William Shakespeare

 

ENRICO QUINTO

 

 

 

PERSONAGGI

 

RE ENRICO QUINTO

IL DUCA DI GLOUCESTER, IL DUCA DI BEDFORD: fratelli del Re

IL DUCA DI EXETER, zio del Re

IL DUCA DI YORK, cugino del Re

IL CONTE DI SALISBURY

IL CONTE DI WESTMORELAND

IL CONTE DI WARWICK

L'ARCIVESCOVO DI CANTERBURY

IL VESCOVO DI ELY

IL CONTE DI CAMBRIDGE

LORD SCROOP

SIR TOMMASO GREY

SIR TOMMASO ERPINGHAM

GOWER, FLUELLEN, MACMORRIS, JAMY: ufficiali nell'esercito dl Re

BATES, COURT, WILLIAMS: soldati nello stesso

PISTOLA, NYM, BARDOLFO

Un Ragazzo

Un Araldo

CARLO SESTO, re di Francia

LUIGI, il Delfino

DUCHI DI BORGOGNA, ORLEANS e BORBONE

IL CONNESTABILE di Francia

DUCHI DI BERRI e di BRETAGNA, personaggi muti

RAMBURES e GRANDPRE', nobili francesi

IL GOVERNATORE di Harfleur

MONTJOY, araldo francese

Ambasciatori al re d'Inghilterra

ISABELLA, regina di Francia

CATERINA, figlia di Carlo e di Isabella

ALICE, sua damigella d'onore

Ostessa di una taverna in Eastcheap, già Monna Fapresto e ora sposa di Pistola

Nobili, Dame, Ufficiali, Soldati, Cittadini, Messi e Persone del seguito

Coro

 

Scena: In Inghilterra, poi in Francia

 

 

 

PROLOGO

(Entra il Coro)

 

CORO: Oh, aver qui una Musa di fuoco che sapesse salire al più luminoso cielo dell'invenzione; un regno che servisse da palcoscenico, principi che facessero da attori e monarchi da spettatori di questa scena grandiosa! Allora, il valoroso Enrico, da quel che era, assumerebbe davvero il portamento di Marte e, condotti al guinzaglio come segugi, la fame, il ferro e il fuoco gli striscerebbero alle calcagna chiedendo impiego. Ma, miei signori, perdonate le menti basse e piatte che hanno ardito portare su questo indegno palco un argomento così grande: potrebbe mai infatti questa platea contenere i vasti campi di Francia o potremmo stipare entro questo cerchio di legno anche i soli elmi che impaurirono l'aria stessa a Azincourt? Ma scusateci: come uno sgorbio di cifre serve in breve spazio a rappresentare un milione, così lasciate che noi, semplici zeri in questo gran conto, mettiamo in moto le forze della vostra immaginazione. Supponete che entro la cinta di queste pareti siano chiuse due potenti monarchie e che un pericoloso stretto ne separi le fronti che sporgono alte sul mare. Colmate col vostro pensiero le nostre lacune; di un uomo che vedete fatene mille e createvi un imponente esercito; se parliamo di cavalli, immaginate di vederli realmente stampare gli zoccoli sul terreno molle che ne riceve le impronte; poiché è il vostro pensiero che ora deve vestire riccamente i nostri re e portarli qua e là, saltando intieri periodi di tempo, e condensando i fatti di molti anni in un volger di clessidra; e per quest'ultima funzione ammettete come Coro in questa storia me che, a mo' di prologo, sollecito con umiltà la vostra pazienza perché ascoltiate con animo benevolo e giudichiate con indulgenza questo nostro spettacolo.

 

(Esce)

 

 

 

ATTO PRIMO

 

SCENA PRIMA - Londra. Un'anticamera nel Palazzo Reale

(Entrano l'ARCIVESCOVO DI CANTERBURY e il VESCOVO DI ELY)

 

CANTERBURY: Ve lo dirò, monsignore: viene ora ripresentato quel progetto di legge che nell'undecimo anno di regno del defunto sovrano poco mancò non fosse approvato ai nostri danni; ciò che sarebbe accaduto senz'altro se l'irrequietezza e le lotte del tempo non l'avessero messo a tacere.

ELY: Ma, monsignore, come fare ad opporci ora?

CANTERBURY: Bisogna pensarci bene. Se passa perdiamo più della metà dei nostri averi, perché ci sarebbero tolte tutte le terre che persone pie hanno lasciato in eredità alla Chiesa. Si vuole infatti che col decoro conveniente a un re, noi equipaggiamo ben quindici conti, mille e cinquecento cavalieri, seimiladuecento scudieri, che si mantengano con larghezza cento fra lazzaretti per gli appestati e case di ricovero pei vecchi e pei poveri inabili al lavoro, e inoltre che si versino nelle casse reali mille sterline l'anno. Questo è il tenore del progetto.

ELY: Che po' po' di bevuta.

CANTERBURY: Si berrebbero anche il bicchiere!

ELY: Ma che rimedio c'è?

CANTERBURY: Il re è pieno di benevolenza e di considerazione per noi.

ELY: E' un amoroso figlio di santa madre Chiesa.

CANTERBURY: La sua condotta in gioventù non prometteva tanto. Ma, appena suo padre spirò, anche quella sfrenatezza, attutendosi in lui, sembrò pure morire; sì, in quel momento stesso la riflessione venne come un angelo a cacciare da lui la fragilità umana, trasformando il suo corpo in un paradiso atto a contenere spiriti celestiali. Mai non vi fu alcuno così pronto a imparare, né mai ci fu tanta pienezza di conversione che lavasse i peccati con impeto così irresistibile; né l'idra della caparbietà perdette il suo predominio così all'improvviso come in questo re.

ELY: Questo cambiamento è una benedizione per noi.

CANTERBURY: Se lo sentite parlare di teologia vorreste con ammirazione convinta che fosse fatto vescovo; se discute di politica, direste che non si è occupato d'altro in vita sua. Ascoltate i suoi discorsi di guerra e la descrizione di una terribile battaglia vi sembrerà una musica; fatelo ragionare di qualche cosa che richieda sottigliezza di discernimento, ed egli scioglierà il nodo gordiano con tanta facilità come se si trattasse della sua giarrettiera; insomma quando parla, l'aria stessa, quella vagabonda matricolata, si ferma, e un muto stupore sta in agguato negli orecchi degli uomini per capire i suoi soavi melati discorsi. Bisogna ammettere che la vita pratica gli abbia dato tutto questo sapere teorico, e c'è ancora da stupire pensando come Sua Maestà se ne sia impadronito, considerando che sembrava così dedito alla vita frivola, che i suoi compagni erano ignoranti, rozzi e superficiali, il suo tempo speso in bagordi, banchetti e divertimenti, e che non si osservò mai in lui amore per lo studio, per la vita ritirata, per l'isolamento dai pubblici ritrovi e dalla compagnia del volgo.

ELY: La fragola cresce sotto l'ortica e le bacche salutari prosperano e maturano meglio in compagnia di frutti di qualità inferiore: così il principe celò il suo spirito di osservazione sotto le apparenze del libertinaggio; e questo spirito senza dubbio deve aver fatto come l'erba estiva che cresce di notte non vista, ma proprio allora più soggetta alla forza di sviluppo che le è insita.

CANTERBURY: Dev'essere così, perché non è più il tempo dei miracoli, e perciò, dove vediamo la perfezione, dobbiamo supporre l'esistenza dei mezzi che hanno condotto a questo risultato.

ELY: Ma ora, buon monsignore, tornando al modo di mitigare questo progetto presentato alla Camera dei Comuni, Sua Maestà è favorevole o no?

CANTERBURY: Non sembra piegare né di qua né di là: ma, se mai, pende un po' più dalla parte nostra che da quella dei proponenti; poiché in nome del clero e per le guerre di Francia di cui ho discusso con lui lungamente, gli ho offerto una somma assai maggiore di quella che la Chiesa non abbia mai dato prima ad alcuno dei suoi predecessori.

ELY: E che accoglienza ha fatto Sua Maestà a quest'offerta, monsignore?

CANTERBURY: Ottima, soltanto non v'è stato tempo di parlare, come Sua Maestà, mi accorsi, avrebbe desiderato, delle molte e chiare ragioni per cui egli, come discendente di Edoardo suo bisnonno, ha diritto ad aver certi ducati, e in termini più generali la corona e il trono di Francia.

ELY: Che cosa interruppe i vostri discorsi?

CANTERBURY: In quel momento l'ambasciatore di Francia chiese di essere ricevuto, e credo che sia giunta l'ora dell'udienza: non sono le quattro?

ELY: Sì.

CANTERBURY: Allora entriamo a sentire il messaggio, ma son sicuro di indovinarlo a puntino, prima ancora che l'ambasciatore abbia aperto bocca.

ELY: Vi accompagnerò perché sono ansioso di ascoltare.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SECONDA - Lo stesso luogo. Sala del trono

(Entrano RE ENRICO, GLOUCESTER, BEDFORD, EXETER, WARWICK, WESTMORELAND e Persone del seguito)

 

ENRICO: Dov'è Sua Eccellenza l'arcivescovo di Canterbury?

EXETER: Non è qui presente.

ENRICO: Mandatelo a cercare, buono zio.

WESTMORELAND: Debbo far entrare l'ambasciatore, sire?

ENRICO: Non ancora, cugino. Prima di dargli udienza vorrei farmi un'idea di certe questioni importanti riguardanti me e la Francia, che occupano molto i miei pensieri,

 

(Entrano l'ARCIVESCOVO DI CANTERBURY e il VESCOVO DI ELY)

 

CANTERBURY: Dio e i suoi angeli proteggano il vostro sacro trono e ve lo lascino occupare a lungo con dignità.

ENRICO: Vi ringraziamo assai. Mio dotto monsignore, vi preghiamo di spiegarci con scrupolosa giustizia se la legge salica che esiste in Francia escluda o no il nostro buon diritto. Ma ricordatevi, mio caro e fedele monsignore: non dovete foggiare a modo vostro, torcere e piegare il senso di quello che avete studiato e sofisticamente gravare la vostra dotta coscienza sostenendo diritti spurii o che non vadano in modo naturale pienamente d'accordo con la verità; poiché Dio solo sa quanti che godono ora perfetta salute verseranno il sangue a sostegno delle decisioni a cui ci spingerà Vostra Reverenza. Guardate bene, perciò, a che impegnate la mia persona e come risvegliate la spada della guerra che ora dorme tranquilla. Vi ordiniamo, in nome di Dio, di essere molto cauto; poiché questi due regni non hanno mai conteso senza grande spargimento di sangue, e ogni goccia innocente sarebbe un grido di dolore, una penosa accusa contro colui che a torto avesse affilato le spade a far strage di vite umane, anche troppo brevi per natura. Tenendo presente questo ammonimento solenne parlate, monsignore, e noi vi ascolteremo con grande attenzione e crederemo in cuor nostro che quello che vi disponete a dire sia purificato dalla vostra coscienza quanto l'anima per opera del battesimo è purificata dal peccato originale.

CANTERBURY: Allora ascoltate, sire, e voi, pari, che siete devoti nella vita e nei vostri servigi a questo trono imperiale. Non vi è ostacolo alle pretese di Vostra Altezza sulla Francia se non il principio che si attribuisce a Faramondo: "In terram Salicam mulieres ne succedant": "Le donne non hanno diritto di ereditare in terra Salica". I Francesi con ingiusta interpretazione dicono che la terra Salica è il regno di Francia e che Faramondo è il creatore di questa legge e dell'esclusione del ramo femminile. Eppure i loro stessi autori affermano esplicitamente che la terra Salica è in Germania, tra i fiumi Sala ed Elba, che là Carlo Magno, avendo sottomessi i Sassoni, lasciò alcuni coloni Franchi e questi, sdegnando le donne tedesche per la loro immoralità, fecero questa legge: cioè che nessuna donna ereditasse in terra Salica. Ora, come ho detto, questa terra è tra l'Elba e il Sala, ed è chiamata oggi Meisen; allora è chiaro che la legge Salica non fu inventata per il regno di Francia. Del resto i Franchi si impadronirono della terra Salica solo quattrocentonovantun anni dopo la morte di re Faramondo che senza fondamento si suppone il creatore della legge; questi morì nel 426 di nostra redenzione, mentre Carlo Magno sottomise i Sassoni e collocò i coloni Franchi al di là del fiume Sala nell'anno 805. Inoltre, dicono i loro scrittori, re Pipino, che depose Childerico, avanzò pretese alla corona di Francia come erede universale in quanto discendeva da Bitilde che era figlia di re Clotario. Ugo Capeto pure, che usurpò la corona di Carlo duca di Lorena, solo erede maschio del vero ramo di Carlo Magno, per dare al suo titolo qualche apparenza di verità, sebbene in realtà fosse fallace e vano, si presentò come erede di Lingarde, figlia di Carlomanno, che era figlio di Lodovico imperatore, e questi a sua volta figlio di Carlo Magno. Anche Luigi Decimo, solo erede dell'usurpatore Capeto, non poté regnare con coscienza tranquilla sinché non si fu assicurato che la bella regina Isabella, sua nonna, discendeva in linea retta da Ermengarda, figlia del predetto Carlo, duca di Lorena, col quale matrimonio i discendenti di Carlo Magno riebbero la corona di Francia. Così è chiaro come il sole estivo che il titolo di Pipino, le pretese di Ugo Capeto, i fatti che placarono gli scrupoli di Luigi trovarono la loro base nel buon diritto di una donna: e così fanno anche oggi i re di Francia, sebbene sostengano la legge Salica per escludere le pretese che voi avanzate in forza della vostra discendenza da una donna e preferiscano nascondersi dietro pretesti trasparenti anziché sconfessare senz'altro i titoli infondati per cui hanno usurpato i vostri diritti e quelli dei vostri progenitori.

ENRICO: Posso dunque con pieno diritto e tranquilla coscienza avanzare questa pretesa?

CANTERBURY: Se vi è peccato ricada sulla mia testa, venerato sovrano, poiché è scritto nel libro dei Numeri: "Quando l'uomo muore, l'eredità discende alla figlia". Nobile sire, difendete il vostro diritto, spiegate la bandiera di guerra, guardate ai vostri possenti predecessori. Andate, venerato signore, alla tomba del bisavolo da cui derivate il vostro diritto: invocate il suo spirito bellicoso e quello del vostro grande prozio, Edoardo il Principe Nero, che in terra di Francia compì tragiche gesta, sconfiggendo l'intero esercito nemico, mentre il suo valorosissimo padre stava sulla collina e sorrideva vedendo il suo leoncello far strage della nobiltà francese. O nobili Inglesi, che impegnarono tutto il baldanzoso esercito avversario con metà delle loro forze, mentre l'altra metà stava ridendo in disparte, inattiva spettatrice!

ELY: Ricordate quei morti valorosi e rinnovatene le gesta col braccio possente; siete il loro erede e sedete sul loro trono. Il sangue coraggioso che li rese rinomati, scorre nelle vostre vene; e il mio prode sovrano è nel più bel fiore della giovinezza, maturo per gesta e grandi imprese

EXETER: Tutti i vostri confratelli, re e monarchi della terra, si aspettano che vi ridestiate come già fecero i leoni della vostra stessa razza.

WESTMORELAND: Essi pensano che Vostra Maestà abbia buone ragioni e mezzi e forza, e li avete realmente; mai re d'Inghilterra ebbe a sua disposizione nobili più ricchi e sudditi più leali, i cui cuori hanno lasciato i corpi qui in patria, e stanno già sotto la tenda nei campi di battaglia di Francia.

CANTERBURY: Oh! mio caro sovrano, lasciate che i loro corpi li seguano a rivendicare i vostri diritti col sangue, col ferro e col fuoco. E noi, degli ordini spirituali, per aiutarvi, procureremo a Vostra Maestà tal somma di denaro quale il clero non diede mai ad alcuno dei vostri antenati.

ENRICO: Dobbiamo non solo armarci per invadere la Francia, ma raccogliere truppe contro gli Scozzesi che marceranno contro di noi ogni volta che troveranno un'occasione propizia.

CANTERBURY: Mio nobile sovrano, le popolazioni di confine saranno pel nostro territorio difesa sufficiente contro codesti predoni.

ENRICO: Non intendo parlare dei predoni che fan gualdane, ma di un attacco in forze della Scozia che per noi è sempre stata una vicina infida, poiché la storia dice che ogni volta che il mio bisavolo andò in Francia col suo esercito gli Scozzesi, come il mare attraverso all'apertura di un argine, mossero contro il suo regno indifeso con tutta la pienezza dei loro mezzi, tormentando con furiosi attacchi la terra spoglia di difensori, cingendo strettamente di assedio città e castelli, tantoché l'Inghilterra inerme ne era scossa e tremava al pensiero di quel pessimo vicino

CANTERBURY: Ma ne ha avuto allora più paura che danno giacché sentite che esempio ha lasciato di sé: quando tutta la cavalleria era in Francia ed il nostro paese vedovato dei suoi nobili, non solo si difese bene ma prese e imprigionò come un vagabondo il re di Scozia; poi lo mandò in Francia a ornare con altri re prigionieri il trionfo di Edoardo e ad arricchir la sua cronaca di lode come la fanghiglia del fondo del mare si arricchisce di rottami e di tesori incalcolabili.

WESTMORELAND: Ma vi è un detto assai antico e vero: "Chi Francia intende conquistare, con Scozia deve incominciare", perché una volta, quando l'aquila d'Inghilterra era fuori in cerca di preda, al suo nido indifeso venne furtivamente la faina scozzese per succhiare le uova principesche e per fare la parte del sorcio in assenza del gatto, rovinando e guastando più di quello che poteva mangiare.

EXETER: Ne seguirebbe che il gatto non deve allontanarsi da casa. Ma questo è un rimedio estremo, perché abbiamo serrature per custodire la roba nostra e trappole ingegnose per catturare i ladruncoli. Mentre la mano affilata combatte all'estero, la testa giudiziosa si difende in casa; poiché un paese ben governato è come una musica che ha parti alte, basse e bassissime, le quali, debitamente armonizzate, s'accordano in una cadenza piena e perfettamente intonata.

CANTERBURY: E appunto per questo il cielo assegna all'umanità diverse funzioni, e ne mantiene l'attività in perpetuo movimento, dandole per fine e risultato la subordinazione; e proprio in questo modo operano le api che per legge di natura possono essere maestre di azione ordinata a un regno. E infatti hanno re e funzionari di varia specie; alcuni come sommi magistrati esercitano il governo in casa; altri come mercanti s'avventurano nel commercio fuori della patria; altri come soldati armati di pungiglioni fanno preda dei vellutati fiori estivi e il bottino con lieta marcia portano a casa alla tenda dell'imperatore.

Questi, maestoso ma sempre in faccende, sorveglia i muratori che cantando costruiscono l'aureo palazzo, i cittadini disciplinati che impastano il miele, i poveri facchini che per le strette porte introducono a fatica i loro carichi pesanti e i seri giudici che con mormorio tetro consegnano ai pallidi carnefici i fuchi pigri e sonnacchiosi. E da questo deduco che molte attività dirigendosi a uno stesso fine, cooperano pur movendo da opposte direzioni. Come molte frecce, scagliate da diverse parti del campo, colpiscono un solo bersaglio; come molte strade vanno a finire in una sola città; come molti corsi d'acqua dolce si ritrovano in un unico mare salato; come molte linee convergono verso il centro della meridiana, così molte azioni, una volta iniziate, possono tendere a un solo scopo, ed essere ben condotte e con successo. Perciò in Francia, mio sire! Dividete le forze della vostra bella Inghilterra in quattro parti; una portatela in Francia e con quella la farete tremare. Se col resto non sappiamo allontanare i cani dalle nostre porte, ci si azzanni pure e il nostro paese perda la sua reputazione di ardimento e di accortezza.

ENRICO: Fate entrare i messi del Delfino. (Escono alcuni del Seguito) Ora siamo ben decisi, e con l'aiuto di Dio e di voi tutti che siete i muscoli della nostra forza, ridurremo in soggezione la Francia che ci appartiene o la faremo tutta a pezzi. Colà ci assideremo governando con maestoso imperio la Francia e i suoi ducati grandi quasi come regni o deporremo queste ossa in un'urna ingloriosa, senza monumento o altro che le ricordi. La storia leverà la voce a parlare altamente dei nostri atti, o altrimenti la nostra tomba, come uno schiavo turco a cui è stata tagliata la lingua, resterà senza parola e non sarà onorata neanche di un labile epitaffio di cera.

 

(Entrano gli Ambasciatori di Francia)

 

Ora siamo pronti ad ascoltare quanto desidera il nostro caro cugino il Delfino; poiché abbiamo sentito che il messaggio viene da lui e non dal re.

PRIMO AMBASCIATORE: Piaccia a Vostra Maestà di autorizzarci ad assolvere francamente il nostro compito: o dobbiamo piuttosto comunicarvi alla lontana e in forma modesta il pensiero del Delfino e il messaggio che ci è stato affidato?

ENRICO: Non siamo un tiranno, ma un re cristiano, alla cui volontà le passioni sono tanto sottomesse quanto i miserabili incatenati nelle nostre prigioni. Quindi in modo franco e schietto diteci gli intendimenti del Delfino.

PRIMO AMBASCIATORE: Così stanno le cose, allora, in poche parole.

Recentemente Vostra Maestà mandò in Francia a reclamare certi ducati in forza dei diritti acquisiti dal vostro grande predecessore re Edoardo Terzo. E in risposta a ciò, il principe nostro signore dice che conservate ancor troppo il sapore della vostra giovinezza e vi consiglia di far senno: non c'è nulla in Francia che si possa conquistare ballando la vivace gagliarda; né potete ivi guadagnarvi ducati con gli stravizi. Perciò, come più conforme alla vostra indole, vi manda il tesoro rinchiuso in questo barile; e in cambio vi chiede che non si parli più dei ducati che pretendete. Questo dice il Delfino.

ENRICO: Che tesoro, zio?

EXETER: Palle da tennis, sire.

ENRICO: Siamo lieti che il Delfino ci usi tanta piacevolezza. Vi ringraziamo assai per il suo dono e per il disturbo che vi siete preso: quando avremo trovato le racchette che occorrono per queste palle, se Dio vuole, giocheremo in Francia una partita che farà pigliare il grillo alla corona di suo padre. Ditegli che ha sfidato un tale avversario che tutti i campi di giuoco in Francia saranno disturbati dai suoi tiri. E comprendiamo perché ci rimprovera il libertinaggio di un tempo, non valutando bene che uso ne abbiamo fatto. Non abbiamo mai tenuto in troppo gran conto questo povero trono; e perciò, vivendone lontani, ci abbandonammo a barbara licenza, poiché sempre accade che gli uomini si danno bel tempo quando sono fuori di casa. Ma dite al Delfino che osserverò tutte le forme della maestà, mi comporterò regalmente e spiegherò tutte le vele della mia grandezza, quando mi leverò sul trono di Francia. Per questa ragione ho messo da parte tutta la mia maestà e ho faticato come un uomo qualunque nei giorni feriali, ma sorgerò colà con tal pienezza di splendore da abbagliare gli occhi della Francia e da accecare anzi il Delfino, se ci guarderà. E dite a quel principe così amante delle piacevolezze che questo suo scherno ha cambiato le palle da tennis in palle da cannone, e grave colpevolezza pesa sulla sua anima per la rovinosa vendetta che volerà con esse: questa burla abbatterà castelli e costerà a molte migliaia di donne la morte dei loro cari mariti, a molte madri la morte dei figli, e fra coloro che non sono ancora nati vi sarà chi avrà ragione di maledire questa beffa del Delfino. Ma tutto ciò è nelle mani di Dio, a cui mi appello e nel cui nome, ditelo pure al Delfino, mi accingo a venire per fare quella vendetta che potrò e ad alzare la mia onesta mano in una causa sacra. Così andatevene in pace e dite al Delfino che la sua burla avrà sapore di cosa poco spiritosa quando quelli che ne piangeranno saranno assai più di quelli che ne rideranno. Scortateli debitamente. Addio.

 

(Escono gli Ambasciatori)

 

EXETER: E' stato un ameno messaggio davvero.

ENRICO: Speriamo di fare arrossire quello che lo ha mandato. Perciò, miei signori, non omettete nessuna occasione per preparare sollecitamente la nostra spedizione, poiché ora noi non abbiamo un pensiero che non riguardi la Francia, salvo quelli che si volgono a Dio e quindi hanno la precedenza su ogni altro. Perciò raccogliamo al più presto le truppe e pensiamo a tutto quello che con ragionevole rapidità può aggiungere penne alle nostre ali; perché, come è vero Dio, andremo a rimproverare il Delfino alle porte della casa paterna.

Perciò ognuno s'ingegni a far sì che questa bella azione sia presto avviata.

 

(Escono. Squillo di trombe)

 

 

 

ATTO SECONDO

(Entra il Coro)

 

CORO: Ora tutta la gioventù inglese è infiammata e le seriche vanità sono riposte nell'armadio; ora gli armaioli fanno affari e nel petto di ciascun uomo regna solo il pensiero dell'onore. Tutti vendono il pascolo per comprare il cavallo, seguendo con le ali ai piedi come Mercuri inglesi colui che è specchio di tutti i re cristiani. Aleggia nell'aria la speranza che nasconde la spada dalla punta all'elsa sotto corone imperiali e nobiliari, promesse a Enrico e ai suoi seguaci. I Francesi, avendo ricevuto notizia sicura di questi formidabili preparativi, tremano di paura e con le arti che questa suggerisce cercano di frustrare i propositi degli Inglesi. O Inghilterra, piccola forma materiale di intima grandezza come un corpo minuscolo con un cuore possente, che cosa non potresti fare sotto il pungolo dell'onore, se tutti i tuoi figli sentissero il vincolo del sangue, come natura vuole! Ma vedi, il re di Francia ha scoperto il tuo difetto, un certo numero di cuori vuoti che riempie di perfide corone.

Tre uomini corrotti, Riccardo conte di Cambridge, lord Enrico Scroop di Masham e sir Tommaso Grey cavaliere del Northumberland, per oro francese odiosa colpa invero - si sono uniti in congiura con il pavido re di Francia, e, se l'inferno e il tradimento mantengono la promessa, colui che onora il titolo reale dovrà morire per mano loro a Southampton prima di imbarcarsi per il continente. Pazientate e rimedieremo alla difficoltà della distanza e condenseremo l'azione. La somma è pagata, i traditori hanno fatto il loro piano, il re è partito da Londra e la scena, o signori, è ora portata a Southampton. Ivi è il teatro ora e ivi dovete sedere; di là vi porteremo sani e salvi in Francia, e vi riporteremo indietro, facendo un incantesimo affinché lo stretto vi lasci passare senza inconvenienti, perché, se ci riesce, non vogliamo arrecar nausea neanche a un solo spettatore col nostro dramma. Ma non sposteremo la scena a Southampton finché non entri il re.

 

(Esce)

 

 

 

SCENA PRIMA - Londra. Una strada

(Entrano il CAPORALE NYM e il TENENTE BARDOLFO)

 

BARDOLFO: Ben trovato, caporale Nym.

NYM: Buon giorno, tenente Bardolfo.

BARDOLFO: Come! tu e l'alfiere Pistola siete ancora amici?

NYM: Per parte mia non me ne importa; parlo poco e al momento buono si vedrà chi riderà; ma sia come vuol essere. Non oso battermi ma chiuderò gli occhi e sguainerò la spada. E' ordinaria, ma che importa?

può servire ad abbrustolire il formaggio e tollera il freddo quanto quella di qualsiasi altro uomo; e basta così.

BARDOLFO: Vi offro la colazione per rappattumarvi, e poi ce ne andremo in Francia da buoni fratelli; facciamo così, ottimo caporale Nym.

NYM: In fede mia, camperò quanto posso, questo è certo; e quando non potrò più campare, farò come potrò: questa è la mia decisione e questo il nocciolo della questione.

BARDOLFO: Caporale, Pistola ha proprio sposato Nora Fapresto, ed è proprio vero che essa ti ha fatto torto, perché era fidanzata con te.

NYM: Non saprei, le cose vanno come possono; gli uomini quando vanno a letto non si levano la gola e c'è chi dice che i coltelli tagliano. Le cose vanno come possono; sebbene la pazienza sia una rozza stanca, deve pur trottare, e si deve pur venire a qualche conclusione. Ma! non saprei.

 

(Entrano PISTOLA e l'Ostessa)

 

BARDOLFO: Ecco qui l'alfiere Pistola e sua moglie. Tu intanto, caporale, sta' zitto. Come va, oste Pistola?

PISTOLA: Vile cane bastardo, mi chiami oste? per questa mano ti giuro che ho questo termine in gran dispetto e la mia Nora non terrà più dozzinanti.

OSTESSA: No, in verità, o almeno per lungo tempo, perché non possiamo dare vitto e alloggio a una dozzina o una quindicina di signore che vivono onestamente di cucito senza che si dica subito che teniamo un bordello (Nym e Pistola sguainano le spade) Oh! Vergine Santa, guardate se non hanno tirato fuori le spade! ci toccherà vedere adulterio volontario e omicidio!

BARDOLFO: Buon tenente, buon caporale, niente violenze!

NYM: Bah!

PISTOLA: Bah a te, cane islandese, botolo islandese dagli orecchi aguzzi!

OSTESSA: Buon caporale Nym, mostra il tuo valore e rimetti la spada nel fodero.

NYM: Vuoi venir via di qua? vorrei averti di fronte da solo.

PISTOLA: "Solo", egregio cane? vipera vile! il "solo" ti ricaccio nella faccia stupenda e tra i denti e in gola, e nei tuoi detestabili polmoni, sicuro, e nello stomaco, perdio, e quel che è peggio nella bocca fetente e te lo rigiro nelle budella perché, so uccidere: il cane di Pistola è alzato e il lampo del colpo è pronto a seguire.

NYM: Non sono il diavolo Barbason; i vostri scongiuri non servono a niente. Ho voglia di pestarvi a modino; se fate il cattivo con me, vi rabbonirò con la mia spada per quanto posso, per parlare pulito. Se venite fuori di qua, vi pizzicherò le budella per quel che so fare, per dirlo chiaro e tondo, e questo è quanto.

PISTOLA: Smargiasso vile, maledetto furioso. La tomba spalanca le sue fauci e la morte, invaghita di te, ti s'avvicina. Perciò, sguaina.

BARDOLFO: Sentite, sentite quel che dico; come è vero che son soldato, il primo che tira gli caccio in corpo la spada sino all'elsa.

 

(Sguaina)

 

PISTOLA: Un giuramento di potenza grande. La mia furia si calma. Qua la mano; porgimi la zampa anteriore, o valentissimo.

NYM: Ti taglierò la gola una volta o l'altra, per parlar pulito, e questo è quanto.

PISTOLA: "Coupe la gorge!" questa è l'espressione. Ti sfido ancora.

Cane di Creta, credi di poterti prendere la mia sposa? No, va' all'ospedale e dalla tinozza del mal francese togliti quella budellona impestata della razza di Cressida, colei che chiamano Dora Squarcialenzuola, e sposala. Io ho e avrò per sola donna la "quondam" Fapresto; e "pauca"! basta così; vattene.

 

(Entra il Ragazzo)

 

RAGAZZO: Oste Pistola, voi e vostra moglie dovete venire dal mio padrone: si sente molto male e vorrebbe andare a letto. Buon Bardolfo, mettigli la tua faccia tra le lenzuola e fagli da scaldaletto. Davvero si sente molto male.

BARDOLFO: Via, furfante!

OSTESSA: In verità, farà un bel bocconcino pei corvi, uno di questi giorni. Il re ha ferito Falstaff al cuore. Buon marito, vieni subito a casa.

 

(Escono l'Ostessa e il Ragazzo)

 

BARDOLFO: Suvvia, volete far pace? Dobbiamo andare in Francia insieme.

Perché diavolo dovremmo tenere coltelli per tagliarci la gola a vicenda?

PISTOLA: Gonfino i fiumi, e infurino per farne i dimon felli!

NYM: Vuoi darmi gli otto scellini che ho vinto per quella scommessa?

PISTOLA: Paghi il volgo servile!

NYM: E io voglio averli, questo è quanto.

PISTOLA: Il valore aggiusterà il conto; suvvia, tira.

 

(Sguainano)

 

BARDOLFO: Per questa spada! il primo che tira lo ammazzo: vedrete che lo ammazzo davvero !

PISTOLA: La spada è un giuramento, e i giuramenti debbono fare il loro corso.

BARDOLFO: Caporale Nym, se volete far pace, bene, se no siate nemici anche con me. Vi prego, rimettete la spada nel fodero.

NYM: Mi date gli otto scellini che ho vinto alla scommessa?

PISTOLA: Sei scellini e mezzo, a contanti; e un bicchierino parimenti ti vuo' dare, e amicizia concorderò e fratellanza: vivrò per Nym e Nym vivrà per me, e questo è esatto, perché sarò vivandiere al seguito delle truppe e mi locupleterò. Qua la mano!

NYM: E mi darai i sei scellini e mezzo?

PISTOLA: L'uno sull'altro esattamente NYM: Bene, questo è quanto.

 

(Si stringono la mano)

(Rientra l'Ostessa)

 

OSTESSA: Se siete figli di donna, venite subito da sir Giovanni. Ah!

poverino, trema tanto per la terzana quotidiana che lo brucia, che è una pietà a vederlo. Cari amici, venite da lui.

NYM: Il re ha sfogato i suoi cattivi umori sul cavaliere; né più né meno.

PISTOLA: Nym, hai detto giusto. Il suo cuore è fratto e corroborato.

NYM: Il re è un buon re: ma sia come si vuole ha i suoi umori e i suoi estri.

PISTOLA: Andiamo a condolerci col cavaliere e quanto a noi, agnellini miei, continuiamo a vivere.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SECONDA - Southampton. La sala del Consiglio

(Entrano EXETER, BEDFORD e WESTMORELAND)

 

BEDFORD: Come è vero Dio, il re è assai ardito a fidarsi di questi traditori.

EXETER: Saranno arrestati tra poco.

WESTMORELAND: Con che serenità e calmo contegno si comportano! come se la fedeltà sedesse loro in cuore, coronata d'ossequio e di costante lealtà.

BEDFORD: Il re conosce pienamente le loro intenzioni avendo intercettate notizie in un modo che nemmeno se lo sognano.

EXETER: Sì, ma come si può pensare che l'uomo che è stato suo compagno di letto e che egli ha riempito di favori sin quasi a sazietà, si induca per oro straniero a consegnare il suo sovrano al tradimento e alla morte?

 

(Suono di trombe. Entrano RE ENRICO, SCROOP, CAMBRIDGE, GREY e Persone del seguito)

 

ENRICO: Ora il vento è favorevole e ci imbarcheremo. Monsignore di Cambridge, e mio buon signore di Masham, e voi, caro cavaliere, ditemi quello che pensate. Non ritenete che l'esercito che conduciamo con noi riuscirà ad aprirsi il passo attraverso alle forze francesi compiendo l'impresa per cui lo abbiamo raccolto?

SCROOP: Nessun dubbio, signore, se ciascun uomo farà del suo meglio.

ENRICO: Non ne dubito; giacché siamo ben convinti che non portiamo di qua con noi un sol cuore che non consenta col nostro e siamo certi che quelli che restano desiderano tutti che la fortuna e la vittoria ci accompagnino.

CAMBRIDGE: Non ci fu mai monarca più venerato e amato di Vostra Maestà, e non c'è suddito che soffra e sia inquieto alla dolce ombra del vostro governo.

GREY: E' vero; quelli che erano nemici di vostro padre hanno temprato la loro amarezza col miele e vi servono con cuori compenetrati di zelo e di senso del dovere.

ENRICO: Questo ci riempie l'animo di gratitudine e vogliamo dimenticare l'uso delle mani piuttosto che non ricompensare il merito secondo la sua importanza e dignità.

SCROOP: Così i vostri servi lavoreranno con accresciuto vigore e rinfrancati dalla speranza ne trarranno stimolo a operare incessantemente.

ENRICO: La pensiamo anche noi così. Zio Exeter, fate mettere in libertà l'uomo arrestato ieri per aver inveito contro la nostra persona: crediamo che sia stato istigato dall'ubriachezza, e siccome siam certi che vi ha riflettuto bene, gli facciamo grazia.

SCROOP: Questa è clemenza; ma è anche mancanza di cautela: lasciatelo punire, sire, perché l'esempio non produca altri casi del genere, se si tollera un atto come questo.

ENRICO: Non ostacolate la nostra clemenza.

CAMBRIDGE: Vostra Maestà può mostrarsi misericordioso, anche facendolo punire GREY: Sire, gli usate già gran misericordia se, dopo averlo punito severamente, gli fate grazia della vita.

ENRICO: Ahimè! il grande amore e la cura che avete per me son severe requisitorie contro quel povero diavolo. Se non si chiudono gli occhi alle piccole colpe causate dall'ubriachezza, come li dovremo spalancare quando ci compariranno davanti delitti capitali, masticati, inghiottiti e ben digeriti! Dunque faremo mettere in libertà quell'uomo, sebbene Cambridge, Scroop, Grey, ansiosi e preoccupati per l'incolumità della nostra persona, desiderino che sia punito. E ora venendo agli affari di Francia, chi sono i commissari recentemente nominati?

CAMBRIDGE: Uno sono io, sire; Vostra Maestà ordinò ieri che chiedessi l'ufficio.

SCROOP: Così faceste con me, mio sovrano.

GREY: E con me, sire.

ENRICO: E allora Riccardo, conte di Cambridge, ecco qui il vostro mandato; ed ecco qui il vostro, lord Scroop di Masham, e voi, Grey di Northumberland, signor cavaliere, eccovi il vostro. Leggete e saprete quanto ben conosco quello che valete. Lord Westmoreland e zio Exeter, ci imbarcheremo questa notte. Come! signori, che cosa vedete in codesti fogli che vi fa cambiar colore? guardate come si sono mutati in volto; perché le loro guance sono bianche come la carta? Ebbene, che cosa vi avete letto che vi ha talmente impauriti e che vi ha tolto il sangue dal viso?

CAMBRIDGE: Confesso la mia colpa, e mi sottometto alla mercé di Vostra Maestà.

GREY e SCROOP: E ad essa noi pure ci raccomandiamo.

ENRICO: La clemenza che poco fa era ancor viva in noi è stata soffocata e uccisa dal vostro consiglio. Se avete un po' di pudore non osate parlare di clemenza; poiché le ragioni che avete portate si rivolgono contro voi stessi come cani contro i loro padroni e vi azzannano. Vedete, principi e nobili pari, questi mostri inglesi! Voi tutti sapete come il nostro affetto è stato pronto a concedere a monsignor di Cambridge costì tutti gli onori spettanti alla sua dignità; e quest'uomo per poche leggere corone si è indotto a cospirare alla leggera e ad accedere con giuramento agli intrighi orditi dal re di Francia per ucciderci qui in Hampton; e lo stesso ha giurato questo cavaliere legato a noi non meno di Cambridge per benefici ricevuti. Ma oh! cosa dirò di te, lord Scroop, creatura crudele, selvaggia, ingrata e inumana? Tu che tenevi la chiave di tutti i miei consigli, che conoscevi le parti più riposte della mia anima, che avresti quasi potuto coniarmi in monete d'oro se avessi voluto sfruttarmi nel tuo interesse! E' possibile che denaro straniero potesse sottrarre da te la minima particella di male per ferirmi anche soltanto un dito? E' così strano che, sebbene la verità spicchi evidente come il nero sul bianco, l'occhio mio quasi non riesce a discernerla. Tradimento e omicidio sono sempre andati di conserva sotto lo stesso giogo come due demoni che hanno giurato di aiutarsi a vicenda, operando per motivi grossolanamente naturali cosicché non provocano esclamazioni di stupore; ma tu, andando oltre ogni misura, hai fatto sì che lo stupore accompagnasse il tradimento e l'assassinio, e quell'astuto demonio, qualunque sia stato, che ti ha manipolato in modo così assurdo, deve essersi acquistato nell'inferno reputazione di eccellente. Tutti gli altri spiriti maligni che suggeriscono tradimento mettono insieme l'opera di dannazione alla bell'e meglio, prendendo a prestito da una simulata onestà visioni, colori e forme speciose; ma quello che ti ispirò disse: "Ora puoi andare" e non ti insegnò nessun motivo per tradire, se non che avresti gradito ornarti del nome del traditore. Se quello stesso demonio che ti ha così menato pel naso percorresse con passo leonino l'intiero mondo, potrebbe ritornare all'ampio Tartaro e dire alle legioni infernali: "Non potrò mai conquistar un'anima così facilmente come quella di questo Inglese". Oh! Come hai infettato di sospetti la dolcezza della fiducia! Vi sono uomini che sembrano ligi al dovere?

ebbene, anche tu lo sembravi; che sono dotti e seri? ebbene, anche tu lo eri; di nobile famiglia, religiosi, sobri, liberi da eccessi sia di gioia, sia di collera, fermi, non dominati dagli impulsi, di contegno decoroso, uomini che operano sempre a ragion veduta e pesano con accurato discernimento le testimonianze dell'occhio e dell'orecchio?

anche tu sembravi tale, fornito di qualità passate al vaglio più scrupoloso. E così la tua caduta ha prodotto una specie di contaminazione che fa sospettare anche degli uomini meglio dotati.

Piangerò per te, perché questo tuo fallo è come una seconda caduta del genere umano. Le loro colpe sono manifeste: arrestateli perché rispondano di esse alla legge. E Dio li perdoni pei loro tradimenti.

EXETER: Ti arresto per alto tradimento col nome di Riccardo conte di Cambridge; ti arresto per alto tradimento col nome di Enrico Scroop di Masham; ti arresto per alto tradimento col nome di Tommaso Grey cavaliere del Northumberland.

SCROOP: Dio ha giustamente rivelato i nostri propositi, e mi dolgo della mia colpa più che della mia morte; e supplico Vostra Maestà di perdonare, sebbene il corpo debba pagare il fio.

CAMBRIDGE: Non sono stato sedotto dall'oro di Francia, sebbene lo abbia preso per raggiungere più facilmente i miei scopi; ma sia ringraziato Dio che non l'ha permesso; ne godrò col cuore al momento dell'espiazione supplicando Dio e voi di perdonarmi.

GREY: Un suddito fedele non godette mai tanto della scoperta di un pericolosissimo tradimento quanto gioisco ora di essere stato impedito in così maledetta impresa. Perdonate la mia colpa, ma non risparmiate il mio corpo, sire.

ENRICO: Dio vi assolva nella sua clemenza. Ascoltate la vostra condanna. Voi avete cospirato contro la nostra reale persona; vi siete uniti a un nemico dichiarato e dai suoi forzieri avete ricevuto oro, arra della nostra morte; e con questo non solo avreste condannato il vostro re all'uccisione, ma i suoi principi e pari alla servitù, i suoi soldati all'oppressione e al disprezzo, l'intiero regno alla desolazione. Per riguardo alla nostra persona non vogliamo vendetta; ma quanto al regno di cui avete cercato la rovina, ci corre l'obbligo di curarne la salvezza e perciò vi sottoponiamo al rigore delle sue leggi. Andatevene di qua a morte, poveri sciagurati! Dio nella sua clemenza ve ne renda meno amaro il sapore, e vi ispiri sincero pentimento delle vostre gravi colpe. Conduceteli via. (Escono Cambridge, Scroop e Grey con le Guardie) Ora, signori, in Francia!

L'impresa sarà gloriosa per voi non meno che per noi. Non dubitiamo dell'esito fortunato della guerra, perché Dio ha per sua grazia rivelato questo pericoloso tradimento occulto che ne minacciava l'inizio. Ora non temiamo che ogni difficoltà non sia tolta dal nostro cammino. E allora avanti, cari concittadini! Affidiamo la nostra potenza alle mani di Dio e mettiamola senz'altro in movimento.

Imbarchiamoci lietamente e spieghiamo le bandiere: non vi può essere vero re d'Inghilterra se non è anche re di Francia.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA TERZA - Londra. Davanti a una taverna

(Entrano l'Ostessa, PISTOLA, NYM, BARDOLFO e il Ragazzo)

 

OSTESSA: Ti prego, marito mio dolcissimo, lascia che ti accompagni sino a Staines.

PISTOLA: No, perché il mio cuore virile dolora. Bardolfo, sii allegro; Nym, fuori con le tue vanterie; ragazzo, sfodera il tuo coraggio, perché Falstaff è morto, e dobbiamo far lutto.

BARDOLFO: Vorrei essere con lui, dovunque sia, in paradiso o all'inferno.

OSTESSA: No, certo, non è all'inferno. Se mai uomo andò nel seno di Artù è proprio lui. Ha fatto la più bella fine che si sia mai vista, e si è spento come un bambino appena battezzato. E' morto fra le dodici e l'una, al voltare della marea; quando l'ho visto spiegazzare le lenzuola e come giocherellare con fiori e sorridere guardandosi la punta delle dita, ho capito che non c'era che una strada per lui; perché aveva il naso affilato come una penna e balbettava di campi verdi. "Che mai, sir Giovanni dico io - che c'è, il mio uomo? state di buon animo". E lui a gridare: "Dio! Dio! Dio!" tre o quattro volte; allora per confortarlo, gli ho detto che non pensasse a Dio e che credevo che non fosse ancora il momento di confondersi con queste idee. E allora mi ha detto che gli mettessi altre coperte sui piedi:

ho messo la mano sotto le lenzuola e glieli ho toccati, ed eran freddi come il marmo; allora ho spinto la mano su su sino alle ginocchia, ed erano fredde come marmo, e poi più su e più su, e tutto era freddo come marmo.

NYM: Dicono che abbia imprecato al vin di Spagna.

OSTESSA: Si, davvero.

BARDOLFO: E alle donne.

OSTESSA: Questo poi no!

Rag. Sì, sì; I'ha proprio fatto, e ha detto che erano diavoli incarnati.

OSTESSA: L'incarnato è un colore che non ha mai potuto tollerare.

RAGAZZO: Una volta disse che il diavolo se lo sarebbe portato per causa delle donne.

OSTESSA: In qualche modo, sì, ha accennato alle donne; ma era reumatico e parlava della meretrice di Babilonia.

RAGAZZO: Non ricordate che vedeva una pulce ferma sul naso di Bardolfo e diceva che era un'anima nera che bruciava nel fuoco dell'inferno?

BARDOLFO: Ma! l'alimento che manteneva quel fuoco è finito; e queste son tutte le ricchezze che mi son guadagnate al suo servizio.

NYM: Andiamo, o troveremo che il re è già partito da Southampton.

PISTOLA: Andiamo, amor mio: le tue labbra! Attenta alle mie masserizie ed ai miei beni mobili. Il buon senso ti governi e la parola d'ordine sia: "Qui si vende a contanti". Non fidarti di nessuno, poiché i giuramenti sono pagliuzze e la fede degli uomini è di pasta frolla, e "tieni duro" è il solo cane che valga qualche cosa, tesoro mio: perciò "caveto" sia il tuo consigliere. Va', tergiti gli occhi. E, compagni d'arme, in Francia come sanguisughe a succhiare, succhiare sino all'ultima goccia di sangue.

RAGAZZO: Mi dicono che non faccia bene.

PISTOLA: Toccate la sua morbida bocca e marciamo.

BARDOLFO: Addio, ostessa.

 

(La bacia)

 

NYM: Non so baciare, e questo è quanto; ma addio.

PISTOLA: E qui si parrà la tua saggia economia, e segretezza, ti comando.

OSTESSA: Sta' bene; addio.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA QUARTA - Francia. Il Palazzo Reale

(Squillo di trombe. Entrano il RE DI FRANCIA con Seguito, il DELFINO, i DUCHI DI BERRI e BRETAGNA, il CONNESTABILE e altri)

 

RE: Dunque gli Inglesi si avvicinano con tutto il loro esercito, ed è necessario approntare la nostra resistenza con cura maggiore del solito. Perciò i duchi di Berri, di Bretagna, di Brabante e di Orléans avanzeranno con le loro truppe, e voi, principe Delfino, prontamente rifornirete di uomini prodi e di adeguati mezzi di difesa le nostre piazzeforti, perché il re d'Inghilterra si avvicina impetuosamente come l'acqua al vortice che la succhia. Conviene dunque che prendiamo tutti quei provvedimenti che il timore può insegnarci coi recenti esempi che han lasciato sui nostri campi i fatali Inglesi da noi posti in non cale.

DELFINO: Veneratissimo padre, è giustissimo che ci armiamo contro il nemico, perché anche se non vi fossero in atto né guerra né dissenso alcuno, la pace stessa non dovrebbe addormentare un regno a tal punto che non si provvedessero difese, non si raccogliessero truppe e non si attendesse ai preparativi, proprio come si fa in attesa di una guerra.

Perciò è bene che ci mettiamo in giro a ispezionare i punti più deboli della Francia; ma facciamolo senza mostrar più paura che se sapessimo l'Inghilterra occupata in una moresca di Pentecoste, perché ha un re così dappoco, e lo scettro è portato così pazzamente da un giovane vano leggero, superficiale e capriccioso che non c'è ragione di temerne.

CONNESTABILE: Zitto, principe Delfino! errate assai nel giudicare questo re. Vostra Altezza chieda agli ambasciatori mandati recentemente con che maestà li ha ascoltati, da che ragguardevoli consiglieri è circondato. quanto moderato nelle obiezioni e di più quanto terribile per la fermezza; e riconoscerete che le sue frivolezze, ormai esaurite, erano come l'apparenza esterna del romano Bruto che nascondeva il suo discernimento sotto le sembianze della follia; così i giardinieri nascondono sotto il concime quelle radici che sorgeranno per prime in pianta delicata.

DELFINO: Non è così, mio signor gran connestabile; ma sebbene non pensi come voi, poco importa. Nella difesa è meglio supporre il nemico più potente di quello che sembra, poiché così si provvede come è necessario; mentre se ci si prepara con debolezza e parsimonia, si fa come l'avaro che per risparmiare un po' di stoffa sciupa un intiero vestito.

RE: Riteniamo pure che Enrico è forte; e, principi, armatevi bene per affrontarlo. La sua famiglia si è nutrita della nostra carne, ed egli è di quella razza sanguinaria che ci ha perseguitati in casa nostra.

Lo attesta la nostra memorabile infamia, quando nella fatale battaglia di Crecy tutti i nostri principi furono fatti prigionieri da quel nero vanto del Galles, Edoardo il Principe Nero; e intanto quel gigante di suo padre, dall'alto di una collina gigantesca, incoronato dall'aureo sole, guardava l'eroica prole e sorrideva a vederlo, mentre egli deturpava l'opera della natura e sfigurava le immagini create vent'anni prima da Dio e da padri francesi. Questo è un ramo di quel ceppo vittorioso, e dobbiamo temerne la nativa potenza e il destino che lo protegge.

 

(Entra un Messo)

 

MESSO: Ambasciatori che vengono da parte di Enrico re d'Inghilterra chiedono di essere ammessi alla presenza di Vostra Maestà.

RE: Daremo loro subito udienza: introduceteli. (Escono il Messo e alcuni Signori) Vedete che la caccia è condotta con accanita prontezza.

DELFINO: Fate fronte e fermate gli inseguitori; poiché i cani paurosi abbaiano forte solo quando quelli che essi sembrano minacciare fuggono davanti a loro. Mio buon sovrano, tagliate corto con gli Inglesi e fate loro capire di che monarchia siete a capo. L'amor proprio, sire, non è così brutto peccato come la negligenza.

 

(Rientrano i Signori con EXETER e il Seguito)

 

RE: Da parte del nostro fratello d'Inghilterra?

EXETER: Da parte sua, e così egli saluta Vostra Maestà. In nome di Dio Onnipotente vuole che vi togliate di dosso e mettiate da parte le glorie usurpate, che per dono del cielo, per legge di natura e per diritto delle genti, appartengono a lui e ai suoi eredi; cioè la corona di Francia e gli ampi onori che l'accompagnano per consuetudine e per prescrizione secolare. Perché sappiate che non è una pretesa falsa o illegale cercata nelle tarlature di un remoto passato né rinvenuta frugando nell'antica polvere dell'oblio, vi manda da esaminare questo albero genealogico che dimostra chiaramente e ricorda in modo esatto la sua discendenza. E vi ingiunge che, quando lo troverete disceso in linea retta dal più celebre dei suoi famosi antenati, Edoardo Terzo, gli cediate la corona e il regno sottratti fraudolentemente a lui, genuino e legittimo pretendente.

RE: Altrimenti che cosa si verificherà?

EXETER: Sanguinosa coercizione; poiché se nascondete la corona anche nei vostri cuori, ivi frugherà per prenderla. Perciò egli viene in fiera tempesta, tuono e terremoto come Giove, per costringere, se le richieste non gioveranno. Quindi vi ingiunge, per le viscere del Signore, di consegnare la corona e di avere pietà delle povere anime per cui questa guerra vorace già spalanca le ampie fauci facendo ricadere sul vostro capo il sangue dei morti, le lacrime delle vedove, le grida degli orfani, i gemiti segreti delle vergini, per i mariti, pei padri, pei fidanzati che saranno inghiottiti in questa lotta.

Queste sono le sue domande, le sue minacce, e il mio messaggio; salvo che non sia qui presente il Delfino, al quale porto un saluto inviato espressamente per lui.

RE: Quanto a noi, prendiamo tempo a considerare tutto ciò: domani vi daremo le nostre precise intenzioni da comunicare al nostro confratello d'Inghilterra.

DELFINO: E se desiderate il Delfino, eccolo qui: che avete da dirgli da parte del re d'Inghilterra?

EXETER: Spregio e sfida. La considerazione che fa di voi si riassume così: disistima, disprezzo, qualunque cosa che non sia disdicevole al potente che vi manda questo messaggio. Così dice il mio re, e se vostro padre, accogliendo tutte le nostre richieste, non addolcisce l'amara beffa fatta a Sua Maestà, questi vi chiamerà a renderne tal conto che le vuote caverne e le sotterranee viscere della Francia vi rimprovereranno il vostro trascorso e riecheggeranno il vostro scherno con la voce dei suoi cannoni.

DELFINO: Ditegli che, se mio padre gli darà una risposta arrendevole, ciò avverrà contro la mia volontà, perché non desidero che accapigliarmi col re d'Inghilterra: e a questo scopo per far degno riscontro alla sua giovanile frivolezza gli mandai in regalo palle da tennis di Parigi.

EXETER: E per questo farà tremare il vostro Louvre di Parigi anche se fosse il primo campo di tennis della possente Europa. E state pur certo che troverete una grande differenza, come con meraviglia l'abbiamo trovata noi suoi sudditi, fra le qualità che ci promettevano gli anni della immaturità e quelle che possiede ora. Adesso egli pesa il tempo sino allo scrupolo e ve ne accorgerete a vostro danno se rimane in Francia.

RE: Domani saprete pienamente come la pensiamo.

EXETER: Lasciateci in libertà il più presto possibile, affinché il nostro re non venga qui in persona a chiedere perché tardiamo, poiché ha già messo piede su questa terra.

RE: Sarete presto rimandati con buone condizioni. Una notte è un periodo di respiro assai breve per rispondere a cose di tanta importanza.

 

(Squillo di tromba. Escono)

 

 

 

ATTO TERZO

(Entra il Coro)

 

CORO: Così sulle ali dell'immaginazione la nostra scena si sposta con la rapidità del pensiero. Supponete di aver visto il re bene armato imbarcarsi al molo di Southampton, e la sua splendida flotta far vento al giovane Febo con seriche bandiere. Fate lavorare la fantasia e con l'aiuto suo vedete i mozzi che si arrampicano sui cordami di canapa, udite lo stridulo fischietto che mette ordine fra i suoni confusi; osservate le conteste vele spinte dal vento che spira invisibile, condurre pei solchi del mare le immense navi che tagliano con le prore i cavalloni. Immaginatevi di essere sulla riva e di guardare una città che danza sui flutti incostanti, perché tale appare questa flotta maestosa che segue la sua rotta verso Harfleur. Seguitela, seguitela!

Afferratevi con la mente alla poppa di queste navi, e lasciate l'Inghilterra silenziosa come il cuor della notte, custodita da vegliardi, vecchie e bambini: tutta gente che ha oltrepassato la pienezza del vigore o non vi è ancor giunta; chi vi è mai infatti che abbia un sol pelo sul mento e non segua in Francia questa eletta di cavalieri? Lavorate di fantasia e con essa vedete un assedio: notate sugli affusti i cannoni che spalancano le bocche micidiali contro Harfleur circondata; ma poi supponete che l'ambasciatore francese ritorni e dica a Enrico che il re gli offre sua figlia Caterina e con lei in dote alcuni piccoli ducati di nessuna importanza. L'offerta è respinta, i pronti artiglieri toccano con la miccia i diabolici cannoni (allarme, sparo di cannoni) e tutto crolla davanti a loro. E ora siate tanto cortesi da completare ancora il nostro spettacolo con l'opera della vostra mente.

 

(Esce)

 

 

 

SCENA PRIMA - Francia. Davanti a Harfleur

(Allarme. Entrano RE ENRICO, EXETER BEDFORD, GLOUCESTER e Soldati con scale a piuoli)

 

ENRICO: Ancora una volta sulla breccia, cari amici, ancora una volta!

oppure chiudete l'apertura del muro coi cadaveri dei nostri commilitoni. In pace nulla si adatta a un uomo come il contegno dimesso e l'umiltà. Ma quando avete nell'orecchio lo squillo della guerra, allora imitate l'azione della tigre: irrigidite i muscoli, chiamate a raccolta tutto il vostro coraggio, nascondete la bonarietà sotto le sembianze di un truce furore; date all'occhio un aspetto terribile, fate che scruti attraverso alle feritoie del capo come un cannone di bronzo, e la fronte lo domini così paurosamente come una roccia frastagliata sporge e sopravanza alla base logora divorata dal selvaggio oceano devastatore. Ora serrate i denti, aprite bene le narici, trattenete il respiro e tendete il coraggio sin dove può giungere. Avanti, avanti, nobilissimi Inglesi, il cui sangue deriva da padri provati nella guerra, padri che come altrettanti Alessandri combatterono in questi luoghi dalla mattina alla sera e ringuainarono le spade solo per mancanza di avversari. Non disonorate le vostre madri e dimostrate che coloro che chiamate padri vi hanno veramente generati. Siate esempio a uomini di sangue più grossolano e insegnate loro come si fa la guerra. E voi, buoni fanti, le cui membra furono procreate in Inghilterra, qui mostrate come foste nutriti. Possiamo giurare che senza dubbio alcuno siete degni della razza a cui appartenete, poiché non c'è nessuno di voi tanto basso e vile che non abbia un generoso lampo negli occhi. Vedo che state come levrieri che tirano il guinzaglio, pronti a lanciarsi. La partita è incominciata.

Seguite l'impulso del vostro coraggio. Questo è l'ordine, e ora gridate: "Dio per re Enrico! Inghilterra e San Giorgio!".

 

(Allarme. Sparo di cannoni. Escono)

 

 

 

SCENA SECONDA - Lo stesso luogo

(Entrano NYM, BARDOLFO, PISTOLA e il Ragazzo)

 

BARDOLFO: Su, su, su! alla breccia, alla breccia!

NYM: Per favore, caporale, fermati. I colpi sono troppo caldi, e per parte mia non ho un assortimento di vite; codesto scherzo scotta troppo, questa è l'antifona.

PISTOLA: L'antifona è appropriatissima, poiché gli scherzi di questo genere abbondano.

Copi a dritta e a manca, cadon di Dio i vassalli, e spada e scudo nel sanguinoso ludo acquistan fama immortale.

RAGAZZO: Vorrei essere in un'osteria a Londra! darei tutta la mia fama per un boccale di birra e la pelle salva.

PISTOLA: E io:

Se ai desideri dessi il sopravvento non mancherei all'intento, ma volerei là dov'io bramo.

RAGAZZO: Sì celermente, ma non sì onestamente, come uccel canta sul ramo.

 

(Entra FLUELLEN)

 

FLUELLEN: Su, alla preccia, pirpanti! fia, gaglioffi!

 

(Cacciandoseli avanti)

 

PISTOLA: Sii misericordioso, grande duca, verso esseri di mortale argilla; smorza la tua furia, smorza la tua animosa furia, smorza la tua furia, grande duca; bello mio, smorza la tua furia; usaci indulgenza, cocco bello.

NYM: Ecco del buon umore! Vostra Signoria conquista i cattivi umori.

 

(Escono Nym, Pistola, Bardolfo, seguiti da Fluellen)

 

RAGAZZO: Giovane come sono, ho osservato questi tre smargiassi. Servo come garzone tutti e tre: ma se loro tre servissero me, non farebbero un uomo intiero; davvero tre pagliacci simili sommati insieme non fanno un uomo. Bardolfo è rosso in faccia, ma ha un fegato bianco come un cencio; quindi la vince con la faccia tosta, ma non con le armi.

Pistola ha una lingua che uccide, ma una spada cheta cheta, e così massacra le parole, ma conserva intatte le armi. Nym ha sentito dire che gli uomini taciturni sono i migliori, e perciò non dice le orazioni per paura di essere creduto vigliacco; ma le sue rare male parole s'accompagnano con altrettanto rari buoni fatti, perché non ha mai rotto altre teste che la sua, e ciò avvenne contro un palo un giorno che era ubriaco. Rubano tutto e lo chiamano acquistare.

Bardolfo ha rubato una custodia da liuto, l'ha portata per dodici leghe e l'ha venduta per tre soldi e mezzo. Nym e Bardolfo sono amici per la pelle nel portar via la roba degli altri, e a Calais hanno rubato un ramaiolo; ho capito da questo che erano disposti a mandar giù qualunque cosa. Vorrebbero che acquistassi familiarità con le tasche del prossimo quanta ne hanno i guanti o i fazzoletti: ma sarebbe contro la mia dignità di uomo prender dalla tasca altrui per metter nella mia; poiché non si intascano che le offese. Debbo proprio lasciarli e cercarmi qualche servizio migliore. La loro furfanteria mi dà allo stomaco, che non è abbastanza forte per sopportarla: e debbo perciò rigettarla.

 

(Esce)

(Rientra FLUELLEN seguito da GOWER)

 

GOWER: Capitano Fluellen, dovete venire subito alle mine; il duca di Gloucester vuol parlare con voi.

FLUELLEN: Alle mine! dite al duca che non è il caso che si fada alle mine perché le mine non sono state fatte secondo i principi dell'arte della guerra; gli scafi non sono pene profondi; perché fedete, l'affersario, e potete dirlo al duca, ha scafato circa quattro praccia sotto con le contromine. Per Pacco, credo che farà saltare tutto in aria se non si prendono migliori disposizioni.

GOWER: Il duca di Gloucester, a cui è affidata la direzione dell'assedio, si lascia consigliare da un Irlandese, un uomo senza dubbio di gran valore.

FLUELLEN: E' il capitano Macmorris, non è fero?

GOWER: Credo che sia lui.

FLUELLEN: Per Pacco; è la più grande pestia che ci sia al mondo e glielo direi in faccia; nell'arte della guerra, fedete, dico l'arte romana della guerra, non è più prafo di un potolo.

 

(Entrano MACMORRIS e JAMY in distanza)

 

GOWER: Eccolo qui, e con lui è il capitano Jamy delle truppe scozzesi.

FLUELLEN: Il capitano Jamy è un signore falorosissimo, questo è certo, e di grande esperienza e cultura circa le antiche pattaglie; per quello che so delle sue disposizioni, per Pacco, egli sostiene i suoi argomenti meglio di qualsiasi altro ufficiale al mondo, fondandosi sui principi praticati dai Romani nelle antiche pattaglie.

JAMY: Buon ciorno, capitano Fluellen.

FLUELLEN: Puona sera a Vostra Signoria, puon capitano Jamy.

GOWER: Ebbene, capitano Macmorris, avete lasciate le mine? gli zappatori hanno smesso il lavoro?

MACMORRIS: Per Grishto! cosce mal fatte: sci rinuncia al lavoro e la tromba sciuona la ritirata. Giuro per questa mano e per l'anima di mio padre che sciono cosce mal fatte; sci è rinunciato, e io, Grishto mi scialvi, avrei fatto scialtare in aria la città in un'ora. Oh! cosce mal fatte, cosce mal fatte, gashpita, cosce mal fatte!

FLUELLEN: Capitano Macmorris, fi prego ora; forreste concedermi di disputare con foi un poco sulle arti delle pattaglie, delle pattaglie romane, tanto per discutere, fedete, e per scampiare amichefolmente le idee, fuoi per soddisfare il mio pensiero, fuoi per la soddisfazione, fedete, della mia mente, quanto ai princìpi dell'arte della guerra: ecco il pusillis.

JAMY: Benissimo, cari capitani, ciuraddio, e io farò altrettanto se posso, con vostra buona licenza, se trovo l'occasione ciusta: proprio davvero.

MACMORRIS: Grishto mi aiuti, non è tempo di chiacchiere. Oggi tutto shcotta: il tempo, la battaglia, il re e i duchi: non è tempo di chiacchiere. La città è ascediata e la tromba ci chiama alla breccia; noi shtiamo qui a parlare e intanto non sci fa nulla, per Grishto. Dio mi ascista, è una vergogna shtar qui con le mani alla cintola, con tutte le gole che ci sciono da tagliare e tutto il lavoro che c'è da fare: e intanto non sci fa niente, per Grishto!

JAMY: Per Dio! prima che kvesti occhi miei si abbandonino in braccio a Morfeo, o farò kvalche cosa di buono o ciacerò sul terreno, sì, procomberò; ma venderò la pelle più cara che potrò, ciuraddio, e kvesto è kvanto; ma, per la Vergine, mi sarebbe piaciuto sentirvi parlare di kvalche bell'arcomento militare tra voi due.

FLUELLEN: Capitano Macmorris, state attento e se spaglio correggetemi liperamente; credo che non fi siano molti della fostra nazione...

MACMORRIS: Della mia nazione? E cosc'è la mia nazione? Furfante, bashtardo, briccone e mashcalzone. Cosc'è la mia nazione? chi parla della mia nazione?

FLUELLEN: Fedete un po' qui, se prendete la cosa in modo tutto contrario a quello che intendefo io, capitano Macmorris, forse penserò che non mi usate tutta quella cortesia che dofreste se afeste senno, fedete, perché non sono al di sotto di foi per scienza nell'arte delle pattaglie, per nascita e per tutto il resto.

MACMORRIS: No, non credo che sciate un pari mio; e, Grishto mi aiuti, vi taglierò la teshta.

GOWER: Signori miei, c'è un malinteso fra voi due.

JAMY: E' un brutto ekvivoco.

 

(Si suona a parlamento)

 

GOWER: La città invita a parlamentare.

FLUELLEN: Capitano Macmorris, quando si richiederà una occasione più migliore, fedete, prenderò la lipertà di farfi federe che conosco pene l'arte delle pattaglie; e pasta così.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA TERZA - Lo stesso luogo. Davanti alle porte

(Il Governatore e alcuni Cittadini sulle mura. Truppe inglesi sotto. Entra RE ENRICO col Seguito)

 

ENRICO: Cosa decide il governatore della città? questa è l'ultima volta che consentiamo a parlamentare: perciò affidatevi alla nostra clemenza, altrimenti, come uomini che ambiscono la loro stessa distruzione, ci sfidate a fare quanto di peggio può accadere: poiché come è vero che sono un soldato - il nome che nei miei pensieri meglio mi conviene - se comincio ancora una volta il bombardamento, non lascerò questa città di Harfleur semiconquistata, sinché non sia sepolta nelle sue stesse ceneri. Chiuderemo tutte le porte della misericordia e il soldato, fatto rude e spietato dopo aver sentito l'odore del sangue, vagherà libero di uccidere, con una coscienza ampia come l'inferno, mietendo come fossero erba le vostre belle fanciulle e i bambini fiorenti. Che importerà a me allora se l'empia guerra, col volto affumicato e rivestita di fiamme come il principe dei demoni, compirà tutte le fiere gesta attinenti alla distruzione e alla devastazione? Che importerà a me, dal momento che voi stessi ne sarete la causa, se vergini pure cadranno in mano della stupro ardente e violento? Come si può imbrigliare la malvagità sfrenata quando corre a precipizio giù per la china? Tanto vale comandare ai soldati infuriati che fanno bottino quanto ordinare al leviatano di venire a riva. Perciò, uomini di Harfleur, abbiate compassione della vostra città e del vostro popolo, mentre ho ancora in pugno i soldati, e mentre la fresca e moderata aura della grazia tiene lontane le nubi sozze e infette del massacro imperioso, del sacco e delle atrocità di ogni specie. Altrimenti, aspettatevi tra pochi istanti di vedere il soldato accecato dal sangue contaminare con sozza mano le chiome delle vostre figlie strepitanti, i vostri padri afferrati per le bianche barbe e le loro teste venerande sfracellate contro i muri, i vostri piccoli infilati nudi sulle picche, mentre le madri impazzite feriranno il cielo con le loro urla confuse, come quando le donne di Giudea imprecavano contro gli sgherri sanguinari di Erode. Che dite?

cederete e renderete vano tutto ciò, o, colpevoli di volervi difendere a ogni costo, vi farete distruggere?

GOVERNATORE: Le nostre speranze oggi sono svanite. Il Delfino a cui avevamo chiesto aiuto ci risponde che non ha forze pronte per far levare così grande assedio. Perciò, gran re, affidiamo la nostra città e le nostre vite alla tua umana misericordia. Varca le porte; disponi di noi e delle cose nostre, perché non siamo più in condizione di difenderci.

ENRICO: Aprite le porte! Suvvia, zio Exeter, entrate in Harfleur; rimanetevi e munitela fortemente contro i Francesi: usate clemenza con tutti. Quanto a noi, caro zio, poiché l'inverno si avvicina e le malattie si diffondono fra i nostri soldati, ci ritireremo a Calais.

Questa notte saremo vostri ospiti in Harfleur, e domani saremo pronti a marciare.

 

(Squillo di trombe. Il Re entra in città col Seguito)

 

 

 

SCENA QUARTA - Rouen. Stanza nel Palazzo

(Entrano CATERINA e ALICE)

 

CATERINA: Alice, tu as été en Angleterre, et tu parles bien le langage.

ALICE: Un peu, madame.

CATERINA: Je te prie, m'enseignez; il faut que j'apprenne à parler. Comment appelez-vous la main en anglois?

ALICE: La main? elle set appelée "de hand".

CATERINA: "De hand". Et les doigts?

ALICE: Les doigts? ma foi, j'oublie les doigts, mais je me souviendrai. Les doigts? je pense qu'ils sont appelés "de fingres".

CATERINA: La main, "de hand"; les doigts, "de fingres". Je pense que je suis le bon écolier; j'ai gagné deux mots d'anglois vitement. Comment appelez-vous les ongles?

ALICE: Les ongles, nous les appelons "de nails".

CATERINA: "De nails". Ecoutez; dites-moi si je parle bien: "de hand", "de fingres", et "de nails".

ALICE: C'est, bien dit, madame; il est fort bon anglois.

CATERINA: Dites-moi l'anglois pour le bras.

ALICE: "De arm", madame.

CATERINA: Et le coude?

ALICE: "De elbow".

CATERINA: "De elbow". Je m'en fais la répétition de tous les mots que vous m'avez appris dès à présent.

ALICE: Il est trop difficile, madame, comme je pense.

CATERINA: Excusez-moi, Alice; écoutez: "de hand", "de fingres", de "nails", de "arm", de "bilbow".

ALICE: "De elbow", madame.

CATERINA: O Seigneur Dieu, je men oublie! "de elbow". Comment appelez- vous le col?

ALICE: "De neck", madame.

CATERINA: "De nick". Et le menton?

ALICE: "De chin".

CATERINA: "De sin". Le col, "de nick"; le menton, "de sin".

ALICE: Oui. Sauf votre honneur, en vérité, vous prononcez les mots aussi droit que les natifs d'Angleterre.

CATERINA: Je ne doute point d'apprendre, par la grace de Dieu, et en peu de temps.

ALICE: N'avez-vous pas déjà oublié ce que vous ai enseigné?

CATERINA: Non, je reciterai à vous promptement: "de hand", de "fingres", "de mails"...

ALICE: "De nails", madame.

CATERINA: "De nails", "de arm", "de ilbow".

ALICE: Sauf votre honneur, "de elbow".

CATERINA: Ainsi dis-je; "de elbow", "de nick" et "de sin". Comment appelez-vous le pied et la robe?

ALICE: "De foot", madame, et "de coun".

CATERINA: "De foot" et "de coun"? O Seigneur Dieu! ce sont mots de son mauvais, corruptible, gros, et impudique, et non pour les dames d'honneur d'user. Je ne voudrois prononcer ces mots devant les seigneurs de France, pour tout le monde. Il faut "de foot" et "de coun", neanmoins. Je reciterai une autre fois ma leçon ensemble: "de hand", "de fingres", "de nails", "de arm", "de elbow", "de nick", "de sin", "de foot", "de coun".

ALICE: Excellent, madame!

CATERINA: C'est assez pour une fois. Allons-nous à diner.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA QUINTA - Lo stesso luogo

(Entrano il RE DI FRANCIA, il DELFINO, il DUCA DI BORBONE, il CONNESTABILE DI FRANCIA e altri)

 

RE: E' certo che ha passato la Somme.

CONNESTABILE: Se non si combatte contro di lui, sire, non è più il caso di vivere in Francia: abbandoniamo tutto e cediamo i nostri vigneti a un popolo barbaro.

DELFINO: "O Dieu vivant"! alcuni pochi ramoscelli del nostro tronco, il superfluo della virilità dei nostri padri, i nostri virgulti innestati su un ceppo selvatico e barbaro debbono proprio crescere così improvvisamente sino al cielo e guardare dall'alto in basso chi li ha innestati?

BORBONE: Normanni, ma bastardi, bastardi! "Mort de ma vie!" se si avanzano e non li combattiamo, venderò il mio ducato e comprerò un podere pantanoso e sudicio in quella frastagliata isola di Albione.

CONNESTABILE: "Dieù des batailles!" dove trovano tanto spirito? non è il loro clima nebbioso, crudo e grigio, e il sole non li guarda pallido, quasi per dispetto, uccidendo i loro frutti col suo cipiglio?

Il loro brodo d'orzo, acqua bollita, un beverone che va bene per rozze fiaccate, potrà riscaldare il loro sangue che è così freddo a un tal punto di valoroso calore, e il nostro, che ci scorre così vivo nelle vene ed è rinvigorito dal vino, sembrerà invece tanto gelido? Oh! per l'onore della nostra terra non pendiamo come ghiacciuoli penzolanti dai tetti delle nostre case, mentre un popolo così frigido trasuda giovinezza e valore nei nostri campi, ricchi sì, ma poveri, diciamolo pure, riguardo ai signori che vi hanno avuto i natali.

DELFINO: In fede mia e sul mio onore, le nostre dame ci deridono e dicono chiaramente che il nostro vigore è esaurito e che concederanno i loro corpi alla esuberante virilità dei giovani inglesi, per approvvigionare la Francia di guerrieri bastardi.

BORBONE: Ci invitano nelle loro scuole di ballo inglesi a insegnare le alte piroette della volta e la briosa corrente, dicendo che ogni nostro merito sta nei calcagni e che siamo abilissimi a scappare.

RE: Dov'è Montjoy l'araldo? mandatelo al più presto a portare al re d'Inghilterra una secca sfida. Suvvia, principi; affilando lo spirito dell'onore ancora più che le vostre spade, scendete in campo: Carlo Delabreth, gran connestabile di Francia, voi duchi di Orléans, Borbone e Berri, Alençon, Brabante, Bar e Borgogna, Jaques Chatillon, Rambures, Vaudemont, Beaumont, Grandpré, Roussi e Fauconberg, Foix, Lestrale, Bouciqualt e Charolois, granduchi, grandi principi, baroni, nobili e cavalieri, in omaggio al vostro gran rango rimovete da voi grandi onte, arrestate Enrico d'Inghilterra che marcia alteramente attraverso al nostro paese con bandiere tinte nel sangue di Harfleur.

Precipitatevi sul suo esercito come la neve sciolta fa sulle valli, quando l'Alpe sputa e spurga la sua bava sulla sottoposta bassura.

Calategli addosso, avete forza abbastanza, e portatelo prigioniero su un cocchio a Rouen.

CONNESTABILE: Questo s'addice ai forti. Mi duole che i suoi soldati siano così pochi, ammalati e affamati per effetto delle marce, poiché sono certo che quando vedrà il nostro esercito, il suo cuore cadrà in preda al più abbietto terrore e a mo' di vittoria ci offrirà il prezzo del suo riscatto.

RE: Perciò, monsignore connestabile, affrettate la partenza di Montjoy: dica al re d'Inghilterra che lo abbiamo mandato per sapere che riscatto è disposto a dare. Principe Delfino, voi starete con noi in Rouen.

DELFINO: No, no; ne supplico Vostra Maestà.

RE: Chetatevi, perché rimarrete con noi. E ora partite, monsignor connestabile e principi tutti, e portateci presto la notizia della disfatta del re d'Inghilterra.

 

(Escono)

 

 

 

 

SCENA SESTA - Il campo inglese in Piccardia

(Entrano GOWER e FLUELLEN incontrandosi)

 

GOWER: Che novità, capitano Fluellen? venite dal ponte?

FLUELLEN: Fi assicuro che si stanno facendo al ponte cose pellissime.

GOWER: Il duca di Exeter è incolume?

FLUELLEN: Il duca di Exeter è magnanimo come Agamennone; è un uomo che amo e onoro con l'anima, col cuore; pronto a fare per lui tutto il mio dofere, tutto quanto sta in me, a dare la fita stessa: egli non è stato ferito per nulla affatto, Dio sia lodato e penedetto! e tiene il ponte con grande prafura e secondo tutte le regole dell'arte della guerra. E c'è al ponte anche un tenente alfiere, e in coscienza mi pare che sia pari a Marco Antonio per falore: non è uomo di alcun conto, ma gli ho fisto fare pelle prodezze.

GOWER: Come si chiama?

FLUELLEN: Alfiere Pistola.

GOWER: Non lo conosco.

 

(Entra PISTOLA)

 

FLUELLEN: Eccolo qui in persona.

PISTOLA: Capitano, ti prego di essermi cortese. Il duca di Exeter ti ama assai.

FLUELLEN: Sì, grazie a Dio; questo amore l'ho meritato, in parte almeno.

PISTOLA: Bardolfo, un soldato fermo e dal cuore saldo e di attivo coraggio, per crudo fato e per effetto della volubile ruota della Fortuna folle, la cieca dea che sta su la rotante pietra erratica...

FLUELLEN: Permettete, alfiere Pistola: la fortuna si dipinge cieca, sì, con penda dafanti agli occhi, per significare che è orpa; ed è dipinta anche con la ruota per indicare - e questa è la morale della fafola - che gira ed è incostante, ed è tutta mutapilità e fariazione, e il suo piede, fedete, è su una pietra sferica che rotola, e rotola e rotola: in ferità, il poeta ne fa una pellissima descrizione: la rappresentazione della fortuna è un'allegoria eccellente.

PISTOLA: La fortuna è nemica di Bardolfo e gli fa fiero cipiglio, poiché ha rubato una pisside e deve esser impiccato. Maledetta morte!

chiappi i cani il capestro, l'uomo sia libero e la corda non gli strozzi il gorgozzule. Ma Exeter gli ha infitto la mortal condanna per pisside di poco conto. Vai dunque e parla per lui; il duca ascolterà la tua voce. Non lasciar che il taglio di una vil corda da un soldo con vile infamia recida di Bardolfo il vital filo. Intercedi, capitano, per la sua vita e te ne rimeriterò.

FLUELLEN: Alfiere Pistola, comprendo solo in parte quello che dite.

PISTOLA: Ebbene, allegrati per questo.

FLUELLEN: Ma, alfiere, non è cosa da rallegrarsi, poiché, fedete, anche se fosse mio fratello, infiterei il duca a fare quello che più gli piace e a mandarlo a morte, perché la disciplina defe essere rispettata.

PISTOLA: Muori e sii dannato: un fico per la tua amicizia!

FLUELLEN: Penissimo.

PISTOLA: E fico di Spagna!

 

(Esce)

 

FLUELLEN: Ottimamente.

GOWER: Bene, questo è un briccone che si dà arie di onest'uomo. Ora lo ricordo: un ruffiano, un borsaiolo.

FLUELLEN: Fi assicuro che al ponte dicefa le più pelle parole che si possano federe un giorno d'estate. Ma fa penone: alla prima occasione si fedrà che quello che mi ha detto fa proprio pene daffero.

GOWER: Sicuro: è un imbroglione, un imbecille, un furfante che di quando in quando va alla guerra, per darsi delle arie quando torna a Londra sotto le mentite spoglie di combattente. Gente di questa specie ricorda perfettamente i nomi dei grandi generali, e impara a memoria dove sono stati compiuti i vari fatti d'arme, a che ridotta, a che breccia o convoglio, chi fu ucciso, chi ne uscì con onore e chi disonorato, e che condizioni pose il nemico; e questo mandano a mente con perfetta fraseologia guerresca e lo guarniscono con bestemmie di nuovo conio; quando ci si pensa, fa meraviglia vedere che effetto facciano tra boccali spumanti e cervelli imbevuti di birra una barba tagliata come quella di un certo generale e un'uniforme da campagna in pessime condizioni. Ma dovete imparare a conoscere questa gente che disonora il nostro tempo, se non volete commettere qualche grosso equivoco.

FLUELLEN: Fi dico una cosa, capitano Gower; fedo che non è quello che gradirebbe di apparire agli altri; se mi si presenta l'occasione di coglierlo in fallo, gli dirò quello che penso di lui. (Suono di tamburi) Sentite, ecco il re; debbo dargli notizie di quello che si fa al ponte.

 

(Tamburi e bandiere. Entrano RE ENRICO, GLOUCESTER e Soldati)

 

FLUELLEN: Dio penedica Fostra Maestà!

ENRICO: Ebbene, Fluellen! vieni dal ponte?

FLUELLEN: Sì, se piace a Fostra Maestà. Il duca di Exeter lo ha falorosamente difeso: i Francesi sono stati respinti, dopo farie azioni assai prillanti. L'affersario stafa per impossessarsene, ma è stato costretto a ritirarsi, e il duca di Exeter è padrone della posizione. Posso assicurare Fostra Maestà che il duca è un faloroso.

ENRICO: Quanti uomini avete perso, Fluellen?

FLUELLEN: La perdizione dell'affersario è stata molto grande, come era ragionefole; per parte mia credo che il duca non abbia perso che un uomo, e si tratta di un tale che defe essere impiccato, perché ha rubato in una chiesa, un certo Pardolfo, se Fostra Maestà lo conosce: la sua faccia è tutta pupponi, schianze e pitorzoli e fuochi folatici. Sempra che le lappra gli soffino sul naso e questo è come un carpone acceso, ora paonazzo e ora rosso; ma a quest'ora il suo naso deve essere stato giustiziato e il fuoco spento.

ENRICO: E così vorrei che fossero soppressi tutti i rei di questa sorta: diamo anzi ordine espresso che nelle nostre marce attraverso il paese non si tolga nulla ai villaggi con la forza, che quello che si prende sia debitamente pagato, che nessuno dei Francesi sia rimproverato o offeso con alterigia di linguaggio; perché quando la mitezza e la crudeltà si giuocano fra loro un regno, il giocatore più umano è il primo a vincere.

 

(Segnale di tromba. Entra MONTJOY)

 

MONTJOY: Mi riconoscete certo dal mio abito.

ENRICO: Certamente ti riconosco; e che mi vieni a riferire?

MONTJOY: Il pensiero del mio signore.

ENRICO: Dimmelo.

MONTJOY: Così parla il mio re: Di' a Enrico d'Inghilterra che, sebbene sembrassimo morti, non eravamo che addormentati: saper attendere il vantaggio serve meglio in guerra che la precipitazione. Informalo che avremmo potuto infliggergli un grave scacco a Harfleur; sennonché abbiamo pensato che non fosse bene tagliare il bubbone finché non fosse maturo. Ora è giunto per noi il momento di recitare la nostra parte e lo faremo con voce imperiale: il re d'Inghilterra si pentirà della sua follia, riconoscerà la sua debolezza e ammirerà la nostra pazienza. Perciò digli di considerare il suo riscatto che deve essere in proporzione delle spese che abbiamo subite, dei sudditi che ci sono stati uccisi, delle umiliazioni che abbiamo dovuto trangugiare; e se dovesse rispondere in esatta misura, la sua miseria piegherebbe sotto il carico. A compensare le nostre spese il suo tesoro è troppo povero; tutto l'esercito inglese è troppo piccolo per scontare il sangue che abbiamo sparso; e per la nostra umiliazione, se egli in persona si inginocchiasse ai nostri piedi, sarebbe meschina e misera riparazione.

A questo aggiungi la mia sfida; e, per concludere, di' che ha tradito i suoi seguaci, la cui condanna è ormai pronunciata. Sin qui il re mio signore, questo il mio messaggio.

ENRICO: So qual è il tuo ufficio; ma come ti chiami?

MONTJOY: Montjoy.

ENRICO: Sai disimpegnare bene il tuo ufficio. Ritorna pure e di' al tuo re, che ora non cerco di scontrarmi con lui, ma che vorrei andare a Calais senza impedimenti; poiché, a essere sincero, sebbene non sia saggio fare simili confessioni a un nemico astuto e che sa cogliere così bene il vantaggio, la mia gente è molto indebolita dalle malattie, il mio esercito assottigliato e questi pochi soldati che mi restano non sono meglio di altrettanti Francesi, mentre, se fossero in perfetta salute, te lo dico francamente, araldo, su un paio di gambe inglesi mi parrebbe di veder marciare tre Francesi. Eppure, Dio mio, perdonami, se mi lascio sfuggire questa millanteria, ma è questa vostra aria di Francia che mi ha infettato con questo vizio, e debbo dichiararmi pentito. Va' perciò, e riferisci al tuo re che sono qui, il mio riscatto è questo mio fragile corpo che non val nulla, il mio esercito un pugno di uomini estenuati e malaticci. Tuttavia, nel nome di Dio, avvertilo che ci faremo avanti anche se il re di Francia o altro simile potentato ci venisse tra i piedi. Prenditi questo per le tue fatiche, Montjoy. Va' e di' al tuo signore di pensarci bene. Se ci lasciate passare, passeremo; se ce lo impedite, coloreremo col vostro sangue questa terra giallastra: e così, Montjoy, addio. Il succo della nostra risposta è questo: così come siamo preferiremmo di non venire a battaglia ma non diciamo che la rifiuteremo. Questo riporta al tuo signore.

MONTJOY: Questo riferirò. Ringrazio Vostra Maestà.

 

(Esce)

 

GLOUCESTER: Spero che non ci attaccheranno ora.

ENRICO: Siamo nelle mani di Dio, fratello, non in quelle dei Francesi.

Andiamo al ponte; si avvicina la notte, ci accamperemo oltre il fiume e domani daremo l'ordine della partenza.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SETTIMA - Il campo francese vicino a Azincourt

(Entrano il CONNESTABILE DI FRANCIA, RAMBURES, ORLEANS, il DELFINO e altri)

 

CONNESTABILE: Zitti! La mia è la miglior armatura del mondo; oh, fosse giorno!

ORLEANS: Avete un'eccellente armatura, ma date al mio cavallo la lode che gli spetta.

CONNESTABILE: E' il miglior cavallo d'Europa.

ORLEANS: Non farà mai giorno?

DELFINO: Monsignore d'Orléans e voi monsignore gran connestabile parlate di cavalli e di armature?

ORLEANS: Sia per l'uno sia per l'altro siete il principe meglio equipaggiato del mondo.

DELFINO: Che notte lunga è questa! Non cambierei il mio cavallo con alcuno che cammina a quattro zampe. "Ça", ah! rimbalza da terra quasi che avesse le viscere di crini come una palla da tennis: "le cheval volant", il Pegaso, "avec les narines de feu"! Quando lo cavalco, mi innalzo che mi sembra d'essere un falco: trotta in aria e la terra canta quando la tocca; l'infimo corno del suo zoccolo è più armonioso della zampogna di Mercurio.

ORLEANS: E' del colore della noce moscata.

DELFINO: E ha il calore dello zenzero. E' l'animale che sembrerebbe fatto apposta per Perseo: è tutt'aria e fuoco; e terra e acqua, torpidi elementi, compaiono soltanto nella sua immobilità paziente quando il cavaliere sta montando in sella: esso solo merita il nome di cavallo, gli altri potete chiamarli bestie.

CONNESTABILE: Davvero, signore, è un cavallo eccellente e impareggiabile.

DELFINO: E' il principe dei palafreni; il nitrito sembra il comando di un monarca e l'aspetto provoca l'omaggio.

ORLEANS: Basta cugino.

DELFINO: No, non ha sale in zucca quell'uomo che dal levarsi dell'allodola fino al coricarsi dell'agnello non sa variare le meritate lodi del mio palafreno. E un tema fluido come il mare: date la parola alle sabbie ed ogni granellino troverà nel mio cavallo argomento sufficiente. Merita che un sovrano vi ragioni su, e che un re dei re lo cavalchi e che in ogni parte del mondo, nota e sconosciuta, tutti interrompano le loro particolari occupazioni per ammirarlo. Una volta scrissi in sua lode un sonetto che cominciava così: "O meraviglia di natura...".

ORLEANS: Ho sentito un sonetto per un'amante che cominciava allo stesso modo.

DELFINO: Sarà stato un'imitazione di quello che scrissi pel mio corsiero, poiché il mio cavallo è la mia amante.

ORLEANS: E allora si può dire che la vostra amante vi porta bene.

DELFINO: Me, sì; e questa è la migliore lode e riconoscimento di perfezione di una buona amante esclusiva.

CONNESTABILE: No; perché mi pare che ieri la vostra amante vi abbia perversamente scavalcato.

DELFINO: E così forse ha fatto la vostra.

CONNESTABILE: La mia non portava briglia.

DELFINO: Oh! vuol dire allora che era vecchia e docile e che voi cavalcate vestito come un fante irlandese con calzoni attillati e senza brache larghe alla moda francese.

CONNESTABILE: V'intendete bene d'equitazione.

DELFINO: Lasciatevi consigliare da me, allora; chi cavalca così e non sta attento, va a finire in qualche brutto pantano. Preferisco avere il cavallo per amante.

CONNESTABILE: Tanto varrebbe che la mia amante fosse una giumenta.

DELFINO: Connestabile, ti assicuro che ogni pelo della mia bella è naturale.

CONNESTABILE: Potrei menare simile vanto, se per amante avessi una scrofa.

DELFINO: "Le chien est retourné à son propre vomissement, et la truie lavée au bourbier"; tu fai uso di qualsiasi cosa.

CONNESTABILE: Però non uso il cavallo come amante, o un proverbio simile al vostro così poco a proposito.

RAMBURES: Connestabile, sono stelle o soli quelli che ho visto sull'armatura nella vostra tenda questa notte?

CONNESTABILE: Stelle, signor mio.

DELFINO: Alcune di esse cadranno domani, credo.

CONNESTABILE: E tuttavia il mio cielo non se ne accorgerà neanche.

DELFINO: Può darsi, perché molte sono superflue, e sarebbe più onore se ce ne fosse un minor numero.

CONNESTABILE: Sì, come le lodi del vostro cavallo che trotterebbe meglio se alcuni dei vostri elogi sperticati scendessero di sella.

DELFINO: Vorrei caricarlo di tutte le lodi che merita! Non si farà mai giorno? domani trotterò un miglio e la mia strada sarà lastricata di facce inglesi.

CONNESTABILE: Non lo direi per timore che mi si facesse rimangiare la mia sfacciataggine. In ogni modo vorrei che fosse mattina per accapigliarmi con gli Inglesi.

RAMBURES: Chi vuol correre il rischio di scommettere che farò venti prigionieri?

CONNESTABILE: Prima dovreste esporvi al rischio di prenderli.

DELFINO: E mezzanotte; vado ad armarmi.

 

(Esce)

 

ORLEANS: Al Delfino par mill'anni che spunti il giorno.

RAMBURES: Al Delfino par mill'anni di mangiarsi gli Inglesi.

CONNESTABILE: Credo che potrà mangiarsi benissimo quelli che ucciderà.

ORLEANS: Per la bianca mano della mia dama, è un valoroso principe.

CONNESTABILE: Anziché per la mano giurate pel piede, che così potrà calpestare il giuramento.

ORLEANS: Non c'è che dire: è il più attivo gentiluomo di Francia.

CONNESTABILE: Se l'attività sta nel fare, egli è sempre sul punto di fare qualche cosa.

ORLEANS: Non ha mai fatto niente di male, ch'io sappia.

CONNESTABILE: E non ne farà neanche domani: si conserverà ancora questa reputazione.

ORLEANS: So che è un valoroso.

CONNESTABILE: Me lo ha detto anche un altro che lo conosce meglio di voi.

ORLEANS: Chi è?

CONNESTABILE: Lui stesso: e mi ha detto che non gli importava che altri lo sapesse.

ORLEANS: Non occorre neanche dirlo: non è virtù occulta in lui.

CONNESTABILE: Eppure in fede mia lo è, messere: nessuno l'ha mai vista salvo il suo lacchè: è un valore incappucciato come un falco, e quando lo scoprono fa un grande starnazzar d'ali.

ORLEANS: Il malanimo non parla mai bene.

CONNESTABILE: Risponderò con quest'altro proverbio: "Tutti gli amici sono adulatoli".

ORLEANS: E io con questo: "Anche al diavolo si deve dare quello che gli spetta".

CONNESTABILE: Giusto! il vostro amico è il diavolo del proverbio e questo gli risponde a puntino: "Al diavolo il malanno".

ORLEANS: In fatto di proverbi avete la meglio solo in quanto "lo sciocco lancia troppo presto la sua freccia".

CONNESTABILE: Non mi avete colpito.

ORLEANS: No, e non è neanche la prima volta che siete stato oltrepassato.

 

(Entra un Messo)

 

MESSO: Gran connestabile, gli Inglesi sono a millecinquecento passi dalle vostre tende.

CONNESTABILE: Chi ha misurato questa distanza?

MESSO: Monsignor Grandpré.

CONNESTABILE: Un valente ed esperto gentiluomo. Oh, fosse già giorno!

Ahimè! il povero Enrico d'Inghilterra non desidera tanto come noi che spunti l'alba.

ORLEANS: Che miserabile sventato è codesto re d'Inghilterra a brancolare con quei testoni dei suoi seguaci in luoghi che non conosce!

CONNESTABILE: Se gli Inglesi capissero qualche cosa, scapperebbero.

ORLEANS: E mancano proprio di questo; se fossero armati di intelletto non avrebbero elmi così pesanti.

RAMBURES: L'Inghilterra genera valorose creature; i loro mastini hanno un coraggio impareggiabile.

ORLEANS: Cagnacci stupidissimi! che a occhi chiusi si precipitano nelle fauci di un orso russo a farsi schiacciare le teste come mele fradice; sarebbe come dire che una pulce è valorosa perché osa sdigiunarsi sul labbro di un leone.

CONNESTABILE: Proprio, proprio: e gli uomini di quel paese somigliano ai mastini nell'attaccare con violenza e forza brutale, lasciando tutta l'intelligenza alle mogli; imbandite loro generosamente carne di bue, ferro e acciaio e li vedrete mangiare da lupi e combattere da diavoli.

ORLEANS: Sì, ma ora questi Inglesi sono maledettamente a corto di carne di bue.

CONNESTABILE: E allora domani vedremo che hanno solo voglia di mangiare e punta di combattere. Ora è tempo di armarci, dobbiamo andare?

ORLEANS: Adesso sono le due; ma lasciatemi un po' vedere: sì, prima delle dieci ciascuno di noi si sarà presi i suoi cento Inglesi.

 

(Escono)

 

 

 

ATTO QUARTO

(Entra il Coro)

 

CORO: Ora supponete che un indistinto mormorio e le cieche tenebre riempiano la grande cavità dell'universo. Da un campo all'altro nel grembo dell'ingrata oscurità notturna il mormorio dei due eserciti turba così poco la quiete che ciascuna sentinella immobile quasi sente i bassi bisbigli delle altre che vigilano. Un fuoco risponde all'altro e attraverso alle deboli fiamme ciascun esercito scorge la massa scura dell'avversario. I destrieri sembrano minacciarsi penetrando il sordo orecchio della notte con alti nitriti baldanzosi, e dalle tende gli armorari, dando il tocco finale alle armature dei cavalieri, con operosi martelli ribadiscono le giunture annunciando con terribile suono che si stanno facendo gli ultimi preparativi. I galli per la campagna cominciano a cantare, e gli orologi suonano le tre nel mattino sonnacchioso. Superbi del loro numero, per nulla impensieriti, i Francesi fiduciosi e anche troppo animosi si giuocano ai dadi gli Inglesi disprezzati e rimproverano la notte lenta e storpia che pare allontanarsi tediosamente zoppicando come una brutta e turpe strega. I poveri Inglesi condannati, come vittime destinate al sacrificio stanno pazientemente vegliando intorno ai fuochi e pensano in cuor loro ai pericoli che li attendono il mattino, e il triste atteggiamento, le guance smunte e gli abiti logorati dalla guerra li fanno apparire come altrettanti orrendi spettri alla luna che li guarda. Ma oh! chi ora vedrà il regale comandante di questo esercito in disfacimento andare da tenda a tenda e da un posto di guardia all'altro, gridi: "Lode e gloria sul suo capo!", poiché egli visita tutti i suoi soldati, a ciascuno dà il buon giorno sorridendo affabilmente e li chiama tutti fratelli, amici e compatrioti; dal suo viso si direbbe che un terribile esercito circonda le sue schiere; egli non ha perduto alcunché del suo colorito per la notte insonne e faticosa, ma appare fresco e vince col lieto aspetto e l'amabile maestà del viso gli effetti della fatica; sicché quei miserabili, prima pallidi e languenti, si fanno coraggio al solo guardarlo. Una liberalità universale come quella del sole, il suo occhio dona a ciascuno, sciogliendo il gelo della paura, cosicché tutto l'esercito, dai più alti personaggi ai più umili soldati, vede, per quanto la nostra debole capacità può rappresentarlo, qualcosa di Enrico nella notte. E ora la nostra scena deve spostarsi rapidamente al campo di battaglia dove, ahimè, con quattro o cinque spadacce intaccate mal maneggiate in ridicolo duello, faremo torto al gran nome di Azincourt. Eppure state a vedere, immaginando la realtà da quello che non ne è che una pallida imitazione.

 

(Esce)

 

 

 

SCENA PRIMA - Il campo inglese ad Azincourt

(Entrano RE ENRICO, BEDFORD e GLOUCESTER)

 

ENRICO: E' vero, Gloucester, che siamo in gran pericolo; ma appunto per questo, tanto più grande dovrebbe essere il nostro coraggio. Buon giorno, fratello Bedford. Dio Onnipotente! Anche nelle cose cattive c'è qualche elemento buono, solo che si sappia discernerlo con l'osservazione; il nostro cattivo vicino ci ha fatti levare di buon'ora, e ciò giova alla salute e all'economia; inoltre esso è come una coscienza esterna a noi che ci predica sante cose, e ci esorta a prepararci alla morte come si deve. Così dalle erbacce possiamo trarre il miele e ricavare un insegnamento morale persino dal diavolo.

 

(Entra ERPINGHAM)

 

Buon giorno, venerando sir Tommaso Erpingham. Un buon cuscino morbido sarebbe preferibile per la tua testa canuta che una ruvida zolla francese.

ERPINGHAM: No, sire, preferisco questo letto, perché così posso dire "ora dormo come un re".

ENRICO: E' una bella cosa quando si tollerano i mali solo per effetto dell'esempio altrui: lo spirito è sollevato e, se la mente si ravviva, senza dubbio gli organi del corpo prima spenti e morti sembrano erompere dal sepolcro dove dormivano e si muovono con nuova vivacità e leggerezza gettando la vecchia scaglia. Prestami il tuo mantello, sir Tommaso. Fratelli, salutatemi i principi che sono nel campo, augurate loro per me il buon giorno e invitateli a venire presto alla mia tenda.

GLOUCESTER: Lo faremo, sire.

ERPINGHAM: Debbo accompagnare Vostra Maestà?

ENRICO: No, mio buon cavaliere; va' coi miei fratelli dai signori d'Inghilterra; io debbo intrattenermi alquanto con la mia coscienza, e preferisco esser solo.

ERPINGHAM: Dio ti benedica dal cielo, nobile Enrico!

 

(Escono tutti eccetto il Re)

 

ENRICO: Dio ti rimeriti, vecchio amico, perché parli così serenamente.

 

(Entra PISTOLA)

 

PISTOLA: Chi va là?

ENRICO: Amici!

PISTOLA: Parla: sei ufficiale, o vile soldato, comune o plebeo?

ENRICO: Sono gentiluomo in una compagnia.

PISTOLA: Trascini tu la possente picca?

ENRICO: Proprio così, e voi, chi siete?

PISTOLA: Un gentiluomo che non è da meno dell'imperatore.

ENRICO: Allora siete più che il re.

PISTOLA: Il re è bel giovinotto, un cuor d'oro, un ragazzo di bella vita e un favorito dalla fama, di ottima famiglia e dal pugno gagliardo. Gli bacio la scarpa fangosa e con tutte le fibre del cuore amo quell'adorabile zerbinotto. Come ti chiami?

ENRICO: Harry Le Roi.

PISTOLA: Le Roi! un nome della Cornovaglia. Sei tu della genìa di Cornovaglia?

ENRICO: No, sono un gallese.

PISTOLA: Conosci Fluellen?

ENRICO: Sì.

PISTOLA: Digli che nel giorno di San Davide gli pesterò il porro sulla testa.

ENRICO: E voi non portate lo stocco sul berretto in quel giorno perché non ve lo pesti a sua volta sulla testa.

PISTOLA: Sei tu suo amico?

ENRICO: E parente anche.

PISTOLA: Un fico a te.

ENRICO: Grazie; Dio vi accompagni.

PISTOLA: Mi nomino Pistola!

 

(Esce)

 

ENRICO: Un nome adatto alla tua truculenza!

 

(Entrano FLUELLEN e GOWER)

 

GOWER: Capitano Fluellen!

FLUELLEN: Sì, ma in nome di Gesù Cristo, appassate la foce. Si ha gran merafiglia in tutto l'uniferso quando non si osserfano i feri antichi precetti e leggi della guerra. Se fi deste la priga di studiare le guerre di Pompeo Magno trofereste che non si facevano chiacchiere e non si parlafa a fànfera nel campo di Pompeo. Fe lo garantisco io; fedreste che per cerimonie di guerra, e cure, e forme e serietà e modestia, tutto era pen diferso.

GOWER: Ebbene, il nemico fa chiasso; si è sentito tutta la notte.

FLUELLEN: Se il nemico è una pestia, un impecille, un puffonesco ciarliero, credete che anche noi - guardate bene - dovremmo essere pestie, impecilli, puffoneschi ciarlieri? che ne dite in coscienza?

GOWER: Parlerò a voce più bassa.

FLUELLEN: Sì, fi scongiuro e supplico di farlo.

 

(Escono Gower e Fluellen)

 

ENRICO: Sebbene appaia di foggia antiquata, ci sono molta diligenza e valore in questo Gallese.

 

(Entrano tre soldati, GIOVANNI BATES, ALESSANDRO COURT e MICHELE WILLIAMS)

 

COURT: Compagno Bates, quella laggiù non è la luce del mattino che spunta?

BATES: Credo di sì, ma non abbiamo nessuna ragione di desiderare l'avvicinarsi del giorno.

WILLIAMS: Colà ne vediamo il principio, ma credo che non riusciremo a vederne la fine. Chi va là?

ENRICO: Amici!

WILLIAMS: Chi è il vostro capitano?

ENRICO: Sir Tommaso Erpingham.

WILLIAMS: Un ottimo vecchio capitano, e un gentiluomo assai cortese:

di grazia, cosa pensa della nostra situazione?

ENRICO: Che è come quella di uomini che hanno fatto naufragio su di un banco di sabbia e si aspettano di essere portati via dalla prossima marea.

BATES: Non ha detto al re come la pensa?

ENRICO: No, e non è bene che lo faccia. Perché, sebbene non stia a me dirlo, credo che il re non sia che un uomo come tutti gli altri. La violetta ha lo stesso odore per lui e per me, e il cielo lo stesso aspetto: i suoi sensi sono come quelli di ogni altro uomo e se si mette da parte la pompa reale, visto nella sua nudità, non è né più ne meno che un mortale qualunque; e sebbene le sue aspirazioni tendano più in alto, quando calano lo fanno con la stessa ala nostra. Perciò quando ha ragione di temere, i suoi timori hanno lo stesso carattere dei nostri; ma è ragionevole che nessuno lo intimorisca, perché se poi mostrasse paura disanimerebbe il suo esercito.

BATES: Può mostrare esteriormente tutto il coraggio che vuole; ma credo che, freddo come fa questa notte, si augurerebbe di essere nel Tamigi sino al collo e vorrei che lo fosse ed io con lui, a tutti i patti, purché fossimo fuori di qui.

ENRICO: A dir la verità, credo in coscienza che il re non si auguri di essere se non dove è attualmente.

BATES: E allora vorrei che vi restasse solo; perché in ogni caso si pagherebbe il suo riscatto e si salverebbero le vite di tanti poveri uomini.

ENRICO: Probabilmente non gli volete tanto male da augurargli di essere solo qui, per quanto lo diciate per vedere che pensano gli altri. Quanto a me, mi sembra che non morirei in nessun posto più felice che in compagnia del re, poiché la causa per cui combatte è giusta e onorevole.

WILLIAMS: Questo è più di quel che sappiamo.

BATES: Sì, e anche più di quel che dovremmo cercare di sapere: ne sappiamo abbastanza se sappiamo che siamo sudditi del re; se la sua causa è ingiusta, l'obbedienza che dobbiamo al re ci toglie ogni responsabilità pei suoi atti.

WILLIAMS: Questo è più di quel che sappiamo. Il re stesso avrà un grosso conto da rendere a Dio, quando tutte le gambe e braccia e teste tagliate in battaglia si ricomporranno il giorno del Giudizio e tutti grideranno: "Morimmo nel tale e tal luogo", chi bestemmiando, chi invocando un chirurgo, chi piangendo per la moglie lasciata povera su questa terra, chi lagnandosi per debiti non pagati e chi pei figli rimasti derelitti. Credo che pochi di quelli che finiscono in battaglia muoiano serenamente: perché come possono disporre l'anima loro a spirito di carità quando il loro pensiero è solo di sparger sangue? Ora, se questi uomini non fanno una pia morte, ciò peserà fortemente sulla coscienza del re che ve li avrà condotti, mentre essi non possono disobbedire, ché sarebbe contro la più elementare idea di sudditanza.

ENRICO: Così se un figlio per ordine del padre viaggia in mare per ragioni di commercio e finisce male, stando a quello che dite voi, i suoi peccati dovrebbero essere addebitati al padre che lo mandò; così se un servo, inviato dal padrone a portare una somma di denaro, è assalito dai ladroni e muore in stato di peccato senza essersi riconciliato con Dio, potete dire che gli affari del padrone sono stati la causa della dannazione del servo; ma non è così. Il re non è tenuto a rispondere della fine speciale dei suoi soldati, né il padre pel figlio, né il padrone pel servo: poiché non avevano per scopo la loro morte ma solo di sfruttarne i servizi. E inoltre non c'è re che avendo una causa giustissima e dovendo deciderla con le armi, possa tentare di farla trionfare solo con soldati mondi di ogni peccato.

Alcuni hanno forse sulla coscienza un omicidio volontario e commesso a sangue freddo, altri la seduzione di vergini ingannate con falsi giuramenti di fedeltà, qualcun altro si è fatto uno schermo della guerra dopo aver ferito il dolce seno della pace con saccheggi e ruberie. Ora, se questi uomini hanno eluso la legge e sono sfuggiti al castigo nel loro paese, sebbene possano sottrarsi all'insegnamento degli uomini, non hanno ali per volare lontani da Dio: la guerra è il suo strumento di punizione e di vendetta; così uomini che hanno prima offeso le leggi del re si trovano ora ad essere puniti in questa guerra fatta dal re: quando più temevano la morte riuscirono a salvare la vita, e ora che sperano di essere sicuri, periscono. Allora, se incontreranno la morte senza esservi preparati, il re non avrà nessuna colpa della loro dannazione, come prima non ne aveva dei peccati pei quali ora stanno per essere puniti. Ogni suddito deve obbedienza al re, ma l'anima di ciascun suddito è affare tutto suo. Perciò ogni soldato in guerra dovrebbe comportarsi come uno che è a letto ammalato gravemente, e lavare ogni macchiolina della coscienza. Se muore in questo stato d'animo, la morte gli sarà vantaggiosa; se non muore, avrà speso bene il tempo impiegato in questa preparazione: e in tal caso non è peccato supporre che Dio, facendogli così generoso dono, gli conceda di sopravvivere perché riconosca la sua grandezza e insegni agli altri come ci si prepara a morire.

WILLIAMS: E' certo che se uno muore in peccato, questo deve ricadere sul suo capo, e il re non ne risponde.

BATES: Per conto mio non desidero che risponda per me; e tuttavia combatterò arditamente per lui.

ENRICO: Coi miei orecchi ho sentito il re dire che non vuole esser riscattato.

WILLIAMS: Sì, l'ha detto per farci combattere allegramente; ma quando ci avranno tagliato la gola, egli può essere riscattato, e noi non ci guadagneremo niente.

ENRICO: Se vivo tanto da vedere una cosa simile, non mi fiderò più della sua parola.

WILLIAMS: Gli darete voi la paga allora! E' una pericolosa scarica di cerbottana, quella che può tirare il risentimento di poveri diavoli contro un monarca! Tanto varrebbe cercar di cambiare il sole in ghiaccio facendogli aria con una penna di pavone. Non vi fiderete più della sua parola! via, è proprio una sciocchezza.

ENRICO: Il vostro rimprovero è un po' troppo forte: andrei in collera con voi, se il momento non fosse inopportuno.

WILLIAMS: Riprenderemo la contesa se campiamo.

ENRICO: Ben volentieri.

WILLIAMS: Come farò a riconoscerti?

ENRICO: Dammi un tuo pegno e lo porterò sul berretto, se avrai il coraggio di riconoscerlo per tuo, ti sfiderò.

WILLIAMS: Ecco qua il mio guanto; dammene uno dei tuoi.

ENRICO: Eccolo.

WILLIAMS: Io pure porterò questo sul berretto; se mai verrai da me quando domani sarà passato e mi dirai: "Questo è il mio guanto", perdio! ti darò un ceffone.

ENRICO: Se non muoio prima, lo reclamerò come mio.

WILLIAMS: Credo che preferiresti di essere impiccato.

ENRICO: Bene; lo farò anche se ti trovo in compagnia del re.

WILLIAMS: Mantieni la parola, e addio.

BATES: Fate pace, imbecilli d'Inglesi, fate pace; se sapeste contare, vedreste che abbiamo da affrontare in abbondanza duelli coi Francesi.

ENRICO: Davvero; i Francesi possono scommettere venti testoni francesi contro uno che ci batteranno, perché i testoni li portano sulle spalle; ma non è reato per un Inglese tosare testoni francesi e domani il re stesso si farà tosatore. (Escono i Soldati) Addosso al re!

Addossiamo al re le vite, le anime, i debiti, le mogli ansiose, i bambini e persino i peccati. Il re deve caricarsi di ogni cosa. O dura condizione! nata a un parto con la grandezza del sovrano soggetto alle critiche di ogni imbecille che non sente altro che i propri dolori. A quanta tranquillità d'animo non debbono rinunciare i monarchi, che invece i privati cittadini godono! e che cosa mai hanno i re che anche i privati cittadini non abbiano, se si esclude il fasto, il fasto regale? E che cosa sei tu, o fasto e vano idolo? che razza di divinità, se soffri pene assai più di coloro che ti adorano? quali sono le tue rendite? quali le tue entrate? O fasto, mostrami quello che vali! Qual è l'essenza dell'adorazione, di cui sei circondato? Sei forse qualche cosa di più del rango, del grado, della forma esteriore che incutono soggezione e timore agli altri uomini? ove tu, che sei temuto, sei men felice di chi teme. Che bevi tu spesso se non adulazione avvelenata invece che un amabile omaggio? Oh! superba grandezza, provati: cadi ammalata e di' al fasto che ti guarisca:

credi che l'adulazione spegnerà il fuoco della febbre soffiandovi su titoli, e che la malattia se ne andrà con i profondi inchini e le genuflessioni? Pensi forse, quando ti appropri l'omaggio del povero, di poterti appropriare anche la sua salute? No, orgoglioso sogno che ti trastulli con la quiete del re in modo così sottile; sono un re che ha scoperto le tue malizie. E so benissimo che l'unguento, lo scettro, il globo, la spada, la mazza, la corona imperiale, il manto intessuto di oro e di perle, i titoli pomposi e prolissi che annunciano il sovrano, il trono su cui siede l'ondata di fasto che batte contro l'alta riva di questo mondo, nessuna di queste cose, fastosissima pompa, poste in un letto maestoso dormono così profondamente come il miserabile servo che con ventre pieno e mente vuota va a riposare, sazio di sudato pane; che non vede mai la paurosa notte, figlia dell'inferno, ma, come un galoppino, dall'alba al tramonto suda sotto l'occhio di Febo e tutta la notte dorme nell'Eliso; e il giorno dopo all'aurora si alza, aiuta Iperione a salire a cavallo, e segue così l'anno che scorre senza posa, lavorando utilmente sino al giorno della sua morte; se non fosse per le cerimonie, questo miserabile che passa i giorni nel lavoro e le notti nel sonno, avrebbe la precedenza sul re. Il servo, vivendo entro l'orbita della quiete pubblica, la gode pienamente; ma quel grosso cervello è ben lontano dal pensare a quale ansiosa veglia il monarca deve sottoporsi per assicurare quella quiete che dà al contadino a tutte le ore i maggiori vantaggi.

 

(Entra ERPINGHAM)

 

ERPINGHAM: Sire, i nobili ansiosi per la vostra assenza vi cercano per tutto il campo.

ENRICO: Buon cavaliere, raccoglili tutti alla mia tenda: ti precedo.

ERPINGHAM: Sarà fatto, sire.

 

(Esce)

 

ENRICO: O Dio degli eserciti! da' la tempra dell'acciaio al cuore dei miei soldati; distruggi in essi ogni timore; togli loro la facoltà di contare, se la superiorità degli avversari li spaventa. Non oggi, o Signore, non rivolgere oggi il tuo pensiero alla colpa grazie alla quale mio padre ottenne la corona. Ho dato nuova sepoltura ai resti di Riccardo e ho versato su essi più lacrime di contrizione che non siano le gocce di sangue che la violenza gli fece spargere Mantengo a mie spese cinquecento poveri che due volte il giorno alzano le mani scarne al cielo per impetrare perdono per quel sangue, e ho fondato due monasteri dove gravi e pii sacerdoti attendono a salmodiare per l'anima di lui, e farò ancora di più, sebbene tutto quello che posso fare a nulla valga, giacché, dopo aver fatto tutto ciò, il mio pentimento risorge implorando perdono.

 

(Entra GLOUCESTER)

 

GLOUCESTER: Mio signore!

ENRICO: La voce di mio fratello Gloucester! Sì, so perché sei venuto:

verrò con te. L'opera della giornata, i miei amici, tutto insomma, attende il mio cenno.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SECONDA - Il campo francese

(Entrano il DELFINO, ORLEANS, RAMBURES e altri)

 

ORLEANS: Il sole indora le nostre armature; andiamo, signori DELFINO: "Montez à cheval"! Il mio cavallo! servi! lacchè! ah!

ORLEANS: O prode!

DELFINO: Via! "les eaux et la terre"!

ORLEANS: "Rien puis? l'air et le feu"!

DELFINO: "Ciel"! cugino Orléans.

 

(Entra il CONNESTABILE)

 

Che c'è, monsignor connestabile?

CONNESTABILE: Ascoltate come i nostri destrieri nitriscono anelando al combattimento!

DELFINO: In sella, e pungete loro i fianchi affinché il loro caldo sangue sprizzi negli occhi agli Inglesi e li spenga con questa mostra di sovrabbondante coraggio, ah!

RAMBURES: Come! volete che lascino ricadere dagli occhi il sangue dei nostri cavalli? e allora come riusciremo a vedere le loro lacrime genuine?

 

(Entra un Messo)

 

MESSO: Gli Inglesi sono schierati in battaglia, pari francesi.

CONNESTABILE: A cavallo, valorosi principi! subito in sella! Basta che vi presentiate a quella meschina banda affamata, e il bello spettacolo che offrirete li svoterà dell'anima non lasciando ad essi che il guscio della loro umanità. Non c'è abbastanza lavoro per tutte le nostre mani: e le loro vene languenti non hanno tanto sangue da macchiare tutte le spade che i prodi Francesi sguaineranno oggi e che dovranno ringuainare per mancanza di selvaggina. Soffiamo su di loro:

il fiato stesso del nostro valore basterà a rovesciarli. Non c'è dubbio alcuno, signori, che il superfluo dei nostri valletti e servi che brulicano senza molto profitto intorno alle nostre schiere basterebbero a purgare il campo da questi meschini nemici anche se noi prendessimo posizione alle radici di questo monte per osservare oziosamente lo spettacolo. Ma l'onore non ce lo permette. Che si deve dire? un po' di lavoro, e poi tutto sarà finito. Le trombe diano il segnale di montare in sella e marciare: al nostro avvicinarci in atto di sfida gli Inglesi si getteranno a terra spaventati e si arrenderanno.

 

(Entra GRANDPRE')

 

GRANDPRE': Perché indugiate così a lungo, signori di Francia? quelle carogne di isolani, che non hanno più speranza di salvare le ossa, fanno ben brutta figura nel campo a quest'ora mattutina: le loro cenciose bandiere sventolano meschinamente e la nostra aria passando le fa ondeggiare quasi per scherno: il grande Marte sembra aver fatto fallimento nel loro esercito immiserito e sbircia spaventato attraverso ai fori della visiera arrugginita. I cavalieri seggono immobili come quei candelieri che hanno forma di uomini a cavallo con la candela brandita; e i loro poveri ronzini stanno a testa bassa, con la pelle e i fianchi cascanti, col muco che gocciola dagli occhi spenti, e nelle bocche pallide e inerti il morso è sudicio di erba a metà masticata, fermo e immoto; e quei bricconi di corvi, come se fossero gli esecutori testamentari, si librano sulle loro teste in attesa del loro momento. Chi volesse descriverlo non può provvedersi di un corredo sufficiente di parole atte a rappresentare al vivo questo esercito, svuotato di vita com'è.

CONNESTABILE: Hanno recitato le preghiere e attendono la morte.

DELFINO: Dobbiamo mandar loro cibo e nuove vesti, dar la biada ai loro cavalli famelici, e dopo attaccarli?

CONNESTABILE: Aspetto solo la mia guardia. Ma no, al campo! Prendete la bandiera a un trombettiere per non perder tempo. Suvvia: il sole è alto, e qui sciupiamo il tempo.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA TERZA - Il campo inglese

(Entrano GLOUCESTER, BEDFORD, EXETER, ERPINGHAM con tutte le sue Truppe; SALISBURY e WESTMORELAND)

 

GLOUCESTER: Dov'è il re?

BEDFORD: Il re stesso è andato a osservare lo schieramento nemico.

WESTMORELAND: Hanno circa sessantamila combattenti.

EXETER: Sono cinque contro uno: inoltre sono truppe fresche.

SALISBURY: Il braccio di Dio combatta con noi! è un'inferiorità spaventevole. Dio sia con voi, principi; vado al mio posto. Se abbiamo a rivederci solo in cielo, nobile lord Bedford e caro lord Gloucester e mio buon lord Exeter, caro parente, e voi, guerrieri tutti, addio gioiosamente.

BEDFORD: Addio, buon Salisbury, e la buona fortuna ti accompagni.

EXETER: Addio buon signore. Combatti da prode quest'oggi: eppure ti faccio torto a ricordartelo poiché tu sei il valore in persona, fermo e fedele.

 

(Esce Salisbury)

 

BEDFORD: E' pieno tanto di valore quanto di cortesia, e in ambedue queste doti è un principe.

 

(Entra RE ENRICO)

 

WESTMORELAND: Oh! se avessimo qui anche solamente diecimila di quegli Inglesi che in patria se ne stanno sfaccendati oggi!

ENRICO: Chi esprime questo desiderio? mio cugino Westmoreland? No, mio bel cugino; se è destino che si muoia, siamo in numero sufficiente a costituire per la patria una grave perdita; e se siamo destinati a sopravvivere, meno siamo e tanto più grande sarà la nostra parte di gloria. In nome di Dio, ti prego, non augurarti che abbiamo un solo uomo di più. Per Giove! non sono avido di denaro, né mi curo di vedere chi mangia a mie spese e non mi addoloro se altri porta i miei abiti.

Tali cose esteriori non sono nei miei desideri: ma se è un peccato essere avido di onore, allora sono l'anima più peccatrice di questo mondo. No, cuoricino mio, non augurarti neanche un solo soldato che ci venga dall'Inghilterra. Alla pace di Dio! Non vorrei perdere quel tanto d'onore che un sol uomo di più potrebbe condividere con me, neanche se ne andasse di mezzo la salvezza dell'anima mia. Oh! non desiderarne neanche uno; e piuttosto, Westmoreland, fa' proclamare in tutto l'esercito che chi non si sente l'animo di combattere se ne vada: gli daremo il passaporto e gli metteremo in borsa denari per il viaggio. Non vorremmo morire con alcuno che temesse di esserci compagno nella morte. Oggi è la festa dei Santi Crispino e Crispiniano: chi sopravviverà e tornerà a casa, si leverà in punta di piedi e si farà più grande al nome di San Crispiniano. Chi non morirà oggi e vivrà sino alla vecchiaia, ogni anno, la vigilia, conviterà i vicini e dirà: "Domani è San Crispiniano": poi tirerà su la manica e mostrerà le cicatrici e dirà: "Queste ferite le ebbi il giorno di San Crispino". I vecchi dimenticano: egli dimenticherà tutto come gli altri, ma ricorderà le sue gesta di quel giorno... e fors'anche un pochino di più. E allora i nostri nomi, che saranno termini familiari in bocca sua, re Enrico, Bedford e Exeter, Warwick e Talbot, Salisbury e Gloucester, saranno ricordati di nuovo in mezzo ai bicchieri traboccanti: questa storia il buon uomo insegnerà a suo figlio. E sino alla fine del mondo il giorno di San Crispino e San Crispiniano non passerà senza che vengano menzionati i nostri nomi. Felici noi, noi pochi, schiera di fratelli; poiché chi oggi spargerà il suo sangue con me sarà mio fratello, e per quanto bassa sia la sua condizione questo giorno la nobiliterà: molti gentiluomini che dormono ora nei loro letti in Inghilterra malediranno se stessi per non essere stati qui oggi, e non parrà loro neanche di essere uomini quando parleranno con chi avrà combattuto con noi il giorno di San Crispino.

 

(Rientra SALISBURY)

 

SALISBURY: Mio sire, recatevi al vostro posto sollecitamente. Le truppe francesi sono in perfetto ordine e muoveranno tra poco all'assalto contro di noi.

ENRICO: Tutto è pronto, se lo sono anche i nostri cuori.

WESTMORELAND: Perisca colui che si sente ora vacillare il cuore.

ENRICO: Ora non desideri altri aiuti dall'Inghilterra, cugino?

WESTMORELAND: Per Dio! mio sire, vorrei che voi ed io soli senz'altro aiuto potessimo combattere questa regale battaglia!

ENRICO: Ora hai sottratto al tuo augurio cinquemila uomini. E questo mi piace più che l'augurio dell'aggiunta di uno solo. Sapete quali sono i vostri posti: Dio vi assista tutti!

 

(Segnale di tromba. Entra MONTJOY)

 

MONTJOY: Ancora una volta, re Enrico, vengo a sapere se vuoi trattare per il riscatto prima della tua certa sconfitta, poiché sei così vicino all'abisso che vi sarai inevitabilmente inghiottito. Inoltre, per misericordia, il connestabile ti invita ad esortare i tuoi compagni al pentimento; sicché le loro anime possano ritirarsi pacifiche e pure da questi campi dove, miseri! i loro poveri corpi debbon giacere e corrompersi.

ENRICO: Chi ti ha mandato ora?

MONTJOY: Il connestabile di Francia.

ENRICO: Riportagli ancora, ti prego, la risposta che ti ho dato altra volta. Prima mi uccidano e poi venderanno le mie ossa. Buon Dio!

Perché si canzonano così dei poveri diavoli? L'uomo che vendette la pelle del leone ancora vivo, fu ucciso mentre gli dava la caccia.

Molti di noi andranno senza dubbio a morire in patria e sulle loro tombe, ne sono sicuro, sarà ricordato eternamente in bronzo quello che avranno fatto quest'oggi; e quelli che, morendo da prodi, lasceranno le loro ossa in Francia, sebbene sepolti nei vostri letamai, diventeranno famosi, perché il sole li bacerà e leverà in alto sino al cielo il loro onore, lasciando che la parte terrena infetti la vostra aria col lezzo pestilenziale. Nota dunque il sovrabbondante valore degli Inglesi che, morti, come un proiettile di striscio, creeranno un secondo periodo di guai, uccidendo nel disfacimento della morte.

Permettimi di parlare con orgoglio: di' al connestabile che siamo guerrieri dei giorni feriali: i colori vistosi e l'oro sono insozzati dalle marce penose sotto la pioggia; il nostro esercito non ha più neanche un pezzo di piuma- buon segno, spero, che non fuggiremo - e il tempo ci ha ridotti trasandati. Ma, per la messa, i nostri cuori sono a punto, e i miei poveri soldati mi dicono che prima di notte si rivestiranno di abiti più freschi o torranno di sopra al capo dei Francesi i loro gai vestiti nuovi e cambieranno loro destinazione. Se lo faranno, e non ne dubito se piace a Dio, il mio riscatto sarà presto pagato. Araldo, risparmiati la fatica: non ritornare più a chiedere il riscatto. Non avranno che queste mie membra e di' al conestabile che, se le lascio loro come sono, ne ricaverebbe ben poco.

MONTJOY: Sarà fatto re Enrico. E così addio: non udrai più la voce di nessun araldo.

 

(Esce)

 

ENRICO: Credo che verrai ancora una volta per un riscatto.

 

(Entra YORK)

 

YORK: Sire, chiedo umilmente in ginocchio che mi sia concesso di guidare l'avanguardia.

ENRICO: E così sia, prode York. Ora, soldati, marciamo. E tu, Dio, disponi in questo giorno secondo la tua volontà.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA QUARTA - Il campo di battaglia

(Allarme. Scorrerie. Entrano PISTOLA, un Soldato francese e il Ragazzo

 

PISTOLA: Arrenditi, cane!

SOLDATO: Je pense que vous êtes gentilhomme de bonne qualité.

PISTOLA: "Qualtitie calmie custure me"! sei gentiluomo? come ti chiami? Esponi.

SOLDATO: O Seigneur Dieu!

PISTOLA: Monsignor Diu; è un nome da gentiluomo: pondera bene le mie parole, Signor Diu, e stai attento. Signor Diu, tu perirai sulla punta di questo schidione, salvo che, signore, mi paghi un egregio riscatto.

SOLDATO: O prenez misèricorde! ayez pitié de moi!

PISTOLA: Un moà non basta; quaranta ne voglio, o attraverso la bocca ti caverò la coratella in un guazzetto di sangue cremisi.

SOLDATO: Est-il impossible d'échapper la force de ton bras?

PISTOLA: Ombra! cane, maledetto e lussurioso caprone di montagna, non mi offri l'ombra d'un quattrino?

SOLDATO: O pardonnez-moi!

PISTOLA: Dici davvero? vuol dire una tonnellata di moà? Vieni qua, ragazzo: chiedi in francese a questa canaglia come si chiama.

RAGAZZO: Ecoutez: comment êtes-vous appelé?

SOLDATO: Monsieur le Fer.

RAGAZZO: Dice che il suo nome è Signor Fer.

PISTOLA: Signor Fer! di' che lo ferrerò e lo furerò e lo ferirò.

Esponiglielo in francese.

RAGAZZO: Non so come si dicano queste cose in francese.

PISTOLA: Non importa: digli che si prepari l'anima perché gli taglierò la gola.

SOLDATO: Que dit-il, monsieur?

RAGAZZO: Il me commande de vous dire que vous faites vous prêt; car ce soldat ici est disposé tout à cette heure de couper votre gorge.

PISTOLA: Oh!, cuppele gorge, permafoà, villanzone, a meno che tu non mi dia corone, buone corone; o altrimenti ti tribbierò con la mia spada.

SOLDATO: Oh! je vous supplie pour l'amour de Dieu, me pardonner! Je suis gentilhomme de bonne maison: gardez ma vie, et je vous donnerai deux cents écus.

PISTOLA: Che cosa sta dicendo?

RAGAZZO: Vi prega di risparmiargli la vita; è un gentiluomo di buona famiglia e per il suo riscatto vi darà duecento corone.

PISTOLA: Digli che la mia furia si calma e che accetto le corone.

SOLDATO: Petit monsieur, que dit-il?

RAGAZZO: Encore, qu'il est contre son jurement de pardonner aucun prisonnier; néanmoins, pour les écus que vous l'avez promis, il est content de vous donner la liberté, le franchissement.

SOLDATO: Sur mes genoux, je vous donne mille remerciements; et je m'estime heureux que je suis tombé entre les mains d'un chevalier, je pense, le plus brave, vaillant, et très distingué seigneur d'Angleterre.

PISTOLA: Dichiarami quello che dice, ragazzo.

RAGAZZO: Vi ringrazia mille volte in ginocchio e si stima felice di essere caduto nelle mani di uno che è, come crede, il più prode, valoroso e degno signore d'Inghilterra.

PISTOLA: Giacché mi è dato succhiargli sangue, gli userò alquanta clemenza. Seguitemi!

RAGAZZO: Suives-vous le grand capitaine. (Escono Pistola e il Soldato francese) Non ho mai sentito una voce così forte uscire da un cuore così vuoto: ma è vero il detto: "Il vaso vuoto è quello che rende più suono". Bardolfo e Nym avevano dieci volte più valore di costui che fa tanto baccano come il diavolo nelle vecchie rappresentazioni, che si lascerebbe tagliare le unghie da chiunque con un coltello di legno.

Eppure gli altri due sono stati impiccati, e così sarebbe di lui se osasse rubare qualche cosa rischiando la pelle. E ora me ne vado dai lacchè che difendono i bagagli del campo; se i Francesi lo sapessero, potrebbero far buona preda, poiché a guardia non ci sono che ragazzi.

 

(Esce)

 

 

 

SCENA QUINTA - Un'altra parte del campo

(Entrano il CONNESTABILE, ORLEANS, BORBONE, il DELFINO e RAMBURES)

 

CONNESTABILE: O diable!

ORLEANS: O Seigneur! le jour est perdu! tout est perdu!

DELFINO: "Mort de ma vie"! tutto è confusione, tutto! Infamia e vergogna eterna posan beffarde sui nostri elmi piumati. "O méchante fortune"! Non fuggite.

 

(Breve allarme)

 

CONNESTABILE: Tutte le nostre truppe sono in rotta.

DELFINO: O disonore incancellabile! uccidiamoci da noi stessi. Sono questi i miserabili che ci siamo giuocati ai dadi?

ORLEANS: E' questo il re a cui abbiamo chiesto il riscatto?

BORBONE: Infamia, eterna infamia, null'altro che infamia! Moriamo con onore: ritorniamo ancora una volta, e colui che non seguirà il Borbone ora, se ne vada via di qua, e da vile mezzano, col berretto in mano, faccia la guardia alla porta mentre la sua figlia più bella verrà contaminata da un soldataccio non più nobile del mio cane.

CONNESTABILE: Il disordine che ci ha rovinati ci aiuti ora! Andiamo in folla a sacrificare la nostra vita.

ORLEANS: Ma di noi ce n'è di vivi quanti bastano per schiacciare col loro numero gli Inglesi, se si potesse mettere un po' d'ordine fra le nostre file.

BORBONE: L'ordine! il diavolo se lo porti! Andrò nella calca: sia breve la vita, o altrimenti sarà troppo lunga la vergogna.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SESTA - Un'altra parte del campo

(Allarme. Entrano RE ENRICO e Soldati, EXETER e altri)

 

ENRICO: E' andata assai bene, prodi compatrioti, ma non è ancora finita: i Francesi tengono ancora il campo.

EXETER: Il duca di York saluta Vostra Maestà.

ENRICO: E' vivo, mio buono zio? nello spazio di un'ora tre volte l'ho visto cadere e tre volte rialzarsi a combattere insanguinato dall'elmo agli speroni.

EXETER: E in questo stato quel soldato valoroso giace impinguando del suo sangue il terreno, e al suo fianco, compagno per onorate ferite, sta anche il nobile conte di Suffolk. Questi è morto per primo. York, tutto coperto di ferite, gli si avvicina dove giace inzuppato di sangue, gli prende il mento, gli bacia le ferite sanguinanti e grida forte: "Aspettami, caro cugino Suffolk, la mia anima ti sarà compagna; attendi, anima cara, e poi voliamo insieme al cielo come, ben combattendo su questo campo glorioso, insieme abbiamo compiuto il nostro dovere di cavalieri". A queste parole mi avvicinai e cercai di confortarlo. Mi sorrise, mi strinse debolmente la mano e mi disse:

"Caro signore, dite al mio sovrano come l'ho servito" Poi si voltò, mise il braccio ferito intorno al collo di Suffolk e gli baciò le labbra; e così sposato alla morte suggellò col sangue un patto di nobile affetto. La dolcezza di questa scena mi costrinse a versare lacrime contro la mia volontà: confesso che non fui uomo abbastanza; quanto v'è di materno in me si raccolse negli occhi e piansi dirottamente.

ENRICO: Non ti biasimo; perché, udendo questo, mi si velano gli occhi e poco manca che pianga io pure. (Allarme) Ma, udite! che nuovo allarme è questo? I Francesi si sono riordinati: ogni soldato uccida i suoi prigionieri. Fate circolare quest'ordine.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SETTIMA - Un'altra parte del campo

(Entrano FLUELLEN e GOWER)

 

FLUELLEN: Uccidere i ragazzi a guardia del pagaglio! è espressamente fietato dalla legge delle armi: è la più gran furfanteria che si possa fare; non fi pare, in coscienza?

GOWER: E' certo che non un solo ragazzo è rimasto vivo; quei vigliacchi bricconi che sono fuggiti dalla battaglia hanno fatto questo macello; inoltre hanno bruciato e portato via tutto quello che era nella tenda del re, e il re ha fatto benissimo a ordinare l'uccisione dei prigionieri. E' un re prode.

FLUELLEN: Sì, è nato a Monmouth, capitano Gower. Come si chiama la città dofe nacque Alessandro il Grosso?

GOWER: Volete dire Alessandro il Grande.

FLUELLEN: Grande o grosso non è lo stesso? Il grosso, il grande, il possente, l'immenso o il magnanimo sono in fondo la stessa cosa, la stessa musica con qualche fariazione.

GOWER: Credo che Alessandro il Grande sia nato in Macedonia: suo padre era chiamato Filippo di Macedonia, se non sbaglio.

FLUELLEN: Credo anch'io che sia nato in Macedonia. Ora se guardate le carte del mondo, fi assicuro, capitano, che paragonando Macedonia e Monmouth troferete che sono in identica posizione. C'è un fiume in Macedonia e ce n'è uno a Monmouth; a Monmouth si chiama Wye ma nel cerfello non ritrofo più il nome dell'altro; in ogni caso non importa, si assomigliano come le dita della mano e c'è salmone in tutt'e due.

Se osserfate la fita di Alessandro e quella di Enrico troferete che la seconda ha qualche somiglianza con la prima, perché c'è un simpolismo in tutto Alessandro - lo sa Dio, ma lo sapete anche foi arrappiato, infuriato, irato, incollerito, infiperito, indignato e anche un po' eppro, pieno di fino e di furia, uccise il suo migliore amico, Clito.

GOWER: Il nostro re non è come lui in codesto: non ha mai ucciso nessuno dei suoi amici.

FLUELLEN: Non sta pene, notate ora, lefarmi la parola di pocca prima che la storia sia fatta e finita. Parlo per figura retorica di comparazione: come Alessandro, tra i fumi del fino, uccise il suo amico Clito, così Enrico di Monmouth, però in pieno possesso della sua intelligenza e discernimento, ha messo alla porta il cafaliere grasso dal gran pancione, quello così ricco di scherzi, peffe, furfanterie e canzonature: non ricordo più come si chiami.

GOWER: Sir Giovanni Falstaff.

FLUELLEN: Proprio lui. Fi assicuro che a Monmouth nasce di gran prafa gente.

GOWER: Ecco qui Sua Maestà.

 

(Allarme. Entrano RE ENRICO coi Soldati, WARWICK, GLOUCESTER e altri)

 

ENRICO: Dacché sono venuto in Francia è la prima volta che mi incollerisco sul serio. Prendi un trombettiere, araldo; va' dalla cavalleria che è su quella collina. Se vogliono combattere, scendano; se no, sgombrino il campo: ci offendono la vista. Se non faranno né l'una né l'altra cosa andremo noi da loro, e li faremo schizzar via come pietre scagliate da un'antica fionda assira. Inoltre sgozzeremo tutti i prigionieri che abbiamo nelle mani, e nessuno di quelli che prenderemo in seguito godrà della nostra clemenza. Va' a dir loro tutto questo.

 

(Entra MONTJOY)

 

EXETER: Maestà, ecco l'araldo francese.

GLOUCESTER: I suoi occhi sono più umili del solito.

ENRICO: Ebbene, che significa questo, araldo? non sai che ho già promesso queste mie ossa come riscatto? e vieni ancora a parlar di riscatto?

MONTJOY: No, gran re. Vengo a chiederti in carità che ci sia concesso di percorrere questo campo insanguinato, di registrare i nomi dei morti e poi di seppellirli, separando i nobili dai plebei, perché molti dei nostri principi, ahimè, giacciono immersi e annegati nel sangue dei mercenari, e i plebei bagnano le rozze membra nel sangue dei principi: i cavalli feriti diguazzano nel sangue sino ai pasturali e con furia selvaggia scalciano coi piedi ferrati contro i morti padroni, uccidendoli una seconda volta. Oh, permettici, gran re, di esaminare il campo liberamente e di rimuovere i loro cadaveri.

ENRICO: Ti dico la verità, araldo, non so ancora se la vittoria è nostra o vostra, perché vedo ancora molti dei vostri soldati che s'affacciano e galoppano nel campo.

MONTJOY: La vittoria è vostra.

ENRICO: Dio ne sia lodato, non la nostra forza. Che castello è quello che si vede qui vicino?

MONTJOY: Si chiama Azincourt.

ENRICO: Allora chiamiamo questa la battaglia di Azincourt combattuta nel giorno dei Santi Crispino e Crispiniano.

FLUELLEN: Il fostro pisnonno di fausta memoria, se piace a Fostra Maestà, e il fostro prozio, Edoardo il Principe Nero, come ho letto nelle cronache, compatterono una pellissima pattaglia qui in Francia.

ENRICO: Sì, certo, Fluellen.

FLUELLEN: Quello che Fostra Maestà dice è giustissimo: se Fostra Maestà si ricorda, i Gallesi compatterono falorosamente in un giardino in cui crescefano dei porri, e ne misero nei loro perretti di Monmouth, e come Fostra Maestà sa, a tutt'oggi il porro è un onorevole distintifo militare per quella gente, e non credo che neanche Fostra Maestà sdegni di portarlo il giorno di San Dafide.

ENRICO: Lo porto a ricordo di gesta onorate; perché, sapete, anch'io sono gallese, mio buon compatriota.

FLUELLEN: Tutte le acque del Wye non potreppero lafar dal corpo di Fostra Maestà il sangue gallese, fe lo assicuro: Dio lo penedica e lo protegga finché piacerà alla sua grazia, e difenda Fostra Maestà pure!

ENRICO: Grazie, mio buon concittadino.

FLUELLEN: Per Gesù, sono concittadino di Fostra Maestà e non m'importa che altri lo sappia; lo confesserò anzi a tutto il mondo: non è il caso che mi fergogni di Fostra Maestà, sia lode a Dio, fintantoché Fostra Maestà continua a essere un galantuomo.

ENRICO: Dio mi conservi così. I nostri araldi vadano con lui e mi riferiscano esattamente il numero dei morti da ambo le parti.

Chiamatemi quel tale che è laggiù. (Accenna a Williams)

 

(Gli Araldi escono con Montjoy)

 

EXETER: Soldato, dovete presentarvi al re.

ENRICO: Soldato, perché porti quel guanto sul berretto?

WILLIAMS: Se piace a Vostra Maestà, è il pegno di un tale con cui dovrei combattere se è vivo.

ENRICO: Un inglese?

WILLIAMS: Sì; un furfante che ha fatto lo smargiasso con me questa notte, e, se è vivo e chiede la restituzione del guanto, ho promesso di schiaffeggiarlo: se vedo sul suo berretto il mio guanto che in parola di soldato si è impegnato di portare se vive, glielo leverò a suon di botte.

ENRICO: Che pensate, capitano Fluellen? è giusto che questo soldato mantenga il giuramento?

FLUELLEN: Difersamente, non dispiaccia a Fostra Maestà, sareppe un figliacco e un mariuolo, in coscienza.

ENRICO: Può darsi che il suo nemico sia un gentiluomo di alto rango, e che perciò gli sia impossibile di rispondere a un uomo di bassa condizione.

FLUELLEN: Anche se fosse nopile come il diafolo, come Lucifero e Pelzepù stesso, è necessario, fedete, che mantenga l'impegno e il giuramento. Se si fa spergiuro, la sua riputazione difentereppe quella del furfante più matricolato e del più sfrontato gaglioffo che mai calcasse con la sua nera scarpa il suolo di Dio e la sua terra, in coscienza, ecco!

ENRICO: Allora, giovanotto, mantieni la promessa quando incontri quel tale.

WILLIAMS: Lo farò come è vero che vivo, sire.

ENRICO: Sotto chi servi?

WILLIAMS: Sotto il capitano Gower, mio sire.

FLUELLEN: Gower è un puon capitano che è molto istrutto e alletterato nell'arte militare.

ENRICO: Fallo venire qui da me, soldato.

WILLIAMS: Sì, Maestà.

 

(Esce)

 

ENRICO: Senti, Fluellen; porta questo segno per me sul tuo berretto.

Quando Alençon ed io eravamo insieme a terra, gli strappai questo guanto dall'elmo, se qualcuno lo reclama vuol dire che è amico di Alençon e nemico mio; se t'imbatti in lui, arrestalo, se mi vuoi bene.

FLUELLEN: Fostra Maestà mi fa tanto onore quanto può desiderare il cuore di un suddito: sarei curioso di federe un uomo su due gambe che se la prenda con questo guanto, ciò è tutto; sarei proprio contento di federlo e Dio voglia nella sua grazia che lo veda.

ENRICO: Conosci Gower?

FLUELLEN: E' un mio caro amico, se fi piace.

ENRICO: Va' a cercarlo e conducilo alla mia tenda.

FLUELLEN: L'andrò a cercare.

 

(Esce)

 

ENRICO: Monsignore di Warwick e fratello Gloucester, seguite Fluellen dappresso. Il guanto che gli ho dato come insegna gli può forse procurare un ceffone. E' quello del soldato e, secondo l'accordo, lo dovrei portare io stesso. Seguitelo, buon cugino Warwick: se il soldato lo schiaffeggia, e arguisco dal suo contegno risoluto che lo farà, ne può nascere qualche improvviso guaio; perché so che Fluellen è coraggioso e, se incollerito, è pronto a esplodere come polvere da sparo e a restituire prontamente l'offesa: seguitelo e vedete che non succeda nulla di male fra di loro, e voi, zio Exeter, venite con me.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA OTTAVA - Davanti alla tenda di Re Enrico

(Entrano GOWER e WILLIAMS)

 

WILLIAMS: Sono sicuro che è per farvi cavaliere, capitano.

 

(Entra FLUELLEN)

 

FLUELLEN: Sia fatta la folontà di Dio; capitano, fi prego, fenite supito dal re: fi attende forse qualcosa a cui siete pen lontano dal pensare.

WILLIAMS: Signore, conoscete questo guanto?

FLUELLEN: Se conosco questo guanto! so che questo guanto è un guanto.

WILLIAMS: Io sì che lo conosco e così lo reclamo.

 

(Lo percuote)

 

FLUELLEN: Pel sangue di Dio! il più gran traditore che ci sia in tutto il mondo unifersale, o in Francia o in Inghilterra.

GOWER: Come mai! e che furfanteria è questa?

WILLIAMS: Credete che io voglia essere spergiuro?

FLUELLEN: Fatefi da parte, capitano Gower: pagherò il tradimento a suon di colpi, fe lo assicuro io.

WILLIAMS: Non sono un traditore.

FLUELLEN: Menti per la gola. Fi ordino di arrestarlo in nome di Sua Maestà: è un amico del duca di Alençon.

 

(Entrano WARWICK e GLOUCESTER)

 

WARWICK: Che c'è? che c'è? cosa succede?

FLUELLEN: Monsignore di Warwick, sia lode a Dio! s'è sfelato il più contagioso tradimento che sia mai fenuto in luce, tal luce, fedete, quale potreste desiderare in un giorno d'estate. Ecco qui Sua Maestà.

 

(Entrano RE ENRICO ed EXETER)

 

ENRICO: Ebbene! cosa state facendo?

FLUELLEN: Mio sire! ecco qui un furfante e un traditore che, guardi Fostra Maestà, ha colpito il guanto che Fostra Maestà ha tolto all'elmetto di Alençon.

WILLIAMS: Mio signore, quel guanto era mio; questo è il suo compagno; e la persona a cui l'ho dato in cambio promise di portarlo sul berretto, e alla mia volta giurai di batterlo se l'avesse fatto. Ho incontrato quest'uomo col guanto sul berretto e ho mantenuto la parola.

FLUELLEN: Fostra Maestà ha sentito, con rispetto parlando, che razza di furfante pidocchioso, di pezzente garantito è quest'uomo. Spero che Fostra Maestà mi sarà buon testimonio e certificherà che questo è il guanto di Alençon che Fostra Maestà mi ha dato. Che ne dite in coscienza?

ENRICO: Dammi il guanto, soldato, ecco l'altro: sono io quel tale che hai promesso di battere, e m'hai detto anche di gran male parole.

FLUELLEN: Piaccia a Fostra Maestà di fargli tagliare la testa, se c'è legge marziale in questo mondo.

ENRICO: Che soddisfazione mi puoi dare?

WILLIAMS: Tutte le offese partono dal cuore: dal mio non ne è venuta nessuna contro Vostra Maestà.

ENRICO: Ma se hai offeso me!

WILLIAMS: Vostra Maestà non mi apparve in figura di re; sembravate un uomo qualunque; prova ne sia che veniste nella notte con abito e contegno dimesso. Di quello che soffrì Vostra Altezza in quelle sembianze, ve ne supplico, date colpa a voi e non a me, poiché se foste stato proprio la persona per cui vi avevo preso, non vi sarebbe stata offesa. Perciò prego Vostra Maestà di perdonarmi.

ENRICO: Qui, zio Exeter; riempite questo guanto di corone e datelo a costui; tienlo, giovanotto, e portalo come onorevole distinzione sul berretto finché non ne reclamerò la restituzione. Dategli le corone e voi, capitano, fate pace con lui.

FLUELLEN: Per la luce del giorno! Questo indifiduo ha fegato in corpo quanto pasta. Tenete, eccofi qui uno scellino e fi raccomando di serfire Dio, di tenerfi lontano da paruffe, pisticci, questioni, disaccordi, e f'assicuro sarà tanto meglio per foi.

WILLIAMS: Non voglio il vostro denaro.

FLUELLEN: Fe lo do di cuore; fi serfirà a far riparare le scarpe. Fia, perché fi dofreste fergognare? le fostre scarpe non son più così puone; e lo scellino è puono, fe lo garantisco: e se non è puono fe lo cambio.

 

(Entra un Araldo inglese)

 

ENRICO: Dunque, araldo, avete contato morti?

ARALDO: Ecco l'elenco dei Francesi uccisi.

 

(S'inginocchia e consegna alcune carte)

 

ENRICO: Zio, che prigionieri di elevata condizione sono stati presi?

EXETER: Carlo duca di Orléans, nipote del re; Giovanni duca di Borbone e monsignor Bouciqualt; di altri signori, baroni, cavalieri e scudieri ben mille e cinquecento, oltre a gente di non molto conto.

ENRICO: Questo elenco mi dice che diecimila Francesi giacciono morti sul campo: fra questi vi sono centoventisei principi e nobili che hanno diritto a insegna; si aggiungono ottomila e quattrocento cavalieri, scudieri e valorosi gentiluomini, dei quali cinquecento erano stati fatti cavalieri proprio ieri; cosicché fra questi diecimila che hanno perduto non vi sono che milleseicento gregari: gli altri sono principi, baroni, cavalieri, scudieri e gentiluomini di buona famiglia. Fra i nomi dei loro nobili che sono stati uccisi trovo Carlo Delabreth, gran connestabile di Francia; Jacques di Chatillon, ammiraglio di Francia, il comandante dei balestrieri, monsignor di Rambures, il gran Maestro di Francia, il valoroso ser Guiscardo Dauphin, Giovanni, duca di Alençon; Antonio, duca di Brabante, fratello del duca di Borgogna, e Edoardo, duca di Bar; fra i valorosi conti, Grandpré e Roussi, Fauconberg e Foix, Beaumont e Marle, Vaudemont e Lestrale. Ecco qui una regale compagnia della morte! E dov'è il ruolo degli Inglesi morti? (L'Araldo gli mostra un'altra carta) Edoardo duca di York, il conte di Suffolk, sir Riccardo Ketly, Davy Gam scudiere: nessun altro di qualche nome; e dei gregari soltanto venticinque. Oh Dio! il tuo braccio ci ha assistiti e al tuo braccio soltanto e non a noi ascriviamo la vittoria. Quando mai senza l'uso di stratagemmi e con effetto del semplice urto e dell'azione ordinaria della battaglia vi fu nei campi avversari tanta disparità di perdite? Prendine tutto l'onore, o Dio, poiché è tuo esclusivamente.

EXETER: E' veramente meraviglioso!

ENRICO: Suvvia, andiamo in processione al villaggio e si proclami in tutto l'esercito che sarà punito con la morte chi coi suoi vanti tenti di sottrarre a Dio la lode che spetta a Lui solo.

FLUELLEN: Ma non è lecito, Maestà, dire quanti sono stati uccisi?

ENRICO: Sì, capitano, ma sempre riconoscendo che Dio ha combattuto per noi.

FLUELLEN: Sì, in coscienza ci ha aiutati assai.

ENRICO: Compiamo i sacri riti: si cantino il "Non nobis" e il "Te Deun"; si dia sepoltura ai morti e poi a Calais e in Inghilterra, dove non giunsero mai dalla Francia uomini più felici.

 

(Escono)

 

 

 

ATTO QUINTO

(Entra il Coro)

 

CORO: Consentite ora che mi faccia suggeritore a quelli che non hanno letto la storia. A quelli che l'hanno letta domando umilmente che non esigano conto preciso del tempo, dei numeri, della debita successione degli eventi i quali non possono essere rappresentati qui nella loro immensa ed esatta realtà. Ora portiamo il re verso Calais, e là supponetelo giunto. Dopo averlo visto colà, trasportatelo attraverso il mare sulle ali del pensiero. Vedete; la spiaggia inglese sembra chiudere il mare entro una cerchia di uomini, donne e ragazzi le cui grida e gli applausi superano il basso profondo del mare, e questo pare precedere il re come un battistrada: così lasciate che sbarchi e proceda in gran pompa verso Londra. Il pensiero muove con passo così rapido che già potete immaginarlo in Blackheath, dove i pari vorrebbero che il suo elmo ammaccato e la spada contorta fossero portati davanti a lui attraverso alla città; senonché egli lo vieta, non sapendo che cosa siano vanagloria e orgoglio, e lasciando a Dio ogni trofeo, segno e manifestazione di onore. Ma ora nella viva fucina e opificio del pensiero vedete come Londra riversa nelle strade i suoi cittadini. Il sindaco e i suoi confratelli di più alto grado, come i senatori dell'antica Roma, coi plebei che si accalcano dietro ad essi, vanno incontro al loro Cesare vincitore e lo introducono nella città; così con pari amore, seppure con minor pompa, se il generale della nostra graziosa imperatrice ritornasse dall'Irlanda portando la ribellione infilata sulla punta della spada - come potrebbe essere benissimo a suo tempo - quanti lascerebbero le loro pacifiche occupazioni nella città per dargli il benvenuto! In maggior numero e a maggior ragione lo fecero con Enrico. E ora immaginatelo a Londra, dove la lamentevole condizione dei Francesi gli permette di rimanere, mentre l'imperatore viene a intercedere per la Francia e a metter pace fra loro. Intanto tralasciate tutti gli altri eventi, qualunque ne sia la natura, sino al ritorno di Enrico in Francia: là dobbiamo portarlo.

Io stesso ho rappresentato tutto questo intervallo di tempo col ricordarvi che è passato. Rassegnatevi dunque ad accettare questo breve sommario e riportate l'occhio, seguendo ancora il pensiero, ancora e subito in Francia.

 

(Esce)

 

 

 

SCENA PRIMA - Francia. Il campo inglese

(Entrano FLUELLEN e GOWER)

 

GOWER: Sta bene; ma perché portate il ramoscello di porro oggi che il giorno di San Davide è passato?

FLUELLEN: Ci sono occasioni, motifi, scopi e perché in tutte le cose; fe lo dirò perché siete mio amico, capitano Gower. Quel furfante, insolente, pezzente, pidocchioso e smargiasso di Pistola che foi ed io tutti sappiamo, fedete, che è uomo di nessun merito, è fenuto da me ieri portando pane e sale infitandomi a mangiare il mio porro. La cosa è accaduta in luogo dove non era il caso che litigassi con lui; ma ora mi prendo la lipertà di portare il ramoscello sul perretto sinché non lo incontri ancora, e allora gli dirò che cosa desidero.

 

(Entra PISTOLA)

 

GOWER: Ma guardate, eccolo qui che si avanza gonfio e tronfio come un tacchino.

FLUELLEN: Il gonfio, il tronfio e il tacchino non contano niente. Dio fi penedica, alfiere Pistola! scappioso e pidocchioso furfante, Dio fi penedica.

PISTOLA: Ah! sei tu, pazzo; brami, vil Troiano, che ti accorci la fatal tela della Parca? Via di qua: l'odore di porro mi muove lo stomaco.

FLUELLEN: Fi prego con tutto il cuore, priccone pidocchioso e scappioso, a mia richiesta, per mio desiderio e preghiera, mangiate questo porro; e proprio perché, fedete, non fi piace, non lo desiderate, non lo appetite e fi guasta la digestione, fi infito a mangiarlo.

PISTOLA: No, per Cadwallader e tutte le sue capre.

FLUELLEN: Eccofi una capra intanto. (Lo percuote) Rognoso, folete afere la compiacenza di mangiarlo?

PISTOLA: Vil Troiano, tu morrai.

FLUELLEN: Dite la ferità, scappioso; ma sarà quando Dio forrà. Intanto fi infito a fifere e a mangiare; suffia, ecco qui la salsa. (Lo percuote) Ieri mi afete chiamato scudiero di alta montagna, e oggi foglio fare di foi "uno scudiero di passo grado". Fi prego, restate serfito; se sapete farfi peffe di un porro, saprete anche mangiarlo.

GOWER: Basta, capitano lo avete intronato.

FLUELLEN: O mangia un po' del porro o gli batterò la zucca quattro giorni di seguito. Mangiate, mangiate: fi farà pene alla capoccia insanguinata e alla ferita, finché è fresca.

PISTOLA: Debbo proprio mangiarlo?

FLUELLEN: Si, fuor di duppio e di questione e senza equivoci.

PISTOLA: Giuro su questo porro che mi vendicherò quanto mai orribilmente: mangio, ma sì, mangio, ma giuro...

FLUELLEN: Mangiate per far piacere a me; folete altra salsa per il porro? ma ormai non ne resta tanto da giurarci su.

PISTOLA: Quieta codesto randello, non vedi che mangio?

FLUELLEN E puon pro fi faccia, rognoso mariuolo, proprio di cuore. No, no non gettatene fia. La pelle fi farà pene alla ferita. E se fi capita di federe porri in affenire fatefene pure peffe! e questo è tutto PISTOLA: Va bene.

FLUELLEN: Sì, il porro fa pene; eccofi un quattrino per farfi riparare la zucca.

PISTOLA: Un quattrino a me!

FLUELLEN: Sì, daffero, proprio daffero: lo dofete prendere; se no, ho un altro porro in tasca e mangerete anche quello.

PISTOLA: Prendo il quattrino come arra di vendetta.

FLUELLEN: Se fi deppo qualche cosa ditemelo che fi pagherò con pastoni; difenterete mercante di legna e da me non prenderete che randelli. Dio fi accompagni e conserfi, e fi sani la zucca.

 

(Esce)

 

PISTOLA: Tutto l'inferno fremerà per questo.

GOWER: Andate, andate un po': siete un briccone vile che si finge coraggioso. Vi fate beffe di un'antica tradizione nata per onorevole ragione, di un emblema usato a ricordo di un passato atto di valore, e non avete il coraggio di confermare coi fatti alcuna delle vostre parole! Vi ho visto canzonare e beffare questo signore già due o tre volte. Credevate forse, perché non sa parlare inglese come i nativi del luogo, che non sapesse maneggiare un randello inglese? Ora sapete che non è così. E per l'avvenire fate in modo che il castigo che vi ha inflitto questo gallese vi faccia vivere da buon inglese. Addio.

PISTOLA: La fortuna mi volta ora le spalle? Nuova mi giunge che la mia Lena è defunta all'ospedale per mal francese; e così il mio punto d'appoggio è scomparso. Vecchio divento, e dalle mie stanche membra l'onore è cacciato a colpi di bastone. Bene, mezzano mi farò e inclinerò a diventare tagliaborse lesto di mano. Andrò in Inghilterra furtivamente e là di furto vivrò. Sulle ferite che mi ha fatto il randello metterò cerotti e dirò che le ho ricevute nelle guerre di Gallia.

 

(Esce)

 

 

 

SCENA SECONDA - Francia. Il Palazzo Reale

(Entrano da una porta RE ENRICO, EXETER, BEDFORD, GLOUCESTER, WARWICK, WESTMORELAND e altri Signori; da un'altra il RE DI FRANCIA, la REGINA ISABELLA, la PRINCIPESSA CATERINA e altre Dame, il DUCA DI BORGOGNA e il Seguito)

 

ENRICO: La pace a questa assemblea, poiché per la pace siamo qui adunati. Al nostro fratello re di Francia e alla nostra sorella, salute e buon giorno; augurio di gioia alla nostra bel'a e augusta cugina Caterina; e voi, duca di Borgogna, salutiamo, poiché siete ramo e membro di quella casa reale che ha predisposto questo grande convegno; e principi e pari di Francia, salute a tutti!

RE: Assai lieti siamo di vedere il vostro viso, eccellentissimo fratello d'Inghilterra; benvenuto, e così a voi, principi inglesi tutti.

ISABELLA: Felici siano, fratello d'Inghilterra, la fine di questo fausto giorno e l'esito di questo amichevole convegno, come felici siamo noi di vedere i vostri occhi, quegli occhi che sin qui hanno diretto contro i Francesi, che si trovavano a loro portata, le pupille micidiali del basilisco: speriamo che il veleno di questi sguardi abbia perduto la sua forza e che questo giorno muti in amore ogni dolore e contesa.

ENRICO: E qui siamo venuti appunto per dire "amen" a questo augurio.

ISABELLA: E voi anche saluto, principi inglesi tutti.

BORGOGNA: Il mio omaggio e l'espressione del mio affetto a entrambi, grandi re di Francia e d'Inghilterra! Le vostre Maestà possono attestare quanto io abbia lavorato con tutta la mia intelligenza e quante fatiche abbia durato e quanti sforzi fatti per condurvi qui, a questa corte e a questo regale colloquio. Poiché i miei buoni uffici son riusciti a farvi incontrare faccia a faccia regale ed a quattr'occhi, permettetemi che chieda alla presenza vostra sovrana, che ostacolo o impedimento vi è per cui la pace nuda, povera e maltrattata, cara nutrice delle arti, dell'abbondanza e della fecondità, non debba mostrare il viso amabile in questa nostra fertile Francia, il più bel giardino del mondo. Ahimè! essa è stata troppo a lungo scacciata da questa terra, le cui ricchezze giacciono confuse corrompendosi per effetto della sua stessa fertilità. Le sue viti, che infondevano letizia al cuore, non potate, periscono; dalle siepi, già accuratamente tenute, germogliano virgulti disordinati come le capigliature dei prigionieri selvaggiamente scarmigliate. Sui maggesi mettono radici il loglio, la cicuta, e la prolifica fumaria, mentre arrugginisce il vomere che dovrebbe distruggere tale selvatichezza. Il prato coltivato che innanzi produceva primavera screziata, salvastrella e verde trifoglio, non toccato dalla falce e non purgato, concepisce in stato di assoluto abbandono e produce in rigoglio solo odiosi lapazi, cardi pungenti, cicute e lappole, senza più bellezza o utilità. E come i nostri vigneti, maggesi, prati e siepi pervertiti nella loro natura inselvatichiscono, proprio così le nostre case, noi stessi e i figli abbiamo perduto, o non abbiamo tempo di acquistare le scienze che dovrebbero ornare il nostro paese; ma come soldati che non meditano altro che sangue, diventiamo selvaggi, abituandoci a bestemmiare, a fare il viso truce, a vestire sciattamente e a praticare ogni costume che non sembra voluto dalla natura. A ridurre tutte queste cose nella loro grazia primiera siete qui convocati: e il mio discorso mira a scoprire l'ostacolo che impedisce alla dolce pace di togliere questi gravi inconvenienti e benedirci coi doni di un tempo.

ENRICO: Duca di Borgogna, se volete realmente la pace, la cui mancanza fa nascere le gravi imperfezioni che avete ricordate, dovete comprarla, accogliendo tutte le nostre giuste richieste, il cui tenore generale e le cui clausole particolari avete, brevemente elencati, nelle vostre mani.

BORGOGNA: Il re le ha sentite, ma non ha ancora risposto.

ENRICO: Allora la pace, che avete sostenuto con tanta energia, dipende dalla sua risposta.

RE: Ho appena scorsi gli articoli; piaccia a Vostra Maestà di designare qualcuno del suo Consiglio che segga con noi a esaminarli di nuovo con maggiore attenzione, e subito daremo la risposta decisiva su quello che ci sentiamo di accettare.

ENRICO: E così faremo, fratello. Andate col re, zio Exeter, e voi fratelli miei Clarence e Gloucester, e anche voi Warwick e Huntingdon.

Vi diamo la più ampia autorizzazione, secondo quello che nella vostra saggezza vi sembrerà più confacente alla nostra dignità, di ratificare, aggiungere, mutare ciò che è contenuto nelle nostre domande e altro ancora, e noi consentiremo a quello che avrete deciso.

Volete, bella sorella, andare coi principi o rimanere invece qui con noi?

ISABELLA: Amato fratello, andrò con loro: forse una voce femminile può giovare qualche poco, quando su certi articoli si insista con troppa minuzia.

ENRICO: Però lasciate qui con noi nostra cugina Caterina: essa è l'oggetto della nostra principale richiesta, ed è inclusa negli articoli che stanno in testa al trattato.

ISABELLA: Glielo permettiamo ben volentieri.

 

(Escono tutti eccetto Re Enrico, Caterina e Alice)

 

ENRICO: Bella, bellissima Caterina, vorreste compiacervi di insegnare a un soldato parole di tal natura che riescano a farsi strada nell'orecchio di una dama e al suo cuore gentile perorino la causa dell'amore?

CATERINA: Vostra Maestà mi canzona; non so parlare inglese.

ENRICO: O bella Caterina, se volete amarmi direttamente con cuore francese sarò ben lieto di sentirvelo confessare anche col vostro inglese storpiato. Che vi sembra di me, Caterina?

CATERINA: "Pardonnez-moi": non capisco che voglia dire "che vi sembra".

ENRICO: Vuol dire che un angelo sembra voi e che voi sembrate un angelo.

CATERINA: Que dit-il? que je suis semblable à les anges?

ALICE: Oui, vraiment, sauf votre grace, ainsi dit-il.

ENRICO: L'ho detto, cara Caterina, e non c'è da arrossire a dirlo.

CATERINA: O bon Dieu! les langues des hommes sont pleines de tromperies.

ENRICO: Che dice? che le lingue degli uomini sono piene d'inganni?

ALICE: "Oui", che lingue di uomini esser piene d'inganni; così la principessa.

ENRICO: Allora la principessa è una vera inglese. In fede mia, Caterina, il mio modo di corteggiare è fatto apposta per la tua intelligenza. Sono lieto che tu non sappia parlare meglio l'inglese, poiché se lo sapessi troveresti in me tanta semplicità da credere che sono un contadino che ha venduto il podere per comperare la corona.

Non so di svenevolezze in amore: so dirti solo chiaro e tondo "ti amo", e se poi dicendomi "davvero?" e altro voi voleste farmi continuare, trovereste che ho esaurito la mia conversazione amorosa.

Rispondetemi, ve ne prego, e datemi la mano in segno che l'affare è concluso; che ne dite, signora?

CATERINA: "Sauf votre honneur", io capir bene.

ENRICO: Vergine Santa! se mi chiedeste di ballare o far versi per amor vostro, sareste la mia rovina; per la poesia non posseggo né parole né ritmo e per la danza la mia forza non è nel ritmo, sebbene abbia un discreto ritmo di forza. Se potessi conquistare una dama col saltamontone o volteggiando in sella in completa armatura, modestia a parte, salterei presto su una moglie. O se potessi guadagnare le sue grazie a suon di busse o facendo caracollare il mio cavallo, saprei menar botte da orbi o star fermo in sella come uno scimmione senza mai perdere le staffe. Ma, in nome di Dio, Caterina, non so far lo scemo né buttar fuori discorsi con voce strozzata dall'emozione, né ho abilità nel mettere insieme proteste d'amore, ma solo giuramenti piuttosto forti che uso soltanto quando vi sono provocato, ma ai quali non vengo meno a nessun costo. Se ti senti di amare una persona di tal fatta, Caterina, a cui poco importa se il sole lo abbronza, che nello specchio non cerca un'immagine da vagheggiare, il tuo occhio sia il tuo cuciniere. Ti parlo schietto da soldato, e se puoi amarmi per questo, prendimi, altrimenti, direi cosa vera se ti dicessi che morirò, ma non di mal d'amore, per Dio: eppure è anche vero che ti voglio bene. Finché sei a tempo, Caterina, prenditi un individuo d'una costanza semplice e genuina, che non ti farà torto perché non ha il dono di saper corteggiare a destra e sinistra. I giovanotti che hanno dovizia di parole conquistano le belle dame coi versi, ma poi sanno trovare ottime ragioni per piantarle in asso. Che mai! chi sa parlar bene è un chiacchierone, e una poesia non è che una ballata. Una gamba ben tornita è destinata ad afflosciarsi, una schiena dritta a curvarsi, una barba nera a incanutire, una testa ricciuta a diventare calva, un bel viso ad avvizzire e un occhio vivace a spegnersi. Ma un cuore in ordine è come il sole e la luna, o meglio come il sole soltanto che sempre splende, non è mutevole e va costantemente per la stessa strada. Se un tipo simile ti piace, prendi me; e se prendi me, prendi un soldato, e se prendi un soldato, prendi un re. E che dici allora di questo mio amore? parla, bella mia, e di' di sì ti prego.

CATERINA: E possibile io amare il nemico della Francia?

ENRICO: No, non è possibile che tu ami il nemico della Francia, Caterina, ma amando me, amerete l'amico della Francia, perché amo tanto la Francia che non rinuncerò neanche a un suo solo villaggio. La voglio tutta, e quando la Francia sarà mia e io vostro, la Francia sarà vostra e voi mia.

CATERINA: Non capisco che voler dire.

ENRICO: No, Caterina? allora te lo dirò in francese e questo idioma sarà come una sposa novella che abbraccia il marito, cioè mi si attaccherà tanto alla lingua che non le riuscirà di cacciarlo via. "Je quand sur le possession de France et quand vous avez le possession de moi - aspetta, ho perso il filo, San Dionigi mi aiuti - donc votre est France et vous êtes mienne. Caterina, mi è più facile conquistare il regno di Francia che parlarne la lingua. Non riuscirò mai a muoverti in francese, o soltanto ti muoverò alle risa.

CATERINA: "Sauf votre honneur, le françois que vous parlez il est meilleur que l'anglois lequel je parle.

ENRICO: No, Caterina, proprio no: è press'a poco lo stesso quando parliamo tu la mia e io la tua lingua dicendo, sì, la verità ma storpiando le parole. Ma Caterina, questo inglese lo capisci? mi vuoi bene?

CATERINA: Non saprei dire.

ENRICO: Lo sa qualcuna delle tue conoscenti, glielo chiederò. Suvvia, sono sicuro che mi vuoi bene; e la sera, quando ti ritirerai nella tua camera, domanderai tante cose di me a questa gentildonna, e so che biasimerai in me proprio quelle qualità che ami di tutto cuore. Ma, Caterina, fatti beffe di me bonariamente, perché, amabile principessa, ti amo assai. Se mai sarai mia, come una voce intima mi dice che sarai, ti prenderò d'assalto e perciò sarai una buona procreatrice di soldati; non è possibile che fra te e me, con l'aiuto di San Dionigi e di San Giorgio, mettiamo insieme un ragazzo mezzo francese e mezzo inglese che andrà a Costantinopoli a prendere il Gran Turco per la barba? sì? che ne dici, mio bel fiordaliso?

CATERINA: Non lo so.

ENRICO: No, lo saprai in seguito; ma per ora basta che tu prometta:

prometti che farai di tutto per la parte francese di questo ragazzo, e per la metà inglese impegno la mia parola di re e di giovane valido.

Che rispondi tu, "la plus belle Catharine du monde, mon très cher et divin déesse"?

CATERINA: Vostra Maestà saper "fausse" francese quanto basta per ingannare "la plus sage damoiselle" che è in Francia.

ENRICO: Ora, abbasso il mio cattivo francese! Per il mio onore, e in buon inglese, ti amo, Caterina; e per il mio onore non oso giurare che mi ami; eppure il mio sangue comincia a lusingarmi e a dirmi di sì, a dispetto della mia brutta faccia che non sa commuoverti. Maledetta l'ambizione di mio padre! quando mi ha messo al mondo non pensava che alle guerre civili: per questa ragione sono nato con questa scorza dura, con questa faccia di ferro, che, quando fo la corte alle signore, le spaventa. Ma, in fede mia, Caterina, con gli anni migliorerò: la mia consolazione è che la vecchiaia che guasta la bellezza non potrà imbruttire il mio viso più di così. Se mi prendi, mi prendi nella mia condizione peggiore, e possedendomi, mi troverai sempre meglio: e perciò ditemi, bellissima Caterina, mi accettate?

Mettete da parte i vostri rossori di fanciulla; confessate i sentimenti del vostro cuore con volto da imperatrice; prendimi per mano e di': "Enrico d'Inghilterra, sono tua" e appena avrai allietato il mio orecchio con queste parole, ti dirò forte: "L'Inghilterra è tua, I'Irlanda è tua, la Francia è tua ed Enrico Plantageneto è tuo", e costui, sebbene io lo dica in sua presenza, se non è degno di essere compagno del miglior re, troverai almeno che è il miglior re dei buoni compagnoni. Or via, rispondi in musica partita, perché la tua voce è musica e il tuo inglese è inglese solo in parte; perciò, regina su tutte le donne, mettimi a parte della tua mente col tuo inglese, che lo è solo in parte: mi accetti?

CATERINA: Ciò sarà come piacerà al "roi mon père".

ENRICO: Gli piacerà assai: gli dovrà piacere, Caterina.

CATERINA: Allora piacerà anche a me.

ENRICO: E con questo vi bacio la mano e vi chiamo mia regina.

CATERINA: Laissez, mon seigneur, laissez: ma foi, je ne veux point que vous abaissiez votre grandeur en baisant la main d'une de votre seigneurie indigne serviteur, excusez moi, je vous supplie, mon très puissant seigneur.

ENRICO: Allora vi bacerò le labbra, Caterina.

CATERINA: Les dames et les damoiselles pour être baisées devant leur noces, il n'est pas la coutume de France.

ENRICO: Signora interprete, che dice la Principessa?

ALICE: Che non è uso delle signore di Francia... come si dice "baiser"?

ENRICO: Baciare.

ALICE: Vostra Maestà capire meglio di me.

ENRICO: Non è uso che le fanciulle in Francia bacino prima del matrimonio, non è vero?

ALICE: Oui, vraiment.

ENRICO: Caterina, l'etichetta obbedisce ai grandi re. Cara Caterina, voi ed io non possiamo lasciarci confinare entro i limiti ristretti delle usanze di un paese; siamo noi i creatori delle usanze e la libertà che accompagna il nostro rango tappa la bocca ai critici: e così farò io con la vostra, poiché difendete la schizzinosa usanza del vostro paese e mi negate un bacio: perciò abbiate pazienza e siate arrendevole. (La bacia) Sulle vostre labbra, Caterina, c'è stregoneria: c'è più eloquenza nel loro melato tocco che nella lingua di tutto il Consiglio di Francia, e riuscirebbero a persuadere Enrico d'Inghilterra più che una supplica collettiva di sovrani. Ecco qui vostro padre.

 

(Rientrano il RE e la REGINA DI FRANCIA, il DUCA DI BORGOGNA e gli altri Signori)

 

BORGOGNA: Dio salvi Vostra Maestà! reale cugino, state insegnando l'inglese alla nostra principessa?

ENRICO: Vorrei che imparasse, mio bel cugino, quanto profondamente l'amo, in buon inglese.

BORGOGNA: Non è una scolara intelligente?

ENRICO: La nostra lingua è ruvida, cugino, e per conto mio non sono molto morbido di carattere; così non avendo in me né lo spirito né il linguaggio dell'adulazione non riesco a svegliare in lei lo spirito dell'amore cosicché possa apparirle nelle sue vere sembianze.

BORGOGNA: Perdonate la franchezza del mio scherzo, se cerco di darvi adeguata risposta. Se volete fare degli scongiuri occorre che tracciate il cerchio, e se volete evocare in lei l'amore nelle sue vere sembianze, esso deve apparire nudo e cieco. Vi sentite di biasimarla, se, essendo ancora una fanciulla pronta ad arrossire per pudor verginale, non vuole vedere così a occhi nudi un ragazzo nudo e cieco? Sarebbe, mio signore, una condizione un po' dura da imporre a una fanciulla.

ENRICO: Eppure chiudono gli occhi e cedono quando il cieco amore le prende a forza.

BORGOGNA: Ma allora sono scusate, perché se chiudono gli occhi non vedono quello che stanno facendo.

ENRICO: Quindi, mio buon signore, insegnate a vostra cugina come consentire a chiudere gli occhi.

BORGOGNA: Le strizzerò l'occhio per farle segno di acconsentire, se le insegnate a capire il segnale, perché le ragazze, tenute calde nell'estate, sono come le mosche alla fine di agosto, che hanno occhi e non vedono; e perciò si lasciano toccare, mentre prima non si lasciavano neanche guardare.

ENRICO: La morale della favola mi dice di lasciar passare il tempo e il caldo; e così potrò prendere la mosca, vostra cugina, che sarà cieca anch'essa.

BORGOGNA: Come è l'amore prima che si cominci ad amare.

ENRICO: Così è davvero; e alcuni di voi possono ringraziare l'amore se sono cieco, e non vedo molte belle città di Francia, perché c'è di mezzo una bella fanciulla francese.

RE: Sì mio signore, le vedete come in una pittura a sorpresa le città cambiate in fanciulla - poiché tutte sono cinte da mura inviolate, attraverso alle quali la guerra non è mai penetrata.

ENRICO: Caterina sarà mia moglie?

RE: Sì, se volete.

ENRICO: Lo voglio: purché le città inviolate di cui avete parlato l'accompagnino. Così la fanciulla che si frapponeva fra me e l'oggetto dei miei desideri mi spianerà la via a raggiungerlo.

RE: Abbiamo consentito a tutte le condizioni che ci sembrarono ragionevoli.

ENRICO: E' così, signori d'Inghilterra?

WESTMORELAND: Il re ha accolto ogni richiesta. Prima sua figlia e poi tutto il resto, secondo le formule ferme e chiare delle nostre domande.

EXETER: Però non vuole accettare una cosa, cioè che il re di Francia, dovendo fare concessioni, nomini Vostra Maestà in questa forma e con questa denominazione: "Notre très cher fils Henri, Roi d'Angleterre, Héritier de France", e in latino: "Praeclarissimus filius noster Henricus, Rex Angliae, et Haeres Franciae".

RE: Ma non ho rifiutato in forma tale, fratello, che io non sia disposto, a vostra richiesta, a concederlo.

ENRICO: Allora vi prego in segno di affetto e di alleanza di mettere questa clausola con le altre: e concedetemi la mano di vostra figlia.

RE: Prendetela, bel figlio, e con lei datemi discendenti perché i regni rivali di Francia e di Inghilterra, le cui spiagge stesse sembrano pallide d'invidia, l'una per la grandezza dell'altra, cessino dal loro odio, e questa felice unione crei nei loro cuori inteneriti rapporti di buon vicinato e cristiana concordia: la guerra, così, non caccerà più, tra Inghilterra e Francia, la spada che gronda sangue.

TUTTI: Amen.

ENRICO: Benvenuta Caterina, e tutti mi siano testimoni che qui la bacio come mia regina sovrana.

 

(Squillo di trombe)

 

ISABELLA: Dio, autore felice di tutte le nozze, unisca in uno i vostri cuori, in uno i vostri reami! Come il marito e la moglie diventano nell'amore un solo essere, così tra i vostri Stati si compia stretta unione, cosicché il malanimo e la crudele gelosia, che turbano spesso la felicità coniugale, non si caccino di mezzo a rompere i patti conclusi fra questi regni, a spezzar il vincolo che fa di essi un corpo solo. Possano sempre i popoli dei due paesi accogliersi a vicenda, i Francesi come fossero Inglesi, e gli Inglesi come fossero Francesi. Dio accolga la nostra preghiera!

TUTTI: Amen.

ENRICO: Prepariamoci al matrimonio; in quel giorno, duca di Borgogna, con tutti gli altri pari ci presterete giuramento a garanzia di questa alleanza. Allora giurerò fedeltà a Caterina e voi a me: e possano i nostri giuramenti essere mantenuti e darci felicità.

 

(Fanfara. Escono)

 

 

 

EPILOGO

(Entra il Coro)

 

CORO: Sin qui con penna rozza e inadeguata, piegando sotto il peso del suo compito, il nostro autore ha continuato la sua storia confinando entro breve spazio grandi personaggi e ha bistrattato, toccando solo qua e là qualche punto, il corso completo della loro gloria. Piccolo il tempo; ma in quello splendette fulgido quest'astro d'Inghilterra.

La fortuna gli fucinò la spada con cui conquistò il più bel giardino del mondo, lasciandone il figlio imperiale signore. Enrico Sesto, coronato in fasce, gli succedette come re di Francia e d'Inghilterra; e sotto di lui tanti comandarono nello Stato, che perdettero e fecero sanguinare l'Inghilterra; come è stato spesso rappresentato nel nostro teatro, e ricordando ciò, fate buon viso anche a questo dramma.

 

(Esce)