William Shakespeare

 

ENRICO SESTO

(Parte Prima)

 

 

PERSONAGGI

 

RE ENRICO SESTO

IL DUCA DI GLOUCESTER, zio del Re e Protettore

IL DUCA DI BEDFORD, zio del Re e Reggente di Francia

TOMMASO BEAUFORT, duca di Exeter, prozio del Re

ENRICO BEAUFORT, prozio del Re, vescovo di Winchester e poi Cardinale

GIOVANNI BEAUFORT, conte e poi duca di Somerset

RICCARDO PLANTAGENETO, figlio di Riccardo, defunto conte di Cambridge, poi duca di York

IL CONTE DI WARWICK

IL CONTE DI SALISBURY

IL CONTE DI SUFFOLK

LORD TALBOT, poi duca di Shrewsbury

GIOVANNI TALBOT, suo figlio

EDMONDO MORTIMER, conte di March

SIR GIOVANNI FASTOLFE

SIR GUGLIELMO LUCY

SIR GUGLIELMO GLANSDALE

SIR TOMMASO GARGRAVE

Il Sindaco dl Londra

WOODVILE, luogotenente della Torre

VERNON, della Rosa Bianca o fazione di York

BASSET, della Rosa Rossa o fazione di Lancaster

Un Legale

Carcerieri di Mortimer

CARLO, Delfino e poi Re di Francia

RENATO, duca di Angiò e Re titolare di Napoli

IL DUCA DI BORGOGNA

IL DUCA DI ALENÇON

Il Bastardo di Orléans

Il Governatore di Parigi

Il Capo-cannoniere di Orléans e suo figlio

Il Generale delle forze francesi in Bordeaux

Un Sergente francese

Un Guardaportone

Un Vecchio Pastore, padre di Giovanna la Pulzella

MARGHERITA, figlia di Renato, poi sposa di re Enrico

CONTESSA DI ALVERNIA

GIOVANNA LA PULZELLA, comunemente chiamata Giovanna d'Arco

Nobili, Guardie della Torre, Araldi, Ufficiali, Soldati, Messi e Persone del seguito

Demoni che appaiono a Giovanna la Pulzella

 

 

Scena: parte in Inghilterra e parte in Francia

 

 

 

ATTO PRIMO

SCENA PRIMA - Abbazia di Westminster

(Marcia funebre: Entra il feretro del Re Enrico Quinto, seguito dal DUCA DI BEDFORD, Reggente di Francia; dal DUCA DI GLOUCESTER, Protettore; dal DUCA DI EXETER; dal CONTE DI WARWICK; dal VESCOVO DI WINCHESTER; da Araldi, eccetera)

 

BEDFORD: Sia parato il cielo di gramaglie e ceda il giorno alla notte!

Voi, comete, che presagite mutazioni nei tempi e negli Stati, fate corruscare le vostre chiome luminose e con esse sferzate le malvagie stelle ribelli che hanno consentito alla morte di Enrico! Re Enrico Quinto, troppo illustre per avere lunga vita! Mai l'Inghilterra perdette un monarca di più grande valore.

GLOUCESTER: Prima di lui l'Inghilterra non ebbe mai un vero e proprio sovrano. Egli era virtuoso e degno di comandare: la sua spada brandita accecava gli uomini con i suoi raggi; le braccia si stendevano più ampie che le ali di un drago; gli occhi scintillanti, pieni di fuoco corrucciato, abbagliavano e respingevano i nemici più del sole meridiano che fieramente colpiva i loro visi. Che più dovrei dire? i suoi atti sorpassano ogni parola: egli non alzò mai la mano che non vincesse.

EXETER: Noi facciam lutto in nero: perché non facciam lutto col sangue? Enrico è morto e non rivivrà più. Seguiamo un feretro insensibile, e, come prigionieri legati a un carro trionfale, celebriamo col nostro solenne accompagnamento l'indegna vittoria della morte. Come! malediremo i pianeti della sventura che macchinarono così la rovina della nostra gloria, o non penseremo piuttosto che i furbi Francesi, maghi e stregoni, per paura di lui, gli procurarono con sortilegi la morte?

WINCHESTER: Era un sovrano benedetto dal Re dei Re. Ai Francesi il terribile giorno del giudizio non sarà così pauroso come era la vista di lui. Combatté le battaglie del Dio degli eserciti, e furono proprio le preghiere della Chiesa che gli diedero tanta fortuna in guerra.

GLOUCESTER: La Chiesa? ma che fa mai? se i preti non avessero pregato, il filo della sua vita non sarebbe stato così presto reciso: voi non volete altri che un principe effeminato da poter intimidire come uno scolaretto.

WINCHESTER: Gloucester, qualunque cosa vogliamo, tu sei il Protettore e pretendi di comandare al principe e al regno. Tua moglie è orgogliosa e ti incute soggezione più di quanto non possano fare Dio e i suoi sacerdoti.

GLOUCESTER: Non parlare di religione, perché ami la carne, e durante l'intiero anno non vai in chiesa che per invocare la rovina dei tuoi nemici.

BEDFORD: Cessate queste diatribe e calmatevi! Andiamo all'altare:

araldi, seguiteci. Invece di oro offriremo le nostre armi, poiché non servono più a nulla, ora che Enrico è morto. O generazioni future, attendetevi anni di dolore: i bambini suggeranno agli umidi occhi materni, quest'isola diverrà nutrice di amaro pianto, e non resteranno che donne per piangere i morti. Enrico Quinto, invoco la tua ombra:

rendi prospero questo regno, difendilo dalle lotte civili; combatti gli avversi pianeti nel cielo! La tua anima sarà nel firmamento una stella assai più luminosa che Giulio Cesare o lo splendido...

 

(Entra un Messo)

 

MESSO: Miei onorati signori, salute a voi tutti! Tristi notizie vi porto dalla Francia, di perdite, di stragi e di sconfitte: la Guienna, la Sciampagna, Reims, Orléans, Parigi, Guysors, Poitiers sono tutte perdute.

BEDFORD: Che dici, uomo, in presenza del cadavere di Enrico? Parla basso, o la perdita di queste grandi città gli farà forzare il piombo della bara e risorgere da morte.

GLOUCESTER: Parigi perduta? Rouen abbandonata? Se Enrico resuscitasse, queste notizie lo farebbero morire ancora.

EXETER: Come si sono perdute? grazie a che tradimento?

MESSO: Nessun tradimento, ma mancanza di uomini e di denaro. Fra i soldati si mormora che qui alimentate varie fazioni e che, mentre un corpo di truppe dovrebbe essere approntato e mandato a combattere, state a discutere sui generali. C'è chi vorrebbe guerra lunga con poca spesa; un altro vorrebbe volare, ma gli mancano le ali; un terzo crede che, senza alcuna spesa, si possa ottenere la pace con belle parole ingannatrici. Svegliatevi, svegliatevi, nobili d'Inghilterra!

L'ignavia non offuschi i vostri nuovi onori: metà dello stemma d'Inghilterra è distrutto e dal vostro blasone son già recisi i gigli d'oro.

EXETER: Se a queste esequie mancasse il pianto, basterebbero tali notizie a farne sgorgare i fiotti.

BEDFORD: Esse riguardano me soprattutto: il Reggente di Francia sono io. Datemi la mia cotta di maglia: combatterò per la Francia. Via queste disonorevoli vesti di lutto! Ferite darò ai Francesi perché non con gli occhi ma col sangue piangano le loro intermesse sciagure.

 

(Entra un altro Messo)

 

MESSO: Signori, leggete queste lettere piene di tristi disavventure.

La Francia si è ribellata intieramente agli Inglesi, eccetto alcune piccole città di nessuna importanza; il Delfino Carlo è stato incoronato re in Reims; il bastardo d'Orléans si è unito a lui; Renato, duca d'Angiò, è passato dalla sua parte e il duca d'Alençon vola al suo fianco.

EXETER: Il Delfino coronato re! tutti corrono sotto le sue bandiere!

Oh! dove ripareremo a nasconderci da questa onta?

GLOUCESTER: Non correremo che alla gola dei nostri nemici. Bedford, se tu sei tepido combatterò io fino in fondo.

BEDFORD: Gloucester, perché dubiti della mia risolutezza? Nel mio pensiero ho raccolto un esercito da cui già tutta la Francia è invasa.

 

(Entra un altro Messo)

 

MESSO: Nobili signori, per dare alimento alle lacrime con cui bagnate il feretro di re Enrico, debbo darvi notizie di un feroce combattimento fra il prode lord Talbot ed i Francesi.

WINCHESTER: In cui lord Talbot ha certamente vinto, non è vero?

MESSO: Oh! no: in cui lord Talbot è stato sconfitto: e ve ne dirò ora i particolari. Il dieci di agosto questo temuto signore, ritirandosi dall'assedio di Orleans con meno di seimila uomini, fu circondato e assalito da ventitremila Francesi. Non ebbe agio di schierare i suoi uomini, e, non avendo picche da collocare davanti agli arcieri, fece conficcare in terra a casaccio pioli appuntiti tolti alle siepi, per impedire ai cavalieri di irrompere. La battaglia durò più di tre ore, durante le quali il valoroso Talbot con lancia e spada fece prodigi da non credersi. Centinaia ne mandò all'inferno, e nessuno osava tenergli testa: qui, là e ovunque faceva strage infuriato: i Francesi gridavano che il diavolo stesso era in armi e tutto l'esercito stava a guardarlo stupito. I suoi soldati, osservandone il coraggio impavido, "Talbot!

Talbot!" gridavano a gran voce, e si gettavano nel folto della mischia. A questo punto la vittoria sarebbe stata completa se sir Giovanni Fastolfe non avesse agito da codardo. Egli, collocato a rincalzo dell'avanguardia, per darle man forte e seguirla, fuggì vigliaccamente senza dare un sol colpo. Di qui vennero il disastro e la carneficina generale. I nemici li circondarono da tutte le parti; e allora un abbietto Vallone, per ingraziarsi il Delfino, con una lancia trafisse Talbot nella schiena, colui che tutta la Francia con le sue forze riunite non avrebbe osato guardare una volta in faccia.

BEDFORD: Talbot è ucciso? allora mi ucciderò, per essere vissuto qui oziosamente nella pompa e negli agi, mentre un tal valoroso condottiero, per mancanza di aiuti era consegnato a tradimento nelle mani dei suoi vili nemici.

MESSO: No, no; egli vive, ma è stato fatto prigioniero, e con lui lord Scales e lord Hungerford: la maggior parte degli altri sono stati essi pure fatti prigionieri o massacrati.

BEDFORD: Nessuno se non io pagherà il suo riscatto. Precipiterò il Delfino a capofitto dal trono; la sua corona sarà il riscatto del mio amico e quattro dei loro nobili scambierò per uno dei nostri. Addio, miei signori, vado ad assolvere il mio compito; ben presto farò in Francia fuochi di gioia per celebrare con essi la festa del nostro grande San Giorgio: condurrò con me diecimila soldati, le cui gesta sanguinose faranno tremare tutta l'Europa.

MESSO: Ed è veramente necessario, poiché Orléans è assediata, l'esercito inglese indebolito e scoraggiato, il conte di Salisbury implora aiuto, e a stento trattiene i suoi soldati dall'ammutinarsi, giacché in così piccolo numero debbono fronteggiare tanto grande moltitudine.

EXETER: Ricordate, o signori, il giuramento che avete fatto ad Enrico di annientare del tutto il Delfino o di ridurlo completamente all'obbedienza.

BEDFORD: Lo ricordo; e appunto per questo mi congedo e vado a fare i miei preparativi.

 

(Esce)

 

GLOUCESTER: Mi affretterò ad andare alla Torre per esaminare le artiglierie e gli altri materiali da guerra e poi farò proclamare re il giovane Enrico.

 

(Esce)

 

EXETER: E io andrò a Eltham dove è il giovane re, essendo stato nominato suo precettore; e là prenderò le disposizioni più opportune per la sua sicurezza.

 

(Esce)

 

WINCHESTER: Ciascuno ha il suo posto, una funzione a cui attendere: io solo sono lasciato in disparte e per me non rimane nulla. Ma non resterò a lungo un Michelaccio senz'arte né parte: farò venire il re da Eltham e mi metterò al timone dello Stato.

 

(Esce)

 

 

 

SCENA SECONDA - Francia. Davanti a Orléans

(Squilli di tromba. Entrano CARLO con le sue truppe, ALENÇON, RENATO e altri)

 

CARLO: I veri movimenti di Marte sia nel cielo sia sulla terra son rimasti ignoti sinora. Poco fa proteggeva gli Inglesi; ora ci arride e la vittoria è nostra. Quali città importanti non sono in nostro possesso? Mentre noi stiamo qui sotto Orléans a nostro agio, gli Inglesi affamati e pallidi come spettri ci assediano debolmente un'ora al mese.

ALENÇON: Hanno bisogno delle loro farinate e dei loro grassi buoi: se non sono trattati come i muli e non hanno il sacco di biada legato al muso, fanno una figura pietosa come topi affogati.

RENATO: Leviamo l'assedio: che stiamo a far qui con le mani alla cintola? Talbot, di cui solevamo aver tanta paura, è prigioniero: non resta che quel cervel balzano di Salisbury, ed egli può ben sfogar la sua bile in vana agitazione; per far guerra gli mancano gli uomini e il denaro.

CARLO: Sonate l'allarme; li attaccheremo. Avanti, per l'onore dei miseri Francesi. Sin d'ora perdono chi mi ucciderà, se indietreggerò di un passo o fuggirò.

 

(Escono)

(Allarme. I Francesi sono respinti dagli Inglesi con grandi perdite. Rientrano CARLO, ALENÇON e RENATO)

 

CARLO: Chi mai vide cosa simile? che razza d'uomini ho io? cani!

codardi! vigliacchi! non sarei mai fuggito se non mi avessero abbandonato in mezzo ai nemici.

RENATO: Salisbury uccide alla disperata e combatte come uno stanco della vita: gli altri nobili si precipitano su di noi come leoni affamati si gettano sulla preda.

ALENÇON: Froissart, nostro concittadino, scrive che al tempo di Edoardo Terzo tutti gli Inglesi erano altrettanti Olivieri e Orlandi.

Questo è più vero che mai oggi, poiché l'Inghilterra non manda a combattere altri che Sansoni e Golia. Uno contro dieci! canaglie scheletrite! chi avrebbe mai creduto che avessero tanto coraggio e audacia!

CARLO: Lasciamo questa città, perché sono dei gaglioffi scervellati, e la fame li farà esser ancor più accaniti: li conosco da tempo; sgretoleranno queste mura coi denti piuttosto che abbandonare l'assedio.

RENATO: Credo che per qualche strano congegno o meccanismo le loro braccia siano caricate come orologi che debbono battere l'ora; altrimenti non potrebbero durarla come fanno: se si fa a modo mio, li lasceremo in pace.

ALENÇON: E così sia.

 

(Entra il BASTARDO DI ORLEANS)

 

BASTARDO: Dov'è il Delfino? Ho notizie per lui.

CARLO: Bastardo d'Orléans, tre volte benvenuto.

BASTARDO: Mi sembra che siate tristi all'aspetto e di pallida cera. Vi turba forse il recente rovescio? Non sbigottitevi perché il soccorso è qui vicino: ho condotto con me una vergine santa che secondo una visione mandatale dal cielo è destinata a far levare questo assedio molesto e a cacciare gli Inglesi dai confini della Francia: essa ha un profondo spirito di profezia superiore a quello delle nove sibille dell'antica Roma e sa discernere quello che fu e quello che sarà.

Dite, debbo farla entrare? Credete alle mie parole poiché sono certe e infallibili.

CARLO: Va', chiamala. (Esce il Bastardo) Ma prima, per mettere alla prova la sua perizia, Renato, mettiti come Delfino al mio posto:

interrogala con fare altero; sii severo in volto: e così misureremo la sua capacità. (Si ritira)

 

(Rientra il BASTARDO D ORLEANS con la PULZELLA)

 

RENATO: Bella fanciulla, sei tu che vuoi compiere queste gesta meravigliose?

PULZELLA: Renato, e sei tu che credi di ingannarmi? Dov'è il Delfino?

Levati di là dietro; ti conosco bene, quantunque non ti abbia mai visto prima. Non stupirti: non c'è nulla che mi sia nascosto. Voglio parlare a quattr'occhi con te; allontanatevi, voi signori, e lasciateci soli alquanto.

RENATO: Fa coraggiosamente la sua parte di primo acchito.

PULZELLA: Delfino, io sono per nascita la figlia di un pastore e la mia mente non è stata addestrata in arte alcuna. Il cielo e Nostra Signora piena di grazia si sono compiaciuti di illuminare col loro splendore il mio umile stato: ed ecco, mentre badavo ai teneri agnellini ed esponevo le guance al calore cocente del sole, la Madre di Dio si è degnata di apparirmi e in una visione piena di maestà mi ha ordinato di lasciare la mia bassa occupazione e di liberare il paese dalla calamità. Mi ha promesso aiuto e certo successo rivelandosi in tutta la sua gloria, e mentre prima ero nera e abbronzata, coi lucenti raggi che ha infuso in me mi ha donato la bellezza che ora vedete. Chiedimi ciò che vuoi e ti risponderò senza prendere tempo: metti alla prova, se osi, il mio coraggio in combattimento, e vedrai se non sono superiore al mio sesso. Deciditi:

avrai fortuna se mi accoglierai come compagna d'armi.

CARLO: Mi hai stupito coi tuoi alti detti. Farò solo questa prova del tuo valore: contenderai con me in singolar tenzone; se vinci, riterrò che le tue parole sono vere; altrimenti rinnego ogni mia fiducia in te.

PULZELLA: Sono pronta: qui è la mia spada affilata, ornata su ciascun lato di cinque fiordalisi; la scelsi in un cumulo di vecchie armi a Tours nel camposanto di Santa Caterina.

CARLO: Suvvia, dunque, in nome di Dio; non temo nessuna donna.

PULZELLA: E io finché vivo non fuggirò mai da un uomo.

 

(A questo punto combattono e Giovanna la Pulzella vince)

 

CARLO: Fermati, fermati! sei un'amazzone e combatti con la spada di Debora.

PULZELLA: La Madre di Cristo mi aiuta, altrimenti sarei impotente.

CARLO: Chiunque aiuti te, sei tu ora che devi aiutare me. Ardo impazientemente del desiderio di te; hai insieme avuto il mio cuore e la mia forza. Sublime Pulzella, se così sei chiamata, concedimi di essere tuo servo e non tuo sovrano: è il Delfino di Francia che così ti supplica.

PULZELLA: Non debbo abbandonarmi ad alcun rito d'amore, poiché la mia missione è consacrata dal cielo: quando avrò cacciato di qua tutti i tuoi nemici, solo allora penserò a una ricompensa.

CARLO: Frattanto guarda benevola il tuo servo.

RENATO: Mi sembra che il mio signore non smetta più di parlare.

ALENÇON: Senza dubbio sta confessando questa donna sino alla camicia, altrimenti non la farebbe così lunga.

RENATO: Poiché esagera, dobbiamo interromperlo?

ALENÇON: Può darsi che egli intenda più di quello che noi poveri diavoli non sappiamo: queste donne con la lingua sono accorte tentatrici.

RENATO: Mio signore, dove siete? Che cosa decidete, dobbiamo abbandonare Orléans o no?

PULZELLA: Come? no, dico: codardi sfiduciati! combattete sino all'ultimo respiro: sarò la vostra difesa.

CARLO: Confermo quanto essa dice: combatteremo sino all'estremo.

PULZELLA: Sono predestinata ad essere il flagello degli Inglesi.

Questa notte certamente farò levare l'assedio: aspettatevi un'estate di San Martino e giorni alcionii, dacché mi sono impegnata in queste guerre. La gloria è come un cerchio nell'acqua che continua ad allargarsi finché, per il suo stesso ingrandirsi, finisce in nulla.

Con la morte di Enrico finisce il cerchio degli Inglesi e sono disperse le glorie che esso racchiudeva: ora io sono come quella nave superbamente insolente che portava al tempo stesso Cesare e la sua fortuna.

CARLO: Se Maometto fu ispirato da una colomba, tu lo sei da un'aquila.

Elena, la madre del grande Costantino, e le figlie di San Filippo non furono come te. Lucente stella di Venere caduta sulla terra, come posso adorarti con adeguata devozione?

ALENÇON: Tronchiamo gli indugi e andiamo a far levare questo assedio.

RENATO: Donna, fa' quanto puoi per salvare il nostro onore: caccia i nemici da Orléans e diverrai immortale.

CARLO: Tentiamo senz'altro: suvvia, all'opera: non crederò più ad alcun profeta, se troverò costei menzognera.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA TERZA - Londra. Davanti alla Torre

(Entra il DUCA DI GLOUCESTER coi suoi Attendenti in assise azzurre)

 

GLOUCESTER: Sono venuto oggi ad ispezionare la Torre; da quando Enrico è morto, temo sempre che vi siano mene segrete. Dove sono le guardie che dovrebbero far servizio qui? Aprite le porte; è Gloucester che chiama.

PRIMA GUARDIA: Chi è che batte così imperiosamente?

PRIMO ATTENDENTE: E' il nobile duca di Gloucester.

SECONDA GUARDIA: Chiunque sia, non possiamo lasciarlo entrare.

PRIMO ATTENDENTE: Furfanti, rispondete così al lord Protettore?

PRIMA GUARDIA: Dio lo protegga! Questa è la nostra risposta: non facciamo che obbedire agli ordini ricevuti.

GLOUCESTER: Chi ve li ha dati? e chi altri può darvene? Io solo sono il Protettore del regno. Forzate le porte, ne rispondo io, debbo lasciarmi schernire così da sozzi fanti?

 

(Gli Uomini di Gloucester si avventano contro le porte della Torre e il Luogotenente WOODVILE parla dall'interno)

 

WOODVILE: Che baccano è questo? Chi sono questi traditori?

GLOUCESTER: Luogotenente, è la vostra voce codesta? aprite le porte!

E' Gloucester che vorrebbe entrare.

WOODVILE: Pazientate, nobile duca: non posso aprire; il cardinale di Winchester me lo proibisce: ho ricevuto da lui ordini espressi di non lasciare entrare né te né alcuno dei tuoi.

GLOUCESTER: Pauroso Woodvile, e lo anteponi a me? l'arrogante Winchester, quell'altero prelato che Enrico, il nostro defunto sovrano, non ha mai potuto tollerare? Tu non sei amico né del re né di Dio: apri le porte o ti caccerò tosto di costi.

PRIMO ATTENDENTE: Aprite le porte al lord Protettore, o noi le sfonderemo se non venite presto.

 

(Mentre il Protettore è alle porte della Torre, entrano WINCHESTER e i suoi Uomini in assise lionate)

 

WINCHESTER: Or via, ambizioso Humphrey, che significa ciò?

GLOUCESTER: Testa rasata, sei tu che avevi ordinato di non lasciarmi entrare?

WINCHESTER: Proprio io, usurpatore e proditore, non Protettore del regno.

GLOUCESTER: Indietro, cospiratore notorio che tramasti di assassinare il nostro defunto signore, tu che dai alle prostitute licenza di peccare: ti farò saltar sul tuo ampio cappello cardinalizio, se continuerai ad esser così insolente.

WINCHESTER: No, indietro tu piuttosto; non moverò un passo: sia questo Damasco, tu il maledetto Caino, e uccidi tuo fratello Abele, se vuoi.

GLOUCESTER: Non ti ucciderò, ma ti caccerò via: ti porterò via da questo luogo nelle tue vesti scarlatte come un bambino nella sua veste di battesimo.

WINCHESTER: Fallo, se osi; ti gitto in faccia la sfida.

GLOUCESTER: Come! provocato e sfidato in faccia? Sguainate, uomini, a dispetto dei privilegi di questo luogo: abiti azzurri contro abiti lionati! Prete, attento alla barba; per la barba ti acciufferò e ti batterò sodo; ti pesterò coi piedi codesto cappello di cardinale a dispetto del papa e di tutti i dignitari della Chiesa; qui per le guance ti trascinerò su e giù.

WINCHESTER: Gloucester, risponderai di questo al pontefice.

GLOUCESTER: Oca di Winchester! un capestro, un capestro! cacciateli a legnate di qua; perché li lasciate stare? ti caccerò di qua, lupo in veste di pecora. Fuori, abiti lionati! fuori, ipocrita in scarlatto!

 

(A questo punto gli Uomini di Gloucester cacciano gli Uomini del Cardinale e in mezzo al tumulto entrano il Sindaco di Londra e i suoi Ufficiali)

 

SINDACO: Vergogna, signori ! Voi, sommi magistrati, turbare così oltraggiosamente l'ordine pubblico!

GLOUCESTER: Zitto, sindaco! Tu non sai che torti mi sono stati fatti:

Beaufort, che non rispetta né Dio né re, si è appropriato l'uso della Torre.

WINCHESTER: Ecco Gloucester, nemico dei cittadini, uno che sempre pensa alla guerra e mai alla pace, gravando le borse di voi uomini liberi con grosse imposte, uno che cerca di sovvertire la religione, perché è Protettore del regno e vorrebbe procurarsi armi nella Torre per incoronarsi re e sopprimere il principe.

GLOUCESTER: Non risponderò con le parole ma coi colpi.

 

(A questo punto si azzuffano ancora)

 

SINDACO: In questa rissa tumultuosa non mi resta che ricorrere all'intimazione. Suvvia, ufficiale, alza la voce più che puoi.

UFFICIALE: "Uomini d'ogni sorta, oggi qui raccolti in armi contro la pace di Dio e del re, vi ingiungiamo e comandiamo in nome di Sua Maestà di ritornare alle vostre case e di non portare, maneggiare, o usare alcuna arma, spada o stocco da qui innanzi, pena la morte".

GLOUCESTER: Cardinale, non voglio recare offesa alla legge: ci incontreremo ancora e apriremo i nostri cuori per disteso.

WINCHESTER: Gloucester, ci ritroveremo ancora e a tue spese, sta' sicuro: ti vuoterò di sangue il cuore per quello che hai fatto oggi.

SINDACO: Chiamerò aiuto se non ve ne andate. Questo cardinale è più superbo di Lucifero.

GLOUCESTER: Addio, sindaco: non hai fatto che il tuo dovere.

WINCHESTER: Odiato Gloucester, guardati la testa, perché intendo di averla nelle mani tra breve.

 

(Escono per vie diverse Gloucester e Winchester coi loro Attendenti)

 

SINDACO: Fate sgombrare e poi ce ne andremo. Buon Dio! che questi nobili debbano proprio avere in petto tanta collera! per conto mio non combatto una volta sola in quarant'anni.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA QUARTA - Francia. Davanti a Orléans

(Entrano sulle mura il Capo-cannoniere e suo Figlio)

 

CAPO-CANNONIERE: Ragazzo, tu sai che Orléans è assediata e che gli Inglesi hanno occupato i sobborghi.

FIGLIO: Babbo, lo so, e spesso ho tirato contro di loro, sebbene disgraziatamente non abbia colto nel segno.

CAPO-CANNONIERE: Ma ora non fallirai più. Lasciati guidare da me: sono capo-cannoniere di questa città e voglio farmi onore in qualche modo.

Le spie del principe mi hanno informato che gli Inglesi trincerati fitti nei sobborghi attraverso a una cancellata segreta sono passati in quella torre laggiù per osservare dall'alto la città e trovare di là come possano con più vantaggio molestarci col tiro e con gli assalti. Per toglier di mezzo questo inconveniente, ho puntato un pezzo contro la torre e da tre giorni sto spiando se posso vederli.

Ora, ragazzo mio, fa' tu buona guardia perché non posso trattenermi oltre. Se ne vedi alcuno, corri a riferirmelo: mi troverai dal governatore.

 

(Esce)

 

FIGLIO: Babbo, state pur sicuro, non pensateci: se li vedrò non verrò certo a disturbarvi.

 

(Esce)

(Entrano sulle torrette LORD SALISBURY, LORD TALBOT, SIR GUGLIELMO GLANSDALE, SIR TOMMASO GARGRAVE e altri)

 

SALISBURY: Talbot, vita e gioia! eccoti ritornato! raccontaci, ti prego, sulla cima di questa torre come sei stato trattato in prigionia e con che mezzo ti sei liberato.

TALBOT: Il duca di Bedford aveva un prigioniero, il valoroso signore Ponton de Santrailles; sono stato scambiato con lui e liberato. Già prima avrebbero voluto barattarmi per dispregio con un uomo d'arme di assai più bassa condizione; ma sdegnosamente rifiutai e chiesi la morte piuttosto che essere valutato così poco. Alla fine sono stato riscattato alle condizioni che volevo. Ma mi ferisce il cuore il tradimento di Fastolfe, di cui farei giustizia con le mie mani, se l'avessi in mio potere.

SALISBURY: Ma non mi dici ancora come sei stato trattato.

TALBOT: Con beffe, scherni e contumelie. Mi esposero nella piazza del mercato, per offrire pubblico spettacolo alla moltitudine: "Ecco - dicevano - il terrore dei Francesi, lo spauracchio che atterrisce tanto i nostri bambini". Allora mi liberai a forza dalle guardie che mi conducevano, e con le unghie cavai le pietre dalla terra per scagliarle contro gli spettatori della mia vergogna. Il mio fiero viso li faceva fuggire e nessuno osava avvicinarsi, temendo di essere ucciso senz'altro. Non mi credevano abbastanza al sicuro entro pareti di ferro. Tanto grande terrore del mio nome s'era sparso fra loro che credevano che potessi svellere sbarre d'acciaio e coi calci fare a pezzi stipiti di diamante: quindi mi fu assegnata una guardia di tiratori scelti che mi facevano intorno la ronda di minuto in minuto; e solo che mi movessi dal letto erano pronti a tirarmi al cuore.

 

(Entra il Figlio del Capo-cannoniere con la miccia)

 

SALISBURY: Mi piange il cuore a sentire che tormenti avete sopportati; ma ci vendicheremo quanto basta. Adesso in Orléans è ora di cena:

attraverso questa grata conto i Francesi uno per uno e vedo come si fortificano: guardiamo; lo spettacolo ti farà molto piacere. Sir Tommaso Gargrave e Sir Guglielmo Glansdale, ditemi qual è a vostro giudizio il luogo migliore su cui dirigere il nostro prossimo tiro.

GARGRAVE: Direi, alla porta settentrionale, poiché là stanno dei signori.

GLANSDALE: E io qui al baluardo del ponte.

TALBOT: A quel che vedo, questa città deve venire affamata o indebolita con leggere scaramucce.

 

(A questo momento si spara. Salisbury e Gargrave cadono)

 

SALISBURY: O Signore! abbi pietà di noi, miseri peccatori.

GARGRAVE: O Dio, abbi pietà di me sventurato!

TALBOT: Che caso è questo che ci ha improvvisamente contrariati?

Parla, Salisbury, se pure puoi parlare: dove sei ferito tu, specchio di tutti i guerrieri? Il colpo ti ha asportato un occhio e una guancia! Maledetta torre, e maledetta la mano fatale che ha provocato questa sciagura dolorosa! Salisbury, vincitore in tredici battaglie, educò alla guerra Enrico Quinto; finché una tromba sonava o un tamburo rullava la sua spada non cessava di colpire in campo. Vivi tu ancora, Salisbury? Sebbene la parola ti venga meno, con l'occhio che ti resta puoi implorare grazie dal cielo: anche il sole con un unico occhio guarda il mondo. O cielo, non usar grazia ad alcuno, se Salisbury non può ottenere misericordia da te! Portate via il suo corpo, aiuterò a seppellirlo. Sir Tommaso Gargrave, sei ancora in vita? Parla a Talbot; guardalo. Salisbury, solleva il tuo spirito con questo conforto, non morrai finché... Mi fa cenno con la mano e mi sorride come se mi volesse dire: "Quando sarò morto e andato ricordati di vendicarmi sui Francesi". Plantageneto, lo farò; e come Nerone sonerò la cetra vedendo le città bruciare: miserabile sarà la Francia per sola opera mia. (Allarme. Tuona e lampeggia) Che agitazione è questa? che tumulto è nel cielo? donde vengono questo allarme e questo strepito?

 

(Entra un Messo)

 

MESSO: Mio signore, mio signore! I Francesi hanno raccolto truppe: il Delfino, insieme con una certa Giovanna la Pulzella, una santa profetessa apparsa da poco, è giunto con un grande esercito a far levare l'assedio.

 

(A questo punto Salisbury si rialza alquanto e geme)

 

TALBOT: Udite, udite come geme Salisbury morente! lo tormenta il pensiero di non poter essere vendicato. Francesi, sarò per voi un Salisbury novello. Pulzella o puttana, Delfino o pescecane, schiaccerò i vostri cuori con le zampe del mio cavallo e farò un pantano dei vostri cervelli commisti. Portatemi Salisbury alla sua tenda poi vedremo che cosa osano fare questi vili Francesi.

 

 

 

SCENA QUINTA - Lo stesso luogo

(Ancora un allarme e TALBOT insegue il DELFINO cacciandoselo innanzi; poi entra la PULZELLA che incalza alcuni Inglesi ed esce dietro a loro; quindi rientra TALBOT)

 

TALBOT: Dove sono il mio vigore, il mio valore e la mia forza? Le truppe inglesi si ritirano inseguite da una donna coperta d'armatura e non riesco a trattenerle.

 

(Rientra la PULZELLA)

 

Eccola qui che ritorna. Incrocerò la spada con te, diavolo o versiera; ti esorcizzerò: verserò il tuo sangue, strega, e senz'altro manderò la tua anima a colui che servi.

PULZELLA: Suvvia; son io che debbo recarti disonore.

 

(Combattono)

 

TALBOT: O cielo, permetterai che l'inferno prevalga così? Tendendo il coraggio, mi spezzerò il petto e mi farò schiantare le braccia dalle spalle, ma punirò quest'arrogante sgualdrina.

 

(Combattono ancora)

 

PULZELLA: Talbot, addio, la tua ora non è ancor venuta: debbo andare senza indugio a vettovagliare Orléans. (Breve allarme, poi entra nella città coi Soldati) Raggiungimi se puoi; ho a scorno la tua forza. Va', va' a confortare i tuoi uomini che muoiono di fame e aiuta Salisbury a far testamento: questa giornata è nostra e molte altre lo saranno.

 

(Esce)

 

TALBOT: I miei pensieri turbinano come la ruota di un vasaio; non so dove sono o che faccio: una strega con la paura e non con la forza, come Annibale, respinge le nostre truppe e vince a suo piacere: così le api col fumo, e le colombe col puzzo immondo sono cacciate dagli alveari e dai colombai. Per la nostra fierezza ci chiamavano cani d'Inglesi e ora come cuccioli fuggiamo uggiolando. (Breve allarme) Udite, commilitoni: riprendete il combattimento o strappate i leoni dallo stemma dell'Inghilterra. Rinunciate alla vostra patria e sostituite le pecore ai leoni: le pecore non fuggono così vilmente davanti al lupo o i cavalli e i buoi davanti al leopardo come voi davanti a questi marrani che avete tante volte sopraffatti. (Allarme e altra scaramuccia) Ma è destino che non sia: ritiratevi nelle trincee:

tutti avete consentito alla morte di Salisbury, perché nessuno ha voluto vibrare un colpo per vendicarlo. La Pulzella è entrata in Orléans a dispetto nostro e di tutto quello che avremmo potuto fare.

Oh! potessi morire con Salisbury: dovrò nascondere il capo per tale vergogna!

 

(Esce Talbot. Allarme, ritirata e squillo di trombe)

 

 

 

SCENA SESTA - Lo stesso luogo

(Entrano sulle mura la PULZELLA, CARLO, RENATO, ALENÇON e Soldati)

 

PULZELLA: Piantate sulle mura i nostri vessilli sventolanti: Orléans è liberata dagli Inglesi. Così Giovanna la Pulzella ha mantenuto la parola.

CARLO: Divina creatura, figlia di Astrea, come potrò onorarti degnamente per questa vittoria? Le tue promesse sono come il giardino di Adone, che un giorno fioriva e il seguente dava frutti. Francia, esulta per la tua gloriosa profetessa! La città di Orléans è recuperata: sorte più felice non arrise mai al nostro Stato.

RENATO: Perché non squillano forte le campane in tutta la città?

Delfino, comanda ai cittadini di fare fuochi di gioia e feste e banchetti nelle pubbliche strade per celebrare la letizia che Dio ci ha dato.

ALENÇON: Tutta la Francia sarà piena di allegria e di gioia, quando saprà quanto virilmente ci siamo comportati

CARLO: E' Giovanna e non noi che ha riportato la vittoria, e per questo dividerò la corona con lei; e tutti i preti e i frati del regno in processione canteranno senza fine la sua lode. Innalzerò in suo onore una piramide più maestosa che quella di Rodope o di Menfi: a mantenerne viva la memoria quando sarà morta, le sue ceneri saranno portate nelle grandi solennità innanzi ai re e alle regine di Francia in un'urna più preziosa del cofanetto di Dario riccamente ingioiellato. Non invocheremo più San Dionigi, ma Giovanna la Pulzella sarà patrona della Francia. Entriamo e banchettiamo regalmente dopo questo aureo giorno di vittoria.

 

(Squillo di trombe. Escono)

 

 

 

ATTO SECONDO

 

SCENA PRIMA - Davanti a Orléans

(Entrano un Sergente francese e due Sentinelle alle porte)

 

SERGENTE: Occupate i vostri posti e vigilate. Se sentite alcun rumore o vedete soldati vicini alle mura fatemelo sapere al corpo di guardia con qualche segno ben visibile.

PRIMA SENTINELLA: Sarà fatto, sergente. (Esce il Sergente) Così i poveri soldati, quando gli altri dormono tranquillamente in letto, debbono vegliare nell'oscurità, nella pioggia e al freddo.

 
(Entrano LORD TALBOT, i DUCHI DI BEDFORD e DI BORGOGNA e Soldati con scale a piuoli; i tamburi battono in cadenza funebre)

 

TALBOT: Lord Reggente e voi temuto duca di Borgogna al cui avvicinarsi le regioni dell'Artois, della Picardia e i distretti valloni sono passati dalla nostra parte; in questa notte di gioia i Francesi si sentono sicuri avendo banchettato e gozzovigliato tutto il giorno:

cogliamo dunque quest'occasione come la più adatta a ripagare la loro frode ordita con magia e bieca stregoneria.

BEDFORD: Codardo re di Francia! che torto fa alla sua fama, disperando tanto della propria forza da allearsi alle streghe e da sollecitare l'aiuto dell'inferno!

BORGOGNA: I traditori non hanno mai altra compagnia. Ma cos'è questa Pulzella che dicono così pura?

TALBOT: Una vergine, si dice.

BEDFORD: Una vergine! e così bellicosa!

BORGOGNA: Pregate Dio che non diventi mascolina prima che passi molto tempo, se continua a portar armi sotto il vessillo francese come ha cominciato a fare.

TALBOT: Continuino pure le loro trame e il loro commercio con gli spiriti; Dio è la nostra roccaforte e nel suo nome vittorioso diamo la scalata a questi baluardi di macigno

BEDFORD: Sali, prode Talbot; noi ti seguiremo.

TALBOT: Non tutti insieme, però: meglio assai, a mio avviso, che tentiamo d'entrare per diverse vie, cosicché se uno di noi fallisce un altro possa salire vincendo la loro resistenza.

BEDFORD: D'accordo: io andrò a quell'angolo laggiù.

BORGOGNA: E io a questo

TALBOT: E qui Talbot salirà o troverà la sua tomba. Ora Salisbury, per te e per il diritto di re Enrico, si vedrà questa notte quanto sia legato dal dovere ad entrambi.

SENTINELLA: All'armi, all'armi! il nemico attacca!

 

(Grida "San Giorgio!", "Talbot!". I Francesi saltano sopra le mura scamiciati. Entrano da parti diverse il BASTARDO DI ORLEANS, ALENÇON, RENATO, semivestiti)

 

ALENÇON: Come, signori! che mai! tutti cosi seminudi?

BASTARDO: Seminudi! sì, e ben lieti di essere scampati così felicemente.

RENATO: Era tempo davvero di svegliarci e di lasciare il letto, con l'allarme che era giunto alle porte delle nostre stanze.

ALENÇON: Dacché ho cominciato a portare armi non ho mai sentito parlare di impresa di guerra più rischiosa e più disperata di questa.

BASTARDO: Credo che questo Talbot sia un diavolo dell'inferno.

RENATO: Se non l'inferno certamente il cielo lo protegge.

ALENÇON: Ecco qua Carlo: chissà come se l'è cavata.

BASTARDO: Zitto! la Santa Giovanna è stata la sua difesa.

 

(Entrano CARLO e la PULZELLA)

 

CARLO: E' questa la tua magia, donna ingannatrice? per lusingarci ci hai fatto dapprima ottenere un piccolo vantaggio, per farci ora soffrire una perdita dieci volte maggiore?

PULZELLA: Perché Carlo si irrita con la sua amica? pretendete forse che il mio potere sia in ogni momento il medesimo? nel sonno e nella veglia debbo essere sempre vittoriosa, o altrimenti date a me tutto il biasimo e tutta la colpa? Soldati negligenti! se aveste fatto buona guardia, non sarebbe capitato questo improvviso guaio.

CARLO: Duca di Alençon, la colpa è vostra, poiché essendo comandante della guardia questa notte, non avete atteso meglio a un servizio di tanta importanza.

ALENÇON: Se tutti i posti di guardia fossero stati tanto disciplinati quanto quello di cui avevo il comando non saremmo stati sorpresi così vergognosamente.

BASTARDO: Il mio era ben guardato.

CARLO: E così il mio, signore.

ALENÇON: E quanto a me, nel quartiere di Giovanna e nella mia circoscrizione sono andato innanzi e indietro la maggior parte della notte a sorvegliare il cambio delle sentinelle: e allora, come mai o da che parte hanno potuto aprirsi la strada?

PULZELLA: Non chiedete di più, miei signori, come e per che via la cosa sia accaduta: certo è che hanno trovato qualche punto mal custodito e là hanno fatto breccia. E ora non ci resta altro rimedio che questo: raccogliere i nostri soldati sparpagliati e dispersi e fare nuovi piani di offesa.

 
(Allarme. Entra un Soldato inglese, gridando "Talbot! Talbot!". Tutti fuggono abbandonando i loro vestiti)

 

SOLDATO: Mi prenderò la libertà di portar via quello che hanno lasciato. Il grido di "Talbot" mi ha tenuto luogo di spada, perché mi sono caricato di molte spoglie, non usando altra arma che il suo nome.

 

 

 

SCENA SECONDA - Orléans. Dentro alla città

(Entrano TALBOT, BEDFORD, BORGOGNA, un Capitano ed altri)

 

BEDFORD: Il giorno comincia a spuntare ed è fuggita la notte, il cui nero manto aveva velato la terra. Sonate la ritirata e cessate questo accanito inseguimento.

 

(Si suona la ritirata)

 

TALBOT: Portate innanzi il corpo del vecchio Salisbury e deponetelo nella piazza del mercato, centro di quella maledetta città. Ora ho sciolto il voto fatto alla sua anima; per ogni goccia di sangue sparsa da lui almeno cinque Francesi sono morti questa notte. E perché le età future possano vedere con quale rovina l'abbia vendicato, dentro al loro tempio principale erigerò una tomba in cui verrà sepolto il suo cadavere: e su di essa, perché tutti possano leggere, sarà scolpito come Orléans fu messa a sacco come egli fu ucciso a tradimento e che terrore era stato per la Francia. Ma, signori, non so perché, in tutto questo nostro sanguinoso massacro, non abbiamo incontrato il Delfino, la sua nuova paladina, la virtuosa Giovanna d'Arco, né alcuno dei suoi falsi compagni.

BEDFORD: Si crede, lord Talbot, che quando il combattimento incominciò, scossi improvvisamente dai loro torpidi letti saltarono giù dalle mura tra le schiere di armati cercando rifugio nel campo.

BORGOGNA: Io stesso, per quel che ho potuto discernere nel fumo e nelle nebbie tenebrose della notte, sono certo di avere spaventato il Delfino e la sua baldracca, quando, tenendosi pel braccio, venivano correndo rapidamente come un paio di tortorelle innamorate che non possono stare divise né giorno né notte. Quando avremo riordinato le cose qui, li seguiremo con tutte le forze che abbiamo.

 

(Entra un Messo)

 

MESSO: Salute, signori! Chi, in questa nobile schiera, chiamate il prode Talbot per le sue gesta tanto celebrate in tutto il regno di Francia?

TALBOT: Son io: chi vorrebbe parlargli?

MESSO: La virtuosa contessa d'Alvernia, ammirandoti per fama con femminile modestia, ti prega per mezzo mio di volerla visitare nel povero castello ove dimora, per avere il vanto d'aver visto l'uomo la cui gloria riempie il mondo d'alta rinomanza.

BORGOGNA: Davvero? ma allora le nostre guerre diventano un pacifico ed allegro giuoco, se le dame desiderano che ci si scontri con loro. Voi non potete, mio signore, respingere la sua gentile richiesta.

TALBOT: Non fidatevi di me, altrimenti; poiché quando gran numero d'uomini non han saputo spuntarla con tutta la forza della loro eloquenza, vi è riuscita una donna sola con la sua gentilezza. E perciò dille che la ringrazio assai e che con ogni ossequio mi presenterò a lei. Nessuno di voi, signori miei, vuol farmi compagnia?

BEDFORD: No, davvero; è più di quel che non richieda la creanza: ho sentito dire che gli ospiti che si invitano da sé sono spesso graditi soprattutto quando partono.

TALBOT: Bene, dunque; poiché non c'è scampo, metterò da solo alla prova la cortesia di questa donna. Venite qui, capitano. Intendete quello che voglio dire?

 

(Gli bisbiglia)

 

CAPITANO: Sì, signore, e agirò secondo i vostri ordini.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA TERZA - Alvernia. Il cortile del Castello

(Entrano la CONTESSA e il Guardaportone)

 

CONTESSA: Portiere, ricordate l'ordine che vi ho dato, e quando l'avrete eseguito, portatemi le chiavi.

GUARDAPORTONE: Sì, signora.

 

(Esce)

 

CONTESSA: Il piano è ordito: se tutto si svolge a dovere, diventerò famosa per questa gesta come Tomiri per la morte di Ciro. Grande è la fama di questo temuto cavaliere e le sue imprese non sono di minor conto: i miei occhi e orecchi vorrebbero essere testimoni diretti, per giudicare le straordinarie voci che corrono su di lui.

 

(Entrano un Messo e TALBOT)

 

MESSO: Lord Talbot è venuto secondo il vostro desiderio, signora, e in obbedienza al vostro invito.

CONTESSA: Ed è il benvenuto. Come! è costui ?

MESSO: Lo è, signora.

CONTESSA: E' questo il flagello della Francia? questo il Talbot tanto temuto che le mamme col suo nome fanno chetare i bambini? Vedo che la fama è favolosa e falsa: credevo di vedere un Ercole, un secondo Ettore per l'aspetto fiero e per la maestosa armonia di gagliarde membra. Ahimè! questi è un fanciullo, un nano meschino: non è possibile che questo debole granchiolino rugoso possa infondere tanto terrore nei nemici.

TALBOT: Signora, ho avuto l'ardire di disturbarvi; ma giacché non è comodo a Vostra Signoria, sceglierò un altro momento per visitarvi.

CONTESSA: Che vuol fare ora? domandategli dove va.

MESSO: Fermatevi lord Talbot: la mia Signora domanda di sapere la causa della vostra partenza improvvisa.

TALBOT: Per la Vergine! poiché si sbaglia, me ne vado per assicurarla che quello che è qui è proprio Talbot.

 

(Rientra il Guardaportone con le chiavi)

 

CONTESSA: Se lo sei, allora sei prigioniero.

TALBOT: Prigioniero! di chi?

CONTESSA: Mio, sanguinario signore; appunto per questo ti ho attirato qui. Da lungo tempo la tua ombra è mia schiava, poiché il tuo ritratto è appeso nella galleria di questo castello: ma ora il tuo corpo avrà la stessa sorte e metterò in catene codeste gambe e braccia, tu che tirannicamente e per tanti anni hai devastato questo paese, ucciso i nostri cittadini e fatto prigionieri i nostri figli e mariti.

TALBOT: Ah! ah! ah!

CONTESSA: Ridi, miserabile? la tua allegria si muterà in gemito.

TALBOT: Rido perché siete tanto stolta da credere che qui c'è altra cosa che l'ombra di Talbot su cui esercitare la vostra severità.

CONTESSA: Come! non sei tu Talbot?

TALBOT: Sì, lo sono.

CONTESSA: Allora ho in mia mano anche il tuo corpo.

TALBOT: No; no; non sono che l'ombra di me stesso: v'ingannate: il mio corpo non è qui: quello che vedete non è che la minima parte del mio essere umano. Vi dico, signora, che se tutta la mia corporatura fosse qui, essa s'innalzerebbe sì maestosamente che questo tetto non basterebbe a contenerla.

CONTESSA: Ecco uno che all'occasione sa parlare per enigmi: sostiene che è qui, eppure non è qui; come può risolversi questa contraddizione?

TALBOT: Ve lo mostrerò subito. (Suona il corno. I tamburi rullano, si sente una salva d'artiglieria. Entrano Soldati) Che ne dite, signora?

siete persuasa ora che Talbot non è che l'ombra di se stesso? Costoro sono il suo corpo, muscoli e braccia e forza, con cui egli impone il giogo ai vostri colli ribelli, rade al suolo le vostre città, rovina i vostri borghi e in un istante li lascia desolati.

CONTESSA: Vittorioso Talbot, perdona il trattamento che ti ho inflitto: riconosco che non sei da meno della tua fama e che sei più grande di quello che si può arguire dalla tua forma. La mia presunzione non provochi in te collera, poiché sono dolente di non averti ospitato con reverenza per quel che sei.

TALBOT: Non confondetevi, bella signora, e non errate nel giudicare l'animo di Talbot come avete errato nel giudicare la natura esterna del suo corpo. Quello che avete fatto non mi offende; non chiedo altra riparazione se non che permettiate a me e ai miei soldati di gustare il vostro vino e le vostre delicate vivande: ai soldati l'appetito non manca mai.

CONTESSA: Con tutto il cuore; e mi sentirò onorata di ospitare in casa mia un guerriero così grande.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA QUARTA - Londra. Il giardino del Tempio

(Entrano i Conti di SOMERSET, SUFFOLK e WARWICK, RICCARDO PLANTAGENETO, VERNON e un Legale)

 

PLANTAGENETO: Signori e gentiluomini, che significa questo silenzio?

non osa nessuno rispondere in un caso di così evidente verità?

SUFFOLK: Nella sala del Tempio si faceva troppo rumore; in giardino è più comodo.

PLANTAGENETO: Allora dite subito se quello che ho sostenuto è la verità e se il litigioso Somerset è in errore.

SUFFOLK: In fede mia, non mi sono mai occupato molto della legge né ho mai potuto piegare ad essa la mia volontà; e perciò alla mia volontà piego la legge.

SOMERSET: Giudicate allora voi, lord Warwick, chi di noi ha ragione.

WARWICK: A giudicare tra due falconi quale voli più alto; fra due cani quale abbia il latrato più profondo; fra due lame quella che è di miglior tempra; fra due cavalli quello che ha miglior andatura; fra due ragazze quella che ha l'occhio più ridente, ho forse un certo mio discernimento, se pure non acuto; ma in questi sottili cavilli di legulei, in fede mia, non sono più saggio di una mulacchia.

PLANTAGENETO: Zitto, zitto! questa è una reticenza fatta di cortesia:

la verità è così evidentemente dalla mia parte che l'occhio più miope può scorgerla.

SOMERSET: E dalla parte mia essa è così bene acconcia, cosi chiara, così luminosa e così potente che anche l'occhio più cieco ne percepirebbe un barlume.

PLANTAGENETO: Giacché non avete l'uso della lingua o siete così restii a parlare, manifestate il vostro pensiero con muti segni: chi è gentiluomo e si gloria dei suoi onorati natali, se crede che io detenga la verità, colga con me da questa pianta una rosa bianca.

SOMERSET: E colui che non è né codardo né adulatore, ma osa sostenere la causa della verità, colga con me da questo pruno una rosa rossa.

WARWICK: Non amo giuochi di colori e senza alcun colore di bassa e insinuante adulazione colgo questa rosa bianca con Plantageneto.

SUFFOLK: E io colgo questa rosa rossa col giovane Somerset e con ciò dichiaro che egli ha ragione.

VERNON: Fermatevi, signori e gentiluomini, e non cogliete altri fiori finché non abbiate convenuto che quegli per cui è colto dalla pianta il minor numero di rose deve riconoscere il buon diritto dell'altro.

SOMERSET: Giusto, buon Vernon! se ne avrò meno, mi darò per vinto senza parlare.

PLANTAGENETO: E io pure.

VERNON: Allora per la chiara verità del caso, colgo questo pallido fiore virgineo dichiarandomi per la parte della rosa bianca.

SOMERSET: Non pungetevi il dito mentre la cogliete, perché sanguinando non abbiate a colorar di rosso la rosa bianca e non abbiate a trovarvi dalla mia parte contro la vostra volontà.

VERNON: Se, mio signore, sanguinerò per la mia convinzione, questa sanerà la ferita e mi manterrà dalla parte dove attualmente mi trovo.

SOMERSET: Bene, bene, avanti: chi altri ora?

LEGALE: Se i libri e lo studio non mi dicono il falso, le vostre argomentazioni sono errate; e in segno di ciò io pure colgo una rosa bianca.

PLANTAGENETO: E ora, Somerset, dov'è la vostra argomentazione?

SOMERSET: Qui nel mio fodero, e il meditarla tingerà di rosso sangue la vostra rosa bianca.

PLANTAGENETO: Frattanto le vostre guance imitano le nostre rose, perché sembrano pallide per paura, come se testimoniassero per la verità che è dalla nostra parte.

SOMERSET: No, Plantageneto, non è per timore ma per collera che le guance arrossiscono sì da somigliare alle nostre rose; eppure la tua lingua non vuole confessare l'errore.

PLANTAGENETO: E la tua rosa non ha un verme, Somerset?

SOMERSET: E la tua rosa non ha una spina, Plantageneto?

PLANTAGENETO: Sì, acuta e penetrante a sostenere la verità, mentre il tuo verme, rodendo, si divora la falsità.

SOMERSET: Bene; troverò degli amici che porteranno le mie rose tinte di sangue e sosterranno che quello che ho detto è vero là dove il falso Plantageneto non oserà mostrare il capo.

PLANTAGENETO: Via! per questo fiore virgineo che tengo in mano ho in dispregio te e la tua fazione, ragazzo bizzoso.

SUFFOLK: Non rivolgere i tuoi scherni da questa parte, Plantageneto.

PLANTAGENETO: Orgoglioso Pole, sì, lo farò e avrò in dispregio lui e te.

SUFFOLK: Ti ricaccerò in gola la mia parte di offese.

SOMERSET: Via, via! buon Guglielmo de la Pole, facciamo troppo onore a questo villano conversando con lui.

WARWICK: Via, per Dio, gli fai torto, Somerset: suo nonno era Lionello, duca di Clarence, terzogenito di Edoardo Terzo re d'Inghilterra: o che nascono villani senza blasone da così alta radice?

PLANTAGENETO: Approfitta del divieto di usare le armi in questo luogo, o altrimenti il suo cuore di vigliacco non glielo lascerebbe dire.

SOMERSET Nel nome di Colui che mi ha creato, sono pronto a sostenere le mie parole in qualsiasi luogo della Cristianità. Tuo padre, Riccardo conte di Cambridge, non fu forse giustiziato per tradimento ai tempi del defunto re? e per il suo tradimento non sei messo fuori della legge, corrotto nel sangue e privato dell'antica nobiltà? la sua colpa vive ancora come macchia nel tuo sangue e finché tu non sia riabilitato sei un villano.

PLANTAGENETO: Mio padre fu arrestato, ma non convinto; fu condannato a morte per tradimento, ma non fu traditore; e lo proverò contro uomini che sono da più di Somerset, se verranno tempi maturi pei miei disegni. Quanto a voi e al vostro partigiano Pole mi segnerò i vostri nomi nel libro della memoria per punirvi di questo pensiero: state in guardia e dite pure che vi ho avvertiti a tempo.

SOMERSET: Ci troverai sempre pronti e ci riconoscerai come nemici da questi colori, poiché i miei amici porteranno sempre questi fiori a tuo dispetto.

PLANTAGENETO: E io, per l'anima mia, come contrassegno del mio odio assetato di sangue porterò con la mia fazione questa rosa pallida di collera, finché non avvizzisca con me accompagnandomi alla tomba o non fiorisca seguendomi sino all'alta dignità che mi attende.

SUFFOLK: Continua pure e possa tu morire soffocato dall'ambizione: e arrivederci la prossima volta.

 

(Esce)

 

SOMERSET: Vengo con te, Pole; addio, ambizioso Riccardo.

 

(Esce)

 

PLANTAGENETO: Come mi si insulta! e bisogna che lo tolleri!

WARWICK: Questa macchia che si rimprovera alla vostra casa, sarà cancellata nel prossimo parlamento che sarà convocato per concludere una tregua fra Winchester e Gloucester! e se allora non sarai creato duca di York, non voglio più essere chiamato Warwick. Frattanto in segno del mio amore per te porterò questa rosa per il tuo partito e contro l'orgoglioso Somerset e Guglielmo Pole. E qui faccio una profezia: questa contesa fra rosa bianca e rosa rossa, divenuta oggi fazione nel giardino del Tempio, manderà mille anime nelle tenebre della morte.

PLANTAGENETO: Buon Vernon, vi sono grato d'aver colto un fiore per me.

VERNON: E per voi lo porterò sempre.

LEGALE: E io pure.

PLANTAGENETO: Grazie, buon signore; suvvia, andiamo tutti e quattro a pranzo. Credo che questa contesa si abbevererà presto di sangue.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA QUINTA - La Torre di Londra

(Entra MORTIMER, portato su una sedia da due Carcerieri)

 

MORTIMER: Amorosi custodi della mia vecchiaia cadente, lasciate che Mortimer moribondo si riposi qui. Come a un uomo appena tolto dalla tortura, così mi dolorano le membra per la lunga prigionia; e queste grigie ciocche, messaggere della morte, incanutite di nestorea età in un'età di dolore, fanno presagire prossima la fine di Edmondo Mortimer. Gli occhi, come lampade in cui l'olio è consumato, mi si velano avvicinandosi all'estrema dipartita; le deboli spalle oppresse dal carico della sofferenza e le braccia sfinite sono come una vite secca che lascia cadere a terra i rami senza linfa: oppure i miei piedi, sostegni intorpiditi e impotenti, incapaci di reggere questo peso di argilla, sembrano aver messe le ali per desiderio della tomba, come se sapessero che non ho altro conforto. Ma dimmi, guardiano, verrà mio nipote?

PRIMO CARCERIERE: Mio signore, Riccardo Plantageneto verrà: abbiamo mandato alla sua abitazione nel Tempio e ci è stato risposto che verrà.

MORTIMER: Basta; la mia anima allora sarà soddisfatta. Povero gentiluomo! i torti che gli sono stati fatti non sono da meno dei miei. Ho sofferto questa odiosa prigionia da quando Enrico Monmouth cominciò a regnare, ed ero già famoso in armi prima che egli acquistasse gloria; e sino da allora Riccardo è stato messo nell'ombra e privato dei suoi onori ereditari: ma ora la giusta morte, arbitra benevola delle disperazioni e delle miserie degli uomini, con dolce liberazione mi congeda di qua. Vorrei che anche le sue afflizioni finissero e che egli potesse ricuperare ciò che ha perduto.

 

(Entra RICCARDO PLANTAGENETO)

 

PRIMO CARCERIERE: Mio signore, il vostro amato nipote è giunto ora.

MORTIMER: Riccardo Plantageneto, il mio parente, è venuto?

PLANTAGENETO: Sì, nobile zio, vostro nipote, fresco di recente oltraggio, viene a visitare voi pure ignobilmente trattato.

MORTIMER: Guidate le mie braccia, perché possa recingergli il collo ed esalare sul suo petto il mio ultimo respiro Oh! ditemi quando le mie labbra toccheranno le sue guance, perché possa dargli amorosamente un languido bacio; e ora, bel ramo del grande tronco di York, spiegami perché mi hai detto che poco fa sei stato insultato.

PLANTAGENETO: Prima di tutto appoggia la tua vecchia persona al mio braccio e quando sarai a tuo agio ti farò il racconto dei miei mali.

Oggi nel corso di una discussione fra Somerset e me vi è stato uno scambio di parole vivaci e fra l'altro, non misurando quello che diceva, mi rinfacciò la morte di mio padre: questo oltraggio mi ha parato la lingua, altrimenti lo avrei ripagato della stessa moneta; perciò, buono zio, per amore di mio padre, per l'onore di un leale Plantageneto e per riguardo alla nostra parentela, ditemi perché fu decapitato mio padre, il conte di Cambridge.

MORTIMER: Caro nipote, la causa stessa che ha imprigionato me e mi ha confinato a languire entro a una orrenda segreta durante tutta la mia fiorente giovinezza è stata il maledetto istrumento della sua morte.

PLANTAGENETO: Di' più per disteso, qual è stata questa causa perché non la conosco e non so indovinarla.

MORTIMER: Lo farò se lo consente la lena che sta venendo meno e se la morte non si avvicina prima che la mia storia sia finita. Enrico Quarto, nonno del re, depose suo nipote Riccardo, figlio di Edoardo, primogenito e legittimo erede di re Edoardo Terzo. Durante il suo regno, i Percy del settentrione, ritenendo che fosse un ingiusto usurpatore, cercarono di portarmi sul trono. La ragione che spinse quei bellicosi signori fu che, tolto di mezzo il giovane re Riccardo senza lasciare discendenti diretti, io ero prossimo a lui per nascita e parentado; perché per parte di madre discendo da Lionello, duca di Clarence, terzo figlio di re Edoardo Terzo, mentre egli derivava la sua discendenza da Giovanni di Gand, che non era che il quarto di quell'eroico ramo. Ma stammi attento: mentre cercavo di assicurare sul trono il legittimo erede con questo ambizioso tentativo, io perdetti la libertà ed essi la vita. Molto tempo dopo, quando regnava Enrico Quinto, successore di suo padre Bolingbroke, tuo padre, conte di Cambridge, disceso dal famoso Edmondo Langley, duca di York, dopo aver sposato mia sorella che fu poi tua madre, raccolse un esercito, commiserando la mia sorte angosciosa e pensando di liberarmi e di darmi la corona; ma come gli altri, quel nobile conte fallì nel tentativo e fu decapitato. Così furono tolti di mezzo i Mortimer che avevano diritto alla corona.

PLANTAGENETO: E di essi tu, mio signore, sei l'ultimo.

MORTIMER: E' vero; e tu vedi che non ho discendenti e che le mie fioche parole sono presagio di morte vicina. Tu sei mio erede; il resto vorrei che arguissi da te stesso: ma guarda di essere cauto nei tuoi disegni.

PLANTAGENETO: I tuoi gravi suggerimenti hanno gran peso presso di me:

ma mi sembra che l'esecuzione di mio padre non sia stata altro che un atto di sanguinosa tirannia.

MORTIMER: Nipote, sii silenzioso e accorto: la casa di Lancaster è ben salda e, come una montagna, non si lascia smuovere. Ma ora tuo zio se ne va da questo mondo, come fanno i principi con le loro corti, quando sono sazi di rimanere a lungo nello stesso posto.

PLANTAGENETO: Oh, zio, vorrei dare parte della mia giovinezza per ritardare la vostra fine.

MORTIMER: Tu mi fai torto, come quell'uccisore che dà molte ferite quando una sola basterebbe. Non far lutto, salvo che tu pianga per il mio bene; limitati a dar l'ordine delle mie esequie, e addio; si avverino tutte le tue speranze e sia felice la tua vita in pace e in guerra!

 

(Muore)

 

PLANTAGENETO: Pace, e non guerra accompagni la tua anima nel suo transito! Hai compiuto il tuo pellegrinaggio in carcere e passato i giorni come un eremita. Bene; mi chiuderò i suoi consigli nel petto e vi lascerò riposare il mio pensiero. Carcerieri, portatelo via di qua; e quanto a me curerò che il suo seppellimento sia più onorevole di quanto non fu la sua vita. (Escono i Carcerieri portando il corpo di Mortimer) Qui si spegne la fumosa torcia di Mortimer, soffocata da ambiziosi che erano da meno di lui; non dubito di ottenere riparazione onorevole per quei torti, per quelle amare offese che Somerset ha fatto alla mia casa; e per ciò mi affretto al parlamento per essere reintegrato nel rango dovuto al mio sangue o per far sì che per me dal male nasca il bene.

 

(Esce)

 

 

 

ATTO TERZO

 

SCENA PRIMA - Londra. Il Palazzo del Parlamento

(Squillo di trombe. Entrano RE ENRICO, EXETER, GLOUCESTER, WARWICK, SOMERSET e SUFFOLK; il Vescovo di WINCHESTER, RICCARDO PLANTAGENETO e altri. GLOUCESTER sta per presentare un atto di accusa; WINCHESTER glielo strappa di mano e lo lacera)

 

WINCHESTER: Vieni tu con scritti bene architettati e composizioni accuratamente studiate, Humphrey di Gloucester? Se puoi accusarmi o presentare qualche denuncia contro di me, fallo senza preparazione, all'improvviso, come io con discorsi improvvisati ed estemporanei mi propongo di rispondere a quanto mi opporrai.

GLOUCESTER: Prete presuntuoso! se questo luogo non mi imponesse la calma, t'accorgeresti a tue spese di avermi offeso nell'onore. Sebbene io abbia esposto per iscritto la natura dei tuoi bassi oltraggiosi misfatti, non credere per ciò che li abbia inventati o che non sappia ripetere parola per parola il contenuto della mia denuncia: no, prelato, tale è la tua audace malvagità, tali le tue prodezze di oscenità, cattiveria e litigiosità che i fanciulli stessi parlano della tua sfrontatezza. Sei un pernicioso usuraio, tracotante per natura, nemico della pace, lascivo e lussurioso più di quel che non convenga a un uomo del tuo sacro carattere e del tuo grado; e quanto al tuo tradimento, che c'è di più manifesto? poiché m'insidiasti la vita al Ponte di Londra e alla Torre. Inoltre temo che, se si potessero scrutare a fondo i tuoi pensieri, neanche il re, tuo sovrano, risulterebbe immune dalla gelosa malvagità del tuo tumido cuore.

WINCHESTER: Gloucester, ti sfido. Signori, compiacetevi di ascoltare la mia replica. Se sono così avido, ambizioso e perverso come pretende che io sia, come mai sono così povero? e com'è che non cerco di avanzare o di salire, ma seguo la mia usata occupazione? E quanto a seminare zizzania, chi più di me preferisce la pace, se non mi si provoca? No, miei buoni signori, non è questo che offende, non è questo che ha fatto incollerire il duca: è perché lui solo vorrebbe comandare, lui solo dovrebbe stare presso il re; e ciò gli genera tempesta nel cuore e gli fa vomitare ruggendo queste accuse. Ma si accorgerà che sono da tanto...

GLOUCESTER: ...da tanto? tu, bastardo di mio nonno?

WINCHESTER: Sì, orgoglioso signore; poiché, che siete voi, di grazia, se non uno che la fa da padrone sul trono altrui?

GLOUCESTER: Non sono il Protettore, prete insolente?

WINCHESTER: E io non sono un prelato della Chiesa?

GLOUCESTER: Sì, come un bandito si chiude in un castello e l'usa a coprire i suoi furti.

WINCHESTER: Irriverente Gloucester!

GLOUCESTER: E tu sei reverendo pel tuo carattere sacerdotale, non per la tua vita.

WINCHESTER: Roma porrà rimedio a questo.

WARWICK: E vattene là come romeo, allora!

SOMERSET: Mio signore, dovreste calmarvi.

WARWICK: Ah, sì! guardate pure che il vescovo non sia sopraffatto.

SOMERSET: Mi sembra che Vostra Signoria dovrebbe aver maggior rispetto per la religione e sapere qual è il suo dovere a questo riguardo.

WARWICK: E a me sembra che il vescovo dovrebbe essere più umile; non sta bene che un prelato perori la propria causa con tanto accanimento.

SOMERSET: Sta bene, invece, quando il suo sacro carattere è toccato così da vicino.

WARWICK: Sacro o non sacro, che importa, e non è Sua Grazia Protettore del re?

PLANTAGENETO (a parte): Plantageneto, a quel che vedo, deve frenar la sua lingua, perché non si dica: "Parla quando ti tocca; quando mai il tuo temerario verdetto dovrebbe metter becco nelle conversazioni dei nobili?". Altrimenti direi la mia a Winchester.

ENRICO: Zii miei, Gloucester e Winchester, tutori particolari del nostro Stato, vorrei indurvi, se le mie preghiere fossero da tanto, a unire i cuori in amore e in amicizia. Oh! che scandalo è per la nostra corona che due pari come voi siano discordi. Credetemi, signori, anche la mia tenera età sa dirvi che le discordie civili sono serpenti velenosi che rodono le viscere dello Stato.

 

(Grido interno: "Abbasso gli abiti lionati!") Che tumulto è questo?

WARWICK: Un tumulto provocato a bella posta, ne son certo, dagli uomini del vescovo.

 

(Si grida ancora: "Sassi, sassi!". Entra il Sindaco)

 

SINDACO: Oh! miei buoni signori e virtuoso Enrico, abbiate pietà della città di Londra e di noi. Gli uomini del vescovo e del duca di Gloucester, ai quali è stato recentemente vietato di portare armi, si sono riempite le tasche di ciottoli e, dividendosi in fazioni rivali, si colpiscono al capo con tal pioggia di colpi, che molti ne hanno avuto scoperchiato il pazzo cervello. In ogni nostra via le finestre sono fracassate e per paura abbiamo dovuto chiudere le botteghe.

 

(Entrano Servi azzuffandosi e feriti al capo)

 

ENRICO: Vi ordiniamo, se siete sudditi fedeli, di frenare le mani omicide e di non turbare l'ordine. Vi prego, zio Gloucester, sedate questa zuffa.

PRIMO SERVO: Se non si possono usare le pietre, adopreremo i denti.

SECONDO SERVO: Avanti, se ne avete il coraggio; noi siamo altrettanto risoluti.

 

(Si azzuffano ancora)

 

GLOUCESTER: Voi della mia casa, cessate questo insensato tumulto e smettete questa rissa indecorosa.

PRIMO SERVO: Mio signore, sappiamo che Vostra Grazia è uomo giusto e retto e per nascita inferiore solo a Sua Maestà; e prima di lasciar disonorare da uno scribacchino un tal principe, un così buon padre dello Stato, noi, le mogli e i bambini combatteremo tutti e ci faremo uccidere dai nemici.

TERZO SERVO: Sì, e coi ritagli stessi delle nostre unghie si fortificherà il campo, quando saremo morti.

 

(Ricominciano ancora)

 

GLOUCESTER: Fermi, fermi, dico! e, se mi amate come dite, persuadetevi a smetterla.

ENRICO: Oh! quanto questa discordia affligge il mio cuore! Lord Winchester, vedete come sospiro e piango, e non vi inducete a cedere?

Chi sarà misericordioso se non lo siete voi? o chi cercherà di preferire la pace se santi ecclesiastici piglian gusto alle zuffe?

WARWICK: Cedete, lord Protettore; cedete, Winchester, se con gli ostinati rifiuti non volete distruggere il sovrano e il regno. Vedete che guai e morti la vostra inimicizia ha provocati: pacificatevi, se non avete proprio sete di sangue.

WINCHESTER: Riconosca che ha torto o non cederò mai.

GLOUCESTER: Pietà per il re vuole che mi pieghi; altrimenti, caverei il cuore a quel prete prima di dargliela vinta.

WARWICK: Vedete, lord Winchester, il duca ha bandito la furia e il corruccio, come lo dice la sua fronte spianata: perché fate ancora un viso così severo e cupo?

GLOUCESTER: Qui, Winchester, ecco qui la mano.

ENRICO: Vergogna, zio Beaufort! vi ho sentito predicare che il rancore è un grave e serio peccato, e non volete praticare quello che predicate, e anzi quel peccato commettere in sommo grado?

WARWICK: Buon re, avete rivolto al vescovo un assai amorevole rimprovero. Vergogna, monsignore di Winchester, cedete. Come! deve essere proprio un fanciullo ad insegnarvi il vostro dovere?

WINCHESTER: Ebbene, duca di Gloucester, cedo: ti ricambio l'affetto e la stretta di mano.

GLOUCESTER (a parte): Sì; ma, temo, non col cuore. Guardate, amici e cari concittadini: questo gesto sia come una bandiera di tregua fra noi due e i nostri seguaci. E sono sincero, così mi aiuti Iddio!

WINCHESTER (a parte): E io non intendo affatto di osservare questo armistizio; così mi aiuti Iddio!

ENRICO: Amato zio, buon duca di Gloucester, quanta gioia mi da questo accordo! Via, messeri: non dateci altre molestie, ma fate pace, come hanno fatto i vostri padroni.

PRIMO SERVO: Benissimo: me ne vado dal medico.

SECONDO SERVO: Anch'io.

TERZO SERVO: E io andrò a vedere che medicina mi possa dare l'osteria.

 

(Escono il Sindaco, i Servi, eccetera)

 

WARWICK: Compiacetevi, grazioso sovrano, di prender questa pergamena che presentiamo a Vostra Maestà, perché sia resa giustizia a Riccardo Plantageneto.

GLOUCESTER: Ottima istanza, lord Warwick; poiché, buon sovrano, se osservate tutti i particolari del caso, voi avete gran ragione di rendere giustizia a Riccardo specialmente per i motivi che dissi alla Maestà Vostra ad Eltham.

ENRICO: E quei motivi, zio, mi sembrano molto forti: perciò, miei cari signori, ci degnamo che Riccardo sia reintegrato nei diritti che gli spettano per sangue.

WARWICK: Sia reintegrato, e così saranno riparati i torti fatti a suo padre.

WINCHESTER: Quello che gli altri vogliono, lo vuol pure Winchester.

ENRICO: Se Riccardo sarà fedele, gli darò non quello soltanto, ma l'intero retaggio che spetta alla casa di York, da cui discende in linea retta.

PLANTAGENETO: Il tuo umile servo ti giura obbedienza e devoto servizio sino alla morte.

ENRICO: Chinati dunque e metti il ginocchio contro il mio piede, e in compenso di questo omaggio che mi rendi ti cingo con la valorosa spada di York: alzati, Riccardo, fedele Plantageneto, alzati duca di York e principe.

PLANTAGENETO: E così, tanta sia la fortuna di Riccardo quanta la rovina dei tuoi nemici, e quanto crescerà la mia fedeltà altrettanta possa essere la rovina di coloro che hanno un pensiero sleale contro la Maestà Vostra.

TUTTI: Evviva, nobile principe e possente duca di York!

SOMERSET: (a parte): Possa tu perire, vile principe e ignobile duca di York.

GLOUCESTER: Il miglior partito è ora che Vostra Maestà passi il mare e sia coronato in Francia. La presenza del re genera affetto fra i sudditi e fra i suoi leali amici, come disanima i nemici.

ENRICO: Basta che Gloucester lo dica e il re andrà poiché un consiglio da amico uccide molti nemici.

GLOUCESTER: Le vostre navi sono pronte.

 

(Fanfara; squillo di trombe. Escono tutti tranne Exeter)

 

EXETER: Sì, marciamo pure in Inghilterra o in Francia, senza capire quello che probabilmente seguirà. Questa discordia nata da poco fra i pari cova sotto le ceneri fallaci di un amore simulato, e da ultimo eromperà in fiamma: come le membra infette imputridiscono a poco a poco finché ossa e carne e muscoli cadono in disfacimento, tali saranno i frutti di questa vile discordia nata dalla rivalità. Ed ora temo quella fatale profezia che al tempo di Enrico Quinto correva persino sulle bocche dei lattanti: che Enrico di Monmouth avrebbe conquistato tutto e Enrico di Windsor tutto avrebbe perduto, e questo è così evidente che Exeter vorrebbe morire prima che venisse quel tempo disgraziato.

 

(Esce)

 

 

 

SCENA SECONDA - Francia. Davanti a Rouen

(Entra GIOVANNA LA PULZELLA travestita e quattro Soldati con sacchi sulle spalle)

 

PULZELLA: Queste sono le porte della città, le porte di Rouen attraverso alle quali la nostra accortezza deve trovar modo di passare. State in guardia e attenti alle parole che usate; parlate come gente di bassa sorta che va al mercato a far denaro col grano. Se riusciremo ad entrare, come spero, e troviamo che la pigra guardia è debole, con un segno ne informerò i nostri amici, perché Carlo il Delfino possa assaltarla.

PRIMO SOLDATO: I nostri sacchi ci daranno il modo di mettere a sacco la città e noi saremo signori e padroni di Rouen; perciò bussiamo.

 

(Bussa)

 

GUARDIA (di dentro): Qui est là?

PULZELLA: Paysans, pauvres gens de France: povera gente che viene al mercato a vendere il grano.

GUARDIA (apre la porta): Entrate, venite dentro; la campana del mercato è già sonata.

PULZELLA: Ora, Rouen, farò crollare al suolo i tuoi bastioni.

 

(Escono)

(Entrano CARLO, il BASTARDO DI ORLEANS, ALENÇON e Soldati)

 

CARLO: San Dionigi benedica questo fortunato stratagemma! ancora una volta dormiremo tranquilli in Rouen.

BASTARDO: Di qui sono passati la Pulzella e i suoi compagni; ora che è dentro come farà ad indicarci qual è il punto migliore e più sicuro per entrare?

ALENÇON: Esponendo una torcia da quella torre laggiù; e, vistala, comprenderemo che quello è il punto di accesso più debole per cui è passata.

 

(Entra in alto GIOVANNA LA PULZELLA con una torcia accesa)

 

PULZELLA: Guardate! questa è la felice torcia nuziale che unisce Rouen ai suoi compatrioti, ma fiamma esiziale per i seguaci di Talbot.

 

(Esce)

 

BASTARDO: Vedi, nobile Carlo, il faro della nostra amica, la torcia ardente sta in quella torre laggiù.

CARLO: Risplenda ora come una cometa di vendetta, come un presagio della rovina di tutti i nostri nemici.

ALENÇON: Non perdiamo tempo, gli indugi finiscono male; entriamo subito e gridiamo "Il Delfino" e poi ammazziamo la guardia.

 

(Allarme. Escono)

(Allarme. Entra TALBOT in una scorreria)

 

TALBOT: Francia, ti pentirai di questo tradimento e piangerai se Talbot sopravvive alla tua perfidia. La Pulzella, quella strega, quella maledetta maga, ci ha inflitto questo diabolico scacco prima che ce ne accorgessimo, cosicché a stento ci siamo salvati dall'arrogante forza dei Francesi.

 

(Esce)

(Allarme. Scorrerie. BEDFORD è portato su una sedia infermo. Entrano TALBOT e il DUCA DI BORGOGNA fuori della città; dentro, sulle mura, la PULZELLA, CARLO, il BASTARDO, ALENÇON e RENATO)

 

PULZELLA: Buon giorno, valorosi! volete grano per il pane? credo che il duca di Borgogna digiunerà piuttosto che comperarlo ancora a questo prezzo. Era pieno di loglio; vi piace il sapore?

BORGOGNA: Schernisci pure, vile demonio, svergognata cortigiana! spero di ricacciartelo in gola tra poco sino a soffocarti e di farti maledire il momento in cui quei grano fu mietuto.

CARLO: Può darsi che prima di allora Vostra Grazia muoia di fame.

BEDFORD: Ci vogliono fatti e non parole per vendicar questo tradimento.

PULZELLA: Cosa vorreste fare, buon vecchione? Spezzare una lancia e correre la quintana contro la morte, seduto su una sedia?

TALBOT: Sozzo demone di Francia, strega dispettosa, circondata dai tuoi ganzi lussuriosi! ti par bello schernire la sua prode vecchiaia e rimproverare di codardia un uomo mezzo morto? Ragazza, incrocerò l'arma con te o altrimenti muoia Talbot per questa vergogna.

PULZELLA: Siete così caldo, signore? ma, Pulzella, stai zitta; se Talbot tuona, ben presto pioverà. (Gli Inglesi bisbigliano insieme consultandosi) Dio benedica il parlamento! chi sarà l'oratore?

TALBOT: Osate uscire a incontrarci in campo?

PULZELLA: Forse Vostra Signoria ci prende per sciocchi, invitandoci a provare se quel che è nostro lo è o non lo è.

TALBOT: Non parlo a quell'Ecate beffarda, ma a te Alençon, e agli altri; volete da soldati uscire a decidere la contesa con le armi?

ALENÇON: Signor no.

TALBOT: "Signor" al diavolo! vili mulattieri di Francia! si tengono sulle mura e non osano prendere le armi da gentiluomini.

PULZELLA: Via, capitani; scendiamo dalle mura, poiché l'aspetto di Talbot non presagisce nulla di buono. Dio sia con voi, mio signore:

siamo venuti solo per dirvi che siamo qui.

 

(Escono dalle mura)

 

TALBOT: E tra poco vi saremo anche noi o altrimenti Talbot diventi famoso per obbrobrio! Borgogna, per l'onore della tua casa, stimolato dai torti ricevuti in Francia, giura di riprendere la città o morire; e io, come è vero che Enrico vive, che suo padre fu vittorioso qui, che in questa città da poco tradita è sepolto il cuore del grande Riccardo Cuor di leone, giuro di prendere la città o morire.

BORGOGNA: I miei voti si associano ai tuoi.

TALBOT: Ma prima di andare, rendiamo omaggio a questo principe morente, al valoroso duca di Bedford. Suvvia, mio signore, vi condurremo in qualche luogo migliore, più adatto alla malattia e all'età decrepita.

BEDFORD: Non fatemi questa offesa, lord Talbot; starò qui davanti alle mura di Rouen e condividerò la vostra fortuna, buona o cattiva che sia.

BORGOGNA: Coraggioso Bedford, lasciatevi persuadere.

BEDFORD: Ma non ad andarmene di qua, poiché ricordo di aver letto che il forte Pendragon, infermo, si fece portare in lettiga sul campo e sconfisse i suoi nemici. Forse incoraggerei i soldati, perché li ho sempre trovati simili a me.

TALBOT: Animo impavido nel petto di un morente! E così sia: il cielo protegga il vecchio Bedford! E ora non più parole, prode Borgogna:

raccogliamo subito le nostre forze e attacchiamo il nostro insolente nemico.

 

(Escono tutti eccetto Bedford e i Servi)

(Allarme. Scorrerie. Entrano SIR GIOVANNI FASTOLFE e un Capitano)

 

CAPITANO: Dove andate, Sir Giovanni Fastolfe, con tanta fretta?

FASTOLFE: Dove vado? a salvarmi scappando: è facile che siamo sconfitti ancora.

CAPITANO: Come! volete scappare e piantare in asso lord Talbot?

FASTOLFE: Sì, tutti i Talbot di questo mondo, pur di salvare la vita.

 

(Esce)

 

CAPITANO: Vile cavaliere, ti colga il malanno!

 

(Esce)

(Ritirata. Scorrerie. LA PULZELLA, ALENÇON e CARLO fuggono)

 

BEDFORD: Ora, anima mia pacificata, parti quando piace al cielo, perché ho visto la disfatta dei nostri nemici. Che sicurezza e forza è quella dello stolto? coloro che poco fa ci sfidavano coi loro scherni, ora sono ben lieti di scampare con la fuga.

 

(Bedford muore ed è portato via sulla sedia da due Uomini)

(Allarme. Rientrano TALBOT, BORGOGNA e gli altri)

 

TALBOT: Perduta e riconquistata nello stesso giorno! E' doppio onore questo, Borgogna. Ma gloria al cielo per questa vittoria.

BORGOGNA: Prode e marziale Talbot, Borgogna si chiude in cuore il tuo nome e là erige nel ricordo dei tuoi nobili atti un monumento al valore.

TALBOT: Grazie, nobile duca. Ma dov'è la Pulzella ora? credo che il suo vecchio demone sonnecchi: e dove sono le bravate del Bastardo e i dileggi di Carlo? come! avviliti? Rouen china il capo dolente che così ardita brigata sia fuggita. Ora metteremo un po' d'ordine in città lasciandovi ufficiali esperti, e poi ce ne andremo a Parigi dal re, poiché là è il giovane Enrico coi suoi nobili.

BORGOGNA: Quello che lord Talbot decide piace anche a Borgogna.

TALBOT: Prima di partire, tuttavia, non dimentichiamo il nobile duca di Bedford, morto testé, e facciamogli fare le esequie in Rouen. Mai soldato più valoroso mise lancia in resta, né mai cuore più nobile primeggiò in corte; ma i re e i più grandi potentati debbono morire, perché questa è la fine di ogni miseria umana.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA TERZA - Francia. La pianura presso Rouen

(Entrano CARLO, il BASTARDO DI ORLEANS, ALENÇON, la PULZELLA e Soldati)

 

PULZELLA: Non sbigottitevi, principi, per questo incidente, né doletevi che Rouen sia stata ripresa: il rammarico non risana ma rode, quando si tratta di mali a cui non v'è rimedio. Talbot esulti pazzamente per un poco e strascichi la coda come un pavone; gli caveremo le penne e la coda intiera, se il Delfino e gli altri si lasceranno guidare da me.

CARLO: Siamo stati guidati da te sin qui e non abbiamo mai dubitato del tuo magico potere: non perderemo la fiducia per un solo scacco improvviso.

BASTARDO: Cerca nella tua mente qualche riposto espediente e ti renderemo famosa in tutto il mondo.

ALENÇON: Erigeremo la tua statua in qualche luogo sacro e ti faremo venerare come una santa benedetta: adoprati dunque, dolce vergine, per il nostro bene.

PULZELLA: E allora si faccia questo, ecco il disegno di Giovanna: con buone ragioni condite di melate parole, adescheremo il duca di Borgogna a lasciare Talbot e seguire noi.

CARLO: Eh, diamine, bellina mia, se riuscissimo a farlo la Francia non sarebbe più il posto per i guerrieri di Enrico; né quella nazione menerebbe più tanto vanto su di noi e sarebbe cacciata dalle nostre province.

ALENÇON: Gli Inglesi sarebbero per sempre espulsi dalla Francia e non vi possederebbero più neanche un titolo di contea.

PULZELLA: Vedranno le vostre Signorie che farò per condurre questa faccenda al fine desiderato. (Si odono tamburi lontani) Udite! dal suono dei tamburi si comprende che le loro truppe marciano verso Parigi.

 

(A questo punto si sente una marcia inglese. TALBOT e i suoi Soldati entrano e attraversano il palcoscenico in distanza)

 

Ecco là Talbot a bandiere spiegate seguito da tutte le truppe inglesi.

 

(Marcia francese. Entrano il DUCA DI BORGOGNA e Soldati)

 

Ora alla retroguardia viene il duca coi suoi: la fortuna ci favorisce facendolo indugiare dietro gli altri. Invitatelo a parlamento: discuteremo con lui.

 

(I trombettieri suonano a parlamento)

 

CARLO: Si chiede di parlamentare col duca di Borgogna.

BORGOGNA: Chi vuole parlamentare col duca di Borgogna?

PULZELLA: Il principe Carlo di Francia, tuo compatriota.

BORGOGNA: Che dici tu, Carlo? presto: sto partendo di qua.

CARLO: Parla, Pulzella, e incantalo con le tue parole.

PULZELLA: Valoroso Borgogna, sicura speranza della Francia, fermati; lascia che la tua umile ancella ti parli.

BORGOGNA: Parla pure, ma non dilungarti troppo.

PULZELLA: Guarda il tuo paese, guarda la fertile Francia e vedrai le città e i borghi sfigurati dalla rovina devastatrice del crudele nemico. Come la madre guarda il suo pargolo infermo quando la morte gli chiude i teneri occhi languenti, tu guarda, guarda il male che strugge la Francia, mira le ferite, le ferite snaturate che tu stesso le hai inflitte nel seno doloroso. Oh! volgi altrove la spada affilata; colpisci coloro che feriscono e non ferire coloro che aiutano: una goccia di sangue tratta dal seno della patria dovrebbe addolorarti di più che torrenti di sangue straniero. Ritorna e lava con un fiume di lacrime le turpi macerie del tuo paese.

BORGOGNA: O questa donna mi ha stregato con le parole o è la natura che improvvisamente mi fa cedere.

PULZELLA: Inoltre la Francia e tutti i Francesi ti diffamano mettendo in dubbio la legittimità della tua nascita. A chi ti sei unito se non a una nazione prepotente che mostra di riporre fiducia in te soltanto per interesse? Quando Talbot avrà messo definitivamente piede in Francia e fatto di te uno strumento di male, chi altri se non l'inglese Enrico sarà padrone? e tu sarai cacciato come un bandito.

Richiamiamo alla memoria, e notiamo questo come prova: non era il duca di Orleans tuo avversario, e non era egli prigioniero degli Inglesi?

ma quando sentirono che ti era nemico, lo liberarono senza che pagasse riscatto, a dispetto di Borgogna e di tutti i suoi amici. Vedi dunque:

tu combatti contro i compatrioti e ti unisci a coloro che saranno i tuoi carnefici. Suvvia, ritorna, ritorna, principe traviato: Carlo e gli altri ti apriranno le braccia.

BORGOGNA: Sono vinto; queste alte parole mi hanno battuto in breccia come tonanti cannoni e per poco non mi hanno fatto arrendere in ginocchio. Perdonami, patria! e voi cari concittadini, voi signori, accettate questo cordiale, affettuoso abbraccio: la mia spada e le mie truppe sono vostre. Addio Talbot; non avrò più in te alcuna fiducia.

PULZELLA (a parte): Proprio da Francese: voltafaccia su voltafaccia.

CARLO: Benvenuto, valoroso duca; la tua amicizia ci dà nuove forze.

BASTARDO: E infonde nuovo coraggio nei nostri petti.

ALENÇON: La Pulzella in questo ha fatto assai bene la sua parte e merita una corona d'oro. CARLO: Ora procediamo, miei signori; uniamo le nostre forze, e vediamo come danneggiare il nemico.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA QUARTA - Parigi. Il Palazzo

(Entrano RE ENRICO, GLOUCESTER, il VESCOVO DI WINCHESTER, YORK, SUFFOLK, SOMERSET, WARWICK, EXETER, VERNON, BASSET e altri. Sopraggiunge TALBOT coi suoi Soldati)

 

TALBOT: Mio grazioso principe e onorati pari, ricevendo notizia del vostro arrivo in questo regno ho posto tregua alle guerre per rendere omaggio al sovrano: e in segno di questo il mio braccio, che ha ricondotto all'obbedienza cinquanta fortezze, dodici città e sette forti borghi murati, oltre a cinquecento prigionieri d'alto grado, lascia cadere la spada ai piedi di Vostra Altezza e con umile lealtà di cuore attribuisce la gloria delle sue conquiste prima a Dio e poi alla Maestà Vostra.

 

(S'inginocchia)

 

ENRICO: E' questo, zio Gloucester, quel lord Talbot che ha soggiornato in Francia così a lungo?

GLOUCESTER: Sì, mio sovrano, se piace a Vostra Maestà.

ENRICO: Benvenuto, valoroso capitano e vittorioso signore! Mi ricordo che quando ero piccolo - e non son ancor vecchio - mio padre diceva che mai campione più gagliardo aveva impugnato una spada. Ma già da tempo eravamo convinti della vostra fedeltà, dei vostri devoti servigi e delle fatiche guerresche; eppure non avete gustato la nostra ricompensa e neppure siete stato ripagato di ringraziamenti, poiché sino ad ora non vi abbiamo mai visto in viso: perciò alzatevi; per questi vostri grandi meriti vi creiamo conte di Shrewsbury, e prenderete il posto che vi spetta nella cerimonia dell'incoronazione.

 

(Fanfara. Squillo di trombe. Escono tutti eccetto Vernon e Basset)

 

VERNON: Ora, signore, che eravate così ardente in mare oltraggiando i colori che porto in omaggio al nobile duca di York, osate confermare le parole che diceste allora?

BASSET: Sì, signore, allo stesso modo che voi deste libero sfogo all'odioso latrato della vostra lingua impertinente contro il duca di Somerset, mio signore.

VERNON: Messere, il tuo signore l'onoro per quel che è.

BASSET: Come! e che è? non da meno di York.

VERNON: Senti che insolenza! Certamente no, e in prova prendetevi questo.

 

(Lo percuote)

 

BASSET: Furfante, tu sai che per la legge marziale è messo immediatamente a morte chi sguaina una spada, o altrimenti questo schiaffo spillerebbe il tuo miglior sangue. Ma andrò da Sua Maestà e gli chiederò licenza di vendicarmi di questa offesa e allora ci rivedremo ancora a tuo danno.

VERNON: Ebbene, canaglia; io sarò dal re presto quanto voi, e poi ci ritroveremo più presto di quello che vorreste.

 

(Escono)

 

 

 

ATTO QUARTO

 

SCENA PRIMA - Parigi. Sala del trono

(Entrano RE ENRICO, GLOUCESTER, WINCHESTER, YORK, SUFFOLK, SOMERSET, WARWICK, EXETER, TALBOT, il GOVERNATORE DI PARIGI e altri)

 

GLOUCESTER: Monsignor vescovo, ponetegli la corona sul capo.

WINCHESTER: Dio salvi il re Enrico, sesto di questo nome.

GLOUCESTER: E ora, governatore di Parigi, fate giuramento che non eleggerete nessun altro re, che considererete amici solo coloro che sono suoi amici e vostri nemici soltanto quelli che ordiranno trame ostili alla sua autorità: e questo voi farete, così vi aiuti il giusto Iddio!

 

(Entra SIR GIOVANNI FASTOLFE)

 

FASTOLFE: Mio grazioso sovrano, cavalcavo da Calais per affrettarmi ad assistere all'incoronazione, quando mi fu consegnata per Vostra Maestà una lettera del duca di Borgogna.

TALBOT: Infamia a te e al duca di Borgogna! Avevo giurato, vile cavaliere, di strappare la Giarrettiera da codesta tua gamba di codardo la prima volta che ti avessi incontrato; (gliela strappa) e ora l'ho fatto, perché sei stato investito indegnamente di quell'alto onore. Perdonatemi, regale Enrico e voi tutti. Questo vile, alla battaglia di Patay, quando non avevo che seimila uomini e i Francesi erano dieci contro uno, prima ancora che ci scontrassimo o fosse scambiato un sol colpo, se ne fuggì via da bravo cavaliere; in questo combattimento perdemmo mille e duecento soldati; io stesso e diversi altri gentiluomini fummo sorpresi e fatti prigionieri. Giudicate allora, miei signori, se ho fatto male o se simili codardi sono degni di portare questa insegna cavalleresca.

GLOUCESTER: A dire la verità, questo atto sarebbe stato infamante e indecoroso per un plebeo qualunque; a più forte ragione per un cavaliere, capitano e condottiero.

TALBOT: Quando quest'ordine fu creato, miei signori, i cavalieri della Giarrettiera erano nobili di nascita, valenti e virtuosi, pieni di altero coraggio e venuti in onore per fatti di guerra tali che non temevano la morte, non indietreggiavano di fronte alle difficoltà, ma sempre eran risoluti nell'estremo del pericolo. Chi non ha tal corredo di virtù usurpa il sacro nome di cavaliere e profana questo onoratissimo ordine; e se fossi degno di giudicare vorrei che fosse degradato come uno zotico contadino che presumesse di vantare nobiltà di sangue.

ENRICO: Disonore dei tuoi compatrioti, hai sentito la tua condanna.

Vattene perciò, tu che fosti cavaliere: da qui innanzi sei bandito, pena la morte. (Esce Fastolfe) E ora, mio lord Protettore, leggete la lettera che ci ha mandato nostro zio, il duca di Borgogna.

GLOUCESTER: Che vuol dire Sua Grazia con questo cambiamento di stile?

non c'è che "Al re" senza tante cerimonie e preamboli! Ha dimenticato che egli è il suo sovrano? o questa villana forma di indirizzo è segno di mutamento nel suo buon volere? Ma che dice? (Legge) "Per gravi ragioni, mosso a compassione dalla rovina del mio paese e dai pietosi lamenti di quelli che la vostra oppressione divora, ho abbandonato codesta iniqua fazione e mi sono unito a Carlo, legittimo re di Francia". Tradimento mostruoso! E' mai possibile che nella parentela, nell'amicizia, nei giuramenti si trovi tale falsità d'inganni?

ENRICO: Che dite? il mio zio di Borgogna si ribella?

GLOUCESTER: Sì, mio signore, ed è diventato vostro nemico.

ENRICO: E questo è il peggio che la lettera contiene?

GLOUCESTER: E' il peggio, anzi è tutto qui.

ENRICO: Ebbene, allora ci penserà lord Talbot e gli darà il castigo che si merita per questa offesa. Che dite, mio signore, ne siete contento?

TALBOT: Contento, mio sovrano? Certamente: se non fossi stato prevenuto avrei io stesso sollecitato questo incarico.

ENRICO: Allora raccogliete le truppe e marciate senz'altro contro di lui: e capisca come mal sopportiamo il suo tradimento e che grave offesa sia farsi beffe dei suoi amici.

TALBOT: Vado, mio signore, augurandomi in cuor mio che arriviate a veder la confusione dei vostri nemici.

 

(Esce).

(Entrano VERNON e BASSET)

 

VERNON: Dammi licenza di combattere, mio buon sovrano.

BASSET: E a me pure, mio signore!

YORK: Questo è un mio servo: ascoltalo, nobile principe!

SOMERSET: Questo è mio: accontentalo, buon Enrico!

ENRICO: Pazientate, signori, e lasciateli parlare. Dite, signori, cos'è che vi fa gridare così? e perché chiedete licenza di combattere?

e con chi?

VERNON: Con lui, mio signore, perché mi ha fatto torto.

BASSET: E io con lui, perché mi ha fatto torto.

ENRICO: Qual è il torto di cui entrambi vi lagnate? ditemelo e vi risponderò.

BASSET: Passando il mare dall'Inghilterra in Francia questo individuo con mordaci parole d'odio m'ha rinfacciato la rosa che porto; mi ha detto che il colore sanguigno delle foglie simboleggiava il rossore delle guance del mio signore nel momento in cui, disputando col duca di York intorno a una questione legale, aveva impugnato la verità conosciuta, ed ha aggiunto altre parole basse e oltraggiose che non sto a ripetere. Ora, a ribattere queste villanie e a difendere la dignità del mio signore domando che mi si dia il beneficio della legge della cavalleria.

VERNON: E questa è pure la mia richiesta, nobile sovrano: poiché sebbene cerchi con ben congegnata invenzione di colorire abilmente le sue audaci mire, sappiate, mio signore, che sono stato provocato da lui; ed è stato lui a riprendere per primo il nostro emblema, dicendo che questo pallido fiore significava la viltà d'animo del mio padrone.

YORK: Non la finirete, Somerset, con questi rancori?

SOMERSET: Il vostro risentimento personale rispunta sempre, mio signore di York, per quanta arte usiate a nasconderlo.

ENRICO: Buon Dio! sono ben pazzi questi stolti, se da una causa così leggera e frivola fanno nascere tali faziose gelosie! Buoni cugini York e Somerset, chetatevi, vi prego, e fate pace.

YORK: Si decida prima questa contesa con le armi e poi Vostra Maestà ordinerà che si faccia pace.

SOMERSET: La contesa non riguarda che noi la si decida dunque fra noi soli.

YORK: Ecco il mio pegno; accettalo, Somerset.

VERNON: No: la cosa rimanga dove era incominciata.

BASSET: Dite di sì, venerato signore.

GLOUCESTER: "Dire di sì"! maledette le vostre contese! e possiate morire con le vostre chiacchiere audaci! Vassalli presuntuosi! Non vi vergognate di turbare e infastidire il re e noi con questi eccessi dl clamore indecoroso? E voi, signori, non dovreste tollerare le loro malvagie accuse, e tanto meno prender pretesto dalle loro parole per provocare lotte fra di voi: lasciatevi convincere a batter miglior strada.

EXETER: Ciò addolora molto Sua Maestà: miei buoni signori, rappacificatevi.

ENRICO: Venite qui, voi che vorreste duellare: per quanto vi è cara la mia grazia, vi ordino di dimenticare da qui innanzi questa contesa e la causa che l'ha provocata. E voi, signori, ricordatevi dove siamo:

in Francia, in un paese volubile ed incostante; se i Francesi leggono la discordia sui nostri volti e s'accorgono che vi sono contrasti fra noi, come saranno spinti dal malcontento a impuntarsi nella disubbidienza e a ribellarsi! Inoltre che infamia per l'Inghilterra quando principi stranieri sapranno che per un nonnulla, per una cosa di nessuna importanza, i pari di Enrico e il fiore della nobiltà hanno distrutto se stessi e perduto il regno di Francia! Oh! pensate alle conquiste di mio padre e ai miei teneri anni: non perdiamo per un'inezia quello che fu comprato a prezzo di sangue. Lasciatemi essere arbitro in questa lotta ancora indecisa. Se porto questa rosa (si mette indosso una rosa rossa) non vedo perché si debba sospettare che parteggio più per Somerset che per York: entrambi sono miei parenti e li amo entrambi. Con altrettanta ragione potrebbero rinfacciarmi di portare la corona, solo perché il re di Scozia è testa coronata. Ma il vostro senno può persuadervi meglio di quello che io non sappia istruirvi o insegnarvi e perciò, poiché siamo venuti in pace, qui continuiamo a vivere in pace e amore. Cugino di York, vi nominiamo nostro Reggente in queste parti di Francia, e voi, mio buon signore di Somerset, unite la vostra cavalleria coi suoi fanti e da sudditi fedeli e degni dei vostri padri andate lietamente insieme a sfogare la collera irosa sui nemici. Noi stessi, il lord Protettore e gli altri dopo un po' di respiro ritorneremo a Calais e di là in Inghilterra, dove spero che fra non molto mi consegnerete prigionieri in seguito alle vostre vittorie Carlo, Alençon, e il resto di quella banda di traditori.

 

(Squilli di tromba. Escono tutti eccetto York, Warwick, Exeter e Vernon)

 

WARWICK: Mio signore di York, il re ha fatto proprio davvero con molta grazia la sua parte di oratore.

YORK: Sì, certo; eppure non mi piace che porti l'emblema di Somerset.

WARWICK: Non è stata che una fantasia; non biasimatelo; credo che egli, caro principe, l'abbia fatto senza cattive intenzioni.

YORK: Se sapessi che le avesse avute... ma non parliamone più; ci sono ora altri affari da trattare.

 

(Escono tutti tranne Exeter)

 

EXETER: Ben facesti, Riccardo, a non alzar la voce poiché, se le tue passioni si fossero scatenate, temo che vi si sarebbero scorti più velenoso astio e più furibonda rissosità di quanto non si possa immaginare o supporre. Ma in ogni modo qualunque ingenuo che vedesse questa stridente discordia della nobiltà, questo spalleggiarsi l'un l'altro in corte, queste faziose rivalità dei loro favoriti, vi ravviserebbe un presagio di tristi eventi. E' grave quando lo scettro è in mano di un fanciullo; ma peggio quando l'invidia produce l'animosità: allora viene la rovina, allora comincia la confusione.

 

(Esce)

 

 

 

SCENA SECONDA - Davanti a Bordeaux

(Entra TALBOT con un Trombettiere e un tamburino)

 

TALBOT: Trombettiere, tu va' alle porte di Bordeaux e chiama il generale alle mura.

 

(Il Trombettiere suona. In alto entrano il Generale ed altri)

 

Capitani, l'inglese Giovanni Talbot, soldato di Enrico d'Inghilterra, vi chiama; e questo è il suo volere: aprite le porte della città, umiliatevi a noi, riconoscete per vostro il mio sovrano, rendetegli omaggio da sudditi obbedienti e mi ritirerò con l'esercito assetato di sangue; ma se fate cattivo viso a quest'offerta di pace, tentate la furia dei miei tre ministri: la fame sparuta, l'acciaio che squarta e il fuoco che sale dovunque: essi raderanno a terra in un istante le torri maestose che sfidano il cielo, se respingerete la nostra amorevole offerta.

GENERALE: Malauguroso e terribile uccellaccio di morte, terrore e sanguinoso flagello del nostro paese! La fine della tua tirannia si avvicina. Non potrai entrare in questa città che per la via della morte, poiché, te l'assicuro, siamo ben muniti e forti quanto basta per sortire a combattere: se cerchi di allontanarti, il Delfino armato poderosamente è pronto a impigliarti nelle reti della guerra: dall'una e dall'altra parte vi sono truppe schierate per toglierti ogni possibilità di fuga; e non puoi volgerti a cercare salvezza da alcuna parte senza che la morte ti stia a fronte con imminente rovina e la pallida distruzione non ti guardi in faccia. Diecimila Francesi hanno fatto giuramento sull'ostia sacra di non prendere di mira altr'anima cristiana che l'inglese Talbot con le loro terribili artiglierie. Tu ti ergi costì, vivo, nel tuo valore e spirito invitto ed invincibile:

questa è l'ultima lode che io tuo nemico tributo a te, perché, prima che la clessidra la quale ora comincia a scorrere abbia misurato il corso della sua sabbiosa ora, questi occhi che ti vedono ora coi colori della salute ti vedranno avvizzito, insanguinato, pallido e morto. (Tamburi lontani) Ascolta, ascolta! il tamburo del Delfino, quasi squilla ammonitrice, intona una musica grave alla tua anima che già comincia a temere, e i miei tamburi accompagneranno il tuo trapasso.

 

(Escono il Generale e i suoi Compagni)

 

TALBOT: Egli non conta favole; sento i nemici. Alcuni cavalleggeri escano a spiare le loro ali. O disciplina trascurata e negligente!

Come siamo chiusi e stretti in una cerchia, piccolo branco di pavidi daini inglesi, sbigottiti da una muta latrante di cani francesi! Se dobbiamo essere daini inglesi, siamolo non come quegli animali intristiti che cadono al primo morso, ma nella pienezza delle forze e come cervi irritati, infuriati e disperati che con corna di ferro si rivoltano contro i mastini e li fanno, codardi, latrar di lontano:

ciascuno venda cara la vita come farò della mia ed troveranno allora che non siam servi cervi, amici miei. Dio e San Giorgio, Talbot e il buon diritto dell'Inghilterra proteggano le nostre bandiere in questa perigliosa battaglia.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA TERZA - Pianura in Guascogna

(Entra YORK coi Soldati. Sopraggiunge un Messo)

 

YORK: Non sono ancora ritornate le celeri spie che seguivano il possente esercito del Delfino?

MESSO: Sono ritornate, mio signore, e informano che egli era in marcia verso Bordeaux con le sue forze per combattere Talbot; e mentre marciava i nostri informatori hanno scoperto due corpi più numerosi di quelli del Delfino che si sono uniti con lui, dirigendosi pure verso Bordeaux.

YORK: La peste colga quel furfante di Somerset che così ritarda i promessi rinforzi di cavalleria arruolati per questo assedio!

L'illustre Talbot aspetta il mio aiuto ed io burlato da quel birbante traditore non posso soccorrere il nobile cavaliere. Dio lo aiuti in questo frangente! se ha la peggio addio guerre di Francia!

 

(Entra SIR GUGLIELMO LUCY)

 

LUCY: Tu principe e condottiero del nostro esercito inglese mai così necessario in terra di Francia, affrettati a salvare il nobile Talbot che ora è cinto di ferro e accerchiato dalla fiera distruzione. A Bordeaux, bellicoso duca! a Bordeaux, York, altrimenti addio Talbot, addio Francia e addio onore dell'Inghilterra!

YORK: Mio Dio! Se Somerset, che per orgoglio trattiene le mie schiere di cavalleria, fosse al posto di Talbot! salveremmo un valoroso gentiluomo rimettendoci un codardo e un traditore. Un'ira pazza e una furiosa collera mi fanno piangere, quando penso che noi moriamo a questo modo mentre i traditori negligenti dormono.

LUCY: Oh ! mandategli qualche soccorso in tal frangente.

YORK: Io vengo meno ai miei impegni di soldato; egli muore, noi perdiamo; noi piangiamo e la Francia ride; noi siamo sconfitti ed essi ogni giorno vincono: e tutto per causa di questo vile traditore Somerset.

LUCY: Allora Dio abbia pietà dell'anima del prode Talbot e del suo giovane figlio Giovanni che due ora fa ho incontrato mentre si dirigeva a raggiungere il bellicoso padre. Da tanti anni Talbot non vede suo figlio, ed ora si rivedono quando la loro vita sta per finire.

YORK: Ahimè! con che gioia il nobile Talbot darà a suo figlio il benvenuto alla tomba! Via! quasi non respiro per la rabbia quando penso che parenti a lungo divisi abbiano ad incontrarsi nell'ora della morte. Lucy, addio: la mia fortuna non mi consente che di maledire la causa per la quale non mi è permesso di aiutare quest'uomo. Il Maine, Blois, Poitiers e Tours sono perduti e tutto per colpa di Somerset e dei suoi indugi.

 

(Esce coi suoi Soldati)

 

LUCY: Così mentre l'avvoltoio della discordia rode il cuore di grandi capitani, una torpida negligenza ci fa perdere a tradimento quanto conquistò colui che è ancor caldo nella fossa, quell'uomo che vivrà eternamente nella nostra memoria, Enrico Quinto: mentre sono intenti a contrariarsi a vicenda, vite, onori, terre e tutto precipita a rovina.

 

(Esce)

 

 

 

SCENA QUARTA - Altra pianura in Guascogna

(Entrano SOMERSET col suo Esercito e uno dei Capitani di Talbot)

 

SOMERSET: E' troppo tardi; non posso mandarli ora: questa spedizione fu progettata con troppa precipitazione da York e da Talbot: truppe in sortita dalla città potrebbero attaccare tutte le nostre forze:

Talbot, temerario, ha macchiato lo splendore della sua amica fama con questa avventura sconsiderata, disperata e pazza: York lo ha spinto a combattere e a morire con infamia, perché, morto Talbot, il gran York potesse aver la palma della gloria.

CAPITANO: Ecco qui Sir Guglielmo Lucy che è venuto con me a chiedere aiuto per le nostre truppe soverchiate da forze superiori.

 

(Entra SIR GUGLIELMO LUCY)

 

SOMERSET: Che c'è, Sir Guglielmo? di dove venite?

LUCY: Di dove, signore? Mi manda lord Talbot, il quale, tradito e circondato da audaci avversari, invoca il nobile York e Somerset perché allontanino la morte dalle sue truppe indebolite: e mentre quell'onorato capitano suda sangue dal corpo esausto, resistendo ancora solo in grazia della posizione e attende aiuto, voi, in cui riponeva false speranze, voi che dovreste essere i gelosi custodi dell'onore dell'Inghilterra, vi tenete in disparte per indegna rivalità. Non consentite che le vostre discordie personali lo privino dei rinforzi che dovrebbero soccorrerlo, mentre egli, nobile e famoso gentiluomo, sta per perdere la vita contro forze assai superiori: il Bastardo d'Orleans, Carlo, Borgogna, Alençon e Renato lo accerchiano e Talbot perisce perché voi lo abbandonate.

SOMERSET: York lo ho istigato e York avrebbe dovuto mandargli aiuto.

LUCY: E York accusa con altrettanta forza Vostra Grazia, giurando e spergiurando che voi trattenete le truppe arruolate per questa spedizione.

SOMERSET: York mente; bastava che avesse mandato a chiedere la cavalleria e l'avrebbe avuta; ma io non ho doveri verso di lui e ancor meno affetto e mi vergognerei di umiliarmi mandandogli aiuti di mio impulso.

LUCY: La frode dell'Inghilterra e non la forza della Francia ha fatto cadere in questo tranello il magnanimo Talbot. Non ritornerà vivo in Inghilterra ma morirà tradito dalla vostra rivalità.

SOMERSET: Suvvia, andate, manderò subito la cavalleria, e giungerà in suo aiuto entro sei ore.

LUCY: Troppo tardi viene questo soccorso: a quest'ora deve essere stato preso o ucciso, perché non poteva fuggire anche volendo, né potendolo, Talbot l'avrebbe certo voluto.

SOMERSET: Se il valoroso Talbot è morto, non c'è più nulla da fare!

LUCY: La sua fama sopravvive nel mondo, la vergogna della sua fine sopravvive in voi.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA QUINTA - Il campo inglese vicino Bordeaux

(Entrano TALBOT e suo figlio Giovanni)

 

TALBOT: O Giovanni, ti avevo chiamato per insegnarti le arti della guerra, affinché il nome di Talbot rivivesse in te quando la vecchiaia inaridita e la debolezza delle membra impotenti avessero inchiodato alla sedia tuo padre cadente. Ma, maligne stelle, presaghe di sventura! Sei venuto a una festa di morte, a un pericolo terribile e da cui non v'è scampo: perciò, caro ragazzo, monta sul mio cavallo più rapido e ti dirò dove salvarti con la fuga: suvvia, non indugiare, vattene.

GIOVANNI: Non mi chiamo Talbot? non sono vostro figlio? e debbo fuggire? Oh! se amate mia madre non disonoratene il nome, facendo di me un bastardo e uno sciagurato: tutti diranno che non era del sangue di Talbot colui che fuggì quando il nobile Talbot restava al suo posto.

TALBOT: Fuggi per vendicare la mia morte se sarò ucciso.

GIOVANNI: Chi fugge così vilmente non è uomo da ritornare.

TALBOT: Se restiamo entrambi, entrambi morremo.

GIOVANNI: E allora lasciate che resti io, e voi, padre, fuggite: la morte vostra sarebbe gran perdita: grande dovrebb'essere dunque la vostra cautela; invece nessuno sa quello che valgo e nessuno s'accorgerebbe della mia scomparsa. I Francesi possono menar poco vanto della mia morte, ma si glorieranno della vostra, e con voi svaniranno tutte le nostre speranze. La fuga non può macchiare l'onore che vi siete conquistato; ma io che non ho compiuto ancora alcuna impresa perderei la mia reputazione. Ognuno giurerà che siete fuggito a ragion veduta, ma se io piegassi, tutti direbbero che l'ho fatto per paura. Non c'è speranza che io possa mai tener fermo, se al primo pericolo mi arretro e fuggo. Qui in ginocchio chiedo di morire piuttosto che conservare la vita con infamia.

TALBOT: Tutte le speranze di tua madre andranno a finire in una sola fossa?

GIOVANNI: Sì, meglio questo che disonorarne le viscere.

TALBOT: Se ti è cara la mia benedizione, ti ingiungo di andare.

GIOVANNI: Sì, per combattere, ma non per fuggire davanti al nemico.

TALBOT: Parte di tuo padre può salvarsi in te.

GIOVANNI: Nessuna parte di lui che in me non sia vergogna.

TALBOT: Non ti sei ancora acquistata fama e quindi non puoi perderla GIOVANNI: Sì, il vostro nome famoso: debbo disonorarlo con la fuga?

TALBOT: Son io che te l'ordino: questo ti purgherà da tal macchia.

GIOVANNI: Se sarete ucciso non potrete testimoniare a mio favore.

Fuggiamo entrambi se la morte è così certa.

TALBOT: Lasciando i miei compagni qui a combattere e morire? sino a questa tarda vecchiaia non mi sono mai macchiato di una simile vergogna.

GIOVANNI: E dovrei nella mia giovinezza commettere tale infamia? Non posso dividermi dal vostro fianco più di quello che voi non possiate dividervi in due persone. Restate, andate, fate quello che volete; farò lo stesso, poiché non voglio vivere se mio padre morirà.

TALBOT: Allora qui mi congedo da te, mio bel figlio, nato per veder eclissare la tua vita oggi stesso. Suvvia, viviamo e moriamo l'uno a fianco dell'altro, e le nostre anime volino insieme dalla Francia al cielo.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SESTA - Il campo di battaglia

(Allarme. Scorrerie. Il Figlio di Talbot è accerchiato e TALBOT lo salva)

 

TALBOT: San Giorgio e vittoria! Combattete soldati, combattete! il Reggente non ha mantenuta la parola con Talbot e ci ha abbandonati alla furia delle armi francesi. Dov'è Giovanni? fermati e prendi fiato; ti diedi la vita e ora ti ho salvato dalla morte.

GIOVANNI: O padre mio due volte, due volte ti sono figlio! la vita che dapprima mi desti era perduta, finché con la spada vittoriosa a dispetto del destino hai dato nuovo inizio ai miei giorni conclusi.

TALBOT: Quando con la spada hai fatto sprizzare scintille dal cimiero del Delfino, l'altera speranza di una tua ardita vittoria ha riscaldato il mio cuore paterno. E allora la mia vecchiaia inerte, ravvivata di giovanile furore e rabbia bellicosa ha abbattuto Alençon, Orléans, Borgogna e ti ha salvato dal fior fiore delle truppe francesi. L'iroso Bastardo d'Orléans che aveva versato il tuo sangue, figlio mio, e si era avuta la primizia dei tuoi fatti d'arme, si è scontrato con me e tosto io ho fatto spicciar del suo sangue bastardo, dicendogli a sua vergogna: "Così verso il tuo sangue contaminato, malcreato e vile, il tuo sangue meschino e povero per il sangue mio puro che traesti dalle vene di Talbot, mio valoroso figlio". E a questo punto, mentre mi proponevo di uccidere il Bastardo, accorsero molti in suo aiuto. Di', amore di tuo padre, non sei stanco, Giovanni?

come ti senti? vuoi, ragazzo, lasciare la battaglia e fuggire ora che sei consacrato figlio della cavalleria? Fuggi per vendicarmi quando sarò morto: l'aiuto di uno solo poco conta. E' gran pazzia, capisco benissimo, arrischiare tutte le nostre vite in una piccola navicella.

Se non mi uccide oggi la furia dei Francesi, mi ucciderà domani la grande età: anche se rimango non guadagneranno nulla: non faranno altro che accorciarmi la vita di un giorno. In te, invece, muoiono tua madre, il nome della nostra casa, la vendetta della mia morte, la tua giovinezza e la fama dell'Inghilterra. Se resti, poniamo a repentaglio tutto questo e ben altro ancora; tutto questo si salverà se fuggirai.

GIOVANNI: La spada di Orléans non mi ha fatto soffrire; ma queste vostre parole mi fanno sanguinare il cuore. Cada morto il cavallo che dovrebbe portarmi prima che il giovane Talbot abbandoni il vecchio Talbot, approfittando di così turpe occasione per salvare una vita che non val nulla e spegnere una fama così luminosa! e possa io essere paragonato ai contadini di Francia e divenire oggetto di scherno e bersaglio alla fortuna! Certamente per tutta la gloria che vi siete acquistata, se fuggo non sono figlio di Talbot: dunque non parlate più di fuga, ché non serve a nulla; se sono figlio di Talbot, morrò ai piedi di Talbot.

TALBOT: E allora tu, novello Icaro, segui il tuo disperato genitore cretese. La tua vita mi è cara; ma, se vuoi combattere, combatti a fianco di tuo padre, e degni di encomio cadiamo insieme gloriosamente.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SETTIMA - Un'altra parte del campo

(Allarme. Scorrerie. Entra il vecchio TALBOT sorretto da un Servo)

 

TALBOT: Dov'è l'altra mia vita? questa mia è finita; oh! dov'è il giovane Talbot, il mio valoroso Giovanni? Morte trionfatrice imbrattata dalla prigionia, il valore del giovane Talbot fa sì ch'io sorrida di te. Allorché mi vide indietreggiare e cadere in ginocchio, brandì sopra di me la spada insanguinata e come leone affamato incominciò a compiere gesta impetuose di furore e di forza indomita; ma quando il mio difensore si trovò solo, assistendomi nella caduta e non più assalito da alcuno, una cieca furia e un rabbioso coraggio lo fecero balzar dal mio fianco nel folto della mischia e in quel mare di sangue il mio ragazzo abbeverò il suo magnanimo spirito, là è morto il mio Icaro, il mio fiore, in tutta la sua gloria.

SERVO: O mio caro signore, ecco che è portato vostro figlio!

 

(Entrano Soldati col corpo di GIOVANNI TALBOT)

 

TALBOT: Morte beffarda, che ti burli di noi, tra poco due Talbot uniti da eterni vincoli spiegando le ali nell'aere leggero, sfuggiranno alla mortalità. Oh tu, le cui ferite quasi fan bella la morte arcigna, parla a tuo padre prima di rendere l'ultimo respiro; sfida la morte e parla, anche se tenta di vietartelo; immagina che sia un Francese e tuo nemico. Povero ragazzo! sorride come se volesse dire: "Se la morte fosse stata francese, oggi sarebbe morta". Suvvia, ponetelo fra le braccia di suo padre: il mio spirito non può più sopportare questi mali. Soldati, addio! Ho quello che desideravo, ora che le mie vecchie braccia sono la tomba di Giovanni Talbot.

 

(Muore).

(Entrano CARLO, ALENÇON, BORGOGNA, il BASTARDO, la PULZELLA e Soldati)

 

CARLO: Se York e Somerset avessero condotto dei rinforzi, avremmo avuto una giornata sanguinosa.

BASTARDO: Come quel lupacchiotto del figlio di Talbot, pazzo furioso, tuffava il suo spadino novizio nel sangue dei Francesi!

PULZELLA: Ad un certo momento mi sono imbattuta in lui e così gli ho detto: "Tu, nel virgineo fiore della giovinezza, lasciati vincere da una vergine"; ma con orgoglioso disprezzo e altera maestà così mi ha risposto: "Il giovane Talbot non è nato per essere preda di una sgualdrina". Così, scagliandosi nelle viscere dei Francesi, mi ha lasciato orgogliosamente, come se fossi stata indegna di combattere con lui.

BORGOGNA: Senza dubbio sarebbe riuscito un ottimo cavaliere; vedetelo sepolto tra le braccia del sanguinario fomentatore delle sue sventure.

BASTARDO: Si facciano a pezzi; si rompan le ossa di costoro che in vita furono gloria d'Inghilterra e oggetto di stupore per la Francia.

CARLO: Oh no! desistete; non oltraggiamo, ora che sono morti, coloro davanti ai quali siamo fuggiti quand'erano vivi.

 

(Entra SIR GUGLIELMO LUCY col Seguito, preceduto da un Araldo francese)

 

LUCY: Araldo, conducimi alla tenda del Delfino perché possa sapere chi ha ottenuto la vittoria m questo giorno CARLO: Che ambasciata di sottomissione mi porti?

LUCY: Sottomissione, Delfino? E' una parola francese; noi soldati inglesi non sappiamo che significhi. Sono venuto per sapere che prigionieri hai presi e per vedere i corpi degli uccisi.

CARLO: Tu chiedi dei prigionieri? l'inferno è la nostra prigione! ma dimmi chi cerchi.

LUCY: Dov'è quel grande Alcide della guerra, il valoroso lord Talbot, conte di Shrewsbury, creato per le sue segnalate vittorie grande conte di Washford, Waterford e Valence, lord Talbot di Goodrig e Urchinfield, lord Strange di Blackmere, lord Verdun di Alton, lord Cromwell di Wingfield, lord Furnival di Shemeld, il tre volte vittorioso lord di Falconbridge, cavaliere del nobile ordine di San Giorgio, di San Michele e del Toson d'Oro, Gran Maresciallo di Enrico Sesto in tutte le sue guerre nel regno di Francia?

PULZELLA: Che sciocco stile pomposo! il Sultano che ha cinquantadue regni non sciorina tale prolissità di nomi. Colui che tu adorni di tutti questi titoli giace ai nostri piedi cadavere fetente e coperto di cacchioni.

LUCY: Ucciso Talbot? il solo flagello dei Francesi, terrore e nera nemesi del vostro regno? Oh, potessero i miei occhi divenire proiettili per scagliarveli rabbiosamente in faccia! Oh, se potessi richiamare in vita quei morti! basterebbe ciò a spaventare l'intiero regno di Francia. Se il suo solo ritratto restasse qui tra voi sgomenterebbe anche il più ardito dei Francesi. Consegnatemi i cadaveri perché possa portarli via e seppellirli onorevolmente come la loro dignità richiede.

PULZELLA: Credo che questo insolente sia lo spettro del vecchio Talbot, tanto imperioso e altero è il tono delle sue parole. Per amor di Dio, se li porti via; a tenerli qui c'è da appestare l'aria col lezzo.

CARLO: Andate pure e portate via i cadaveri.

LUCY: Li porterò via di qui; ma dalle loro ceneri nascerà una fenice che atterrirà tutta la Francia.

CARLO: Purché ce ne liberiamo, fa' di lui quello che vuoi. E ora che siamo in vena di conquista, a Parigi! tutto cadrà nelle nostre mani ora che il sanguinario Talbot è morto.

 

(Escono)

 

 

 

ATTO QUINTO

 

SCENA PRIMA - Londra. Il Palazzo

(Fanfara. Entrano RE ENRICO, GLOUCESTER e EXETER)

 

ENRICO: Avete lette le lettere del papa, dell'imperatore e del conte di Armagnac?

GLOUCESTER: Sì, mio sovrano; e il succo è questo: essi umilmente chiedono a Vostra Maestà che si conchiuda la pace fra i regni d'Inghilterra e di Francia.

ENRICO: Che pensa Vostra Signoria di questa proposta?

GLOUCESTER: Buona, mio buon signore; è il solo mezzo per arrestare tanta effusione di sangue cristiano e per stabilire la quiete dovunque.

ENRICO: Sì, zio; perché mi è sempre sembrata cosa empia e snaturata che tanta ferocia e sanguinosa rivalità regnassero fra genti che professano una stessa fede.

GLOUCESTER: Inoltre, sire, per creare più presto e per stringere più saldamente questo vincolo di amicizia, il conte di Armagnac, prossimo parente di Carlo e uomo di grande autorità in Francia, offre la sua unica figlia in matrimonio a Vostra Maestà con una grande e sontuosa dote.

ENRICO: In matrimonio, zio! sono ancora troppo giovane e più mi si addicono lo studio e i libri che lo spassarmi con una amante.

Tuttavia, chiamate gli ambasciatori e rispondete a ciascuno di loro come vi piacerà: sarò lieto di qualsiasi decisione che tenda alla gloria di Dio e al bene del mio paese.

 

(Entrano WINCHESTER in abito di Cardinale, un Legato e due Ambasciatori)

 

EXETER: Come! Lord Winchester già innalzato alla porpora? allora comincio a credere che si verificherà la profezia fatta altra volta da Enrico Quinto: "Se sarà creato cardinale, farà il suo berretto uguale alla corona".

ENRICO: Signori ambasciatori, le vostre diverse richieste sono state considerate e discusse. Le proposte sono buone e ragionevoli e perciò siamo decisi a redigere le condizioni di una pace amichevole e lord Winchester le recherà presto in Francia.

GLOUCESTER: E quanto all'offerta del vostro sovrano, ne ho informato Sua Maestà così minutamente che apprezzando le virtù, la bellezza e la larga dote della principessa, desidera che divenga regina d'Inghilterra.

ENRICO: A conferma e prova di questo accordo portatele questa gemma, pegno del mio affetto. E così, lord Protettore, fateli scortare sani e salvi a Dover, e là, quando siano imbarcati, affidateli alla fortuna del mare.

 

(Escono tutti tranne Winchester e il Legato)

 

WINCHESTER: Fermatevi, mio signor Legato: debbo anzitutto darvi la somma di denaro che ho promesso a Sua Santità perché rivestisse di questi paludamenti.

LEGATO: A comodo vostro, mio signore.

WINCHESTER (a parte): Adesso Winchester non si sottometterà né starà al di sotto del più superbo dei pari. Humphrey di Gloucester, t'accorgerai che né per nascita né per autorità il vescovo si lascerà superare da te: o ti farò inchinare e piegare il ginocchio o sconvolgerò tutto il paese colla ribellione.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SECONDA - Francia. Pianura dell'Angiò

(Entrano CARLO, BORGOGNA, ALENÇON, il BASTARDO, RENATO, la PULZELLA e Soldati)

 

CARLO: Queste notizie, miei signori, possono rallegrare i nostri spiriti abbattuti: si dice che i risoluti parigini stiano ribellandosi e ripassando dalla parte dei marziali Francesi.

ALENÇON: Allora marciate verso Parigi, Carlo di Francia, e non trattenete in vano ozio le vostre forze.

PULZELLA: La pace sia tra loro se ritornano a noi; altrimenti la rovina distrugga loro case.

 

(Entra un Informatore)

 

INFORMATORE: Fortuna al nostro grande generale e felicità ai suoi compagni!

CARLO: Che notizie ci mandano i nostri informatori ? parla, ti prego.

INFORMATORI: L'esercito inglese che era diviso in due parti, si è ora ricongiunto e intende di darvi tosto battaglia.

CARLO: Questo avvertimento ci coglie alquanto di sorpresa, signori, ma prendere subito le misure necessarie.

BORGOGNA: Spero che l'ombra di Talbot non sia con loro: ora che se ne è andato, signore, non avete a temere.

PULZELLA: Di tutte le vili passioni la paura è la più spregevole.

Ordina la vittoria, Carlo, e sarà tua; s'angusti Enrico e tutto il mondo soffra.

CARLO: Avanti allora, miei signori, e la fortuna arrida alla Francia!

 

(Escono)

 

 

 

SCENA TERZA - Davanti ad Angers

(Allarmi e scorrerie. Entra la PULZELLA)

 

PULZELLA: Il Reggente vince e i Francesi fuggono. Aiutatemi voi, incantamenti e amuleti, e voi spiriti eletti che mi ammonite e mi date presagi del futuro, (tuono) voi pronti soccorritori e vicari del monarca sovrano del settentrione, apparite e aiutatemi in quest'impresa!

 

(Entrano alcuni Demoni)

 

Questa pronta e sollecita comparsa è prova della vostra usata diligenza verso di me. Ora, miei genii, evocati dalle tremende regioni sotterranee, aiutatemi questa volta ancora, perché la Francia possa ottenere la vittoria. (Camminano intorno senza parlare) Oh! non tenetemi così sospesa in silenzio. Già usata a nutrirvi col mio sangue, mi reciderò qualche membro e ve lo darò come arra di maggior mercede, se accondiscendete ad aiutarmi ora. (Chinano la testa) Non c'è speranza che mi diate soccorso? Vi pagherò col mio corpo, se accogliete la mia supplica. (Scuotono la testa) Né il mio corpo né il sacrificio del mio sangue possono indurvi a darmi l'appoggio usato?

Prendetevi allora la mia anima; corpo, anima e tutto prima che l'Inghilterra infligga uno scacco alla Francia. (I Demoni scompaiono) Ahimè! mi abbandonano. E' venuta l'ora in cui la Francia deve chinare il superbo piumato cimiero e abbandonare il capo in grembo all'Inghilterra. I miei antichi incantesimi sono troppo fiacchi e l'inferno è troppo forte perché io possa lottare con esso: ora, o Francia, la tua gloria cade nella polvere.

 

(Esce).

(Scorrerie. Rientra la PULZELLA combattendo a corpo a corpo con YORK ed è fatta prigioniera. I Francesi fuggono)

 

YORK: Donzella di Francia, ora vi tengo: ora scatenate i vostri spiriti con gli incanti e guardate se possono ridarvi la libertà. Una bella preda da ingraziarsene il diavolo! Vedete come questa brutta strega aggrotta la fronte quasi che come Circe volesse cambiare la mia figura.

PULZELLA: Non ti si potrebbe cambiare in figura peggiore.

YORK: Oh! il Delfino Carlo è un bell'uomo e soltanto la sua figura può piacere al tuo occhio schizzinoso.

PULZELLA: La peste colga Carlo e te, e possiate entrambi essere ammazzati da mani sanguinarie mentre dormite nei vostri letti!

YORK: Zitta, feroce strega maledicente!

PULZELLA: Lascia, di grazia, che io mi sfoghi a maledire.

YORK: Maledirai, dannata, quando andrai al rogo.

 

(Escono)

(Allarmi. Entra SUFFOLK conducendo LADY MARGHERITA)

 

SUFFOLK: Chiunque tu sia, sei mia prigioniera. (La contempla) Oh! vaga bellezza, non temere né fuggire perché ti toccherò con mani reverenti.

Ti bacio la mano in segno di eterna pace e la lascio dolcemente ricadere al tuo tenero fianco. Chi sei tu? Dimmelo perché io possa renderti gli onori che ti sono dovuti.

MARGHERITA: Sappi, chiunque tu sia, che io sono Margherita e figlia di un re, del re di Napoli.

SUFFOLK: Io sono conte e Suffolk è il mio nome. Non avermi a sdegno, miracolo della natura; era destino che tu fossi fatta prigioniera da me: così il cigno salva i suoi piccoli appena coperti di peluria imprigionandoli sotto l'ala. Tuttavia, se tal condizione servile ti offende, va' e sii libera ancora, quale amica di Suffolk. (Ella si avvia) Oh! rimani. Non ho la forza di lasciarla partire, la mano vorrebbe liberarla, ma il cuore lo vieta. Come il sole scherza sull'acqua cristallina facendo scintillare da essa un riflesso dei suoi raggi, così appare ai miei occhi questa bellezza abbagliante.

Vorrei parlarle d'amore, ma non oso: lascerò che la penna esprima i miei sentimenti. Vergogna, De la Pole! Non farti da meno di quel che sei; ti manca la parola, e non è ella qui? ti lascerai intimidire dalla vista di una donna? sì, la regale maestà della bellezza è tale da confondere la parola e da ottundere i sensi.

MARGHERITA: Dimmi, conte di Suffolk, se tale è il tuo nome, che riscatto debbo pagare per essere libera, poiché vedo di essere tua prigioniera?

SUFFOLK (a parte): Come puoi dire che ella respingerà le tue suppliche, se non hai ancora messo alla prova i suoi sentimenti?

MARGHERITA: Perché non parli? che riscatto debbo pagare?

SUFFOLK (a parte): E' bella ed è fatta per essere amata; è donna ed è fatta per essere conquistata.

MARGHERITA: Vuoi accettare il riscatto sì o no?

SUFFOLK (a parte): Sciocco, ricorda che hai moglie; come potrebbe Margherita diventare tua amante?

MARGHERITA (a parte): Meglio lasciarlo perché non mi vuole ascoltare.

SUFFOLK (a parte): Ecco quel che guasta tutto e raffredda il mio ardore.

MARGHERITA: Parla senza sapere quello che si dice; certamente è pazzo.

SUFFOLK (a parte): Eppure si potrebbe ottenere lo scioglimento del matrimonio.

MARGHERITA: Eppure vorrei che mi rispondeste.

SUFFOLK (a parte): Conquisterò questa madonna Margherita; ma per chi? per il re? egli è insensibile come un pezzo di legno.

MARGHERITA: Parla di legno: dev'essere un falegname.

SUFFOLK (a parte): Ma così può contentarsi il mio desiderio e può ristabilirsi la pace tra questi due regni. Ma v'è ancora una difficoltà poiché sebbene suo padre sia re di Napoli, duca dell'Angiò e del Maine, è povero! e la nostra nobiltà disprezzerà questa unione.

MARGHERITA: Sentite, capitano? vi disturbo forse?

SUFFOLK (a parte): E così si farà, per quanto possano sdegnarsene:

Enrico è giovane e presto cederà. Madama, ho un segreto da rivelarvi.

MARGHERITA (a parte): E che importa se sono prigioniera? sembra un cavaliere e non mi mancherà in alcun modo di rispetto.

SUFFOLK: Signora, vogliate ascoltare quello che vi dirò.

MARGHERITA (a parte): Forse sarò liberata dai Francesi; e non avrò bisogno della sua cavalleria.

SUFFOLK: Bella signora, prestatemi la vostra attenzione in una causa.

MARGHERITA: Evvia! non è la prima volta che una donna è fatta prigioniera.

SUFFOLK: Signora, perché parlate così?

MARGHERITA: Vi chiedo scusa, è stato un equivoco.

SUFFOLK: Dite, gentile principessa, non riterreste la vostra prigionia una circostanza felice, se doveste uscirne regina?

MARGHERITA: Essere regina in prigionia è condizione più vile che l'ultimo grado della schiavitù, perché i principi dovrebbero essere liberi.

SUFFOLK: E lo sarete, se il reale monarca della felice Inghilterra è libero.

MARGHERITA: Come! che m'interessa la sua libertà?

SUFFOLK: M'impegno a farti sposa d'Enrico, a darti in mano un aureo scettro, a porre sul tuo capo una preziosa corona, se tu acconsenti ad essere la mia...

MARGHERITA: Che mai ?

SUFFOLK: L'oggetto del suo amore.

MARGHERITA: Sono indegna di diventare la sposa di Enrico.

SUFFOLK: No, nobile signora, sono io indegno di corteggiare per lui una dama sì leggiadra ed io stesso non aver parte alcuna nella scelta.

Che ne dite, signora, acconsentite?

MARGHERITA: Sì, se mio padre acconsente.

SUFFOLK: Allora facciamo uscire i nostri capitani e le nostre bandiere e sotto le mura del castello di vostro padre chiederemo di parlamentare con lui.

 

(Squilla a parlamento. Entra sulle mura RENATO)

 

Vedi, Renato? vedi tua figlia prigioniera?

RENATO: Di chi?

SUFFOLK: Mia.

RENATO: Suffolk, non c'è rimedio; sono soldato: non so piangere né prendermela con la volubilità della fortuna.

SUFFOLK: Sì, c'è rimedio quanto basta, signor mio: consenti a onor tuo che tua figlia vada sposa al mio re; io l'ho corteggiata e persuasa non senza fatica, e ora questa lene prigionia ha procurato a tua figlia una principesca libertà.

RENATO: E' proprio così come dici, Suffolk?

SUFFOLK: La bella Margherita sa che Suffolk non lusinga né inganna né finge.

RENATO: Assicurato dalla tua parola di principe, discendo per rispondere alla tua giusta richiesta.

 

(Esce dalle mura)

 

SUFFOLK: E qui attenderò la tua venuta.

 

(Squillano trombe. Entra RENATO)

 

RENATO: Benvenuto, valoroso conte, nei miei territori: comandate nella terra d'Angiò come a Vostro Onore piace.

SUFFOLK: Grazie, Renato, a cui la sorte ha dato una soave figlia degna di divenire la sposa di un re. Che risposta dà vostra signoria alla mia richiesta?

RENATO: Giacché ti degni di indurre persona di così scarsi meriti a divenire principesca sposa di tal signore e sovrana, mia figlia sarà di Enrico, se questi vuole, a condizione che io possa godere il mio, cioè i distretti del Maine e dell'Angiò, in libertà e al sicuro da ogni guerra.

SUFFOLK: Eccola riscattata; te la consegno e m'impegno a far sì che Vostra Signoria possa godere in pace quelle due contee.

RENATO: E io in pegno di fede, nel nome reale di Enrico, do la sua mano a te, vicario di quel nobile sovrano.

SUFFOLK: Renato di Francia, ti rendo grazie regali, poiché tale atto si compie nell'interesse di un re. (A parte) Eppure sarei ben contento di essere il procuratore di me stesso nella presente circostanza.

Andrò dunque in Inghilterra con queste notizie e farò celebrare le nozze con la dovuta solennità. Così addio, Renato; custodisci questa gemma in un aureo palazzo come si conviene.

RENATO: Ti abbraccio, come abbraccerei quel principe cristiano, il re Enrico, se fosse qui.

MARGHERITA: Addio, signore: Suffolk si avrà sempre i buoni auguri, le lodi e le preghiere dl Margherita.

 

(Andandosene)

 

SUFFOLK: Addio, dolce signora; ma ascoltate, Margherita: non avete nessun principesco messaggio per il mio re?

MARGHERITA: Portategli quel saluto che si addice a una fanciulla e vergine e sua ancella.

SUFFOLK: Parole dolcemente espresse e con femminile modestia. Ma, madama, debbo disturbarvi ancora: nessun pegno d'amore per Sua Maestà?

MARGHERITA: Sì, mio buon signore; mando al re un cuore puro e immacolato, non ancora toccato dall'amore.

SUFFOLK: E questo ancora.

 

(La bacia)

 

MARGHERITA: Questo è per te: non sarò così presuntuosa da mandare pegni tanto futili a un re.

 

(Escono Renato e Margherita)

 

SUFFOLK: Oh, fossi tu per me! Ma, Suffolk, fermati; non puoi vagare in questo labirinto, dove si nascondono Minotauri e orribili tradimenti.

Riscalda Enrico con le meravigliose lodi che si possono fare di lei:

ricordati delle sue straordinarie virtù e delle grazie naturali che superano ogni arte, e sul mare raffigurati spesso la sua immagine, cosicché quando ti inginocchierai ai piedi di Enrico, potrai trarlo fuor di sé per la meraviglia.

 

(Esce)

 

 

 

SCENA QUARTA - Campo del Duca di York nell'Angiò

(Entrano YORK, WARWICK e altri)

 

YORK: Portate fuori quella strega condannata a essere arsa viva.

 

(Entrano la PULZELLA accompagnata dalle Guardie e un PASTORE)

 

PASTORE: Ah, Giovanna, basta questo ad uccidere il cuore di tuo padre!

ho cercato in ogni terra vicina e lontana, e ora che finalmente ti trovo mi tocca assistere alla tua morte crudele e immatura! Ah, Giovanna, cara figlia Giovanna, morirò con te!

PULZELLA: Vecchio avaro, vile e ignobile! miserabile! discendo da sangue ben più nobile: tu non sei mio padre e neanche mio parente.

PASTORE: Ohibò! miei signori, di grazia, non è così, tutta la parrocchia sa che sono suo padre: sua madre vive ancora e può attestare che ella è stata il primo frutto del mio celibato.

WARWICK: Disgraziata! vuoi rinnegare la tua famiglia?

YORK: Da questo si vede qual è stata la sua vita malvagia e bassa, e la sua morte ne è degna conclusione.

PASTORE: Vergognati, Giovanna, di essere così ostinata. Dio sa che sei una costola della mia carne e che per causa tua ho sparso molte lacrime: non rinnegarmi, buona Giovanna.

PULZELLA: Via di qua, contadino! Avete comprato quest'uomo a bella posta per gettare una macchia sulla mia nobile nascita.

PASTORE: E' vero che ho dato un "nobile" al prete la mattina che sposai tua madre. Inginocchiati e lasciati benedire, mia buona ragazza. Non ti vuoi piegare? Sia maledetto il giorno che nascesti!

Vorrei che il latte che tua madre ti diede quando suggevi il suo seno fosse stato per te arsenico! oppure che, quando facevi pascolare gli agnelli nei prati, qualche lupo affamato ti avesse divorata! Rinneghi tuo padre, maledetta sgualdrina? Bruciatela, bruciatela! la forca sarebbe troppo poco per lei.

 

(Esce)

 

YORK: Conducetela via: è vissuta anche troppo per riempire il mondo coi suoi vizi.

PULZELLA: Lasciate prima che vi dica chi avete condannato: non nata da un umile pastore, ma da progenie di re: virtuosa e santa, scelta dall'alto a compiere segnalati miracoli sulla terra per ispirazione della grazia del cielo. Non ho mai avuto alcun commercio con spiriti maligni: ma voi che siete insozzati dalla vostra lussuria, macchiati del sangue degli innocenti, corrotti e deturpati da mille vizi, non avendo la grazia che gli altri hanno, giudicate senz'altro impossibile compiere prodigi senza l'aiuto di demoni. No, illusi! Giovanna d'Arco è stata sempre sin dalla più tenera infanzia una vergine casta e immacolata persino nei pensieri, e il suo sangue di vergine che vi accingete a versare con tanta severità griderà vendetta alle porte del cielo.

YORK: Sì, sì: sia condotta a morte!

WARWICK: E voi, sentite, messeri: giacché è una vergine, non risparmiatele fascine; ce ne sia quanto basta, e mettete al palo dei barili di pece, perché si abbrevi la sua tortura.

PULZELLA: Non c'è nulla che possa commuovere i cuori vostri induriti?

Allora, Giovanna, rivela la tua debolezza, che per forza di legge diventa tuo privilegio. Sono incinta, voi omicidi sanguinari: non uccidete dunque il frutto che è dentro le mie viscere, sebbene mi trasciniate a morte violenta.

YORK: Dio non voglia! la santa vergine incinta!

WARWICK: Questo è il tuo più gran miracolo! e tutta la mia severa rigidità è giunta a questo punto?

YORK: Ella e il Delfino hanno fatto il giochetto: mi immaginavo già che scampo avrebbe cercato.

WARWICK: Suvvia; non vogliamo bastardi, specialmente se Carlo deve esserne il padre. PULZELLA: Vi ingannate: il bambino non è suo: è Alençon che ha goduto il mio amore.

YORK: Alençon! quel famigerato Machiavelli! il bambino morrà anche se avesse mille vite.

PULZELLA: Oh! scusatemi, vi ho ingannato: non fu né Carlo né il duca di cui vi ho fatto il nome, ma Renato re di Napoli che mi indusse a peccare.

WARWICK: Un uomo ammogliato! ciò è intollerabile!

YORK: Come! che brava ragazza! non credo che neanche lei lo sappia, tanti sono quelli che può accusare.

WARWICK: E' segno che è stata generosa e prodiga di sé.

YORK: Eppure vuol essere davvero pura vergine! Sgualdrina, le tue parole condannano il tuo marmocchio e te stessa: basta con le suppliche, che non servono a nulla.

PULZELLA: Allora conducetemi via di qua, e a voi lascio la mia maledizione. Possa il sole glorioso non risplendere mai sul paese dove dimorate, ma le tenebre e la tetra ombra della morte vi circondino finché la colpa e la disperazione vi spingano a rompervi il collo e a impiccarvi da voi stessi.

 

(Esce con le Guardie)

 

YORK: E tu possa romperti in pezzi e consumarti in cenere, turpe e maledetta ministra dell'inferno!

 

(Entra il Cardinale BEAUFORT, Vescovo di Winchester, col Seguito)

 

CARDINALE: Lord Reggente, saluto Vostra Eccellenza e vi porgo lettere che recano ordini del re. Poiché dovete sapere, miei signori, che gli Stati della Cristianità, addolorati da queste lotte che passano ogni limite, sollecitano insistentemente una pace generale fra la nostra nazione e gli ambiziosi Francesi; ed ecco il Delfino col suo seguito s'avvicina per conferire con voi.

YORK: E tutto il nostro travaglio deve finire così? dopo il massacro di tanti pari, di tanti capitani e gentiluomini e soldati che in questa contesa sono stati uccisi e hanno dato la vita per il bene della patria, dovremo alla fine concludere una pace imbelle? Non abbiamo perduto per tradimento, falsità e insidie la maggior parte delle città che i nostri grandi predecessori avevano conquistato? O Warwick, o Warwick! prevedo con dolore la perdita totale di tutto il regno di Francia.

CARDINALE: Calmatevi, York; se concludiamo la pace, sarà a condizioni così rigide e dure che i Francesi avranno a guadagnare ben poco.

 

(Entrano CARLO, ALENÇON, il BASTARDO, RENATO e altri)

 

CARLO: Signori d'Inghilterra, giacché è convenuto che si proclami la tregua di pace in Francia, siamo qui venuti per sapere da voi quali sono le condizioni del trattato.

YORK: Parlate, Winchester, poiché alla vista di questi nostri perniciosi nemici la collera che ribolle in me mi strozza in gola la voce invelenita.

CARDINALE: Carlo e voi tutti, così si è deciso: in considerazione del fatto che per mera compassione e clemenza re Enrico consente a sollevare il vostro paese dalla rovina della guerra e a lasciarvi respirare in fruttuosa pace, diventerete vassalli della sua corona.

Tu, Carlo, diventerai viceré sotto di lui e godrai ancora il titolo regio, purché giuri di pagargli tributo e di fare atto di sottomissione ALENÇON: E allora deve divenire l'ombra di se stesso, ornarsi le tempie con una corona e tuttavia, per quanto riguarda l'essenza dell'autorità, conservare solo i diritti di un privato cittadino?

Questa offerta è assurda e irragionevole.

CARLO: Tutti sanno che posseggo più della metà dei territori di Francia e vi sono ossequiato come legittimo re: e io, per amore di quanto non è stato ancora conquistato, dovrei sacrificare tanto della mia prerogativa da essere chiamato solamente viceré dell'intero reame?

No, monsignor ambasciatore; mi contenterò di quanto posseggo e non comprometterò per troppa avidità la possibilità di conquistare tutta la Francia.

YORK: Oltraggioso Carlo! hai ottenuto di trattare sollecitando chi sa con che segreti mezzi l'intercessione altrui e ora che ci si avvia a un accordo, ti fai in disparte con queste considerazioni! O accetti il titolo a cui non hai diritto e che ti viene concesso per grazia esclusiva del re e non per merito tuo, o ti tormenteremo con guerre continue.

RENATO (a Carlo): Mio signore, non è bene che vi ostiniate a cavillare mentre si negozia questo trattato: se trascuriamo questa occasione, dieci contr'uno non la ritroveremo più.

ALENÇON (a Carlo): A dire la verità è vostro interesse risparmiare ai sudditi i massacri e le spietate carneficine che si vedono ogni giorno, finché le ostilità continuano; accettate dunque questa convenzione di tregua e la romperete quando vi farà comodo.

CARDINALE: Che dici, Carlo? accetti le nostre condizioni?

CARLO: Le accetto con la sola riserva che non avanziate pretese su alcuna delle nostre città presidiate.

YORK: Allora sulla tua parola di cavaliere, per te e per i tuoi nobili, giura fedeltà al nostro re e prometti che non disobbedirai né ti ribellerai alla corona d'Inghilterra. E ora congedate l'esercito quando volete, appendete le vostre insegne, fate tacere i tamburi, perché qui ci impegniamo solennemente alla pace.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA QUINTA - Londra. Il Palazzo Reale

(Entrano SUFFOLK in colloquio con RE ENRICO, GLOUCESTER e EXETER)

 

ENRICO: Nobile conte, la vostra meravigliosa descrizione della bella Margherita mi riempie di stupore: le sue virtù, adorne del dono della bellezza, mi suscitano in cuore una profonda passione, e come la forza delle raffiche tempestose spinge una grande nave contro corrente, così dal vento della sua fama sono spinto a naufragare o a giungere dove possa godere il suo amore.

SUFFOLK: Zitto, mio buon signore! queste mie parole superficiali non sono che un preambolo di ciò che in lei merita lode. Le perfezioni sovrane di quella amabile dama, se sapessi descriverle adeguatamente, formerebbero un volume di linee così incantevoli che l'intelletto più ottuso ne resterebbe rapito. E quel che più conta, sebbene sia così divina e piena di ogni più raffinata attrattiva, con altrettanta umiltà di cuore si dichiara pronta ai vostri comandi, comandi voglio dire, di amare e onorare virtuosamente e castamente Enrico come suo signore.

ENRICO: E altro non domanderà mai Enrico. Perciò, lord Protettore, consentite che Margherita diventi regina d'Inghilterra.

GLOUCESTER: Consentirei così a favorire il peccato. Vostra Maestà, come sapete, ha chiesto la mano di un'altra dama onorata; come verremo meno a questo impegno senza attirare sul vostro onore la vergogna di un rimprovero?

SUFFOLK: Allo stesso modo che un sovrano può dispensarsi dall'osservare giuramenti che sono contrari alla legge, o allo stesso modo che uno, il quale ha deciso di dar prova della sua valentia in un torneo, abbandona la lizza perché l'avversario è troppo debole: la figlia di un povero conte è un meschino partito e perciò le si può mancar di parola senza ignominia.

GLOUCESTER: Ebbene, di grazia, in che cosa è Margherita da più di lei?

suo padre non val più di un conte, sebbene si orni di titoli eccelsi.

SUFFOLK: Sì, mio signore, suo padre è re: re di Napoli e di Gerusalemme, e di tanto grande autorità in Francia che, imparentandoci con lui, rafforzeremo la pace e manterremo fedeli i Francesi.

GLOUCESTER: E altrettanto può fare il conte di Armagnac, che è stretto parente di Carlo.

EXETER: Inoltre la sua ricchezza ci garantisce una dote generosa, mentre Renato è più disposto a ricevere che a dare.

SUFFOLK: Una dote, miei signori! Non fate al vostro re il disonore di ritenerlo tanto abbietto e vile e povero da scegliersi una sposa per denaro e non per puro amore. Enrico può arricchire una regina anziché cercarsi una regina che lo arricchisca: così i contadini dappoco contrattano le mogli come la gente di mercato fa coi buoi, con le pecore e coi cavalli. Il matrimonio è un atto di tanta importanza che non lo si può concludere per mezzo di mediatori: non colei che noi desideriamo, ma colei che Sua Maestà ama deve essere compagna del suo letto nuziale; e perciò, signori, il fatto che egli l'ama più di ogni altra, è la ragione più convincente per cui ella a parer nostro deve essere preferita. Poiché che è un matrimonio forzato se non un inferno, una lunga discordia e una continua lotta? mentre invece il suo contrario porta felicità ed è un esempio di pace celestiale. Chi dovremmo cercar di unire con Enrico che è un re, se non Margherita che è figlia di re? La sua bellezza impareggiabile unita alla nobiltà della nascita la dichiarano degna soltanto di un sovrano. Il suo preclaro coraggio ed il suo indomito spirito, più di quanto non si riscontri comunemente nelle donne, ci danno garanzia che il re avrà un degno erede, poiché Enrico, figlio di un conquistatore, probabilmente genererà altri conquistatori, se l'amore lo stringe a una donna di così alta risolutezza qual è la bella Margherita. Cedete dunque, miei signori; e riconoscete con me che Margherita deve essere regina e nessun'altra che lei.

ENRICO: Non so se sia per la forza delle vostre parole, mio nobile signore di Suffolk, o perché la mia tenera giovinezza non è stata ancora toccata da alcuna passione di ardente amore, ma di questo son certo: che sento un tal acuto contrasto nel mio cuore, così fieri richiami di speranza e di timore che le forze mi vengono meno per il turbinio dei pensieri. Imbarcatevi, perciò, e correte in Francia, mio signore; accettate qualsiasi condizione e persuadete Margherita a passare il mare e a venire in Inghilterra per esservi incoronata regina e consacrata quale fedele sposa di re Enrico. Per le spese ed assegni esigerete una decima tra il popolo. Andatevene, dico: poiché sino a che non ritornerete sarò turbato da mille ansie. E voi, buono zio, lasciate ogni malcontento: se mi giudicate da quello che eravate ma non da quel che siete, mi scuserete se sono così precipitoso nel fare eseguire il mio volere. Ma conducetemi lontano da ogni compagnia dove possa meditare e ruminare le mie pene.

 

(Esce)

 

GLOUCESTER: Sì, pene saranno, temo, dal principio alla fine.

 

(Escono Gloucester ed Exeter)

 

SUFFOLK: Così Suffolk ha trionfato, e così se ne va come una volta se ne andò in Grecia il giovane Paride, con speranza di avere lo stesso successo in amore, ma più fortuna di quella che toccasse al Troiano.

Margherita sarà ora regina e governerà il re; ma io governerò lei, il re e il regno.

 

(Esce)