolida elezione; fate valere il suo orgoglio e il suo antico odio per voi; inoltre non dimenticate con quale disdegno egli ha indossato l'umile veste, e come nel sollecitarvi si è fatto beffe di voi; ma il vostro affetto, al pensiero dei suoi grandi servigi, vi ha tolto ogni apprezzamento del suo contegno che egli aveva regolato in maniera insultante e sconveniente, secondo l'odio inveterato che ha per voi.

BRUTO: Date la colpa a noi, vostri tribuni, che ci siamo affaticati, sì che nessun ostacolo si frapponesse affinché voi faceste cadere la vostra scelta su lui.

VELUTO: Dite che lo avete eletto più dietro nostro ordine, che obbedendo al vostro vero sentimento: e che il vostro animo, preoccupato più di quello che doveva fare, anziché di quello che gli convenisse fare, v'indusse a malincuore ad eleggerlo console. Gettate tutta la colpa su noi.

BRUTO: Sì, non ci risparmiate: dite che noi vi abbiamo tenuto lunghi discorsi, ricordandovi come egli fosse giovanissimo quando cominciò a servire la patria, e come abbia continuato a servirla per lungo tempo; e da quale nobile stirpe egli discenda: l'illustre casata dei Marzi, da cui venne quell'Anco Marzio, figlio della figlia di Numa che, dopo il grande Ostilio, regnò tra noi; e della stessa casa furono Publio e Quinto che condussero qui, con acquedotti, la nostra acqua migliore; e Censorino, così nobilmente soprannominato perché due volte fu censore, era il suo illustre avolo.

VELUTO: Dite che noi abbiamo raccomandato alla vostra benevolenza uno disceso da così nobile schiatta e che aveva ben operato con la sua persona sì da meritare d'esser posto in un alto ufficio: ma voi avete trovato, comparando la sua condotta di oggi con quella passata, che egli è vostro deciso nemico, e perciò revocate il vostro affrettato assenso.

BRUTO: Dite che non l'avreste mai fatto (insistete sempre su questo tasto) se non per le nostre istigazioni: e subito, appena vi sarete raccolti in numero, venite al Campidoglio.

I CITTADINI: Lo faremo: quasi tutti si pentono della loro scelta.

 

(Escono)

 

BRUTO: Adesso, vadano pur avanti: era meglio correre il rischio di questa rivolta, anziché attendere e correre un rischio senza dubbio più grave. Se, come è sua natura egli si infuria per il loro rifiuto, osserviamo e cerchiamo di trar profitto dalla sua collera.

VELUTO: Al Campidoglio. Andiamo: noi vi saremo prima della marea del popolo: e questa rivolta che noi abbiamo istigata, sembrerà, come è vero in parte, tutta opera loro.

 

(Escono)

 

 

 

ATTO TERZO

 

SCENA PRIMA - Roma. Una strada

(Trombe. Entrano CORIOLANO, AGRIPPA, COMINIO, TITO LARZIO, Senatori, Patrizi)

 

CORIOLANO: Tullo Aufidio dunque aveva messo insieme un nuovo esercito?

LARZIO: Sì, mio signore: e questo ha reso più rapido il nostro accomodamento.

CORIOLANO: Così dunque i Volsci si trovano come prima; pronti, appena l'occasione li spingerà, a far di nuovo incursioni contro di noi.

COMINIO: Essi sono esausti, o mio console, tanto che difficilmente nei nostri giorni vedremo ancora la loro bandiera fluttuare al vento.

CORIOLANO: Hai veduto Aufidio?

LARZIO: E' venuto da me con un salvacondotto: e ha maledetto i Volsci perché avevano così vilmente ceduto la città: egli si è ritirato ad Anzio.

CORIOLANO: Ha parlato di me?

LARZIO: Sì, mio signore.

CORIOLANO: Come? che ha detto?

LARZIO: Come spesso vi aveva incontrato spada contro spada: che di tutte le cose sulla faccia della terra egli odiava voi più di tutti:

che egli impegnerebbe tutti i suoi beni senza speranza di riscatto, pur di poter esser chiamato vostro vincitore.

CORIOLANO: Vive ad Anzio?

LARZIO: Ad Anzio.

CORIOLANO: Vorrei avere un motivo per cercarlo là e affrontare completamente il suo odio. Benvenuto a casa.

 

(Entrano VELUTO e BRUTO)

 

Ecco, questi sono i tribuni del popolo, la lingua della bocca comune.

Io proprio li disprezzo perché si ammantano di autorità in modo intollerabile per ogni nobile cuore.

VELUTO: Non procedete oltre.

CORIOLANO: Ah, che è questo?

BRUTO: Sarebbe pericoloso andare avanti: non andate oltre.

CORIOLANO: Quale la ragione di questo cambiamento?

AGRIPPA: Il motivo?

COMINIO: Non è egli passato per i voti dei nobili e della plebe?

BRUTO: No. Cominio.

CORIOLANO: Ho avuto forse voti di bimbi?

PRIMO SENATORE: Tribuni, fate largo: egli deve andare al Foro.

BRUTO: Il popolo è irritato contro di lui.

VELUTO: Fermatevi, o tutto degenererà in tumulto.

CORIOLANO: Questi dunque sono il vostro gregge? debbono aver il voto questi che ora possono concederlo e subito dopo rinnegare la loro lingua? Qual è il vostro ufficio? Voi che siete la loro bocca, perché non tenete a freno i loro denti? Non li avete forse aizzati voi?

AGRIPPA: Calma, calma.

CORIOLANO: E' una cosa preparata, è un complotto per piegare la volontà dei nobili. Sopportatelo, e vivrete con persone che non sanno governare e che non consentono ad essere governate.

BRUTO: Non lo chiamate un complotto... la plebe grida che vi siete fatto beffe di essa e che recentemente, quando il grano fu dato gratis al popolo, voi avete protestato; avete calunniato quelli che supplicavano per il popolo: li avete chiamati temporeggiatori, adulatori, nemici della nobiltà.

CORIOLANO: E che, questo si sapeva da prima.

BRUTO: Non tutti lo sapevano.

CORIOLANO: Li avete voi informati dopo d'allora?

BRUTO: Come! io informarli!

CORIOLANO: Voi siete capace di fare una tale azione.

BRUTO: In ogni caso, capace sempre di migliorare le vostre.

CORIOLANO: A che dunque sarei io console? Per le nuvole, che io divenga così cattivo cittadino come voi e nominatemi vostro collega nel tribunato!

VELUTO: Voi mostrate ancora troppo di ciò che ha sollevato il popolo.

Se volete arrivare là dove siete diretto, dovete con più mite animo chiedere la strada della quale siete fuori: o non sarete mai così nobile come un console, né vi appaierete con Bruto come tribuno.

AGRIPPA: Siamo calmi.

COMINIO: Il popolo è ingannato, messo su: queste tergiversazioni non si addicono a Roma: né Coriolano ha meritato questo vergognoso impedimento perfidamente posto sull'aperto cammino dei suoi meriti.

CORIOLANO: Parlatemi del grano! Queste furono le mie parole e io le ripeterò ancora.

AGRIPPA: Non ora, non ora.

PRIMO SENATORE: Non in questo momento d'ira, signore.

CORIOLANO: Come è vero che io vivo, ora le voglio ripetere. Quanto ai miei più nobili amici, domando loro scusa: ma quanto alla mutevole puzzolente moltitudine, mirino me, poiché io non adulo, e in me si specchino: io lo dico ancora una volta, che nel blandirla noi nutriamo contro il Senato il seme della ribellione, dell'insolenza, della sedizione, per il quale noi stessi abbiamo arato il terreno e che abbiamo seminato e diffuso permettendo ad essa di mischiarsi con noi gente d'onore, che non manchiamo di valore, no, né di potenza, tranne quella che abbiamo concessa ai mendicanti.

AGRIPPA: Bene, ora basta.

PRIMO SENATORE: Non più parole, vi scongiuriamo.

CORIOLANO: Come, non più? Come per la mia patria io ho versato il mio sangue senza temere le forze esterne, così i miei polmoni foggeranno parole fino che hanno fiato contro questa lebbra che noi abbiamo orrore ci possa infettare e che pure abbiamo fatto del nostro meglio per prendere.

BRUTO: Voi parlate del popolo quasi foste un dio che punisce e non un uomo debole come lui.

VELUTO: Sarebbe bene che noi ne informassimo il popolo.

AGRIPPA: Che, che? di uno scatto d'ira?

CORIOLANO: Ira? se io fossi calmo come il sonno di mezzanotte, per Giove, quello sarebbe sempre il mio modo di sentire.

VELUTO: E' un modo di sentire che deve rimanere un veleno dove si trova, senza spargersi più lontano.

CORIOLANO: Deve rimanere! sentite questo Tritone dei ghiozzi? Avete notato il suo assoluto "deve"?

COMINIO: E' contro la legge.

CORIOLANO: "Deve"! O buoni ma poco savi patrizi, perché voi, gravi ma imprudenti senatori, perché avete voi così concesso a quest'Idra di scegliersi un magistrato che col suo perentorio "deve", non essendo altro che il corno e la voce del mostro, ha il coraggio di dire che egli devierà in un fossato il vostro fiume, e si impadronirà del vostro letto? Se essi hanno il potere, allora preparate loro dei cuscini accanto a voi; se non lo hanno, risvegliatevi dalla vostra colpevole clemenza. Se voi siete istruiti, non mettetevi al rango di volgari imbecilli: se non lo siete, allora la vostra ignoranza si umili davanti a loro. Voi siete dei plebei, se essi sono senatori: ed essi non sono da meno, se, una volta mescolati i vostri voti, il gusto predominante è quello che sa di loro. Essi scelgono il loro magistrato; e uno come lui che oppone il suo "deve", il suo "deve" popolare, contro un'assemblea più impotente di quante mai abbian imperato in Grecia. Per Giove in persona! questo rende i consoli spregevoli: e la mia anima soffre nel vedere, quando sono contrapposte due autorità di cui nessuna è superiore, come rapidamente la confusione penetri nella breccia che vi è tra le due e distrugga l'una per mezzo dell'altra.

COMINIO: Su, andiamo al Foro.

CORIOLANO: Chiunque ha dato quel consiglio di distribuire gratis il grano ammassato nei depositi, come si soleva fare talora in Grecia...

AGRIPPA: Bene, bene, non parliamo più di questo.

CORIOLANO: Sebbene là il popolo avesse un potere più ampio, io dico che essi hanno nutrito la rivolta e alimentato la rovina dello Stato.

BRUTO: Come, il popolo dovrebbe dare i suoi voti a uno che parla così?

CORIOLANO: Io darò le mie ragioni, che valgono più dei loro voti. Essi sanno bene che il grano noi non dovevamo darlo come ricompensa, essendo ben accertato che non avevano mai fatto nulla per guadagnarselo. Arruolati a forza, proprio quando il cuore dello Stato era minacciato, non volevano infilare le porte della città: questo bel servizio non meritava certo il grano gratis. Una volta in guerra, i loro ammutinamenti e le loro rivolte, nelle quali mostravano tutta la loro valentia, non parlarono in loro favore. Le accuse che hanno spesso rivolte contro il Senato senza causa alcuna, non potevano certo esser il motivo di una nostra così liberale donazione. Ebbene, e allora? Come questo loro molteplice ventre digerirà la munificenza del Senato? Che le loro azioni esprimano quello che sarà probabilmente il loro linguaggio: "Noi l'abbiamo domandato: noi siamo i votanti più numerosi e per semplice paura essi ci hanno accordato la nostra richiesta". Così noi avviliamo la maestà naturale dei nostri seggi e facciamo sì che la canaglia chiami paura le nostre cure: la canaglia che col tempo spezzerà le serrature del Senato e farà entrare i corvi a beccare le aquile.

AGRIPPA: Orsù, basta!

BRUTO: Basta, ed è anche troppo.

CORIOLANO: No, prendete ancora questo: e che tutto ciò su cui si può giurare di divino e di umano, suggelli quello col quale io conchiuderò. Questa duplice autorità, dove una parte disdegna e con ragione, e l'altra insulta senza ragione, dove la nobiltà, il titolo, la saggezza non possono decidere tranne che col sì o il no della generale ignoranza, deve necessariamente trascurare i bisogni reali dello Stato e dar luogo, nel frattempo, a una instabile leggerezza: e così essendo impedito ogni proposito, ne segue che nulla è fatto a proposito. Perciò io vi scongiuro, voi che volete esser meno timorosi che savi, che amate troppo l'essenza dello Stato per esitare a riformarla: voi che preferite una vita nobile a una lunga, e desiderate, con una pericolosa medicina, mettere a repentaglio un corpo che senza di essa sarebbe sicuro di morire: voi, strappate di un sol colpo la lingua alla moltitudine e non permettete che essa lecchi il dolce che è il suo veleno. La vostra degradazione mutila ogni vero giudizio e priva lo Stato di quella unità di governo che gli sarebbe acconcia: perché non ha il potere di fare il bene che vorrebbe fare a causa del male che lo tiene schiavo.

BRUTO: Ha detto abbastanza.

VELUTO: Ha parlato da traditore, e dovrà rispondere come un traditore.

CORIOLANO: Tu, miserabile: che la tua rabbia ti annienti. Che dovrebbe fare il popolo con questi tribuni senza cervello? Appoggiandosi ad essi, la sua obbedienza viene meno verso il tribunale superiore. In una ribellione, quando non quel che è giusto, ma quel che è necessario, era legge, essi furono eletti: in un'ora migliore si dica che quello che è giusto deve essere giusto e si getti nella polvere il loro potere.

BRUTO: Aperto tradimento!

VELUTO: Costui un console? No.

BRUTO: Edili, Edili!

 

(Entra un Edile)

 

Che egli sia arrestato...

VELUTO: Andate, chiamate il popolo, (l'Edile esce) nel cui nome io stesso ti arresto come un innovatore traditore, un nemico del pubblico bene. Obbedisci, io te l'ordino, e seguimi là dove risponderai all'accusa.

CORIOLANO: Indietro, vecchio becco!

SENATORI e PATRIZI: Noi saremo mallevadori per lui.

COMINIO (a Veluto): Giù le mani, vecchio.

CORIOLANO: Indietro, putridume, o io ti scuoterò le ossa fuori dei tuoi vestiti.

VELUTO: Aiuto, cittadini.

 

(Entra una turba di Cittadini, con gli Edili)

 

AGRIPPA: Abbiate più rispetto da tutte e due le parti.

VELUTO: Ecco l'uomo che vorrebbe togliervi tutto il vostro potere.

BRUTO: Afferratelo, Edili.

I CITTADINI (parlando tutti in una volta): Abbasso! abbasso!

I SENATORI e I PATRIZI: Armi, armi, armi! (Tutti si agitano intorno a Coriolano gridando) Tribuni! Patrizi! Cittadini! ehi! Sicinio! Bruto!

Coriolano! Cittadini! Pace, pace, pace! Aspettate, fermatevi, zitti!

AGRIPPA: Cosa sta per succedere? io non ho più fiato: la rovina si appressa. Non posso parlare. Voi, tribuni, parlate al popolo.

Coriolano, calma: parla, o buon Sicinio.

VELUTO: Ascoltatemi, popolo; silenzio.

I CITTADINI: Sentiamo il nostro tribuno: zitti! parla, parla, parla!

VELUTO: Siete sul punto di perdere le vostre libertà! Marzio vorrebbe togliervele tutte; Marzio che voi or ora avete nominato console.

AGRIPPA: Ohibò, ohibò! questa è la maniera di suscitare, non di domare l'incendio.

PRIMO SENATORE: Di distruggere la città e di buttare tutto a terra.

VELUTO: Cosa è la città se non il popolo?

I CITTADINI: E' vero, il popolo è la città.

BRUTO: Per consenso unanime noi siamo stati creati magistrati del popolo.

I CITTADINI: E tali rimanete.

AGRIPPA: E' probabile che rimaniate.

COMINIO: Questo è il modo di abbattere lo Stato: di portare i tetti sulle fondamenta e seppellire ciò che ancora si trova in buon ordine sotto un cumulo e un ammasso di rovine.

VELUTO: Questo merita la morte.

BRUTO: O teniamo fermo alla nostra autorità o la perdiamo; noi dichiariamo qui, in nome del popolo in virtù del cui potere fummo eletti, che Marzio è meritevole di morte immediata.

VELUTO: Perciò, impadronitevi di lui; portatelo sulla rupe Tarpea e di là precipitatelo abbasso.

BRUTO: Edili, afferratelo.

I CITTADINI: Cedi Marzio, cedi.

AGRIPPA: Una soia parola; vi scongiuro, o tribuni, ascoltate una sola parola.

EDILE: Silenzio, silenzio!

AGRIPPA: Siate quali voi sembrate, sinceri amici della vostra patria, e procedete con moderazione in quello che voi volete così violentemente rimediare.

BRUTO: Signore, queste fredde maniere che rassomigliano a dei soccorsi prudenti, sono molto perniciose quando il male è violento: mettete le mani su di lui e portatelo alla rupe.

CORIOLANO: No, io voglio morir qui (sguaina la spada) Vi è qualcuno tra voi che mi ha visto combattere: su, venite a provare quello che mi avete visto fare.

AGRIPPA: Giù la spada. Tribuni, ritiratevi un momento.

BRUTO: Mettetegli le mani addosso.

AGRIPPA: Aiutate Marzio, aiutate, voi nobili; aiutatelo, giovani e vecchi!

I CITTADINI: Abbasso, abbasso!

 

(Nella zuffa Tribuni, Edili e Popolani sono ricacciati)

 

AGRIPPA: Andate, ritornate a casa, ritiratevi, presto, o tutto sarà perduto.

SECONDO SENATORE: Ritiratevi.

COMINIO: Teniamo duro: abbiamo tanti amici quanti nemici.

AGRIPPA: Dobbiamo arrivare a questo?

PRIMO SENATORE: Gli dèi ce ne liberino! Ti prego, nobile amico, ritorna alla tua casa; lascia a noi di rimediare a questo male.

AGRIPPA: Perché è una piaga per noi che voi non potete medicare: vi scongiuro, ritiratevi.

COMINIO: Sì, signore, venite via con noi.

CORIOLANO: Vorrei che fossero barbari (come sono, sebbene generati in Roma), e non dei Romani, come non sono, sebbene figliati sotto il portico del Campidoglio.

AGRIPPA: Andate: non mettete in parole la vostra giusta collera: ci rifaremo un'altra volta.

CORIOLANO: Su schietto terreno io potrei vincerne quaranta.

AGRIPPA: Io stesso potrei occuparmi di un paio e dei migliori: sì, i due tribuni.

COMINIO: Ma ora vi è una disuguaglianza che passa ogni calcolo; e l'ardire è chiamato follia quando si oppone a un edificio che crolla.

Volete andarvene prima che ritorni la marmaglia, la cui rabbia, come le acque ostacolate nel loro corso, abbatte e travolge quello che essa di solito sopporta?

AGRIPPA: Vi prego, andate: voglio vedere se il mio vecchio spirito può servir a qualcosa presso quelli che non ne posseggono che poco: questo affare deve essere rappezzato con pezze di qualsiasi colore.

COMINIO: Orsù, venite via.

 

(Escono Coriolano, Cominio e altri)

 

PRIMO PATRIZIO: Quest'uomo ha rovinato la sua fortuna.

AGRIPPA: La sua natura è troppo nobile per questo mondo; egli non adulerebbe Nettuno per il suo tridente, né Giove per il suo potere sulla folgore. Il suo cuore è la sua bocca: quello che il suo animo pensa, la sua lingua deve esprimerlo; e quando è inquieto, egli dimentica di aver mai udito il nome della morte. (Rumori all'interno) Ecco un bell'affare!

SECONDO PATRIZIO: Vorrei che fossero a letto!

AGRIPPA: Vorrei che fossero nel Tevere. E che maledizione! non poteva egli dir loro delle belle parole?

 

(Entrano BRUTO e VELUTO con la folla)

 

VELUTO: Dov'è la vipera che vorrebbe spopolare la città, ed esser egli solo tutti gli uomini?

AGRIPPA: Degni tribuni...

VELUTO: Sarà gettato giù dalla Rupe Tarpea senza pietà; egli si è opposto alla legge e quindi la legge gli rifiuterà con disprezzo ogni altro giudizio fuorché il rigore del pubblico potere di cui egli non tiene alcun conto.

PRIMO CITTADINO: Egli apprenderà che i nobili tribuni sono la bocca del popolo e noi le loro mani.

I CITTADINI: Lo apprenderà; senza alcun dubbio.

AGRIPPA: Signore, signore...

VELUTO: Silenzio!

AGRIPPA: Non gridate "a morte" là dove dovreste procedere con un'autorità moderata.

VELUTO: Signore, come è che avete aiutato nel favorire la fuga del colpevole?

AGRIPPA: Ascoltatemi: come io conosco i meriti del console così posso elencare i suoi difetti...

VELUTO: Console! quale console?

AGRIPPA: Il console Coriolano.

BRUTO: Lui, console!

I CITTADINI: No, no, no, no, no!

AGRIPPA: Se col permesso dei tribuni e vostro, miei buoni popolani, io posso essere ascoltato, bramerei dirvi una parola o due: il che non vi procurerà altro male che la perdita di un po' di tempo.

 

VELUTO: Parlate brevemente, allora, perché noi siamo decisi di farla finita con questo perfido traditore: il cacciarlo di qui, non sarebbe che un pericolo per noi, e mantenerlo qui, la nostra morte certa:

quindi è stabilito che egli muoia stasera.

AGRIPPA: Ora i benigni dèi impediscano che la nostra illustre Roma, la cui gratitudine verso i suoi figli meritevoli è iscritta nel gran libro di Giove, come una madre snaturata, divori oggi i figli suoi.

VELUTO: E' un malanno che deve essere tagliato via.

AGRIPPA: Oh, è un membro che non ha che una malattia; il tagliarlo via sarebbe mortale; il guarirlo facile. Che ha egli fatto contro Roma che lo renda meritevole di morte? L'aver ucciso i nostri nemici? Il sangue che egli ha perduto (che, sono pronto a garantirlo, supera di varie once quello che ha nelle vene) egli l'ha versato a goccia a goccia per la patria: e quello che gli resta, se lo perdesse per colpa della patria, sarebbe per noi tutti, tanto per quelli che lo facessero, come per quelli che lo permettessero, un'onta eterna.

VELUTO: Questa è una perversione della verità.

BRUTO: Proprio il rovescio. Quando egli amò la sua patria, essa lo onorò.

AGRIPPA: Ma allora il piede, una volta in cancrena, non è più rispettato per i servizi che rendeva prima...

BRUTO: Non ascolteremo più oltre: inseguitelo fino alla sua casa e strappatelo via di là: affinché la sua infezione, che è di natura contagiosa, non si diffonda più lontano.

AGRIPPA: Una parola ancora, una parola. Questa rabbia dai piedi di tigre quando avrà conosciuto il danno di una precipitazione irriflessiva legherà troppo tardi dei pesi di piombo ai suoi talloni.

Procedete legalmente per evitare che le fazioni (perché egli è molto amato) irrompano e mettano a sacco la grande Roma per opera di Romani.

BRUTO: Se fosse così...

VELUTO: Ma che dite? Non abbiamo noi avuto un saggio della sua obbedienza? i nostri Edili colpiti, noi stessi respinti... Andiamo.

AGRIPPA: Pensate a questo: egli venne educato alla guerra appena fu in grado di maneggiare una spada, ed è male istruito in un linguaggio raffinato: egli getta senza distinzione la farina e la crusca insieme.

Lasciatemi andare da lui, e mi impegno di portarlo qui, dove egli risponderà all'accusa in forma legale, tranquillamente, a suo rischio e pericolo.

PRIMO SENATORE: Nobili tribuni, è la via umana: l'altra via sarebbe troppo sanguinosa; e all'inizio è ignoto il fine.

VELUTO: Nobile Menenio, siate voi dunque come l'ufficiale del popolo:

amici miei, posate le armi.

BRUTO: Non andate a casa.

VELUTO: Riunitevi nel Foro: noi vi attenderemo là, dove se voi non ci condurrete Marzio, procederemo secondo la nostra prima via.

AGRIPPA: Io ve lo condurrò. (Ai Senatori) Permettetemi di domandarvi la vostra compagnia. Egli deve venire, altrimenti ne seguiranno peggiori mali.

PRIMO SENATORE: Vi prego, andiamo da lui.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SECONDA - Una stanza nella casa di Coriolano

(Entrano CORIOLANO e Patrizi)

 

CORIOLANO: Che essi facciano crollare tutto sopra il mio capo; mi presentino la morte sulla ruota o legato ai piedi di selvaggi cavalli; o accumulino dieci colline sulla Rupe Tarpea, sì che il baratro possa distendersi in basso oltre il raggio della vista: pure io sarò sempre lo stesso verso di loro.

PRIMO PATRIZIO: E voi agite tanto più nobilmente.

CORIOLANO: Mi sorprende che mia madre non mi approvi più, essa che era avvezza a chiamarli vassalli di lana, esseri creati per venir comprati e venduti a vile prezzo, per mostrare dei capi scoperti nelle assemblee, per sbadigliare e star tranquilli e rimanere in ammirazione quando un uomo del mio rango si alzava per parlare della pace o della guerra.

 

(Entra VOLUMNIA)

 

E' di voi che parlo. Perché desiderate che io sia più mite? Vorreste voi che io fossi falso con la mia natura? Dite piuttosto che io agisco come l'uomo che sono.

VOLUMNIA: O signore, signore, signore! io vorrei che voi vi foste ben investito del vostro potere prima che l'aveste consumato.

CORIOLANO: Non ne parliamo più.

VOLUMNIA: Avreste potuto essere abbastanza l'uomo che siete, sforzandovi meno di esserlo. Minori sarebbero stati gli ostacoli alla volontà vostra, se voi non aveste mostrato loro come eravate disposto, prima che essi avessero perduto il potere di contrariarvi!

CORIOLANO: Che siano impiccati!

VOLUMNIA: Sì, e che siano anche arsi vivi.

 

(Entrano AGRIPPA e Senatori)

 

AGRIPPA: Via, via, siete stato troppo rude, un po' troppo rude: dovete ritornare e rimediarvi.

PRIMO SENATORE: Non vi è altro rimedio: se no, non facendo così, la nostra buona città divide in due e perisce.

VOLUMNIA: Vi prego, lasciatevi consigliare: io ho un cuore così poco pieghevole come il vostro, ma ho un cervello che guida a miglior vantaggio l'uso della mia ira.

AGRIPPA: Ben detto, nobile signora! prima che egli dovesse così abbassarsi dinanzi a questo gregge, se non fosse che la crisi terribile del momento lo richiede come medicina per l'intero Stato, io indosserei la mia armatura che a malapena posso portare.

CORIOLANO: Che devo fare?

AGRIPPA: Tornare dai tribuni.

CORIOLANO: Bene, e poi? e poi?

AGRIPPA: Pentirvi di quello che avete detto.

CORIOLANO: Con loro! non potrei farlo con gli dèi; debbo dunque farlo con loro?

VOLUMNIA: Siete troppo reciso: sebbene in questo voi non possiate mai esser troppo nobile, tranne quando parla la necessità. Io vi ho udito dire che l'onore e l'astuzia, come amici inseparabili, crescono insieme nella guerra: accordatemi questo e ditemi che cosa perde ciascuno di essi a fianco dell'altro nella pace, perché in essa non vadano d'accordo.

CORIOLANO: Via, via!

AGRIPPA: Una buona domanda.

VOLUMNIA: Se, nelle vostre guerre, il sembrare quello che non siete (il che voi adottate come vostra politica per raggiungere i vostri migliori fini), come è che diventa poco onorevole o peggio, che questa politica astuta tenga compagnia all'onore nella pace come lo fa nella guerra, dal momento che in tutte e due essa è ugualmente necessaria?

CORIOLANO: Perché insistete su questo?

VOLUMNIA: Perché ora spetta a voi parlare al popolo, non secondo la vostra ragione o secondo i sentimenti che il cuore vi ispira ma con parole che sono poste dall'uso nella vostra lingua, sebbene siano bastarde e sillabe senza alcun valore rispetto alla verità del vostro animo. Ora questo non vi disonora affatto più che il conquistare con soavi parole una città che altrimenti metterebbe alla prova la vostra fortuna e vi farebbe rischiare molto sangue. Io dissimulerei per quel che riguarda la mia natura, se la mia sorte e i miei amici, essendo in giuoco, richiedessero che io lo facessi come dovere di onore: io sono in giuoco in questo momento, e vostra moglie e vostro figlio, questi senatori e tutti i nobili mentre voi preferite mostrar a questi zoticoni del popolo come potete aggrottar le ciglia, anziché largir loro una carezza per guadagnarvi il loro affetto e salvaguardare ciò che la mancanza del loro affetto potrebbe rovinare.

AGRIPPA: Nobile signora! Su, venite con noi: dite delle belle parole; voi potete così non solo rimediare ai pericoli del presente, ma anche alla perdita di quello che è passato.

VOLUMNIA: Io ti prego, figlio mio, vai a loro con il berretto in mano:

e avendolo teso così in basso (lusingali in questo) sfiorando col tuo ginocchio le pietre (perché in queste circostanze l'azione è eloquenza e gli occhi dell'ignorante sono più dotti degli orecchi) e scuotendo la testa, più volte, così, per correggere il tuo cuore superbo, umiliala ora come la mora più matura che non regge ad esser toccata: e di' loro che tu sei il loro soldato e, essendo stato educato nelle guerre, non hai quella maniera dolce che, tu lo riconosci, ti converrebbe usare, come ad essi conviene esigerla, quando solleciti il loro buon affetto: ma che, onestamente, d'ora innanzi tu ti foggerai secondo il loro gusto per quanto dipenda dal tuo potere e dalla tua persona.

AGRIPPA: Una volta fatto questo, come essa dice, i loro cuori saranno tuoi, perché essi, quando ne sono sollecitati, hanno un perdono così facile come le parole a proposito di nulla.

VOLUMNIA: Ti prego, vai e sappiti dominare; per quanto io sappia che tu preferiresti inseguire il tuo nemico in un baratro di fuoco, anziché adularlo in un salotto. Ecco Cominio.

 

(Entra COMINIO)

 

COMINIO: Sono stato nel Foro, e, signore, conviene che voi vi circondiate d'una forte fazione, o che vi difendiate con la calma o con la fuga: tutto è in subbuglio.

AGRIPPA: Basteranno belle parole.

COMINIO: Credo che ciò servirà, se egli saprà piegare la sua fierezza.

VOLUMNIA: Egli deve farlo e lo farà: ti prego, di' che lo farai e accingiti a farlo.

CORIOLANO: Debbo io andare a mostrar loro il mio capo scoperto? Debbo io, con la mia lingua codarda, dare al mio nobile cuore una smentita che esso dovrà sopportare? E sia, io lo farò: pure, se non si trattasse che di perdere questo solo corpo, questa forma di Marzio, lascerei che essi lo riducessero in polvere e lo gettassero al vento.

Andiamo al Foro. Voi mi avete imposto ora una parte, che io mai non potrò rappresentare al naturale.

COMINIO: Su, su vi suggeriremo.

VOLUMNIA: Ti prego ora, dolce figlio, come tu hai detto che i miei elogi ti hanno fatto prima soldato, così, per meritarti i miei elogi in questo, rappresenta una parte che tu non hai fatta prima.

CORIOLANO: Bene, debbo farlo: via, o mia indole, e s'impossessi di me lo spirito di una prostituta. Che la mia sonora gola guerresca, che faceva coro al mio tamburo, si trasformi in una sottile canna come quella di un eunuco o nella voce di una fanciulla che culla i bambini!

Il sorriso del birbante si accampi sul mio volto, e le lacrime di uno scolaretto riempiano le coppe delle mie ciglia. La lingua di un mendicante si agiti tra le mie labbra e le mie ginocchia coperte d'armatura, che non si piegavano se non nella staffa, si curvino come quelle d'un povero che ha ricevuto l'elemosina. No, non voglio farlo, per tema di cessar di onorare la mia propria sincerità, e di insegnare alla mia mente, con l'azione del mio corpo, una bassezza che diventi natura.

VOLUMNIA: A tuo piacere, dunque: il pregar te è per me un disonore più grande che per te il pregar loro. Rovini pur tutto: fa' che tua madre senta il tuo orgoglio piuttosto che temere la tua pericolosa ostinazione, perché io mi rido della morte con lo stesso gran cuore come te. Fa' quello che vuoi: il tuo valore fu mio, lo succhiasti da me; il tuo orgoglio, lo devi solo a te stesso.

CORIOLANO: Via, sii contenta; madre, io vado al Foro, non mi sgridar più oltre. Io vuo' imbecherare il loro affetto, ruberò loro il cuore e ritornerò a casa amato da tutti gli artigiani di Roma. Guardami, io mi avvio: ricordami a mia moglie. Io ritornerò console, o non ti fidare mai più di ciò che la mia lingua può fare in fatto di adulazione.

VOLUMNIA: Fa' secondo la tua volontà.

 

(Esce)

 

COMINIO: Andiamo: i tribuni vi attendono: preparatevi a risponder con dolcezza; perché essi, a quanto sento, sono pronti a lanciarvi accuse più gravi li quelle che pesano ora su voi.

CORIOLANO: La parola d'ordine è: dolcezza. Vi prego, andiamo: che essi mi accusino con invenzioni, io risponderò secondo il mio onore.

AGRIPPA: Sì, ma con dolcezza.

CORIOLANO: Va bene, sia dunque con dolcezza. Con dolcezza!

 

(Escono)

 

 

 

SCENA TERZA - Roma. Il Foro

(Entrano VELUTO e BRUTO)

 

BRUTO: Insistete nell'accusa su questo punto, che egli aspira alla tirannia: se qui ci sfugge, stringetelo dappresso per il suo odio contro il popolo, e per il fatto che il bottino conquistato agli Anziati non è stato mai distribuito.

 

(Entra un Edile)

 

Dunque, verrà egli?

EDILE: Sta venendo.

BRUTO: Chi l'accompagna?

EDILE: Il vecchio Menenio, e quei Senatori che sempre lo hanno favorito.

VELUTO: Avete voi una lista di tutti i voti che ci siamo procurati, per capi?

EDILE: L'ho: ed è pronta.

VELUTO: Li avete raccolti per tribù?

EDILE: Sì.

VELUTO: Convocate qui subito il popolo: e quando mi udranno dire:

"Sarà così per il diritto e il potere del popolo", o che si tratti di morte, o di multa, o di esilio, allora, se io dico "multa", che essi gridino "multa"; se "morte", gridino "morte", insistendo sull'antico privilegio e sul potere che deriva loro dalla verità dell'accusa.

EDILE: Io li istruirò.

BRUTO: E quando una volta avranno cominciato a gridare, che non smettano, ma con un confuso clamore esigano l'immediata esecuzione di ciò che noi avremo sentenziato.

EDILE: Benissimo.

VELUTO: Fate che siano in gran numero e pronti per quest'imbeccata, quando avremo occasione di offrirla.

BRUTO: Occupatevi di questo. (L'Edile esce) Fatelo arrabbiare subito: egli è avvezzo a vincer sempre e a dar pieno sfogo alla contraddizione: una volta irritato, egli non può esser di nuovo frenato alla moderazione, e allora egli dice ciò che è nel suo cuore:

e vi è là qualche cosa che cospira con noi per rompergli il collo.

VELUTO: Bene, eccolo che viene.

 

(Entrano CORIOLANO, AGRIPPA, COMINIO, Senatori e Patrizi)

 

AGRIPPA: Siate calmo, mi raccomando.

CORIOLANO: Sì, come un mozzo di stalla che per una meschina moneta sopporterà un cumulo d'improperi. Gli dèi venerati veglino sulla salvezza di Roma e facciano sì che i seggi della giustizia siano occupati da uomini degni: seminino tra noi la concordia, riempiano i nostri vasti templi con spettacoli di pace, e non le nostre strade con la guerra.

PRIMO SENATORE: Amen, amen.

AGRIPPA: Un nobile augurio!

 

(Rientra l'Edile con Cittadini)

 

VELUTO: Avvicinatevi, o voi del popolo.

EDILE: Ascoltate i vostri tribuni: attenzione, silenzio, dico.

CORIOLANO: Prima ascoltatemi.

I TRIBUNI: Bene, parlate. Silenzio, oh!

CORIOLANO: Sarò io accusato ancora oltre al momento presente o tutto deve decidersi qui?

VELUTO: Io vi chiedo se voi vi sottomettete ai suffragi del popolo, se riconoscete i loro magistrati e se consentite a subire la pena legale per quelle colpe che saranno provate contro di voi.

CORIOLANO: Io consento.

AGRIPPA: Udite, cittadini, egli dice che consente; considerate i servizi militari che egli ha reso: pensate alle ferite che reca il suo corpo e che appaiono come tombe nel santo cimitero.

CORIOLANO: Sgraffiature di spine: cicatrici che farebbero ridere.

AGRIPPA: Pensate inoltre che quando egli non parla come un cittadino, voi ritrovate in lui il soldato. Non scambiate i suoi rudi accenti per accenti malevoli: ma, come dicevo, considerateli quali si convengono a un soldato, anziché ispirati da odio per voi.

COMINIO: Bene, bene, non più.

CORIOLANO: Per quale motivo, essendo io stato nominato console a voti unanimi, sono stato disonorato al punto che nella stessa ora mi togliete di nuovo il consolato?

VELUTO: Rispondete a noi.

CORIOLANO: Parlate dunque: è vero, è mio dovere il rispondere.

VELUTO: Noi vi accusiamo di aver cospirato per togliere a Roma tutte le magistrature costituite, e per salire tortuosamente fino al potere tirannico: per la qual cosa siete un traditore del popolo.

CORIOLANO: Come! traditore?

AGRIPPA: Ma no, calmo: la vostra promessa.

CORIOLANO: Che le fiamme del più profondo inferno avvolgano il popolo:

chiamarmi loro traditore! Tu, insolente tribuno: se nei tuoi occhi si annidassero non una, ma ventimila morti, e altrettanti milioni serrati nelle tue mani, e nella tua lingua bugiarda entrambi questi numeri, io direi a te ugualmente, con voce sincera come quando prego gli dèi: "tu menti!".

VELUTO: Sentite questo, o voi del popolo?

I CITTADINI: Alla Rupe, alla Rupe!

VELUTO: Silenzio! non abbiamo bisogno di aggiungere nuovi elementi a sua accusa: quello che gli avete visto fare e quello che gli avete sentito dire, battere i vostri ufficiali, maledire voi, opporsi alla legge colla violenza, e qui sfidare quelli il cui grande potere deve giudicarlo, tutto questo è un tal crimine e un crimine così capitale, che merita l'ultimo supplizio.

BRUTO: Ma dacché egli ha servito Roma bene...

CORIOLANO: Cosa ciarlate voi di servizio?

BRUTO: Io parlo di ciò che conosco.

CORIOLANO: Voi?

AGRIPPA: E' questa la promessa che avete fatta a vostra madre?

COMINIO: Sappiate, vi prego...

CORIOLANO: Non voglio saper altro: che essi mi condannino alla precipite morte tarpea, all'errabondo esilio, allo scorticamento, a esser rinchiuso per languire con un solo chicco di grano al giorno, io non comprerò la loro pietà al prezzo di una sola parola adulatoria: né frenerò il mio animo per tutto quello che possono darmi, anche se dovessi ottenerlo col dire semplicemente buon giorno.

VELUTO: Per il fatto che egli ha (per quanto sta in lui) testimoniato più volte il suo odio contro il popolo cercando i mezzi di strappargli il suo potere, come ora, infine, per aver alzato una mano ostile, non solo in presenza della temuta giustizia, ma sugli stessi ministri che la distribuiscono; in nome del popolo e in virtù del potere di noi tribuni, noi, a partir da questo istante, lo esiliamo dalla nostra città; che egli non rientri mai più dalle porte di Roma, sotto pena di essere precipitato dall'alto della Rupe Tarpea: nel nome del popolo dico che così deve essere.

I CITTADINI: Deve essere così, deve essere così! che egli se ne vada; è bandito, e così deve essere.

COMINIO: Ascoltatemi, signori, e miei amici del popolo...

VELUTO: E' condannato: non c'è più nulla da ascoltare.

COMINIO: Lasciatemi parlare: sono stato console e posso mostrare sul mio corpo i segni ricevuti, per amor di Roma, dai suoi nemici. Io amo il bene della mia patria con un rispetto più tenero, più sacro e profondo che la mia propria vita la riputazione di mia moglie, i frutti del suo ventre, i tesori dei miei lombi: dunque se io volessi dire che...

VELUTO: Sappiamo dove volete arrivare: dire che cosa?

BRUTO: Non vi è altro da dire, se non che egli è bandito come nemico del popolo e della sua patria: e così deve essere.

I CITTADINI: Così deve essere; così deve essere!

CORIOLANO: Voi, ignobile muta di botoli, il cui respiro io odio quanto i miasmi dei putridi stagni; il cui affetto io apprezzo quanto le carcasse di uomini insepolti che corrompono l'aria; io vi bandisco; e restate qui nella vostra perplessità! Che ogni più lieve rumore faccia tremare i vostri cuori! che i vostri nemici, coll'agitar delle loro piume, soffino nei vostri animi la disperazione. Abbiate sempre il potere di bandire i vostri difensori: finché, in ultimo, la vostra ignoranza (che non capisce finché non esperimenta), senza risparmiare neppur voi (voi, che siete sempre i nemici di voi stessi), vi consegni, come i prigionieri più abietti, a qualche nazione che vi avrà conquistati senza colpo ferire. Disprezzando, per causa vostra, la città, io le volgo le spalle: vi è un mondo altrove.

 

(Escono Coriolano, Cominio, Agrippa, Senatori e Patrizi)

 

EDILE: Il nemico del popolo è partito, è partito!

I CITTADINI: Il nostro nemico è bandito: se n'è andato, olà, olà.

 

(La gente-grida e getta in alto i berretti)

 

VELUTO: Andate, accompagnatelo fuori della porta, e seguitelo, come egli vi ha seguito con ogni specie di disprezzo. Infliggetegli un meritato tormento. E che una scorta ci accompagni attraverso la città.

I CITTADINI: Su, su, accompagnamolo fuori della porta della città, via. Che gli dèi proteggano i nostri nobili tribuni.

 

(Escono)

 

 

 

ATTO QUARTO

 

SCENA PRIMA - Dinanzi a una porta di Roma

(Entrano CORIOLANO, VOLUMNIA, VIRGILIA, AGRIPPA, COMINIO e giovani Patrizi)

 

CORIOLANO: Su, cessate di piangere; un breve addio: la bestia dalle molte teste mi caccia via a colpi di corna. Orsù, madre, dov'è il vostro antico coraggio? eravate solita dirmi che i mali estremi mettono a prova il nostro animo; che i casi ordinari anche gli uomini ordinari possono sostenerli; e che quando il mare è calmo, tutte le navi egualmente mostrano la loro bravura nel galleggiare: i colpi della fortuna più ci colpiscono al cuore, più richiedono una nobile scienza, per esser sopportati serenamente quando ci hanno ferito; voi eravate solita di riempirmi la mente di precetti che dovevano rendere invincibili i cuori che li avessero appresi.

VIRGILIA: O cielo, o cielo!

CORIOLANO: Orsù, ti prego, donna...

VOLUMNIA: Che la rossa pestilenza colpisca tutte le arti in Roma e periscano tutti i mestieri.

CORIOLANO: Che, che, che! Io sarò amato quando si sentirà la mia mancanza. Suvvia, madre, riprendete il coraggio di quando eravate solita dire che se foste stata la moglie di Ercole, avreste compiuto sei delle sue fatiche e risparmiato tanto sudore al vostro consorte.

Cominio, non vi lasciate abbattere: addio. Addio, moglie mia, madre mia. Me la caverò bene ancora. E tu, vecchio e fedele Agrippa, le tue lacrime sono più amare di quelle d'un uomo più giovane, e cocenti per i tuoi occhi. O mio generale d'altri tempi, io t'ho visto impassibile, e tu hai spesso contemplato spettacoli che induriscono il cuore: di' a queste meste donne che è sciocco il lamentarsi di mali inevitabili, come è sciocco il riderne. O madre mia, voi sapete bene che i miei rischi sono stati la vostra consolazione, e credetelo, e non alla leggera (sebbene io vada a stare solo, simile a un drago solitario che rende temuta la sua paludosa tana, e fa sì che se ne parli più di quello che non la si veda), vostro figlio, o farà qualcosa di straordinario, o sarà preso coll'esca astuta e coll'inganno.

VOLUMNIA: Mio unico figlio, dove vuoi tu andare? Prendi con te per un po' di tempo il buon Cominio. Segui un piano determinato, piuttosto che esporti allo sbaraglio al primo caso che ti sorga dinanzi sul tuo cammino.

CORIOLANO: Oh dèi!

COMINIO: Io ti accompagnerò per un mese, e deciderò con te in qual luogo ti convenga fermarti, sì che tu possa aver notizie di noi e noi di te: così se il tempo creerà un'occasione per ottenere il tuo richiamo, non dovremo mandare in giro per tutto il vasto mondo alla ricerca di un sol uomo: non perderemo l'occasione favorevole che sempre si raffredda nell'assenza di chi ne ha bisogno.

CORIOLANO: Addio! tu hai degli anni sulle tue spalle: e sei troppo pieno degli strapazzi della guerra per andar alla ventura con uno che è ancora gagliardo: accompagnami solo fuori della porta. Su, mia dolce moglie, mia diletta madre, e miei amici di nobil tempra; quando io sia fuori, ditemi addio e sorridetemi. Vi prego, andiamo. Finché sarò sulla terra avrete ancora notizie di me: e di me non udrete nulla che non sia conforme a quello che io sono stato finora.

AGRIPPA: Questo è il più degno linguaggio che orecchio umano possa intendere. Suvvia, non piangiamo. Se io potessi scuotere via anche solo un sette anni da queste vecchie braccia e gambe, per tutti gli dèi, io verrei con te a passo a passo.

CORIOLANO: Dammi la mano. Andiamo.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SECONDA - Una strada vicino alla porta

(Entrano VELUTO, BRUTO e un Edile)

 

VELUTO: Dite a tutti di tornarsene a casa: egli è partito e non andremo più oltre. I nobili sono irritati, ed essi, come abbiamo visto, hanno parteggiato per lui.

BRUTO: Ora che abbiamo mostrato il nostro potere, cerchiamo di apparire più umili a cose fatte, che quando si stavano facendo.

VELUTO: Fateli rientrare a casa: dite che il loro terribile nemico è partito e che essi si sono affermati nella loro antica potenza.

BRUTO: Mandateli a casa. (Esce l'Edile) Ecco sua madre.

VELUTO: Evitiamo d'incontrarci con lei.

BRUTO: Perché?

VELUTO: Dicono che sia pazza.

BRUTO: Ci hanno notati: continuiamo per la nostra strada.

 

(Entrano VOLUMNIA, VIRGILIA e AGRIPPA)

 

VOLUMNIA: Fortunato incontro! Che la peste tenuta in serbo dagli dèi, compensi il vostro affetto!

AGRIPPA: Piano, piano; non gridate così forte.

VOLUMNIA: Se le lacrime me lo permettessero, udreste... ma sì, udrete qualche cosa. (A Bruto) Volete andarvene?

VIRGILIA (a Veluto): Anche voi vi fermerete. Vorrei avere il potere di dire lo stesso a mio marito.

VELUTO: Avete la natura degli uomini?

VOLUMNIA: Sì, sciocco: è questa forse una vergogna? Guardate quest'imbecille: non fu forse un uomo mio padre? E avesti tu (stolto come sei!) l'astuzia volpina di bandire un uomo che dette più colpi in difesa di Roma, di quello che tu abbia detto parole?

VELUTO: O santo cielo!

VOLUMNIA: Sì, più magnanimi colpi che tu savie parole: e per il bene di Roma. Io ti dirò una cosa... ma vattene: eppure, no, tu resterai:

vorrei che mio figlio fosse in Arabia con la sua buona spada in mano, e tutta la tua tribù dinanzi a lui.

VELUTO: E che allora?

VIRGILIA: Che cosa? sterminerebbe tutta la tua posterità.

VOLUMNIA: Tutti anche i bastardi. Valoroso uomo: e pensare alle ferite che egli porta per Roma!

AGRIPPA: Su, su, calmatevi.

VELUTO: Vorrei che egli avesse continuato per la sua patria come aveva cominciato, e non sciolto da sé il bel nodo che aveva stretto.

BRUTO: Davvero, vorrei che lo avesse fatto.

VOLUMNIA: "Vorrei che lo avesse fatto"! ma se foste voi a infiammare la plebe, voi gatti che potete giudicare adeguatamente del suo merito, come io posso giudicare di quei misteri che il cielo non vuole siano rivelati alla terra!

BRUTO: Vi prego, lasciateci andate.

VOLUMNIA: Ora, signori, andatevene pure, ve ne prego. Avete compiuto una nobile azione! Ma prima di andarvene, udite questo: quanto il Campidoglio sorpassa le più umili case di Roma altrettanto mio figlio (il marito di questa signora qui, di questa, la vedete?) che voi avete bandito, vi sorpassa tutti.

BRUTO: Bene, bene, vi lasceremo.

VELUTO: Perché fermarsi per essere bistrattati da una che è fuori di senno?

VOLUMNIA: Portate con voi le mie preghiere. (Escono i Tribuni) Vorrei che gli dèi non avessero altro da fare che confermare le mie maledizioni. Se io li potessi incontrare una volta al giorno, questo libererebbe il mio Cuore da ciò che lo opprime col suo peso.

AGRIPPA: Voi avete detto loro quello che si meritavano e, affé mia, non senza motivo. Volete cenare con me?

VOLUMNIA: L'ira è il mio cibo: io mi nutro di me stessa e così morirò di fame a forza di nutrirmi. Suvvia, andiamo: lasciate questo imbelle pianto e lamentatevi come faccio, io simile a Giunone nell'ira. Su, su, su.

AGRIPPA: Via, via!

 

(Escono)

 

 

 

SCENA TERZA - Una strada tra Roma e Anzio

(Entrano un Romano e un Volsco che si incontrano)

 

ROMANO: Vi conosco bene, signore, e voi mi conoscete: il vostro nome, se non sbaglio, è Adriano.

VOLSCO: Proprio quello, signore: in verità io non mi rammento di voi.

ROMANO: Sono un Romano; e i miei servizi sono, come siete voi, contro il popolo romano. Non mi riconoscete ancora?

VOLSCO: Nicanore? Ma no...

ROMANO: Proprio lui, signore.

VOLSCO: Avevate più barba quando vi vidi l'ultima volta: ma le vostre sembianze trovano buona testimonianza nel vostro parlare. Che nuove ci sono a Roma? Io ho l'incarico, da parte dello Stato volsco, di cercarvi là; mi avete risparmiato una buona giornata di cammino.

ROMANO: Vi sono stati in Roma degli strani sconvolgimenti: la plebe contro i senatori, i patrizi e la nobiltà.

VOLSCO: Vi sono stati: allora tutto è finito? Lo Stato nostro non giudica così: essi hanno fatto grandi preparativi guerreschi e sperano di piombar su di loro nel calore della loro discordia.

ROMANO: La fiammata principale si è spenta, ma un nonnulla basterebbe a farla divampare di nuovo: perché i nobili hanno preso talmente a cuore l'esilio del degno Coriolano che essi sono in punto di togliere ogni potere al popolo e di strappargli i suoi tribuni per sempre. E' un fuoco che cova, ve lo assicuro, e sta lì lì per scoppiare in fiamme.

VOLSCO: Coriolano bandito!

ROMANO: Bandito, signore.

VOLSCO: Sarete ben accolto per questa notizia, Nicanore.

ROMANO: Il giorno favorevole è giunto per loro. Ho sentito dire che il momento migliore per sedurre la moglie di un uomo, è quando essa è in urto con suo marito. Il vostro nobile Tullo Aufidio avrà modo di brillare in questa guerra, perché il suo grande avversario, Coriolano, non è più in favore nella sua patria.

VOLSCO: Egli non potrebbe fare altrimenti. Sono proprio lieto di avervi incontrato così per caso: avete posto termine all'incarico affidatomi e io allegramente vi terrò compagnia fino a casa.

ROMANO: Da adesso fino all'ora di cena vi dirò molte strane cose di Roma, tutte favorevoli ai suoi nemici. Avete un esercito pronto, mi dite?

VOLSCO: Un esercito superbo: i centurioni e le loro compagnie, acquartierati separatamente, sono già in servizio e pronti a marciare in un'ora di tempo.

ROMANO: Sono lieto di sentire che sono pronti, e sarò io l'uomo, credo, che li metterà subito in azione. Così, signore, voi siete con tutto il cuore ben trovato ed io sono felice della vostra compagnia.

VOLSCO: Voi mi togliete la parte che spetta a me, signore: sono io che ho più speciale motivo di esser felice della compagnia vostra.

ROMANO: Bene, andiamo insieme.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA QUARTA - Anzio. Dinanzi alla casa di Tullo Aufidio

(Entra CORIOLANO, in abito dimesso, travestito e imbacuccato)

 

ORIOLANO: Una bella città è questa Anzio: città, sono io che ho fatto le tue vedove; più di un erede di questi begli edifici io ho sentito gemere e cadere dinanzi alla mia spada: perciò non mi conoscere, per tema che le tue donne, con gli spiedi, e i tuoi ragazzi, con i sassi, non mi uccidano in un meschino combattimento.

 

(Entra un Cittadino)

 

CORIOLANO: Salute signore.

CITTADINO: Salute.

CORIOLANO: Indicatemi, per piacere, dove abita il grande Aufidio. E' egli in Anzio?

CITTADINO: Sì, e dà un banchetto questa sera in casa sua ai dignitari dello Stato.

CORIOLANO: Qual è la sua casa, vi prego?

CITTADINO: Questa qui, davanti a voi.

CORIOLANO: Grazie, signore. Addio. (Esce il Cittadino) O mondo, come sono infide le tue vicende! Amici intimi, giurati, che sembrano avere un sol cuore in due petti, le cui ore, il cui letto e i pasti e gli esercizi sono sempre in comune, che come gemelli nell'affetto sono inseparabili, nello spazio di un'ora, per la questione di un soldo, romperanno in mortale inimicizia, e ugualmente i più fieri nemici, a cui le passioni e gli intrighi hanno tolto il sonno per sorprendersi l'un l'altro, per un caso qualunque, per un incidente che non vale un guscio d'uovo, diventeranno cari amici e si uniranno nelle loro imprese. Così accade a me: io odio il mio loco natio, e tutto il mio affetto è per la città del nemico. Entrerò: se mi uccide, farà una giusta vendetta: se mi dà mano libera, io renderò un servigio alla sua patria.

 

(Esce)

 

 

 

SCENA QUINTA - Una sala in casa di Tullo Aufidio

(Si ode suon di musica. Entra un Servo)

 

PRIMO SERVO: Vino, vino, vino: che servizio c'è qui! Credo che i nostri compagni si siano addormentati.

 

(Esce)

(Entra un altro Servo)

 

SECONDO SERVO: Dov'è Coto? Il mio padrone lo chiama. Coto!

 

(Esce)

(Entra CORIOLANO)

 

CORIOLANO: Una bella casa: il banchetto manda un grato odore! Ma io non ho l'aria di un convitato.

 

(Rientra il Primo Servo)

 

PRIMO SERVO: Cosa volete, amico? da dove venite? Questo non è posto per voi. Di grazia, quella è la porta.

 

(Esce)

 

CORIOLANO: Non no meritato un trattamento migliore, essendo Coriolano.

 

(Rientra il Secondo Servo)

 

SECONDO SERVO: Di dove venite, signore? Dove ha gli occhi il portinaio che lascia entrare tal razza di gente? Orsù, andatevene.

CORIOLANO: Via!

SECONDO SERVO: Via! Andatevene voi, via!

CORIOLANO: Ora diventi importuno.

SECONDO SERVO: Siete così insolente? Troverò qualcuno che vi dirà due parole.

 

(Entra un Terzo Servo. Il Secondo gli va incontro)

 

TERZO SERVO: Chi è costui?

SECONDO SERVO: Il più strano pesce che mi sia accaduto di vedere. Non riesco a mandarlo via. Ti prego, chiama il nostro padrone perché gli parli.

 

(Si ritira)

 

TERZO SERVO: Che state a far qui, signor mio? Vi prego di uscire da questa casa.

CORIOLANO: Lasciatemi soltanto restar qui in piedi: non farò del male al vostro focolare.

TERZO SERVO: Chi siete?

CORIOLANO: Un gentiluomo.

TERZO SERVO: Un ben povero gentiluomo!

CORIOLANO: Sì, è vero.

TERZO SERVO: Vi prego, mio povero gentiluomo, scegliete qualche altra dimora: qui non è posto per voi: orsù, andatevene via.

CORIOLANO: Pensate alle vostre faccende: andate e rimpinzatevi degli avanzi freddi della tavola.

 

(Lo respinge)

 

TERZO SERVO: Che! non volete andarvene? Ti prego, di' al mio padrone quale strano ospite egli ha qui...

SECONDO SERVO: Lo farò subito.

 

(Esce)

 

TERZO SERVO: Dove abiti?

CORIOLANO: Sotto la cappa.

TERZO SERVO: Sotto la cappa?

CORIOLANO: Sì.

TERZO SERVO: E dove è questo luogo?

CORIOLANO: Nella città dei nibbi e dei corvi.

TERZO SERVO: Nella città dei nibbi e dei corvi? Che asino è costui! Allora tu abiti anche coi cornacchioni?

CORIOLANO: No, non servo il tuo padrone.

TERZO SERVO: Come, signore! Avete a che fare col mio padrone?

CORIOLANO: Eh! è un mestiere più onesto che avere a che fare colla tua padrona! tu ciarli, tu ciarli: via di qua a servire col tuo tagliere.

 

(Lo spinge fuori percuotendolo)

(Entrano TULLO AUFIDIO e il Secondo Servo)

 

AUFIDIO: Dov'è quest'uomo?

SECONDO SERVO: Eccolo, signore: lo avrei bastonato come un cane, se non fosse stato per non disturbare i signori che sono dentro.

 

(Si ritira)

 

AUFIDIO: Donde vieni? Che vuoi? Come ti chiami? perché non parli? parla, uomo, il tuo nome?

CORIOLANO: Se, Tullo, (scoprendosi) ancora non mi conosci, e vedendomi, non mi prendi per l'uomo che sono, la necessità mi impone di nominarmi da me.

AUFIDIO: Il tuo nome?

 

(I Servi si ritirano)

 

CORIOLANO: Un nome poco armonioso per le orecchie dei Volsci e che suonerà aspramente alle tue.

AUFIDIO: Dimmi, come ti chiami? tu hai l'aspetto torvo e il tuo volto porta l'impronta del comando: e sebbene le tue sartie sian lacere, ti riveli un nobile vascello; qual è il tuo nome?

CORIOLANO: Preparati ad aggrottare le ciglia. Ma non mi conosci ancora?

AUFIDIO: Non ti conosco: il tuo nome?

CORIOLANO: Il mio nome è Caio Marzio, che ha cagionato a te particolarmente, e a tutti i Volsci, molto danno e molti mali: di questi è testimone il mio soprannome, Coriolano. I faticosi servizi, gli estremi perirli, e le gocce di sangue versate per la mia patria ingrata, sono stati ricompensati solo con questo soprannome: un buon ricordo, e una buona testimonianza dell'odio e del risentimento che tu dovresti avere per me. Solo questo nome rimane. La crudeltà e l'invidia del popolo lasciate libere dai codardi patrizi che mi hanno tutti abbandonato, han divorato il resto e han fatto sì che io fossi cacciato da Roma tra gli urli della marmaglia. Ora questa distretta mi ha condotto al tuo focolare, non per la speranza, intendimi bene, di salvarmi la vita, perché se io avessi temuto la morte, di tutti gli uomini al mondo avrei evitato te: ma per puro astio, per esser completamente vendicato di questi miei banditori, sto qui ora dinanzi a te. Perciò, se tu hai un cuore corrucciato, se vuoi vendicare le ingiurie tue personali e far scomparire quelle vergognose mutilazioni che appaiono sul corpo della tua patria, affrettati; fai che la mia miseria serva a tuo vantaggio; usala così che i miei servigi, ispirati alla vendetta, diventino per te dei benefizi: perché io combatterò contro la mia patria incancrenita con tutto il furore dei demoni infernali. Ma se invece accada che tu non osi far questo, e che tu sia stanco di tentar nuove fortune, allora in una parola io pure sono stanco di vivere più a lungo e offro la gola a te e al tuo vecchio rancore: e il non tagliarla ti farebbe apparire solo uno sciocco, dacché io ti ho sempre perseguitato col mio odio, ho spillato botti di sangue dal seno della tua patria e non posso vivere se non a tua vergogna, a meno che non viva per renderti servigio.

AUFIDIO: O Marzio, Marzio! Ogni parola che tu hai pronunziato, ha strappato dal mio cuore una radice dell'antico odio. Se Giove da quelle nuvole laggiù parlasse cose divine e dicesse: "E' vero", io non le crederei più di quello che credo te, o magnanimo Marzio. Oh, lascia che io avvinghi con le mie braccia questo tuo corpo, contro il quale la mia nocchieruta lancia cento volte si è spezzata e ha ferito la luna con le sue schegge! Ecco, io abbraccio l'incudine della mia spada, e gareggio con te nell'affetto così caldamente e nobilmente come mai prima nella mia forza ambiziosa ho combattuto contro il tuo valore. Sappi, invero, che io amai la fanciulla che tolsi in moglie:

né mai innamorato esalò un più sincero sospiro; ma per il fatto che ti veggo qui, o nobile creatura, il mio cuore rapito mi balza in petto più che quando io vidi la mia amata, divenuta mia moglie, varcare la mia soglia. Ebbene, o tu Marte, ti annunzio che noi abbiamo un esercito sulle mosse e che io mi ero proposto ancora una volta di strappar via lo scudo dal tuo lacerto o di perdere il mio braccio. Tu mi hai sconfitto ben dodici volte e dopo io ho sognato ogni notte scontri tra me e te: nei miei sonni noi siamo rotolati insieme sfibbiandoci gli elmi e afferrandoci alla gola; e io mi sono svegliato mezzo morto, per nulla. O degno Marzio, se non avessimo altro motivo di ruggine contro Roma che l'esserne tu bandito, noi faremmo una leva generale di tutti, dai dodici ai sessant'anni, e portando la guerra nelle viscere dell'ingrata Roma, noi strariperemmo come impetuoso torrente. Oh, vieni, entra e stringi la mano ai nostri senatori amici che sono ora qui a prender congedo da me, che sono in procinto di marciare contro il vostro territorio, sebbene non contro la stessa Roma.

CORIOLANO: Voi esaudite i miei voti, o dèi!

AUFIDIO: Perciò, incomparabile signore, se tu vuoi avere la direzione della tua vendetta prendi metà del mio comando militare e prepara i tuoi piani come meglio ti suggerisce l'esperienza, poiché tu conosci bene la forza e la debolezza della tua patria: sia che convenga picchiar contro le porte di Roma, o assalire crudelmente i Romani nelle regioni più remote del territorio, per spaventarli, prima di distruggerli. Ma entriamo; lascia che io ti presenti prima a quelli che dovranno dire: "Sì" ai tuoi desideri. Sii mille volte il benvenuto: possa tu essere più amico per me di quello che fosti nemico; e sì, Marzio, che lo fosti assai. La tua mano. Sii il benvenuto.

 

(Escono Coriolano e Aufidio)

(I due Servi si fanno innanzi)

 

PRIMO SERVO: Questo è uno strano mutamento!

SECONDO SERVO: In fe' mia, poco è mancato che non gli assestassi una bastonata, eppure la mia mente mi diceva che i suoi abiti davano una falsa idea di lui.

PRIMO SERVO: Che braccio che ha! Mi ha fatto fare una piroetta con il dito medio e il pollice, come si fa con una trottola!

SECONDO SERVO: Certo, io capivo dal suo aspetto che c'era qualcosa in lui; aveva, amico, una tale faccia, mi pareva... non so come descriverla.

PRIMO SERVO: L'aveva; sembrava quasi fosse... Che io sia impiccato se non ho pensato subito che in lui c'era qualcosa di più di quello che pensavo.

SECONDO SERVO: Anch'io: lo giuro, ed egli è senz'altro il più straordinario uomo del mondo.

PRIMO SERVO: Lo credo anch'io: non solo, ma è miglior soldato di colui a cui pensate.

SECONDO SERVO: Chi? il mio padrone?

PRIMO SERVO: Eh, il nome non importa.

SECONDO SERVO: Ne vale sei come lui.

PRIMO SERVO: No, neppure questo: ma dei due lo ritengo il miglior soldato.

SECONDO SERVO: In verità, vedete, non si sa dire come la cosa va detta: per la difesa di una città, il nostro generale è ottimo.

PRIMO SERVO: E anche per l'assalto.

 

(Rientra il Terzo Servo)

 

TERZO SERVO: Eh, marrani, io posso dare delle notizie: notizie, canaglie.

PRIMO e SECONDO SERVO: Che, che, che? Mettici a parte.

TERZO SERVO: Non vorrei essere Romano se avessi a scegliere tra tutte le nazioni. Sarebbe come desiderare d'esser un uomo condannato.

PRIMO e SECONDO SERVO: Perché, perché?

TERZO SERVO: Perché? c'è qui colui che era solito strigliare il nostro generale: Caio Marzio.

PRIMO SERVO: Perché dite strigliare il nostro generale?

TERZO SERVO: Non dico proprio strigliare il nostro generale; ma egli è stato sempre uno che gli dava ben da fare.

SECONDO SERVO: Via, noi siamo camerati ed amici: egli è sempre stato un osso troppo duro per lui, l'ho inteso dire al nostro generale in persona.

PRIMO SERVO: E' stato troppo forte per lui schiettamente, a dir tutta la verità: dinanzi a Corioli lo steccò e lardellò come una braciola.

SECONDO SERVO: E se avesse avuto gusti cannibaleschi, avrebbe potuto anche arrostirlo e mangiarselo.

PRIMO SERVO: Ma, hai altre notizie?

TERZO SERVO: Be', egli è accolto qui come se fosse figlio ed erede di Marte; è stato messo a capotavola; nessuno dei senatori gli rivolge una domanda senza scoprirsi il capo. Il nostro stesso generale lo tratta come un'amante: crede di santificarsi toccandogli la mano, e volge gli occhi al cielo quando costui parla. Ma il più bello è che il nostro generale è tagliato in due e non è che una metà di quello che era ieri: perché l'altro ha l'altra metà, per le preghiere e la concessione di tutta la tavola. Egli andrà, così afferma, a tirar le orecchie ai custodi delle porte di Roma, falcerà ogni cosa davanti a sé e lascerà tutto raso al suolo sul suo passaggio.

SECONDO SERVO: E' capace di farlo più di quanti altri io possa immaginare.

TERZO SERVO: Farlo? Certo che 1o farà: perché vedete, amico, egli ha tanti amici quanti nemici: i quali amici, signore, per così dire, non osano, vedete, signore, mostrarsi (come noi diciamo) suoi amici, mentre egli è in diredito.

PRIMO SERVO: Diredito? Cosa vuol dir questo?

TERZO SERVO: Ma quando vedranno, signore, che egli ha di nuovo levato in alto la cresta ed è in pieno vigore, essi usciranno dalle loro buche come i conigli dopo la pioggia e gli faranno festa.

PRIMO: SERVO: Ma quando avrà principio tutto ciò?

TERZO SERVO: Domani, oggi, subito. Sentirete suonare i tamburi questo dopopranzo: è, per così dire, una parte del loro banchetto, e dovrà effettuarsi prima che si asciughino la bocca.

SECONDO SERVO: Ma allora avremo di nuovo un mondo in agitazione.

Questa pace non val nulla, tranne che ad arrugginire il ferro, ad accrescere il numero dei sarti, e a far nascere dei cantastorie.

PRIMO SERVO: Datemi la guerra, vi dico: è superiore alla pace quanto il giorno è superiore alla notte: è allegra, animata, sonora, piena di effervescenza. La pace invece è una vera apoplessia, è il letargo:

insipida, sorda, sonnolenta, insensibile: una creatrice di bastardi più di quanto la guerra sia distruttrice d'uomini.

SECONDO SERVO: Proprio così. Come la guerra può dirsi, in qualche modo, stupratrice, così non si può negare che la pace è in egual misura generatrice di cornuti.

PRIMO SERVO: Sì, e fa che gli uomini si odino.

TERZO SERVO: Naturale, perché allora hanno meno bisogno l'uno dell'altro. La guerra fa per me. Spero di vedere i Romani così rinviliti come i Volsci. Si alzano da tavola, si alzano da tavola!

TUTTI: Entriamo, entriamo, entriamo!

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SESTA - Roma. Una piazza

(Entrano VELUTO e BRUTO)

 

VELUTO: Non sentiamo più parlare di lui, né dobbiamo temerlo: i suoi sforzi per ottenere una riparazione sono impotenti nella pace presente e nella tranquillità del nostro popolo, che prima era in fiera agitazione. Qui noi facciamo arrossire i suoi amici per il fatto che tutto va così bene: gli amici che avrebbero preferito vedere delle bande sediziose infestare le strade, anche se essi avessero dovuto soffrirne, piuttosto che udire i nostri artigiani cantar nelle loro botteghe e vederli lietamente attendere alle loro occupazioni.

BRUTO: Noi abbiamo piantato i piedi nel momento opportuno: non è questi Menenio?

VELUTO: E' lui, è lui: oh, egli è divenuto così cortese in questi ultimi tempi.

 

(Entra AGRIPPA)

 

Salve, signore!

AGRIPPA: Salute a voi due!

VELUTO: Del vostro Coriolano non si sente molto la mancanza tranne che dai suoi amici: la repubblica continua a reggersi e si reggerebbe anche se egli fosse più irritato contro di essa.

AGRIPPA: Tutto va bene; e tutto avrebbe potuto andar meglio, se egli avesse saputo temporeggiare.

VELUTO: Dove si trova? l'avete saputo?

AGRIPPA: No, non ho saputo nulla: sua madre e sua moglie non hanno notizie di lui.

 

(Entrano tre o quattro Cittadini)

 

I CITTADINI: Gli dèi vi proteggano entrambi.

VELUTO: Buona sera, miei vicini.

BRUTO: Buona sera, buona sera a tutti.

PRIMO CITTADINO: Noi stessi, le nostre mogli, i nostri figli, dobbiamo pregare in ginocchio per voi due.

VELUTO: Vivete e prosperate.

BRUTO: Addio, buoni vicini: così Coriolano vi avesse amato come noi.

I CITTADINI: Di nuovo, che gli dèi vi proteggano.

I TRIBUNI: Addio, addio.

 

(Escono i Cittadini)

 

VELUTO: Questi sono tempi più felici e più belli di quando questi stessi uomini correvano per le strade mettendo tutto a soqquadro con le grida.

BRUTO: Caio Marzio era un degno capitano in guerra: ma insolente, gonfio d'orgoglio, ambizioso oltre ogni limite, ed amante di se stesso.

VELUTO: E aspirava a un potere unico, senza alcun collega.

AGRIPPA: Non lo credo.

VELUTO: A quest'ora ce ne saremmo già accorti con lamento di noi tutti, se egli fosse riuscito console.

BRUTO: Gli dèi l'hanno felicemente impedito, e ora Roma sta sana e tranquilla senza di lui.

 

(Entra un Edile)

 

EDILE: Degni tribuni: vi è uno schiavo, che abbiam fatto mettere in prigione, il quale narra che i Volsci con due eserciti separati sono entrati nel territorio romano e col più profondo accanimento della guerra distruggono tutto quello che si para loro innanzi.

AGRIPPA: E' Aufidio, che avendo appreso l'esilio del nostro Marzio mette fuori di nuovo le corna che erano nascoste nel guscio, quando Marzio combatteva per Roma, e non osarono mai mostrarsi fuori.

VELUTO: Via, che ci venite a parlare di Marzio!

BRUTO: Andate a fare frustare questo seminatore d'allarme. Non può essere che i Volsci osino romperla con noi.

AGRIPPA: Non può essere? La nostra storia ci ricorda che può essere benissimo: e tre esempi simili si sono presentati nel corso della mia vita. Ma domandate a quest'uomo, prima di punirlo, dove egli ha appreso la notizia, per evitare il pericolo che voi possiate frustare un vostro utile informatore e bastonare il messaggero che vi invita a stare in guardia contro ciò che deve esser temuto.

VELUTO: Raccontatelo ad altri: io so che questo non può essere.

BRUTO: Non è possibile.

 

(Entra un Messaggero)

 

MESSAGGERO: I nobili in grande agitazione si radunano nel Senato:

stanno giungendo notizie che fanno sconvolgere i loro visi.

VELUTO: E' quello schiavo. Fatelo frustare dinanzi agli occhi del popolo; è la sua gonfiatura, niente altro che il suo racconto.

MESSAGGERO: V'ha di più, degno signore: il racconto dello schiavo è confermato, e qualcosa d'altro e di più terribile ancora viene narrato.

VELUTO: Che cosa di più terribile?

MESSAGGERO: Si dice apertamente da molti (non so quanto sia probabile) che Marzio, insieme con Aufidio, guida un esercito contro Roma: e giura di trarre una vendetta così vasta da includere tutti, dal più giovane al più vecchio.

VELUTO: Questo sì che è probabile!

BRUTO: Una storia architettata perché i più paurosi possano desiderare il ritorno casa del buon Marzio.

VELUTO: Ecco il bandolo della matassa!

AGRIPPA: La cosa è molto improbabile: egli e Aufidio non possono andar d'accordo più di quello che vadano d'accordo delle cose assolutamente opposte.

 

(Entra un altro Messaggero)

 

MESSAGGERO: Vi si manda a chiamare al Senato: un terribile esercito, guidato da Caio Marzio, unito con Aufidio, infuria sul nostro territorio: ha già forzato il passaggio, arso e distrutto tutto quello che ha trovato su suo cammino.

 

(Entra COMINIO)

 

COMINIO: Oh, avete fatto un bel lavoro!

AGRIPPA: Che notizie? che notizie?

COMINIO: Avete aiutato a far violentare le vostre figlie, a far sì che il piombo dei vostri tetti coli fuso sulle vostre teste, e che le vostre moglie siano violate sotto il vostro naso...

AGRIPPA: Le notizie? quali sono le notizie?

COMINIO: I vostri templi arsi e calcinati e le vostre franchigie sulle quali insistevate tanto cacciate in un breve pertugio.

AGRIPPA: Vi scongiuro, che notizie ci date? Avete fatto un bel lavoro, purtroppo. Vi prego, che notizie? Se Marzio si fosse unito con i Volsci...

COMINIO: Se! Egli è il loro dio; li guida come un essere creato non dalla natura, ma da qualche altro dio che formi meglio gli uomini: ed essi lo seguono contro di noi pigmei, con non minor brio di quanto ne abbiano i ragazzi nel dare la caccia alle farfalle d'estate, e i macellari nello scacciare le mosche.

AGRIPPA: Avete fatto un bel lavoro, voi e i vostri uomini col grembiule; voi che eravate così fieri dei voti degli artigiani e dell'alito dei mangiatori di aglio!

COMINIO: Farà crollare Roma sulle vostre teste.

AGRIPPA: Come Ercole fece crollare i frutti maturi: avete fatto un bel lavoro!

BRUTO: Ma è proprio vero, signore?

COMINIO: Sì, e diverrete pallidi prima che sia diversamente. Tutte le contrade gli aprono le porte sorridendo e quelle che resistono sono beffeggiate per il loro coraggio inutile, e periscono come degli imbecilli fedeli. Chi può biasimarlo? I vostri e i suoi nemici trovano che c'è qualcosa in lui.

AGRIPPA: Siamo tutti rovinati se quel nobile uomo non ha pietà di noi.

COMINIO: E chi la chiederà? I tribunali non possono, per vergogna: la plebe merita da lui quella pietà che il lupo merita dai pastori: e quanto ai suoi migliori amici, se essi dicessero: "Sii clemente con Roma", essi lo supplicherebbero come dovrebbero supplicarlo quelli che hanno meritato il suo odio, e in questo apparirebbero come suoi nemici.

AGRIPPA: E' vero; se egli avvicinasse alla mia casa la torcia che dovesse consumarla, io non avrei l'ardire di dirgli: "Cessa, ti prego". Avete compiuto un bel lavoro voi e i vostri operai; avete operato magnificamente!

COMINIO: Avete portato una tale rovina su Roma quale non fu mai così incapace di rimedio.

I TRIBUNI: Non dite che l'abbiamo fatto noi.

AGRIPPA: Come: siamo stati noi forse? Noi lo amavamo: ma come bestie e codardi aristocratici, abbiamo ceduto dinanzi alle vostre bande che lo hanno cacciato via dalla città tra le urla.

COMINIO: E temo che urleranno di nuovo quando farà il suo ingresso!

Tullo Aufidio, il secondo nome tra gli uomini, obbedisce ai suoi ordini come se fosse un suo ufficiale. La disperazione, ecco tutta la politica, la forza e la difesa che Roma può opporre a loro.

 

(Entra un gruppo di Cittadini)

 

AGRIPPA: Ecco i branchi. E Aufidio è con lui? Siete voi che avete reso infetta quest'aria, quando gettaste i vostri unti e fetidi berretti schiamazzando per l'esilio di Coriolano. Ora ecco che egli viene: e non vi è capello sulle teste dei suoi soldati che non si trasformerà in sferza per voi: tante capocce quanti berretti voi gettaste per aria, farà egli rotolare per terra, e vi ripagherà per i vostri voti.

Ma non importa; se egli ci potesse bruciare tutti sì da ridurci a un sol carbone, noi ce lo siamo meritato.

I CITTADINI: Affé, noi apprendiamo brutte notizie.

PRIMO CITTADINO: Per parte mia, quando io dissi: "Banditelo", dissi anche che era un peccato.

SECONDO CITTADINO: Ed io pure.

TERZO CITTADINO: E io pure: e per dire la verità così fecero molti tra noi. Quello che facemmo, lo facemmo per il meglio: e benché volentieri consentissimo al suo esilio, pure fu contro il nostro volere.

COMINIO: Siete dei bei tipi, voi ed i vostri voti!

AGRIPPA: Avete fatto un bel lavoro, voi e la vostra muta. Dobbiamo andare al Campidoglio?

COMINIO: Eh sì, che altro ci resta da fare?

 

(Escono Cominio e Agrippa)

 

VELUTO: Andate, padroni, andate a casa e non vi lasciate abbattere:

questa è una fazione che sarebbe lieta se si avverasse quello che fa finta di tanto temere. Andate a casa e non mostrate alcuno sgomento.

PRIMO CITTADINO: Che gli dèi ci siano benigni! Su, amici, andiamo a casa. Io ho sempre detto che facevamo male quando lo bandivamo.

SECONDO CITTADINO: Così abbiamo detto tutti. Ma, su andiamo a casa.

 

(Escono i Cittadini)

 

BRUTO: Non mi piace questa notizia!

VELUTO: Neppure a me.

BRUTO: Andiamo al Campidoglio. Darei metà dei miei beni, perché fosse una menzogna.

VELUTO: Andiamo, dunque.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SETTIMA - Un accampamento a breve distanza da Roma

(Entra TULLO AUFIDIO con un Luogotenente)

 

AUFIDIO: Corrono essi sempre al Romano?

LUOGOTENENTE: Non so che magia siavi in lui, ma i vostri soldati lo usano come preghiera prima della mensa, come l'argomento della loro conversazione a tavola, e come il loro ringraziamento quando hanno finito; e voi siete messo nell'ombra in questa spedizione persino dai vostri.

AUFIDIO: Non posso impedirlo ora, se non ricorrendo a mezzi che azzopperebbero la nostra impresa. Egli si comporta anche con me più altieramente di quanto avrei immaginato quando prima lo accolsi: pure in questo la sua indole non si smentisce e io debbo scusare quello che non può essere corretto.

LUOGOTENENTE: Pure avrei desiderato, signore (intendo per quel che vi riguarda), che voi non aveste diviso con lui il comando, ma che aveste condotto da solo l'impresa, o che l'aveste lasciata a lui interamente.

AUFIDIO: Ben t'intendo: e sii pur sicuro che egli non sa cosa posso far valere contro di lui quando verrà a render conto dell'impresa.

Sebbene sembri, e così egli ritenga e non sia meno manifesto all'occhio volgare, che egli conduca onorevolmente la spedizione e si mostri buon servitore dello Stato volsco, e combatta come un drago e conduca a termine la battaglia col solo sguainar la spada, pure egli ha lasciata incompiuta una cosa che romperà il collo a lui o porrà il mio in pericolo, quando verremo a rendere i nostri conti.

LUOGOTENENTE: Signore, ditemi di grazia, credete che egli conquisterà Roma?

AUFIDIO: Tutti i luoghi si arrendono a lui prima che egli li assedi; la nobiltà di Roma è con lui: i senatori e i patrizi lo amano: i tribuni non hanno la stoffa del soldato e la loro plebe sarà così pronta a richiamarlo come fu precipitosa nel bandirlo. Credo che egli sarà per Roma quello che è il falco pescatore pel pesce: lo afferra per sovranità di natura. Dapprima egli fu un nobile servitore del popolo, ma non seppe portarne gli onori senza perder l'equilibrio, sia che fosse orgoglio, che col successo di ogni giorno finisce col guastare l'uomo fortunato; sia che fosse difetto di giudizio nell'aver mancato di far buon uso delle circostanze delle quali prima era stato padrone; sia che fosse la natura che gli imponesse di essere una sola cosa e di non cambiare passando dall'elmo alla sedia curule, ma di comandare in pace colla stessa burbanza e nello stesso modo con il quale aveva condotto la guerra; uno di questi difetti (poiché egli ha un pizzico di tutti, senza averli completamente, perché di tanto io stesso oso giustificarlo) lo fece temuto, e poi odiato e poi bandito.

Non ha merito che egli non soffochi proclamandolo. Così le nostre virtù dipendono dall'interpretazione del momento: e il potere, infatuato di se stesso, non ha una tomba più certa che la sedia su cui sale per vantare ciò che ha fatto. Un fuoco caccia un altro fuoco: un chiodo caccia l'altro: i diritti distruggono i diritti, la forza uccide la forza. Suvvia, andiamo: quando, o Caio, Roma sarà tua, tu sarai fra tutti il più povero e in breve cadrai nelle mie mani.

 

(Escono)

 

 

 

ATTO QUINTO

 

SCENA PRIMA - Roma. Una pubblica piazza

(Entrano AGRIPPA, COMINIO, VELUTO, BRUTO e altri)

 

AGRIPPA: No, non voglio andare: voi avete sentito quello che ha detto a chi fu un tempo suo generale e che lo amava di un affetto particolare. Egli mi chiamava padre: ma che vuol dire ciò? Andateci voi che l'avete bandito: a un miglio di distanza dalla sua tenda prostratevi, e apritevi un cammino in ginocchio alla sua misericordia.

In fede mia, se egli sdegnò di ascoltare Cominio, io me ne resto a casa.

COMINIO: Egli non volle mostrare di conoscermi.

AGRIPPA: Lo sentite?

COMINIO: Eppure un tempo mi chiamava per nome: io insistetti sulla nostra vecchia amicizia e sulle gocce di sangue che abbiamo versato insieme. Al nome di Coriolano non volle rispondermi: rifiutò ogni nome, era una specie di nulla, senza titolo, finché non si fosse foggiato un nome nel fuoco di Roma incendiata.

AGRIPPA: Già, proprio così; e voi avete fatto un bel lavoro! Un paio di tribuni che si sono affaticati per Roma perché il carbone fosse più a buon mercato. Un degno ricordo!

COMINIO: Io gli rammentai come fosse regale il perdono, quando meno era atteso: egli rispose che era una domanda sfrontata da parte dello Stato, a uno che esso aveva punito.

AGRIPPA: Giustissimo: poteva dir di meno?

COMINIO: Io cercai di risvegliare il suo affetto per amici particolari: la sua risposta fu che egli non poteva perder il suo tempo a sceglierli in un mucchio di paglia putrida ed infetta: disse che era follia, per riguardo a uno o due poveri chicchi di grano, di.

non bruciarla e di continuare a sopportarne il lezzo.

AGRIPPA: Per uno o due poveri chicchi di grano? io sono uno di questi; sua madre, sua moglie, suo figlio e questo bravo uomo qui, noi siamo i grani e voi siete la putrida paglia: e il vostro puzzo oltrepassa la luna. E noi dobbiamo esser arsi per causa vostra.

VELUTO. Via, siate paziente, vi prego: se rifiutate il vostro aiuto in questa estrema distretta, pure non ci rimproverate la nostra miseria.

Ma certo, se voi voleste essere l'avvocato difensore della nostra patria, la vostra abile lingua, più dell'esercito che possiamo radunare in fretta, potrebbe arrestare il nostro concittadino.

AGRIPPA: No, non mi ci voglio immischiare.

VELUTO: Vi scongiuro andate da lui.

AGRIPPA: E che dovrei fare?

BRUTO: Tentare soltanto presso Marzio quello che la vostra amicizia può fare per Roma.

AGRIPPA: Bene: e supponete che Marzio mi rimandi indietro come è tornato Cominio senza avermi dato ascolto: allora? non ritornerei come un amico malcontento, oppresso dal dolore per la sua durezza?

Supponete che avvenga questo?

VELUTO: Pure anche allora la vostra buona volontà avrebbe diritto ai ringraziamenti di Roma, nella misura della vostra buona intenzione.

AGRIPPA: Voglio tentarlo: credo che mi darà ascolto: eppure il suo mordersi le labbra e mormorare contro il buon Cominio, ecco una cosa che mi scoraggia. Forse non l'hanno saputo prendere, forse non aveva cenato: e quando le nostre vene non sono riempite, il sangue è freddo e allora facciamo il broncio al mattino e siamo poco disposti a dare e a perdonare; ma quando abbiamo rimpinzato questi canali e condotti del sangue con vino e cibo, abbiamo delle anime più flessibili che nei nostri digiuni sacerdotali: io dunque l'osserverò, attendendo il momento in cui abbia ben mangiato, sì da esser favorevole alla mia richiesta, e allora lo abborderò.

BRUTO: Voi conoscete la buona strada che conduce alla sua clemenza e non potete smarrire il cammino.

AGRIPPA: In fede mia, lo metterò alla prova, accada quel che accada:

saprò tra non molto che successo ho avuto.

 

(Esce)

 

COMINIO: Egli non l'ascolterà nemmeno.

VELUTO: No?

COMINIO: Vi dico, egli siede sull'oro, l'occhio acceso come se volesse ardere Roma: e l'oltraggio ricevuto è il carceriere della sua pietà.

Io mi inginocchiai dinanzi a lui: a mala pena mi disse: "Alzati" e mi congedò così con la sua mano senza parola. Quello che egli era disposto a fare me lo comunicò dopo per iscritto, come quello che non era disposto a fare: legato come è da un giuramento di attenersi alle sue condizioni. Così che è vana ogni speranza, a meno che la sua nobile madre e sua moglie che, come sento dire, intendono farlo, lo supplichino di aver pietà della sua Patria. Perciò, andiamocene, e con le nostre giuste istanze cerchiamo di affrettare la loro partenza.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SECONDA - Ingresso dell'accampamento dei Volsci dinanzi a Roma

(Due Sentinelle di guardia. Entra AGRIPPA)

 

PRIMA SENTINELLA: Donde venite?

SECONDA SENTINELLA: Fermatevi e tornate indietro.

AGRIPPA: Voi fate la guardia da soldati: va bene. Io sono però un ufficiale dello Stato e vengo per parlare con Coriolano.

PRIMA SENTINELLA: Da dove venite?

AGRIPPA: Da Roma.

PRIMA SENTINELLA: Non potete passare: dovete tornarvene indietro: il nostro generale non vuol più ascoltare nulla che venga di là.

SECONDA SENTINELLA: Vedrete la vostra Roma in preda alle fiamme prima di parlare con Coriolano.

AGRIPPA: Cari amici miei, se avete sentito il vostro generale parlare di Roma e dei suoi amici romani, c'è da scommettere che il mio nome è giunto alle vostre orecchie: è Menenio.

PRIMA SENTINELLA: Sia pure; indietro: la virtù del vostro nome non ha corso qui.

AGRIPPA: Io ti dico, camerata, che il tuo generale è mio amico: io sono stato il libro delle sue grandi gesta, dove gli uomini hanno letto la sua fama senza rivali e forse un po' ingrandita; perché io ho sempre reso giustizia ai miei amici, di cui egli è il primo, con tutta la grandezza che la verità comporta, senza cader nel falso: anzi, talvolta, simile a una boccia lanciata su un terreno ingannatore, io ho passato il segno, e nell'elogiarlo ho quasi autenticato la menzogna. Quindi, amico, io debbo avere il permesso di passare.

PRIMA SENTINELLA: Affé mia, signore, anche se aveste detto per lui tante menzogne nel suo interesse, quante parole voi avete pronunziate per voi, non passereste qui; no, neppure se fosse altrettanto virtuoso il mentire, come il vivere castamente. Perciò, indietro.

AGRIPPA: Ti prego, amico, ricordati che il mio nome è Menenio, sempre zelante partigiano del vostro generale.

SECONDA SENTINELLA: Per quanto siate stato il suo mentitore, come voi affermate di esserlo stato, io sono uno che, dicendo il vero ai suoi ordini, deve dirvi che non passerete. Perciò tornate indietro.

AGRIPPA: Ha egli cenato, puoi dirmelo? perché non vorrei parlar con lui fino a che non ha pranzato.

PRIMA SENTINELLA: Voi siete un Romano, non è vero?

AGRIPPA: Lo sono, come il tuo generale.

PRIMA SENTINELLA: Allora dovreste odiare Roma come l'odia lui. Dopo aver cacciato fuori delle vostre porte quegli che ne era il vero difensore, e aver consegnato, sotto la violenza della ignoranza popolare, il vostro scudo al vostro nemico, potete voi credere di far fronte alla sua vendetta con i facili lamenti di vecchie donne, con le palme virginali delle vostre figlie, o con l'impotente intercessione di un così decrepito rimbambito come voi sembrate essere? Potete sperare di spegnere il preordinato incendio in cui la vostra città dovrà presto avvampare, con un fiato così debole come questo? No, v'ingannate: quindi tornate a Roma, e preparatevi per la vostra esecuzione: siete condannati, il nostro generale vi ha esclusi con giuramento da ogni dilazione e da ogni perdono.

AGRIPPA: Gaglioffo! se il tuo capitano sapesse che io sono qui, mi tratterebbe con onore.

SECONDA SENTINELLA: Andiamo! il mio capitano non vi conosce neppure.

AGRIPPA: Voglio dire il tuo generale.

PRIMA SENTINELLA: Il mio generale se ne infischia di voi. Indietro, dico, andatevene, se no io spillerò quel mezzo litro che vi resta del vostro sangue: indietro: questo è il massimo che potete ottenere, indietro.

AGRIPPA: No, ma, amico, amico...

 

(Entrano CORIOLANO e TULLO AUFIDIO)

 

CORIOLANO: Che c'è?

AGRIPPA: Ora a noi, camerata! io dirò una parola per te: saprete ora se io sono tenuto in onore: vedrete che un vil fante di guardia come te non può tenermi lontano dal mio figlio Coriolano: indovina solo dal modo in cui mi riceve, se tu non sei in pericolo d'esser impiccato o di morire di qualche altra morte più lunga a vedere e più crudele a soffrire: guarda ora subito e svieni per quello che ti attende... (A Coriolano) Gli dèi gloriosi siedano riuniti a tutte le ore per vegliare sulla tua prosperità personale e ti amino non meno di quanto ti ama il tuo vecchio padre Menenio. O mio figlio, mio figlio, tu stai preparando un incendio per noi: guarda, qui è dell'acqua per spegnerlo. Io fui a stento indotto a venire da te: ma, convintomi che nessun altro tranne me poteva commuoverti, con dei sospiri io sono stato spinto fuori dalle nostre porte, e ti scongiuro di perdonare a Roma e ai tuoi supplici concittadini. Che i buoni dèi calmino il tuo corruccio e ne facciano cadere i resti su questo gaglioffo qui: costui, che come una testa di legno, mi ha negato l'accesso a te.

CORIOLANO: Via !

AGRIPPA: Come, via?

CORIOLANO: Moglie, madre, figlio io più non conosco. I miei interessi sono subordinati a quelli di altri: benché io possieda personalmente il diritto di vendicarmi, il diritto di perdonare giace nei cuori dei Volsci. Che noi siamo stati amici, l'ingrato oblio ne avvelenerà il ricordo, piuttosto che la pietà riveli quanto lo siamo stati. Quindi vattene. Le mie orecchie sono più resistenti contro le vostre sollecitazioni, che non le vostre porte contro la mia forza. Pure, perché io ti ho amato, prendi questa: io l'ho scritta per te e te l'avrei mandata (gli dà una lettera). Menenio, non voglio udirti dire una sola altra parola. In Roma, o Aufidio, quest'uomo era il mio più caro amico; eppure, tu vedi.

AUFIDIO: Voi conservate una costante fermezza.

 

(Escono Coriolano e Aufidio)

 

PRIMA SENTINELLA: Or dunque, signore, il vostro nome è Menenio?

SECONDA SENTINELLA: E' un incantesimo, vedete, di grande potere. Voi conoscete la via del ritorno a casa.

PRIMA SENTINELLA: Avete visto come siamo stati rimproverati per aver tenuto indietro Vostra Grandezza?

SECONDA SENTINELLA: Quale motivo credete che io abbia di svenire?

AGRIPPA: Io non mi curo più né del mondo, né del vostro generale; in quanto ad esseri come voi, a malapena posso credere che esistano, tanto siete di poca importanza. Chi ha la volontà di morire di sua mano, non teme di morire per mano di un altro. Che il vostro generale faccia più male che può. In quanto a voi, restate, e a lungo, quello che siete: e che la vostra miseria cresca col crescere degli anni. Io dico a voi quello che fu detto a me: via.

 

(Esce)

 

PRIMA SENTINELLA: Un brav'uomo, ve lo assicuro.

SECONDA SENTINELLA: Un degno uomo, è il nostro generale: è una roccia, una quercia, che il vento non può scuotere.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA TERZA - La tenda di Coriolano

(Entrano CORIOLANO, TULLO AUFIDIO ed altri)

 

CORIOLANO: Domani noi accamperemo il nostro esercito dinanzi alle mura di Roma. Voi, mio associato in questa spedizione, dovete riferire ai senatori volsci con quale dirittura io abbia condotta l'impresa.

AUFIDIO: Avete avuto riguardo solo ai loro fini: avete turato le vostre orecchie alle preghiere generali di Roma: non avete mai concesso un colloquio privato o a bassa voce, no, neppure a quegli amici che si credevano sicuri di voi.

CORIOLANO: Quest'ultimo povero vecchio che ho rinviato a Roma col cuore spezzato, mi amava più di un padre: anzi, mi adorava come un dio. La loro ultima risorsa era di mandarlo da me: e per il suo antico affetto, io, sebbene mi mostrassi severo con lui, gli ho offerto ancora una volta le prime condizioni che essi rifiutarono e che non possono ora accettare, e solo per rendergli onore, a lui che credeva di poter far di più. Ben piccola concessione davvero. D'ora innanzi mai non presterò orecchio a nuove ambasciate o a domande, sia da parte dello Stato, sia da parte di amici personali. (Si ode dall'interno un suon di voci) Ah, che grida sono queste? Sarò io tentato ad infrangere i miei voti, nel momento stesso in cui li ho fatti? Non lo farò mai.

 

(Entrano vestite a lutto VIRGILIA e VOLUMNIA, tenendo per mano il piccolo MARZIO, VALERIA e Seguito)

 

Mia moglie viene avanti a tutti: poi quella nel cui grembo onorando questo corpo fu foggiato, e tiene per mano il nipotino del suo sangue.

Ma via, o affetto: legami di natura e, diritti del sangue, spezzatevi:

che sia una virtù l'essere ostinati. Che vale questa reverenza? che valgono quegli occhi di colomba che potrebbero rendere spergiuri gli dèi? Io m'intenerisco e non sono di un'argilla più resistente di quella degli altri. Mia madre s'inchina come se l'Olimpo curvasse il capo supplice dinanzi a un monticello fatto dalle talpe: e il mio piccolo ragazzo ha un aspetto di. preghiera che la natura possente mi grida: "Non rifiutare". Che i Volsci arino Roma e strazino tutta I'Italia! Io non sarò mai tal gonzo da ubbidire all'istinto: ma rimarrò inflessibile come un uomo che fosse autore di se stesso e non conoscesse altri parenti.

VIRGILIA: Mio signore e marito!

CORIOLANO: Questi occhi non sono gli stessi che io avevo a Roma.

VIRGILIA: Il dolore che ci fa apparire così cambiate, ti fa creder questo.

CORIOLANO: Come uno stolido attore ho dimenticato ora la mia parte: e sono confuso fino al punto di meritarmi completa disapprovazione. O tu, la migliore parte di me, perdonami la mia tirannia, ma non dirmi per questo: "Perdona ai Romani". Oh, un bacio lungo come il mio esilio, dolce come la mia vendetta! sì, per la gelosa regina del cielo, quel tuo bacio d'addio io l'ho portato lontano da te, cara, e il mio labbro fedele, da allora in poi ha mantenuto la sua verginità.

O dèi! io chiacchiero e lascio insalutata la più nobile madre che vi sia sulla terra: sprofondati, o ginocchio, nella terra: (s'inginocchia) e lascia, della tua profonda sottomissione, un'impronta più forte di quella dei figli ordinari.

VOLUMNIA: Oh, rialzati e sii benedetto! mentre io m'inginocchio dinanzi a te pur non avendo un cuscino più morbido della selce: e contro le convenienze faccio atto di rispetto come se esso fosse stato mal compreso in tutto questo tempo tra madre e figlio.

 

(S'inginocchia)

 

CORIOLANO: Che è questo? in ginocchio davanti a me? davanti a vostro figlio che voi correggeste? E allora che i sassolini dell'arida spiaggia colpiscano le stelle: che i venti scatenati scaglino i maestosi cedri contro il sole infocato, distruggendo l'impossibile per far sì che quello che non può essere appaia come cosa da nulla.

VOLUMNIA: Tu sei il mio guerriero. Io ho aiutato a formarti. Conosci tu questa dama?

CORIOLANO: La nobile sorella di Publicola, la luna di Roma: casta come il ghiacciolo che è formato dal gelo della più pura neve e pende dinanzi al tempio di Diana: cara Valeria!

VOLUMNIA: Questi è una povera epitome della vostra persona, che interpretato dalla maturità del tempo, potrà rassomigliare del tutto a voi.

CORIOLANO: Il dio dei guerrieri, col consenso del sommo Giove, infiammi di nobiltà i tuoi pensieri, sì che tu possa mostrarti invulnerabile all'onta e torreggiare nelle battaglie, simile a un grande faro, resistendo ad ogni burrasca e salvando quelli che ti guardano!

VOLUMNIA: In ginocchio, ragazzo.

CORIOLANO: Tu sei il mio bravo figliuolo!

VOLUMNIA: Lui appunto e vostra moglie e questa dama e io stessa siamo supplici dinanzi a voi.

CORIOLANO: Vi scongiuro, silenzio: o, se volete chiedere, ricordatevi di questo, prima: le cose che io ho giurato di non accordare non devono esser considerate da voi come rifiuti. Non mi domandate di licenziare i miei soldati, o di capitolare ancora una volta con gli artigiani di Roma: non mi dite in che cosa io sembro snaturato, non cercate di calmare i miei furori e la mia vendetta con le vostre più fredde ragioni.

VOLUMNIA: Oh basta, basta! Avete detto che non ci concederete nulla:

perché noi non abbiamo altro da chiedervi che quello che già ci avete negato. Pure chiederemo, affinché, se non ci accordate la nostra richiesta, la colpa possa cadere sulla vostra durezza: perciò ascoltateci.

CORIOLANO: Aufidio, e voi, Volsci, ascoltate: perché noi non porgeremo ascolto in privato a nulla che vien da Roma. Le vostre richieste?

VOLUMNIA: Anche se noi rimanessimo silenziose, senza parlare, il nostro abbigliamento e le nostre condizioni corporali tradirebbero la vita che abbiamo condotta dopo il tuo esilio. Rifletti quanto più infelici di tutte le altre donne viventi siamo noi qui venute: dacché la tua vista, che dovrebbe riempirci gli occhi di lacrime di gioia e farci palpitare il cuore di allegrezza, costringe quelli a piangere e fa tremare questo di paura e di dolore: obbligando la madre, la sposa e il figlio a vedere il figlio, lo sposo, il padre che dilania le viscere della propria patria. E per noi poverette, la tua inimicizia è più terribile: tu ci interdici di pregare gli dèi, il che è conforto di cui tutti godono, tranne noi; perché come possiamo noi, ahimè, come possiamo noi pregare per la nostra patria, come è nostro dovere, e pregare per la tua vittoria. come è anche nostro dovere? Ahimè: o dobbiamo perdere la patria, la nostra cara nutrice; oppure la tua persona, che è il nostro conforto nella patria. Una sventura inevitabile ci attende, anche se dipendesse dal nostro desiderio la vittoria di una delle due parti; perché, o tu dovrai esser trascinato attraverso le nostre strade ammanettato come uno straniero rinnegato oppure dovrai calpestare trionfante le rovine della tua patria e ricever la palma per aver valorosamente versato il sangue di tua moglie e dei tuoi figli. In quanto a me, figlio, io non intendo di obbedire al cenno della fortuna fino a che questa guerra abbia termine; se non riesco a persuaderti a mostrare verso i due partiti una nobile clemenza, anziché cercare la rovina di uno solo, non marcerai all'assalto della tua patria, non marcerai, credimi, se non calpestando il grembo di tua madre che ti ha messo al mondo.

VIRGILIA: E anche il mio, che ti generò questo ragazzo per conservare vivo il tuo nome nel tempo.

MARZIO: Egli non mi calpesterà: io fuggirò via fino a che sarò più grande, e poi combatterò.

CORIOLANO: Per non essere di una tenerezza femminea, occorre non vedere né il volto d'un fanciullo, né quello di una donna. Io ho ascoltato troppo a lungo.

 

(Si alza)

 

VOLUMNIA: No, non ci lasciare così: se fosse vero che la nostra richiesta tendesse a salvare i Romani per distruggere in tal modo i Volsci che tu servi, potresti condannarci come nocivi al tuo onore:

no, la nostra supplica è che tu li riconcili, sì che mentre i Volsci potranno dire: "Noi abbiamo mostrato questa clemenza", i Romani possano dire anch'essi: "Noi abbiamo ricevuto questa clemenza"; e che ciascuno dell'una e dell'altra parte ti saluti gridando: "Sii benedetto per aver fatto questa pace". Tu sai, o mio illustre figlio, che la sorte della guerra è incerta; ma questo è certo, che se tu conquisti Roma, il beneficio che ne ricaverai sarà un tal nome che verrà ripetuto accompagnato da maledizioni, e la cui storia sarà così scritta: "Quest'uomo aveva della nobiltà, ma colla sua ultima impresa egli l'ha distrutta; ha rovinato la sua patria, e il suo nome rimane aborrito nelle età seguenti". Parlami, figlio: tu hai sempre aspirato ai begli slanci dell'onore, ad imitare la clemenza degli dèi; a fendere col tuono l'ampio spazio dell'aria e tuttavia a caricare la tua collera di un fulmine che non spaccasse che la quercia. Perché non parli? Credi tu che sia onorevole per un uomo magnanimo, di ricordare sempre i torti patiti? Figlia, parlate voi: egli non si cura delle vostre lacrime. Parla tu, bimbo: forse la tua innocenza infantile lo commuoverà più dei nostri ragionamenti. Non vi è uomo al mondo che deve di più a sua madre, eppure egli mi lascia parlare qui come un reo alla gogna. Tu non hai mai mostrato nella tua vita alcun riguardo per la tua cara madre, mentre essa, povera chioccia, non desiderosa di una seconda covata, ti ha guidato con il suo chiocciare alle guerre e poi ti ha ricondotto sano e salvo, carico di onori. Di' che la mia richiesta è ingiusta e respingimi con disprezzo: ma se non è ingiusta, tu non sei un uomo onesto, e gli dèi ti puniranno perché tu mi rifiuti la sottomissione che spetta alla madre. Egli si volge da un'altra parte: in ginocchio, signore: svergognamolo con le nostre ginocchia: nel suo soprannome Coriolano c'è più orgoglio che non forza di pietà nelle nostre preghiere. In ginocchio, e basta: è l'ultima volta: noi ora rientreremo in Roma e moriremo tra i nostri vicini. No, guardaci: questo ragazzo che non sa dire quello che vorrebbe, ma che, per tenerci compagnia, si inginocchia con noi e tende le mani, perora la nostra causa con maggior forza di quanta tu ne abbia per rifiutarla.

Suvvia, andiamo; quest'uomo ebbe una Volsca per madre: sua moglie è in Corioli, e suo figlio per caso gli rassomiglia. Pure congedateci. Io sarò muta fino a che la città non sarà incendiata, e allora io dirò qualche parola.

CORIOLANO: O madre, madre! (Tenendola per mano silenziosamente) Che hai tu fatto? Guarda: il cielo si apre, gli dèi ci guardano e ridono di questa scena contro natura. O mia madre, madre mia: oh, tu hai riportato una lieta vittoria per Roma, ma in quanto a tuo figlio, credilo, sì, credilo, tu hai prevalso su di lui con suo grande pericolo, se non pure in maniera mortale. Ma ben venga. Aufidio, poiché io non posso più fare una vera guerra, io preparerò una pace conveniente. Ora, o buon Aufidio, se tu fossi stato al mio posto, avresti tu ascoltato meno una madre? e le avresti concesso meno, Aufidio?

AUFIDIO: Io ne sono rimasto commosso.

CORIOLANO: Oserei giurarlo che lo sei stato: e, signore, non è piccola cosa fare inumidire i miei occhi per la pietà. Ma, buon signore, ditemi quale pace voi volete fare; per parte mia, io non vado a Roma, ritorno con voi: e vi prego, secondatemi in questa faccenda. O madre, o moglie mia!

AUFIDIO (a parte): Son lieto che tu abbia posto in contrasto in te stesso la pietà e l'onore: da questo io saprò ricostruirmi l'antica fortuna.

 

(Le signore fanno cenni a Coriolano)

 

CORIOLANO (a Volumnia, Virgilia, eccetera): Sì, tra breve: ma noi berremo insieme, e voi riporterete una testimonianza migliore che non le parole: un trattato che noi, ad eguali condizioni, vogliamo sia ratificato. Su, entrate con noi, signore; voi meritate che vi si costruisca un tempio: tutte le spade d'Italia, tutte le armi dei suoi alleati, non avrebbero potuto ottenere questa pace.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA QUARTA - Roma. Una piazza

(Entrano AGRIPPA e VELUTO)

 

AGRIPPA: Vedete quell'angolo del Campidoglio, quella pietra angolare?

VELUTO: Sì, e con ciò?

AGRIPPA: Se fosse possibile a voi smuoverla col vostro dito mignolo, vi sarebbe speranza che le signore di Roma, e sopra tutto sua madre, riuscissero a prevalere su lui. Ma io affermo che non vi è speranza: le nostre gole sono già condannate e attendono il supplizio.

VELUTO: E' mai possibile che sì breve tempo possa alterare l'animo di un uomo?

AGRIPPA: Vi è un divario tra il verme e una farfalla: e tuttavia la vostra farfalla era un verme. Questo Marzio si è trasformato da uomo in drago: ha ali; non è più un essere strisciante.

VELUTO: Egli amava tanto sua madre.

AGRIPPA: E così me: e non si ricorda ora di sua madre più di quello che un cavallo di otto anni si ricordi della sua. Ha un'asprezza sul volto che farebbe inacidire l'uva matura. Quando cammina si muove come una macchina di guerra: e la terra si rattrappisce dinanzi ai suoi passi. Col suo occhio riesce a penetrare una corazza: la sua voce è un rintocco funebre, e il suo brontolio, un rullio di tamburi. Siede in pompa, con la maestà di Alessandro. Ciò che egli comanda di fare, è fatto appena detto. Non gli manca null'altro per esser un dio, che l'eternità e un cielo in cui troneggiare.

VELUTO: Sì, gli manca la clemenza, se voi lo rappresentate esattamente.

AGRIPPA: Io lo dipingo al naturale. Vedrete quale misericordia sua madre ci recherà da lui: non vi è pietà in lui più di quello che vi sia latte in un tigre maschio: ne farà la prova la nostra povera città: e tutto questo proviene da voi.

VELUTO: Gli dèi ci siano propizi!

AGRIPPA: No, in un caso come questo, gli dèi non ci saranno propizi.

Quando lo bandimmo non li rispettammo: ed ora che egli ritorna per romperci l'osso del collo, essi non si curano di noi.

 

(Entra un Messaggero)

 

MESSAGGERO: Signore, se volete salva la vita, fuggite nella vostra casa: i plebei si sono impossessati del vostro collega e lo trascinano di qua e di là, giurando in coro che se le dame romane non torneranno recando novelle confortanti, essi lo faranno morire a spizzico.

 

(Entra un altro Messaggero)

 

VELUTO: Quali nuove?

SECONDO MESSAGGERO: Buone notizie, buone notizie; le signore hanno ottenuto vittoria. I Volsci hanno levato l'accampamento e Marzio è partito. Roma non ha mai salutato un giorno più lieto, no, neppure quando furono espulsi i Tarquini.

VELUTO: Amico, sei sicuro che questo è vero? è proprio certo?

SECONDO MESSAGGERO: Certo quanto che il sole è di fuoco: dove vi siete nascosto che ne dubitate? Giammai la corrente gonfia di un fiume si precipitò attraverso un arco di ponte con tanto impeto, come il popolo rassicurato attraverso le porte della città. Ecco, ascoltate! (Trombe e oboi e rullo di tamburi, tutto insieme) Le trombe, le tube, i salteri, i pifferi, i tamburi e i cimbali e le urla dei Romani fanno danzare il sole. Ascoltate.

 

(Grida dall'interno)

 

AGRIPPA: Questa è una buona notizia: andrò incontro alle signore.

Questa Volumnia vale una città intera di consoli, senatori, patrizi; e di tribuni come voi, un mare e un continente intero. Voi avete ben pregato oggi: stamattina non avrei dato un soldo per diecimila delle vostre gole. Ascoltate come si rallegrano.

 

(Grida e musica)

 

VELUTO: Prima, ti benedicano gli dèi per le tue buone notizie; poi, accetta la mia gratitudine.

SECONDO MESSAGGERO: Signore, noi tutti abbiamo motivo di render grandi grazie.

VELUTO: Sono vicine alla città?

SECONDO MESSAGGERO: Quasi sul punto di entrare.

VELUTO: Andremo loro incontro e aumenteremo il tripudio.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA QUINTA - Una strada vicino alla Porta

(Entrano due Senatori con VOLUMNIA, VIRGILIA, VALERIA, eccetera, che traversano la scena, seguiti da Patrizi e altri)

 

PRIMO SENATORE: Guardate la nostra protettrice, la salvezza di Roma!

Radunate tutte le vostre tribù, lodate gli dèi e accendete fuochi di gioia, spargete fiori dinanzi al loro cammino: soffocate, con le vostre grida, gli urli che bandirono Marzio, e richiamatelo con il benvenuto a sua madre; gridate: benvenute, signore, benvenute,

TUTTI: Benvenute, signore, benvenute!

 

(Fanfara con trombe e tamburi)

 

 

 

SCENA SESTA - Corioli. Una piazza

(Entra TULLO AUFIDIO con il Seguito)

 

AUFIDIO: Andate e dite ai signori della città che io sono qui:

consegnate loro questo foglio: e dopo che lo hanno letto, dite loro di riunirsi nel Foro, dove io davanti a loro e davanti al popolo, garantirò la verità di quello che ho scritto. Quegli che io accuso, a quest'ora è già alle porte della città, e intende presentarsi al popolo, sperando di scolparsi con le sue parole: affrettatevi.

 

(Esce il Seguito. Entrano tre o quattro Cospiratori del partito di Tullo Aufidio)

 

Benvenuti !

PRIMO COSPIRATORE: Come va il nostro generale?

AUFIDIO: Come un uomo avvelenato dalle sue proprie elemosine e ucciso dalla sua carità.

SECONDO COSPIRATORE: Eccellentissimo signore, se voi persistete nella stessa intenzione in cui ci voleste associati, noi vi libereremo del vostro grande pericolo.

AUFIDIO: Signore, non posso dirlo: dobbiamo agire secondo la disposizione del popolo.

TERZO COSPIRATORE: Il popolo rimarrà incerto mentre vi è discordia tra voi due: ma la caduta di uno di voi renderà erede di tutto quegli che sopravvive.

AUFIDIO: Lo so: e il mio pretesto per colpirlo è plausibile: io l'ho innalzato e ho impegnato il mio onore per la sua fedeltà; ed egli, essendo così levato in alto, ha innaffiato la sua nuova pianta con le rugiade dell'adulazione, seducendo in tal modo i miei amici: e, a questo scopo, egli ha piegato la sua natura, mai conosciuta prima se non come ruvida, indomabile e libera.

TERZO COSPIRATORE: Signore, la sua ostinazione, quando si presentò per il consolato che egli perdette per non sapersi piegare...

AUFIDIO: Ne avrei parlato: bandito per questo, egli venne al mio focolare, offerse la sua gola al mio pugnale; io lo accolsi, lo feci mio collega, cedetti a tutti i suoi desideri; anzi, gli permisi di scegliere tra le mie file i miei soldati migliori e più valorosi, per eseguire i suoi progetti; colla mia stessa persona servii i suoi disegni, lo aiutai a mietere la fama che egli finì per far tutta sua; e quasi mi sentii orgoglioso di farmi torto: finché, in ultimo, io sembravo un suo dipendente, non il suo collega, ed egli mi pagava col suo sguardo protettore come se io fossi stato un mercenario.

PRIMO COSPIRATORE: Così fece, mio signore; l'esercito se ne meravigliava, e in ultimo quando egli aveva conquistato Roma e noi si attendeva un buon bottino non meno che la gloria...

AUFIDIO: Questo è il punto sul quale farò convergere i miei sforzi contro di lui. Per qualche goccia di lacrime di donna che sono a buon mercato come le bugie, egli ha venduto il sangue e la fatica della nostra grande impresa. Perciò egli deve morire, e io mi rialzerò per la sua caduta. Ma, ascoltate!

 

(Suono di tamburi e di trombe con grandi grida di popolo)

 

PRIMO COSPIRATORE: Voi siete rientrato nella vostra città natale come un corriere e non avete ricevuto alcun benvenuto: ma egli ritorna fendendo l'aria con il fracasso che fa.

SECONDO COSPIRATORE: E questi poveri sciocchi, i cui figli egli ha trucidati, rovinano le loro ignobili gole per gridare alla sua gloria.

TERZO COSPIRATORE: Quindi, profittando dell'occasione favorevole, prima che egli si esprima e commuova il popolo con quello che vorrebbe dire, fategli assaggiare la vostra spada, che noi seconderemo. Quando egli giacerà a terra, la sua storia, raccontata a modo vostro, seppellirà le sue ragioni col suo corpo.

AUFIDIO: Non aggiungete parole: ecco i signori.

 

(Entrano i Signori della città)

 

I SIGNORI: Siete davvero il bentornato in patria.

AUFIDIO: Non l'ho meritato: ma, nobili signori, avete voi letto con attenzione quello che io vi ho scritto?

I SIGNORI: Sì, lo abbiamo letto.

PRIMO SIGNORE: E siamo dolenti di apprenderlo. Le colpe che egli commise prima di quest'ultima, credo che avrebbero potuto trovare facile espiazione; ma finire là dove avrebbe dovuto cominciare, e sacrificare tutto il vantaggio delle nostre milizie, indennizzandoci con le spese da noi stessi sostenute per la guerra, stipulando un trattato dove si poteva avere una capitolazione, questo non ammette alcuna scusa.

AUFIDIO: Egli si avvicina: lo ascolterete.

 

(Entra CORIOLANO con tamburi e bandiere: molti popolani sono con lui)

 

CORIOLANO: Salute, signori! io sono ritornato come vostro soldato non più infetto dell'amore per la mia patria di quello che fossi quando partii di qui, ma sempre obbediente alla vostra grande autorità.

Dovete sapere che ho condotto l'impresa felicemente e per una sanguinosa via ho guidato le vostre armate fino alle porte di Roma. Il bottino che abbiamo riportato a casa controbilancia per più di un terzo le spese della spedizione. Abbiamo concluso una pace non meno gloriosa per gli Anziati, che vergognosa per i Romani, e noi qui consegniamo, firmato dai consoli e dai patrizi e col sigillo del Senato, il patto che abbiamo convenuto.

AUFIDIO: Non leggetelo, nobili signori, ma dite a questo traditore che egli ha abusato al più alto grado dei poteri che gli avete conferito.

CORIOLANO: Traditore! Come dunque?

AUFIDIO: Sì, traditore, o Marzio.

CORIOLANO: Marzio!

AUFIDIO: Sì, Marzio, Caio Marzio. Credi tu che io ti onererò con quel tuo furto, il tuo nome usurpato in Corioli, di Coriolano? Voi, signori e capi dello Stato, perfidamente ha egli tradito la vostra impresa e ha ceduto a una madre e a una moglie, per poche gocce di sale, Roma, la vostra città, dico "la vostra città"; rompendo il suo giuramento e la sua risoluzione, come un cordone di seta marcita, non accettando mai consigli di guerra; ma alla vista delle lacrime della sua nutrice, piagnucolò e lasciò sfuggire gemendo la vostra vittoria; sì che perfino i paggi arrossirono per lui, e gli uomini di cuore si guardarono l'un l'altro meravigliando.

CORIOLANO: Odi tu dunque, o Marte?

AUFIDIO: Non nominare quel dio, fanciullo piagnucoloso.

CORIOLANO: Ah!

AUFIDIO: Niente di più.

CORIOLANO: Smisurato mentitore, tu hai reso il mio cuore troppo grande per il petto che lo contiene. "Fanciullo"! O schiavo! Perdonatemi, signori; è la prima volta che mai io mi son visto costretto a sgridare. Il vostro giudizio, gravi signori, deve dare la smentita a questo cane bastardo, e il suo proprio ricordo (lui che porta impresse su di sé le mie staffilate e dovrà portare nella tomba i miei colpi) si unirà al vostro giudizio per gettargli in faccia la smentita.

PRIMO SIGNORE: Silenzio, voi due, ascoltatemi.

CORIOLANO: Tagliatemi a pezzi, o Volsci; uomini e giovanetti, macchiate le vostre spade nel mio sangue. "Fanciullo"! Cane bugiardo!

se avete scritto con verità i vostri annali, ivi sarà ricordato che, simile a un'aquila in un colombaio, io ho spaventato i Volsci in Corioli e l'ho fatto da solo. "Fanciullo"!

AUFIDIO: Come, nobili signori, lascerete che vi sia richiamata a mente la sua cieca fortuna, che fu la vostra vergogna, da questo empio spaccone, davanti ai vostri occhi e alle vostre orecchie?

I COSPIRATORI: Muoia per questo!

POPOLO: Fatelo a pezzi! subito! egli uccise mio figlio, mia figlia, egli uccise mio cugino Marco, uccise mio padre.

SECONDO SIGNORE: Zitti, niente violenza: pace. Quest'uomo è nobile e la sua fama avvolge tutta la sfera della terra. La sua ultima colpa contro di noi sarà giudicata secondo la legge. Fermati, Aufidio, e non turbare la pace pubblica.

CORIOLANO: Oh, se io avessi di fronte sei Aufidii o più, tutta la sua razza, e potessi usare la mia spada liberamente...

AUFIDIO: Insolente scellerato!

I COSPIRATORI: Uccidilo, uccidilo, uccidilo. uccidilo, uccidilo, uccidilo.

 

(Aufidio e i Cospiratori sfoderano la spada e uccidono Coriolano: Aufidio sta col piede sul di lui cadavere)

 

I SIGNORI: Fermi, fermi, fermi, fermi!

AUFIDIO: Miei nobili signori, ascoltatemi.

PRIMO SIGNORE: O Tullo!

SECONDO SIGNORE: Tu hai compiuto un'azione che farà versar lacrime al valore.

TERZO SIGNORE: Non lo calpestare. Miei signori, siate calmi e ringuainate le spade.

AUFIDIO: Miei signori, quando avrete appreso (poiché nel tumulto che egli ha suscitato, voi non lo potevate sapere) il grave pericolo che vi riservava la vita di quest'uomo, voi vi rallegrerete che egli sia così stato ucciso. Piaccia alle signorie Vostre di chiamarmi al Senato e io dimostrerò di essere il vostro leale servitore, oppure sopporterò il vostro più severo giudizio

PRIMO SIGNORE: Portate via di qui il suo corpo, e lamentate la sua morte. Che sia considerato come il più nobile corpo che mai araldo abbia seguito alla fossa funebre.

SECONDO SIGNORE: La sua propria impetuosità libera Tullo Aufidio da una gran parte di colpa. Cerchiamo di accomodare tutto nel modo migliore.

AUFIDIO: La mia collera è spenta, e io sono affranto dal dolore.

Sollevatelo: aiutate, tre dei migliori soldati, io sarò il quarto.

Battete il tamburo, sì che risuoni lugubremente: rovesciate le vostre picche d'acciaio. Sebbene egli abbia, in questa città, private del marito e dei figli molte donne che ancora adesso piangono la loro perdita, pur egli avrà un nobile ricordo. Aiutatemi.

 

(Escono portando il corpo di Coriolano. Suona una marcia funebre)