William Shakespeare

 

I DUE GENTILUOMINI

DI VERONA

 

 

 

PERSONAGGI

 

IL DUCA DI MILANO, padre di Silvia

VALENTINO, PROTEO: gentiluomini veronesi

ANTONIO, padre di Proteo

TURIO, rivale sciocco di Valentino

EGLAMUR, assistente di Silvia nella fuga

SCHIZZO, servo buffone di Valentino

CIRIOLA, servo buffone di Proteo

PANTINO, famiglio di Antonio

L'Oste presso cui alloggia Giulia in Milano

Banditi con Valentino

GIULIA, amata da Proteo

SILVIA, amata da Valentino

LUCIETTA, ancella di Giulia

Servi, Musicanti

 

 

 

La scena è a Verona, a Milano, e sui confini di Mantova

 

 

 

ATTO PRIMO

 

SCENA PRIMA - Verona. Una piazza

(Entrano VALENTINO e PROTEO)

 

VALENTINO: Non sperar mai di convincermi, caro Proteo. Gioventù che rimane al paese avrà sempre cervello paesano. Vorrei io piuttosto, non fosse che l'amore incatena la giovinezza ai dolci sguardi della tua onorata diletta, persuaderti ad accompagnarmi: veder le meraviglie d'un mondo lontano, invece che restarcene qui a poltrir nel tedio e a consumare gli anni migliori in una inerzia senza costrutto. Ma dacché sei innamorato, segui le tue inclinazioni; e cerca di trovar tanta felicità nell'amore quanta ne auguro a me stesso, dovessi anch'io innamorarmi.

PROTEO: Dunque vuoi partire? Valentino caro, addio. E se peregrinando vedrai un qualche raro oggetto degno di ammirazione, pensa al tuo Proteo, desiderami partecipe dei tuoi piaceri, come ti avverrà di gustarne; e nel momento d'un pericolo che t'incalzasse, affida la tua pena alle mie sante preci, Valentino: io ti sarò intercessore.

VALENTINO: E per la mia buona fortuna pregherai in un libro d'amore?

PROTEO: Pregherò per te in un libro che amo.

VALENTINO: Cioè a dire in qualche storia poco profonda d'un amore profondo: "come il giovane Leandro traversò l'Ellesponto...".

PROTEO: Storia profonda, anzi, d'un amor profondissimo: Leandro diguazzava nell'amore fin sopra i calzari.

VALENTINO: Quanto a questo, anche tu vi diguazzi fin sopra i calzari:

eppure non hai ancora passato a nuoto nessuna baia.

PROTEO: Fin sopra i calzari? Orsù, non darmi la baia.

VALENTINO: Vi rinuncio, perché non ti calza bene.

PROTEO: Cosa?

VALENTINO: L'amore: dove non si guadagna che il disprezzo coi gemiti, un'occhiata appena con sospiri che fendono il cuore, il piacere d'un istante con le noie, le fatiche e l'insonnia di venti notti; dove se vinci per avventura, di rado è avventurata vittoria; se perdi, non ne ricavi che pene crudeli; e comunque e sempre l'unico risultato è una follia acquistata con la saggezza, o una saggezza conquistata dalla follia!

PROTEO: Dunque io non sarei che un pazzo, a seguir la tua logica.

VALENTINO: Temo che lo diventerai, a seguir la tua logica.

PROTEO: E' dell'amore che vai sofisticando: io non sono l'amore.

VALENTINO: Ma poiché ti signoreggia è il tuo padrone: e chi si lascia così soggiogar da uno stolto, come si potrebbe darlo per savio?

PROTEO: Tuttavia gli scrittori dicono che se nel più fresco bocciolo si nasconde il verme edace, altrettanto nell'anime più elette si nasconde edace l'amore.

VALENTINO: Ma dicono anche che il bocciolo meglio avviato è roso dal verme prima di schiudersi, e che del pari un tenero spirito giovanile, roso dalla follia d'amore, intristisce in gemma, si sfoglia nel pieno della primavera, eludendo insieme ogni più bella speranza futura. Ma perché perdo il tempo a consigliarti, tu che sei votato alla passione che non connette? Ancora una volta addio. Mio padre mi attende al porto, per vedermi imbarcare.

PROTEO: E io ti accompagno fin là, Valentino.

VALENTINO: No, caro Proteo, salutiamoci ora. E scrivimi a Milano dei tuoi successi amorosi; e tutto quello che accadrà qui durante l'assenza del tuo amico. Anch'io verrò spesso a trovarti per lettera.

PROTEO: Possa Milano darti ogni felicità.

VALENTINO: E a te la patria. Or dunque, addio.

 

(Esce)

 

PROTEO: Egli ricerca la gloria, io l'amore; egli abbandona i suoi amici per onorarli di più, io per l'amore abbandono me stesso, gli amici e ogni cosa. Tu, Giulia, hai operato in me questo mutamento: da farmi tralasciar gli studi e perdere il tempo, ribellare ai buoni consigli, non dar peso più a nulla, in mille vani sogni logorarmi, struggermi il cuore tra penosi allarmi.

 

(Entra SCHIZZO)

 

SCHIZZO: Dio vi guardi, messer Proteo: avete visto il mio padrone?

PROTEO: Se n'è andato or ora, a salpar per Milano.

SCHIZZO: Venti contro uno che è già in pieno beccheggio: e becco io, che l'ho perduto.

PROTEO: Difatti il becco è facile a perdersi quando s'allontani il pastore.

SCHIZZO: Volete dire che il mio padrone è il pastore e io il becco?

PROTEO: Per l'appunto.

SCHIZZO: In ogni caso, allora, le mie corna son sue.

PROTEO: Risposta sciocca, da vero montone.

SCHIZZO: Che mi conferma montone?

PROTEO: Sicuro: e il tuo padrone, pastore.

SCHIZZO: Posso sbaragliarvi con un ragionamento.

PROTEO: Sarà difficile che non mi riesca a ribatterlo con un altro.

SCHIZZO: Il pastore cerca il montone, e non il montone il pastore; ora io cerco il mio padrone, e il mio padrone non cerca me: dunque non sono un montone.

PROTEO: Il montone per sfamarsi va dietro al pastore, il pastore per sfamarsi non va dietro al montone; tu per mercede vai dietro al tuo padrone, non il tuo padrone dietro a te per mercede: dunque sei becco.

SCHIZZO: Un altro argomento come questo e mi metto a far "bece"!

PROTEO: Rispondi piuttosto: hai consegnato la mia lettera a Giulia?

SCHIZZO: Sì, signore: io pecora infinocchiata diedi la lettera a lei pecora infiocchettata; e lei pecora infiocchettata non diede nulla per il servizio a me pecora infinocchiata.

PROTEO: Troppe pecore per un pascolo così ristretto!

SCHIZZO: Se il pascolo è tanto ingombro, lasciando la pecorella nello stabbio fareste meglio a mille doppi.

PROTEO: Sei tu, invece, che le meriteresti doppie.

SCHIZZO: Grazie, signore: m'accontento di men d'una doppia per aver portato la vostra lettera.

PROTEO: Ti sbagli. Per doppie intendevo sode.

SCHIZZO: Da doppie a sode? Rassodatele quanto volete, sarà sempre più soda la fatica che ho fatto io per recapitar la lettera alla vostra amante.

PROTEO: Ma che cosa ha detto?

SCHIZZO (scotendo la testa): Ah!

PROTEO: Sì?

SCHIZZO: No.

PROTEO: Ah? sì? no? Asino!

SCHIZZO: C'è equivoco, signore: io ho detto "ah", voi mi avete chiesto se ha detto "sì", e io vi ho risposto "no".

PROTEO: E tutto questo, sommato, fa asino.

SCHIZZO: Giacché vi siete preso la pena di sommarlo, tenetevelo in compenso.

PROTEO: No, no: spetta a te per aver rimesso la lettera.

SCHIZZO: Be', veggo che con voi ci ho rimesso davvero.

PROTEO: Rimesso in che modo, messere?

SCHIZZO: A portare le vostre lettere, signor mio, e sentirmi dare dell'asino per tutto ringraziamento.

PROTEO: Poffare, hai la lingua sciolta.

SCHIZZO: Cosi vi si sciogliessero i cordoni della borsa.

PROTEO: Orsù, apriti in poche parole: che cosa ha detto?

SCHIZZO: Aprite la scarsella voi: parola e danaro andranno subito a destinazione.

PROTEO: Bene, messere, ecco per la tua fatica. (Gli dà qualche moneta) Che cosa ha detto?

SCHIZZO: Ho idea, signore, che difficilmente la conquisterete.

PROTEO: Come? Te ne ha dato qualche indizio?

SCHIZZO: A dir vero non mi ha dato nulla: neanche un ducato per lo scomodo della lettera. Ma se è stata tanto dura con me che le portavo l'animo vostro, temo non si mostrerà meno dura con voi per averglielo palesato. In pegno d'amore non offritele altro che selci, perché è dura come l'acciaio.

PROTEO: Così, non ha detto nulla?

SCHIZZO: Nemmeno: "To' per il disturbo". Per attestarmi la vostra generosità, vi ringrazio, mi avete dato un testone; in contraccambio di che vi consiglio, per l'avvenire, di portar da voi le vostre lettere. E con ciò, signore, vado a raccomandarvi al mio padrone.

PROTEO: Va', va' a preservar dai naufragi la vostra nave. Non s'inabisserà mai fino a che ci sarai tu, destinato a più asciutta morte in terraferma. (Esce Schizzo) Dovrò cercarmi un miglior messaggero. C'è caso che Giulia abbia a non gradir le mie lettere, ricevendole da così indegno corriere.

 

(Esce)

 

 

 

SCENA SECONDA - Verona. Giardino in casa di Giulia

(Entrano GIULIA e LUCIETTA)

 

GIULIA: Ma dimmi, Lucietta, ora che siamo sole: mi consiglieresti dunque d'innamorarmi?

LUCIETTA: Certo, signora; purché badiate d'incappar bene.

GIULIA: E fra tutta la vaga schiera dei gentiluomini che ogni giorno vengono a conversare con me, quale secondo te è il più degno?

LUCIETTA: Vogliate ripetermene i nomi, e io vi dirò la mia opinione secondo il mio semplice e modesto buon senso.

GIULIA: Cosa ti sembra di Eglamur, il bel cavaliere?

LUCIETTA: Grazioso gentiluomo, e dal parlar fiorito; ma che nei vostri panni non vorrei per marito.

GIULIETTA: E del ricco Mercazio pensar che mi conviene?

LUCIETTA: Benissimo dei soldi, ma di lui poco bene.

GIULIETTA: E di Proteo gentile, sentiamo, che ti pare?

LUCIETTA: Oh Dio, quante follie possono in noi regnare!

GIULIA: Perché all'udirne il nome un tal grido, Lucia?

LUCIETTA: Signora, perdonate: è proprio una follia che misera qual sono dia sfrontati pareri su tanti irreprensibili, leggiadri cavalieri.

GIULIA: Perché di Proteo solo non giudichi il valore?

LUCIETTA: Dirò allora: fra tutti io lo stimo il migliore.

GIULIA: La ragione?

LUCIETTA: Soltanto una ragione da donna: credo così perché credo così.

GIULIA: E a lui dovrei concedere il mio affetto?

LUCIETTA: Sì, pensando di averlo ben collocato.

GIULIA: A lui meno che a tutti voce del cuore mi chiama.

LUCIETTA: Pur credo che fra tutti sia quei che più vi ama.

GIULIA: Il suo scarso parlare dimostra scarso amore.

LUCIETTA: Nel fuoco più compresso cova più intenso ardore.

GIULIA: Non ama chi d'amore al proprio ben non parla.

LUCIETTA: Oh! ama assai di meno chi con tutti ne ciarla.

GIULIA: Vorrei conoscere il suo sentimento.

LUCIETTA: Leggete questo foglio, signora. (Le dà una lettera)

GIULIA: "A Giulia". Ma da chi?

LUCIETTA: Questo si vedrà dal contenuto.

GIULIA: Di', di', chi te l'ha dato?

LUCIETTA: Il servo di messer Valentino: da parte, credo, di Proteo.

Voleva darlo a voi stessa; ma come mi son trovata ad incontrarlo, me l'ha consegnato: vogliate perdonarmi se ho fallato.

GIULIA: Santo pudore, sei una mezzana coi fiocchi! Come ardisci tu ricevere sfrontate missive, intrigare e cospirare ai danni della mia gioventù? Bel mestiere davvero: e tu tagliata a modello per esercitarlo! Orsù, riprendi codesto foglio; e bada a restituirlo o non comparirmi mai più dinanzi.

LUCIETTA: Altro che sdegno merita chi amor vuole aiutare.

GIULIA: Va' via.

LUCIETTA: Certo: così potrete meditare.

 

(Esce)

 

GIULIA: Una scorsa a quel biglietto, tuttavia, vorrei avercela data.

Ormai sarebbe vergogna richiamarla indietro: e spingerla io ad un errore di cui l'ho redarguita. Ma che sciocca! Sa pure che son fanciulla: e non trova modo di costringermi a guardare la lettera!

Perché se il ritegno fa dire a noi ragazze certi "no", si vorrebbe poi che chi li ascolta li traducesse in "sì". Quanti capricci, giusto cielo, fa mai quest'Amore! Bizzoso come un bambino: graffia la nutrice e un momento dopo, tutto umile, bacia la mano che l'ha punito. Con che mal garbo ho scacciato Lucietta, mentre più desideravo di trattenerla!

E con quanta ira ho finto d'aggrottare la fronte, mentre un'intima gioia mi forzava il cuore al sorriso! Ebbene, mi punirò richiamandola e le chiederò scusa della mia follia. Olà, Lucietta!

 

(Rientra LUCIETTA)

 

LUCIETTA: Vossignoria desidera?

GIULIA: E' vicina l'ora di cena?

LUCIETTA: Magari; così sfoghereste la rabbia sui piatti e non sull'ancella.

GIULIA: Cosa raccatti così delicatamente?

LUCIETTA: Nulla.

GIULIA: Allora perché ti sei chinata?

LUCIETTA: Prendevo una carta che è caduta.

GIULIA: E una carta la chiami nulla?

LUCIETTA: Nulla che mi spetti.

GIULIA: Per coloro cui spetta lasciala dunque in terra.

LUCIETTA: La verità intera dirà a quelli cui spetta, a meno che non abbia un falso inter... prete.

GIULIA: Qualche tuo spasimante che ti scrive in versi?

LUCIETTA: Così li potrò cantare su un'aria. Datemi una nota, Vossignoria sa comporre.

GIULIA: Il meno possibile quando si tratta di tali bazzecole. Il meglio sarebbe intonarli sull'aria di "Amor leggero".

LUCIETTA: Son troppo gravi per un'aria così leggera.

GIULIA: Gravi? Che ci viene il bordone?

LUCIETTA: Sì; e un bordone ben soave, se lo cantaste voi.

GIULIA: Perché non te?

LUCIETTA: Non posso andar così alto.

GIULIA: Vediamo questi versi. (Prende la lettera) Ebbene, sgualdrinella?

LUCIETTA: Mantenetevi sullo stesso tono, e la canterete a meraviglia; benché quel vostro tono in fondo, non mi vada a genio.

GIULIA: Ah, non ti va a genio?

LUCIETTA: No, signora: è troppo acuto.

GIULIA: E tu troppo impertinente, sgualdrinella.

LUCIETTA: Bah! ecco che ora la prendete in un tono troppo cupo.

Distruggete ogni armonia, con variazioni troppo aspre: per far perfetta la vostra canzone ci vuole una voce mezzana.

GIULIA: Ma la mezzana il tuo basso sregolato la sbarrerebbe.

LUCIETTA: Anzi, io volevo buttar giù le barriere per Proteo.

GIULIA: Questa quisquilia non mi turberà oltre: che arruffìo per una protesta d'amore! (Straccia la lettera) Ora su, vattene. E lascia lì per terra quei pezzi di carta: ché soltanto a toccarli mi faresti andare in collera.

LUCIETTA: Fa mostra di adirarsi; ma troppo contenta sarebbe di ritornare ad adirarsi per una seconda lettera.

 

(Esce)

 

GIULIA: Ah fossi davvero adirata almen con questa! Odiose mani, che laceraste sì tenere parole! Vespe ingrate, a nutrirvi di un miele tanto dolce e trafiggere coi vostri dardi le api che lo produssero! Ad uno ad uno bacerò per penitenza i brani di questo foglio. Ecco, qui trovo: "Giulia cortese..." No: scortese Giulia! e per punirti della tua ingratitudine getto il tuo nome sui duri sassi, calpesto sdegnata il tuo disprezzo. E qui leggo: "Proteo ferito d'amore". Povero nome ferito! il mio seno ti sarà giaciglio, fin che la ferita non sia del tutto sanata: e intanto la esploro con un bacio supremo. Ma in più d'un punto ricorreva il nome di Proteo... Rattieni il soffio, buon vento, non sottrarmi una sola parola prima ch'io abbia ritrovato tutte le lettere della lettera, eccetto il nome mio: quello che un turbine lo trascini sopra un qualche irto spaventoso dirupo, e di là lo precipiti nel mare infuriato! Oh, qui in una sola riga il suo nome ricorre due volte: "il misero, negletto Proteo, l'appassionato Proteo... alla diletta Giulia". Questo io straccerò via. Eppur no: con troppa dolcezza lo ha unito al suo nome desolato... Ecco li ripiegherò l'uno contro l'altro. Baciatevi dunque, abbracciatevi, mettetevi il broncio, fate quel che vi piace.

 

(Rientra LUCIETTA)

 

LUCIETTA: Signora, la cena è pronta e vostro padre vi aspetta.

GIULIA: Sta bene, andiamo.

LUCIETTA: E questi pezzi di carta resteranno in terra a farla da indiscreti?

GIULIA: Se ne hai tanto rispetto, riprendili pure.

LUCIETTA: Gli è che sono stata ripresa io, per averceli gettati . In ogni modo non voglio che rimangan qui col rischio d'infreddarsi.

GIULIA: Ti stanno a cuore assai, a quanto vedo.

LUCIETTA: Dite pure quanto vedete: ma qualche cosa la vedo anch'io, benché mi stimiate di poca vista.

GIULIA: Andiamo, andiamo. Vuoi venire, dunque?

 

(Escono)

 

 

 

SCENA TERZA - Verona. Una stanza nella casa di Antonio

(Entrano ANTONIO e PANTINO)

 

ANTONIO: Dimmi, e a qual proposito mio fratello ti ha intrattenuto così gravemente nel chiostro?

PANTINO: A proposito di Proteo, suo nipote e vostro figlio.

ANTONIO: Che ne diceva?

PANTINO: Stupiva che Vossignoria gli permettesse di spender qui la sua giovinezza; mentre tanti padri anche di minor condizione mandano i loro figli a cercare avanzamento nelle straniere contrade: gli uni alla guerra, per tentarvi la fortuna; altri a scoprire isole lontane, altri ad addottrinarsi negli atenei. E diceva che il vostro Proteo in ciascuna di codeste attività potrebbe dar buona prova o magari in tutte assieme; scongiurandomi a persuadervi di non lasciarlo più lungamente oziare a casa, perché il non aver viaggiato ora che è giovane, gli porterebbe danno nell'età matura.

ANTONIO: Quanto a questo non hai bisogno di sollecitarmi; è un mese che me ne vo martellando la mente. Mi rendo ben conto di come perde il suo tempo, e che non può diventar qualcuno senza essere stato alla prova e alla scuola del mondo. L'esperienza s'acquista con la pratica e si perfeziona col corso rapido del tempo. Ma dove sarebbe più conveniente mandarlo, a tuo giudizio?

PANTINO: Il suo giovane amico Valentino, mi pare che vossignoria lo sappia, è partito per la corte dell'Imperatore.

ANTONIO: Lo so.

PANTINO: Credo che vossignoria farebbe bene a mandarlo laggiù. Avrà modo d'addestrarsi in giostre e tornei, di ascoltar eleganti conversazioni e intrattenersi con dei patrizi; potrà insomma praticarvi ogni esercizio confacente all'età ed alla nascita.

ANTONIO: Savio consiglio. E per dimostrarti a qual punto la tua idea mi piaccia voglio subito tradurla in opera. Senza indugio lo farò partire per la Corte imperiale.

PANTINO: Se a voi convenisse, domani don Alfonso con altri gentiluomini di buona fama andranno ad inchinare l'Imperatore e ad offrirgli i loro servigi.

ANTONIO: Ottima compagnia: Proteo si accompagnerà con essi. Ma eccolo in buon punto per dargli questa notizia.

 

(Entra PROTEO)

 

PROTEO: Dolce amore! dolci parole! dolce vita! Ecco la sua scrittura, ambasciatrice del suo cuore; ed ecco il suo giuramento di amarmi, pegno dell'onor suo. Oh volessero le nostre famiglie approvar questo amore e suggellare col loro assenso la nostra felicità! Oh divina Giulia!

ANTONIO: Cosa c'è? Che lettera stai leggendo?

PROTEO: Poche parole affettuose, se non dispiace a vossignoria, rinviatemi da Valentino pel tramite di un amico che lo ha lasciato da poco.

ANTONIO: Da' qua; voglio veder le nuove.

PROTEO: Non ci sono nuove signore, scrive soltanto che è felice e benvoluto, che dall'imperatore riceve molte carezze e che mi vorrebbe con sé, compagno della sua fortuna.

ANTONIO: E questo voto tu come lo accogli?

PROTEO: Anteponendo la volontà del padre al desiderio dell'amico.

ANTONIO: La mia volontà concorda alquanto col suo desiderio. Non stupirti di questa mia subitanea risoluzione: così intendo che sia, e basta. Trascorrerai qualche tempo con Valentino alla Corte; e quello che la famiglia gli passa per il mantenimento, anche tu puoi contarci.

Domani ti troverai pronto a partire; niente parole, è un ordine.

PROTEO: Ma, signore: non potrò provvedermi così d'un tratto. Ve ne prego, soprassedete un giorno o due.

ANTONIO: Quanto ti occorresse ti sarà mandato. Non più indugi, partirai domani. Vieni, Pantino: fa' tu il necessario per affrettare il viaggio.

 

(Escono Antonio e Pantino)

 

PROTEO: E così volendo evitare il fuoco ho finito con l'annegarmi in mare. Non ho osato mostrare a mio padre la lettera di Giulia, nella tema che avesse ad opporsi al mio amore; e la mia scusa stessa gli ha offerto l'argomento più adatto per ostacolarlo! Ah come questa primavera dell'amore somiglia d'aprile un giorno incerto, che ora la profonda luce del sole svela in tutto il suo fulgore, e poco dopo abbuia la nube vagabonda!

 

(Rientra PANTINO)

 

PANTINO: Vostro padre vi cerca, mio signore; ha fretta di parlarvi; perciò vi prego, andate.

PROTEO: Ahimè, che è ciò? Con devozione gli obbedisce il cuore, eppur risponde mille volte: no.

(Escono)

 

 

 

ATTO SECONDO

 

SCENA PRIMA - Milano. Una sala nel Palazzo del Duca

(Entrano VALENTINO e SCHIZZO)

 

SCHIZZO (porgendo un guanto): Signore, il vostro guanto.

VALENTINO: Non può essere: il mio paio di guanti l'ho messo.

SCHIZZO: Se è mezzo, allora questo potrebbe mancare a completarlo.

VALENTINO: Lascia vedere. Sì, dammelo, è mio. Dolcissimo ornamento d'un divino portento! Ah, Silvia, Silvia!

SCHIZZO (chiamando): Madonna Silvia, madonna Silvia!

VALENTINO: Che fai, gaglioffo?

SCHIZZO: Non poteva sentirvi.

VALENTINO: Ma chi ti ha detto di chiamarla?

SCHIZZO: Vossignoria, se non mi sbaglio.

VALENTINO: Tu sei sempre precipitoso.

SCHIZZO: E poco fa ero una lumaca...

VALENTINO: Basta così. Orsù dimmi: conosci madonna Silvia?

SCHIZZO: Quella di cui è innamorato vossignoria?

VALENTINO: E come sai che sono innamorato?

SCHIZZO: Diamine, da questi segni: prima di tutto avete imparato come messer Proteo a incrociare le braccia come un ipocondriaco; poi a gorgheggiare le canzoni d'amore come un pettirosso; a passeggiar solitario come un appestato; a sospirare come uno scolaretto che ha perduto l'abbecedario; a piangere come una ragazzina che ha visto sotterrare la nonna; a digiunare come uno che sta a dieta, a vegliare come chi ha paura dei ladri, e a parlar con voce piagnucolosa come un accattone il dì d'Ognissanti. Prima, quando ridevate, vi si sentiva far chicchirichì come un galletto; quando camminavate era un'andatura da leone; digiunare non se ne parlava che dopo cena; le tristezze non vi venivano che a scarsella vuota: e ora vi ha così mutato la padrona che, se vi guardo, non riconosco il mio padrone.

VALENTINO: E tutti codesti segni si veggono in me?

SCHIZZO: No, si veggono tutti fuori di voi.

VALENTINO: Fuori di me? Non può essere.

SCHIZZO: Fuori, fuori, vi dico: e chi potrebbe, fuori di voi, essere tanto fanciullone? Siete così fuori di voi, che la vostra follia si vede per trasparenza dentro di voi come l'orina in una fiala. Sicché non c'è sguardo che ad osservarvi non diventi medico e non indovini la vostra malattia.

VALENTINO: Ma dimmi, conosci madonna Silvia?

SCHIZZO: Quella che a tavola vi divorate con gli occhi?

VALENTINO: Ah, te ne sei accorto? Proprio lei.

SCHIZZO: Ebbene, no, non la conosco.

VALENTINO: Come: conosci che è lei dal mio modo di guardarla, eppure non la conosci?

SCHIZZO: Non è malgraziosa, signore?

VALENTINO: Anzi: prima ancora che bella è graziosa.

SCHIZZO: Questo lo so benissimo.

VALENTINO: Cosa?

SCHIZZO: Che non è tanto bella quanto graziosa... per voi.

VALENTINO: Volevo dire che se la sua bellezza è perfetta, la sua grazia è infinita.

SCHIZZO: Già: ma la prima è dipinta e la seconda non ha prezzo.

VALENTINO: Che dipinta? e perché non ha prezzo?

SCHIZZO: Gnaffe per rendersi bella si dipinge tanto che nessuno apprezza la sua beltà.

VALENTINO: Cosa pensi di me, allora, che l'apprezzo altamente?

SCHIZZO: Ma voi non l'avete vista da che è sfigurata.

VALENTINO: Sfigurata? e da quando?

SCHIZZO: Dal giorno che voi l'amate.

VALENTINO: Io l'ho amata dal primo momento, sempre mi è parsa bella.

SCHIZZO: Se l'amate non potete vederla.

VALENTINO: E perché?

SCHIZZO: Perché l'amore è cieco. Ah, se voi aveste i miei occhi, o se gli occhi vostri avessero la chiarezza d'un tempo, quando motteggiavate Proteo perché andava in giro senza giarrettiere!

VALENTINO: E allora cosa vedrei?

SCHIZZO: La vostra presente pazzia e la bruttezza di lei che passa ogni altra. Perché Proteo era innamorato e non aveva occhi per allacciarsele, le calze; ma voi che siete innamorato come lui non ci vedete neanche tanto da mettervi le vostre.

VALENTINO: Quand'è così, ragazzo mio, sei innamorato tu pure: ieri mattina non ci hai veduto abbastanza per pulirmi le scarpe.

SCHIZZO: E' vero: ero innamorato delle lenzuola. E grazie di avermi picchiato per il mio amore: mi fo più ardito a berteggiarvi del vostro.

VALENTINO: In conclusione nutro per lei un grande affetto.

SCHIZZO: Ebbene, divezzatelo, così cesserete d'esserne affetto.

VALENTINO: Iersera mi ha comandato di buttar giù poche righe per una persona che ama.

SCHIZZO: Le avete scritte?

VALENTINO: Sì.

SCHIZZO: E rigavano dritte?

VALENTINO: Il meglio che ho potuto. Ma zitto: eccola che viene.

 

(Entra SILVIA)

 

SCHIZZO (a parte): Oh il grazioso spettacolo di burattini! Oh la magnifica marionetta! Ora egli parlerà per lei.

VALENTINO: Mia signora e padrona, mille volte buon giorno.

SCHIZZO (a parte): Le desse soltanto una buona notte: quanto meglio d'un milione di salamelecchi!

SILVIA: Mio signore e servente, a voi duemila.

SCHIZZO (a parte): E' lui che dovrebbe pagare i frutti, e invece li sborsa lei!

VALENTINO: Ho preparato quella lettera, secondo l'ordine, per il vostro amico innominato; ma vi confesso di averlo proprio fatto contro voglia, spinto solo dall'obbedienza dovuta a vossignoria.

 

(Le dà una lettera)

 

SILVIA: Vi ringrazio, mio dolce servitore. E' scritta proprio da notaro.

VALENTINO: Oh lo so, signora, che non è riuscita bene! Gli è che, ignorando il destinatario, scrivevo a caso, dubitando sempre di non dir giusto...

SILVIA: E vi è parsa troppa fatica?

VALENTINO: Dio me ne guardi. Se volete ne scriverò altre mille per compiacervi, ma...

SILVIA: Ben detto. Indovino il resto; ma non lo dirò... Ma non importa... Ma riprendetevi la lettera. Ma vi ringrazio... Ma d'ora innanzi non intendo più importunarvi.

SCHIZZO (a parte): Ma lo farete... Ma ecco un altro "ma!".

VALENTINO: Che intende vossignoria? Non vi piace la lettera?

SILVIA: Sì, sì: è assai graziosamente svolta. Ma come l'avete scritta malvolentieri, così riprendetela. Riprendetela, dico.

 

(Gli rende la lettera)

 

VALENTINO: Signora, era per voi...

SILVIA: Sì, sì, l'avete scritta a mia richiesta ma non la voglio: è per voi. Ci avrei voluto più sentimento.

VALENTINO: Se lo desiderate ne farò un'altra.

SILVIA: E quando sarà scritta, leggetela per amor mio: se vi andrà a genio, bene; altrimenti, bene.

VALENTINO: Se mi andrà a genio, signora, allora cosa?

SILVIA: Allora serbatela in premio delle vostre fatiche. E adesso arrivederci, servitor mio.

 

(Esce)

 

SCHIZZO: Oh invisibile astuzia; così agli occhi s'invola naso in un volto, o in cima a torre banderuola. Lui la idolatra: ed ella al timido amatore da scolaro ora insegna a farsi precettore. Stratagemma mirifico: di scriversi gli impone da se stesso le lettere... che manda al mio padrone!

VALENTINO: Orsù, cosa stai ragionando fra te?

SCHIZZO: No; stavo poetando. La ragione l'avete voi.

VALENTINO: Per farne che?

SCHIZZO: Per essere ambasciatore di madonna Silvia.

VALENTINO: Presso di chi?

SCHIZZO: Di voi stesso. Vi corteggia in cifra.

VALENTINO: Che cifra?

SCHIZZO: Per lettera, dovevo dire.

VALENTINO: Ma se non mi ha scritto!

SCHIZZO: E che bisogno ne aveva, se vi ha fatto scrivere da voi medesimo? Non avete capito lo scherzo?

VALENTINO: No, credi a me.

SCHIZZO: Eh, vi credo davvero! Ma non vi siete accorto dell'arra che vi ha dato?

VALENTINO: Nulla, mi ha dato: soltanto un rabbuffo.

SCHIZZO: E non una lettera?

VALENTINO: Ma quella l'avevo scritta io per un suo amico.

SCHIZZO: E ora è pervenuta all'indirizzo giusto: ecco fatto.

VALENTINO: Magari stesse così.

SCHIZZO: Ve l'accerto. Più volte le scriveste: ma ella, o non disposta o mancandole il tempo, mai vi diede risposta; oppure ad evitare un indiscreto messo, incaricò l'amante di scrivere a se stesso. E questa è verità sacrosanta, perché l'ho trovata in un libro stampato. Ehi, a cosa state pensando? E' ora di cena.

VALENTINO: Ho cenato.

SCHIZZO: Bene, signore. Ma sentite me: se Amore si pasce d'aria come il camaleonte, io sono uno che si nutre di vivande e una bistecca la mangerei volentieri. Deh, non fate come la vostra bella: movetevi!

movetevi a pietà!

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SECONDA - Verona. Una stanza nella casa di Giulia

(Entrano PROTEO e GIULIA)

 

PROTEO: Abbi pazienza, mia dolce Giulia.

GIULIA: Per forza l'avrò, se non c'è rimedio.

PROTEO: Riverrò appena possibile.

GIULIA: Riverrai presto se non diverrai diverso. Eccoti intanto questo ricordo per amor di Giulia.

 

(Gli dà un anello)

 

PROTEO: Facciamo un cambio: e a te questo.

 

(Le dà un anello)

 

GIULIA: Ora suggelliamo il patto con un santo bacio.

PROTEO: Stringi la mia mano in segno di eterna fede; e se mai trascorra, Giulia, un'ora sola del giorno che io non sospiri per te, mi porti l'ora seguente una qualche gran sventura per punirmi del mio oblìo d'amore! Ma mio padre mi attende: no, non dirmi più nulla... E' ormai l'alta marea: oh non dico quella delle tue lagrime, ché codesta troppo a lungo mi farebbe indugiare! Addio, Giulia. (Esce Giulia) E mi ha lasciato senza una parola? Eppur sì... Questo è vero amore, che non parla: la sua sincerità meglio rifulge nelle azioni che nei discorsi.

 

(Entra PANTINO)

 

PANTINO: Ser Proteo, siete atteso.

PROTEO: Eccomi; son con te. Questi congedi rendono muti gli amanti, ohimè!

 

(Escono)

 

 

 

SCENA TERZA - Verona. Una strada

(Entra CIRIOLA con un cane a guinzaglio)

 

CIRIOLA: Mi ci vorrà un'altr'ora buona prima d'aver finito di piangere... Tutta la razza delle Ciriole ha questo difetto: io ne ho ereditata la mia proporzione, come il figliuol prodigo. Ora vado con messer Proteo alla Corte imperiale. Il mio cane Granchio deve essere il cane più duro di cuore che ci sia: mia madre lagrimava, mio padre si lamentava, mia sorella frignava, la serva strillava, il gatto si torceva le mani, tutta la casa era sui 'cartoni' ardenti, e intanto questo cagnaccio insensibile non ha versato una lagrima. E' un sasso, un vero ciottolo: non ha più cuore d'un cane. Avrebbe pianto un ebreo, ai nostri addii: perfino la mia nonna che è cieca s'è acciecata di lagrime a vedermi partire. Ecco, ora vi mostro com'è andata. Questa scarpa è mio padre; no, mio padre è la scarpa sinistra; no, no, facciamo che la sinistra sia mia madre; no, neanche così va bene...

Cioè sì, è giusto così: ha l'anima più rovinata. Dunque questa scarpa col buco sarà mia madre, e quest'altra mio padre. Proprio questa, Dio ti maledica! Ora, signore, questo bastone è mia sorella: perché, vedete, è bianca come un giglio e sottile come un giunco; e questa berretta è Annetta, la serva di casa. Io sono il cane. No, il cane è lui e io sono il cane... Uffa! Il cane sono io e io sono io: ecco, ci siamo. Dunque ora vado da mio padre: "Padre, la vostra benedizione".

Ora la scarpa non può dir nulla dal gran piangere. Ora bacio mio padre: e lui giù a lagrimare come una vite tagliata. E ora vado da mia madre. Oh avesse la parola, come una mentecatta! Bene, la bacio. Ecco qui, apre la bocca, tale e quale come mia madre. E ora eccomi da mia sorella: sentite un po' come geme. E ora, durante tutta questa scena, il cane non ha mosso ciglio, non ha detto verbo. Guardate invece io, guardate come innaffio la polvere con le mie lagrime.

 

(Entra PANTINO)

 

PANTINO: Svelto, Ciriola, svelto: a bordo. Il tuo padrone è già imbarcato, e dovrai raggiungerlo a remi. Che succede? Perché piangi?

Presto, somaro! Se tardi dell'altro la marea abbandonerà la baia.

CIRIOLA: Non m'importa se l'abbaia mi abbandona; perché è l'abbaia più crudele che desse mai la baia.

PANTINO: Qual è la baia più crudele?

CIRIOLA: Questo che abbaia qui: Granchio, il mio cane.

PANTINO: Orsù, sciocco, voglio dire che perderai il flusso; e se perdi il flusso perdi le barche; e se perdi le barche perdi il padrone; e se perdi il padrone perdi il servizio; e se perdi il servizio... Ma perché mi tappi la bocca?

CIRIOLA: Per paura che tu perda la lingua.

PANTINO: E dove la dovrei perdere?

CIRIOLA: Nelle tue brache!

PANTINO: Nelle tue brache!

CIRIOLA: Perderò dunque io la marea e l'imbarco, e il padrone e il servizio e l'abbaia? Ma non sai tu che se il fiume fosse asciutto potrei riempirlo con le mie lagrime? Che se il vento cadesse potrei spinger la nave coi miei sospiri?

PANTINO: Su, gaglioffo, vieni via: mi hanno mandato a chiamarti.

CIRIOLA: Chiamami come ti pare!

PANTINO: Insomma, vieni sì o no?

CIRIOLA: Eccomi: vengo.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA QUARTA - Milano. Una sala nel Palazzo del Duca

(Entrano SILVIA, VALENTINO, TURIO e SCHIZZO)

 

SILVIA: Servo mio!

VALENTINO: Padrona mia!

 

(Conversano in disparte)

 

SCHIZZO: Signore, messer Turio vi guarda bieco.

VALENTINO: Sì, figliuolo: è per amore.

SCHIZZO: Ma non verso di voi.

VALENTINO: Allora verso la mia padrona.

SCHIZZO: Una bastonatura gli starebbe a garbo.

 

(Esce)

 

SILVIA: Servo mio, siete melanconico.

VALENTINO: Infatti, signora, lo sembro.

TURIO: Sembrate quel che non siete?

VALENTINO: Per l'appunto.

TURIO: Così fanno gli ipocriti.

VALENTINO: Così fate voi.

TURIO: Cosa sembro io senza esserlo?

VALENTINO: Sembrate savio.

TURIO: Che prova v'è del contrario?

VALENTINO: La vostra pazzia.

TURIO: E dove la vedete?

VALENTINO: Ve la vedo sotto al giustacuore.

TURIO: Il mio giustacuore è un farsetto.

VALENTINO: Bene: le farse son cose da istrioni.

TURIO: Cosa?

SILVIA: Siete in collera, messer Turio? Avete cambiato colore.

VALENTINO: Lasciatelo fare, signora: è una specie di camaleonte.

TURIO: Un camaleonte che ha più voglia di nutrirsi del vostro sangue che di vivere nella vostra aria.

VALENTINO: Avete detto, messere...

TURIO: Sì, messere, e ho anche finito, per questa volta.

VALENTINO: Oh, lo so bene, messere: voi finite sempre prima d'incominciare.

SILVIA: Un'arguta salva di parole, signori: e sparata colpo su colpo.

VALENTINO: Certo, e ne ringraziamo il puntatore.

SILVIA: Chi mai, buon servo?

VALENTINO: Voi stessa, dolce signora: che avete fatto fuoco. Messer Turio toglie a prestito tutto il suo spirito dagli sguardi di vossignoria, e spende graziosamente in vostra compagnia quello che gli avete prestato.

TURIO: Signore, se spendete con me parola su parola, farò far bancarotta al vostro spirito.

VALENTINO: Lo so che avete una cassaforte di parole, e nient'altro, se non mi sbaglio, per pagare la servitù: dalle loro scadenti livree si giudicherebbe che vivano sulle vostre scadenti parole.

SILVIA: Non più, signori, non più: viene mio padre.

 

(Entra il DUCA)

 

DUCA: Ebbene, figlia mia: eccoti strettamente assediata. Vostro padre, messer Valentino, si trova in buona salute. Cosa direste d'una lettera di amici vostri, con ottime nuove?

VALENTINO: Sarei grato, signore, al felice messaggero che me la recasse.

DUCA: Conoscete don Antonio, vostro concittadino?

VALENTINO: Sì, mio buon signore: lo conosco per valoroso gentiluomo, e ben meritevole della deferenza che lo circonda.

DUCA: E non ha forse un figlio?

VALENTINO: Un figlio, mio buon signore, degno a sua volta dell'onore e della stima di un tale padre.

DUCA: Voi lo conoscete bene?

VALENTINO: Come me stesso: siamo cresciuti insieme. Ma di quanto io sono stato sempre un pigro girellone, trascurando i dolci benefizi di quelle ore in cui avrei potuto sollevar la mia giovinezza a una eccelsa perfezione, d'altrettanto messer Proteo - ché tale è il suo nome - seppe trarre buon profitto dal suo tempo. E' giovane d'anni, ma vecchio d'esperienza; acerbo in volto, ma nel giudizio maturo; e in una parola - perché qualunque lode io possa fargli resterebbe al disotto del suo merito - nel fisico come nel morale è dotato di tutte le grazie che ornano un compiuto gentiluomo.

DUCA: Canchero, messere, se egli giustifica ciò che dite, merita tanto l'amore di un'imperatrice quanto la fiducia di un imperatore. Orbene, messere: codesto gentiluomo è giunto alla mia Corte con autorevoli commendatizie, e pensa di trattenervisi qualche tempo. Credo che la notizia non vi giunga sgradita.

VALENTINO: Se avessi avuto qualcosa da desiderare era questa.

DUCA: Accoglietelo dunque come merita: parlo per te, Silvia; e per voi, messer Turio: ché quanto a Valentino non occorre incitarlo. Ve lo manderò qui, fra un momento.

 

(Esce)

 

VALENTINO: E' quel gentiluomo di cui già ho parlato a vossignoria: che sarebbe venuto con me se la fanciulla che ama non ne avesse imprigionato gli sguardi nei suoi occhi di cristallo.

SILVIA: Forse li avrà poi liberati, su qualche altro pegno di fedeltà.

VALENTINO: No, sono certo che ancora li tiene schiavi.

SILVIA: In tal caso dovrebb'essere cieco: e dunque come poteva ritrovar la strada per venirvi a cercare?

VALENTINO: Ma, signora, Amore ha cent'occhi.

TURIO: Molti dicono che non ne ha neppur uno.

VALENTINO: In presenza di amanti come voi, Turio. Se l'oggetto è volgare, Amore chiude gli occhi.

SILVIA: Basta, basta. Ecco il gentiluomo.

 

(Entra PROTEO)

 

VALENTINO: Benvenuto, caro Proteo! Vi supplico, signora, di volerne distinguer l'arrivo con qualche particolare favore.

SILVIA: Il suo stesso merito gli sarà garante di essere il benvenuto, se è questi il cavaliere di cui avete tanto spesso desiderato notizie.

VALENTINO: E' lui: consentitegli, mia dolce padrona, di servirvi con me.

SILVIA: Troppo umile padrona per un tal servo.

PROTEO: Anzi, dolce signora, troppo meschino il servo per meritare uno sguardo da sì eletta padrona.

VALENTINO: Orsù, tralasciate queste gare di modestia: dolce signora, accoglietelo vostro servo.

PROTEO: Di nient'altro sarò orgoglioso che del mio zelo.

SILVIA: Allo zelo non mancò mai ricompensa. Siate dunque il servo bene accetto di una indegna padrona.

PROTEO: Rischierei la vita contro chiunque altro osasse dirlo.

SILVIA: Che siete ben accetto?

PROTEO: No: che siete indegna.

 

(Entra un Servo)

 

SERVO:. Signora, il Duca vostro padre vorrebbe parlarvi.

SILVIA: Sono ai suoi ordini. (Esce il Servo) Venite, messer Turio, venite con me. Benvenuto ancora una volta, mio nuovo servitore: vi lascio a discorrere di faccende domestiche; e quando avrete finito gradirò vostre novelle.

PROTEO: Verremo entrambi a riverire vossignoria.

 

(Escono Silvia e Turio)

 

VALENTINO: Ora dimmi: come stanno tutti coloro che hai lasciato?

PROTEO: I tuoi amici bene: e mi diedero da portarti mille saluti.

VALENTINO: E i tuoi?

PROTEO: In buona salute.

VALENTINO: E la tua bella? Come va il tuo amore?

PROTEO: Le mie storie d'amore solevano annoiarti; so che non ti vanno a genio questi discorsi.

VALENTINO: Già, Proteo: ma c'è stato un gran mutamento nella mia vita; ho fatto penitenza dei miei vecchi dispregi! Gli spiriti imperiosi d'Amore mi hanno punito con amari digiuni, con gemiti di mortificazione, con lagrime la notte e dolorosi sospiri il giorno; a vendicarsi della mia noncuranza Amore mi ha scacciato il sonno da questi occhi asserviti, ponendo essi a guardia dei patimenti del mio cuore! Oh mio Proteo gentile, Amore è potente sovrano, e mi ha tanto umiliato che, te lo confesso, non c'è sventura più grande dei suoi castighi, né felicità sulla terra paragonabile a quella di servirlo.

Ora non più discorsi che non siano d'Amore: ora questa nuda parola, Amore, mi è cibo e riposo.

PROTEO: Basta: ti leggo la tua sorte negli occhi. Ed era quello l'idolo dei tuoi pensieri?

VALENTINO: Proprio lei: non è una creatura celeste?

PROTEO: No, ma un paragone di bellezza terrena.

VALENTINO: Chiamala divina.

PROTEO: Non voglio adularla.

VALENTINO: Ah, adula me allora! Amore si delizia di lodi.

PROTEO: Quando il malato ero io mi somministravi le pillole più amare:

oggi debbo far altrettanto con te.

VALENTINO: Di' allora di lei quel che è vero: se divina non vuoi, riconosci almeno che è angelica, sovrana fra tutte le creature del mondo.

PROTEO: Eccetto la donna mia.

VALENTINO: Eccetto nessuna, caro: eccetto che tu non voglia eccepire contro la mia diletta.

PROTEO: Non ho ragione di preferire quella che amo?

VALENTINO: Ed io voglio aiutarti a preferirla. Un'aureola le verrà dall'alto onore di sorregger lo strascico alla mia signora, affinché la vile terra non abbia a rubar casualmente un bacio alle sue vesti, e salita in superbia per sì grande ventura non sdegni di produrre i fiori profumati dell'estate, prolungando all'infinito il rude inverno.

PROTEO: Ma Valentino, che iperboli sono queste?

VALENTINO: Scusami, Proteo: non potrò mai dire abbastanza per lodar lei, nel cui valore s'annullano tutti gli altri valori. Ella è sola.

PROTEO: E tu lasciala sola.

VALENTINO: Per niente al mondo! Non sai, Proteo, che è mia? Possedendo un tale gioiello, io son ricco come venti mari le cui sabbie fossero perle, nèttare l'onde e oro zecchino gli scogli! Perdonami se non mi sono occupato di te: tu vedi la violenza della mia passione. Quel mio sciocco rivale, che soltanto per l'enorme ricchezza è gradito a suo padre, è uscito con lei e bisogna che li segua: tu lo sai bene, Amore è pieno di gelosia.

PROTEO: Ed ella ti ama?

VALENTINO: Ci siamo dati promessa. Anzi, di più: ogni cosa è ormai decisa fra noi circa l'ora delle nozze e della fuga, con i relativi espedienti: dal modo di raggiungere la sua finestra mercé una scala di corda, a tutti gli altri mezzi già concertati per assicurare la mia felicità. Seguimi nella mia camera, caro Proteo: in questa impresa i tuoi consigli mi saranno di gran giovamento.

PROTEO: Va' pure avanti, verrò poi a trovarti. Debbo tornarmene al porto per fare sbarcare certe mie robe che mi necessitano, e ti raggiungerò fra poco.

VALENTINO: Farai presto?

PROTEO: Sì. (Esce Valentino) Come caldo scaccia caldo e chiodo scaccia chiodo, così svanisce dinanzi ad un nuovo oggetto il ricordo del mio antico amore. E' il mio cuore incostante o l'elogio di Valentino? E' la perfezione eccelsa di lei o il mio basso tradimento, a farmi sragionare così? Ella è bellissima, ma lo è anche quella Giulia che amo... che amavo: perché il mio amore s'è strutto come un'immagine di cera davanti a un gran fuoco, e nulla serba più delle primitive sembianze. Si raffredda la mia vecchia sollecitudine per Valentino, e sento che non mi è più caro come un tempo: oh, troppo, troppo amo la sua donna, per potere amar lui! Che adorazione sarà dunque la mia quando la conoscerò meglio, se già senza quasi conoscerla l'amo? Non ho fin qui veduto che la sua apparenza ed è bastata ad abbacinarmi gli occhi dell'intelletto. Ma quando vedrò lo splendore delle sue doti è giusto ch'io rimanga cieco. Voglio frenar se posso questo amor vaneggiante; se no, mi giovi ogni arte a conquistar l'amante.

 

(Esce)

 

 

 

SCENA QUINTA - Milano. Una strada

(Entrano SCHIZZO e CIRIOLA da parti diverse)

 

SCHIZZO: Per la mia onestà, Ciriola, sii il benvenuto a Milano.

CIRIOLA: Non spergiurare, dolce amico, perché non sono il benvenuto. A mio giudizio un uomo non è mai perduto fino a che non lo impiccano, ne benvenuto in un luogo fino a che non ha pagato lo scotto, e il benvenuto non gliel'ha dato l'ostessa.

SCHIZZO: Su via, mattacchione! Ti accompagnerò io a un'osteria, dove, con cinque soldi di scotto, di benvenuti ne avrai cinquemila. Ma dimmi marrano: come ha potuto il tuo padrone separarsi da madonna Giulia?

CIRIOLA: Diamine, dopo essersi abbracciati sul serio, si sono separati per ischerzo.

SCHIZZO: Ma lei lo sposerà?

CIRIOLA: No.

SCHIZZO: Come? La sposerà lui?

CIRIOLA: Neanche.

SCHIZZO: Allora c'è stata rottura?

CIRIOLA: No; sono intieri come pesci.

SCHIZZO: Ma insomma come stanno fra loro?

CIRIOLA: Ti dirò; quando sta bene lui sta bene anche lei.

SCHIZZO: Che ciuco sei! Non ti seguo.

CIRIOLA: Che citrullo sei, che non mi segui? Ma se capisce anche il mio bastone!

SCHIZZO: Quello che tu dici?

CIRIOLA: E anche quello che faccio. Guarda: faccio un passo, e il bastone mi segue.

SCHIZZO: Per forza; l'hai afferrato!

CIRIOLA: Be', afferrare e capire è tutt'uno.

SCHIZZO: Ma dimmi: questo matrimonio si farà?

CIRIOLA: Domandalo al mio cane: se dice di sì, si farà; se invece dice di no, si farà; se poi scodinzola senza dir nulla, allora si farà.

SCHIZZO: Dunque la conclusione è che si farà.

CIRIOLA: Un segreto come questo non me lo caverei di bocca altro che per parabola.

SCHIZZO: Mi contento di saperlo anche così. Ma che te ne pare, Ciriola, del mio padrone che si è innamorato come un citrullo?

CIRIOLA: Io l'ho sempre conosciuto per tale.

SCHIZZO: Sarebbe a dire?

CIRIOLA: Per un famoso citrullo: come tu l'hai dipinto benissimo.

SCHIZZO: Ma figlio di puttana d'un asino che non sei altro: non ci siamo capiti.

CIRIOLA: Ehi, scemo, non dicevo mica di te: dicevo del tuo padrone.

SCHIZZO: E io ti dicevo che il mio padrone s'è fatto un bollente amatore.

CIRIOLA: E io ti dico che se anche nel suo amore ci si scotta, non me ne importa nulla. Se vuoi venire con me dall'oste, bene; se no sei un ebreo, un giudeo, e non meriti il nome di cristiano.

SCHIZZO: Perché?

CIRIOLA: Perché non hai neppur tanta carità da avere in comune con un cristiano l'ostie. Vuoi venire?

SCHIZZO: Ai tuoi comandi.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SESTA - Milano. Una stanza nel Palazzo del Duca

(Entra PROTEO)

 

PROTEO: Se abbandono la mia Giulia sono spergiuro; se amo la bella Silvia sono spergiuro; se tradisco l'amico sono gravemente spergiuro; e tuttavia è la stessa potenza che mi strappò il primo giuramento ad impormi oggi questo triplice spergiuro. Amore mi fece giurare, e Amore mi fa spergiurare. Oh tu grazioso seduttore, se hai commesso peccato suggerisci ora a questo tuo suddito in tentazione il modo di scolparti. Prima adoravo una tremula stella, ma adesso mi prostro ad un sole celestiale. Da promesse fatte a cuor leggero può liberarti la riflessione; e sarebbe un inetto chi non avesse tanta volontà da convincer se stesso a lasciare il cattivo per il buono. Ah vergognati, vergognati, lingua insolente! Chiamar cattiva colei che con ventimila giuramenti esalati dall'anima eleggesti tua sovrana! Non posso smetter di amare, ed intanto lo faccio: smetto di amare quella che dovrei.

Perdo Giulia, e perdo Valentino; ma se li conservassi mi perderei, mentre ritrovo, se li perdo, me stesso in cambio di Valentino, e Silvia in cambio di Giulia. Ora io mi sono più caro di quanto non mi sia caro un amico, perché l'amore di sé è sempre il più forte; e Silvia - l'attesti il ciclo che la creò così fulgida! - mi fa parer Giulia nera come un'Etiope. Voglio dimenticare che Giulia è viva, e ricordarmi solo che è morto il mio amore per lei; voglio stimar Valentino un nemico, e vedere in Silvia un amico più dolce. Non posso d'ora in avanti esser fedele a me stesso, se non tradirò Valentino.

Egli si propone di raggiunger stanotte con una scala di corda la finestra della celeste Silvia: e attende aiuto da me, suo rivale!

Immediatamente porterò a conoscenza del padre di lei questo loro sotterfugio e tentativo di fuga: nel suo furore egli caccerà in bando Valentino, perché vuole che sua figlia sposi Turio. Partito Valentino, saprò ben io con qualche pronta astuzia intralciare i goffi approcci di quel Turio balordo. Amore, e tu prestami le ali per raggiunger lo scopo a cui il mio cuore anela, come mi desti i fili per tesser questa tela.

 

(Esce)

 

 

 

SCENA SETTIMA - Verona. Una stanza nella casa di Giulia

(Entrano GIULIA e LUCIETTA)

 

GIULIA: Consigliami tu, cara Lucia, e dammi aiuto. In nome del più soave amore ti supplico - tu che sei la tavoletta dove tutti i miei pensieri sono visibilmente incisi - di suggerirmi qualche buon espediente perché io possa, senza danno del mio onore, affrontar un viaggio che mi conduca dal mio Proteo adorato.

LUCIETTA: Ohimè! la via è lunga e faticosa.

GIULIA: Non si stanca il devoto pellegrino di misurar regni interi coi suoi deboli passi: tanto meno si stancherà quella a cui per volare ha dato Amore le ali, e che muove verso un essere così divinamente perfetto come Proteo.

LUCIETTA: Meglio pazientare finché Proteo non torni.

GIULIA: Oh non sai tu che l'anima mia si nutre della sua vista? Abbi pietà di questa inedia in cui mi consumo, anelando da tanto tempo a quel cibo! Se tu conoscessi gli intimi moti della passione, sapresti che tanto varrebbe alimentare il fuoco con la neve quanto cercar d'estinguere il fuoco d'amore con le parole.

LUCIETTA: Né io cerco di spegnere il caldo fuoco del vostro amore, bensì di moderarne l'estrema violenza perché non divampi oltre i limiti della ragione.

GIULIA: Più ti adoperi a contenerlo e più arde. La corrente che fluisce con lene mormorio tu sai che, ostacolata, subito inquieta ruggisce; ma se nulla si oppone al suo corso ecco effonde una musica soave frusciando sulle lucide pietre, e sfiora con un dolce bacio tutte le vermene che incontra nel suo pellegrinaggio: così capricciosamente indugiando nel sinuoso cammino si avvia all'oceano selvaggio. Dunque lasciami andare, non impedire il mio corso. Sarò paziente come un mite ruscello, mi farò una consolazione della stanchezza d'ogni passo, fino a che l'ultimo non mi abbia condotta accanto al mio amore. E là finalmente riposerò: come agli Elisi riposa, dopo tante tempeste, un'anima eletta.

LUCIETTA: Ma in quali vesti andrete?

GIULIA: Non femminili; eviterò così i volgari assalti dei libertini.

Provvedimi tu, cara Lucietta, di abiti adatti ad un nobile paggio.

LUCIETTA: E così vossignoria dovrà tagliarsi i capelli.

GIULIA: Ma no, figliuola: li costringerò in lacci di seta con mille bizzarri nodi d'amore. Un'acconciatura fantasiosa può addirsi anche ad un giovane che dimostri più anni di me.

LUCIETTA: E di che foggia, signora, preferite i calzoni?

GIULIA: E' come se tu chiedessi: "Ditemi signor mio, di che larghezza volete il guardinfante?". Fa' tu come credi meglio, Lucia.

LUCIETTA: In ogni modo dovrete portarli con la brachetta.

GIULIA: Per carità non starebbe bene!

LUCIETTA: Ma calzoni a sbofo non valgono una testa di spillo, senza la brachetta per appuntaspilli.

GIULIA: Orsù, Lucietta, se mi vuoi bene procurami tu quello che ti parra più conveniente e aggraziato. Dimmi piuttosto, mia cara: come credi che mi giudicherà il mondo, per essermi avventurata in un tal viaggio? Io temo che per molti sarà uno scandalo.

LUCIETTA: Se temete di questo restate a casa.

GIULIA: Oh no, mai!

LUCIETTA: Allora non vi preoccupate delle linguacce e partite. Quando Proteo sia lieto del vostro arrivo, poco importa che qualcuno censuri la vostra partenza. Soltanto, ho paura che non ne sarà troppo contento neppur lui.

GIULIA: Questo, Lucietta, è l'ultimo dei miei timori. Mille giuramenti, un oceano di pianti, prove infinite d'amore, mi assicurano una gioiosa accoglienza dal mio Proteo.

LUCIETTA: Tutte cose di cui hanno dovizia i seduttori.

GIULIA: Anime vili che ne usano a vilissimi fini! Astri ben più leali presiedettero alla nascita di Proteo: ogni sua parola è un amore, immacolati i suoi pensieri; fedeli ambasciatrici del suo cuore le lagrime, e così lontano il cuore dalla frode quanto il cielo dalla terra.

LUCIETTA: E pregate il cielo ch'ei si confermi tale al vostro arrivo.

GIULIA: Se mi vuoi bene non devi fargli questo torto, di dubitar della sua sincerità; non potrai meritare il mio affetto altro che portandogli affetto. Ed ora seguimi nella mia stanza, a prender nota di tutto quello che bisogna mi procacci per questo viaggio sospiratissimo. Tu disporrai liberamente di ogni mia cosa: danaro, terre, riputazione; né altro ti chiedo in cambio che aiutarmi a partire di qui. No, non parlar più: e via subito all'opera! Ogni indugio accresce la mia impazienza.

 

(Escono)

 

 

 

ATTO TERZO

 

SCENA PRIMA - Milano. Anticamera nel Palazzo del Duca

(Entrano il DUCA, TURIO e PROTEO)

 

DUCA: Messer Turio, vi prego di allontanarvi per qualche momento.

Dobbiamo parlare da solo a solo. (Esce Turio) E ora ditemi, Proteo:

cosa volete da me?

PROTEO: Mio benigno signore, quello che ho da rivelarvi le leggi dell'amicizia m'imporrebbero di nascondervelo. Ma se ripenso a tutti i graziosi favori di cui mi avete colmato senza mio merito, allora il dovere mi sprona a confidarvi un segreto che nessuna ricchezza al mondo riuscirebbe a strapparmi. Sappiate, valoroso principe, che il mio amico Valentino intende di rapire stanotte vostra figlia. Egli mi ha messo a parte del complotto. So che per conto vostro siete risoluto di maritarla con quel Turio, che la vostra graziosa figliuola aborre; e s'ella vi fosse rapita così, certo ne verrebbe gran tristezza alla vostra vecchiaia. Per compiere dunque il dover mio ho preferito ostacolare l'amico nel compimento del suo progetto piuttosto che, tacendo, aggravare la vostra fronte d'un fardello di crucci che altrimenti vi spingerebbe anzi tempo alla tomba.

DUCA: Ti sono grato, Proteo, di tanta onesta sollecitudine: in cambio della quale disponi di me finché vivrò. Mi ero già avveduto sovente dei loro amori, mentre credevano che dormissi; e più d'una volta fui sul punto di escludere Valentino dalla presenza di Silvia, allontanandolo dalla corte. Sennonché, nel timore di lasciarmi trascinar da un geloso sospetto a far torto a un innocente (che sempre fin qui ho rifuggito giudizi avventati), continuai a dimostrargli benevolenza onde accertarmi sicuramente di quello che ora tu mi confermi. Giudica a che grado erano giunti i miei timori: ben sapendo quanto facile sia la tenera giovinezza a restar sedotta rinchiudo Silvia tutte le notti in un'alta torre, di cui tengo sempre io stesso la chiave. E di là non è possibile che la rapisca.

PROTEO: Sappiate allora, nobile signore, che hanno escogitato un mezzo col quale egli potrà raggiungere la finestra della sua stanza, e quindi farla fuggire mediante una scala di corda. Poco fa il giovane innamorato era andato appunto a procurarsi codesta scala: e come tra breve sarà qui di nuovo, voi se volete, potrete sorprenderlo al passaggio. Ma vi scongiuro, mio buon signore, prudenza: perché non possa indovinare che sono stato io ad avvertirvi. Devozione verso di voi, non odio verso l'amico mi ha indotto a rivelarvi il suo disegno.

DUCA: Sull'onor mio, non saprà mai che tu me ne abbia accennato una sola parola.

PROTEO: Addio, signore: ecco Valentino. (Esce)

 

(Entra VALENTINO)

 

DUCA: Dove andate, messer Valentino, così di fretta?

VALENTINO: Se non dispiace a Vostra Grazia, un messo mi sta aspettando, che deve portar mie lettere ad alcuni amici. Vado a consegnargliele.

DUCA: Sono dunque così importanti?

VALENTINO: Non vi si parla che della mia buona salute e delle soddisfazioni che provo alla vostra Corte.

DUCA: Oh, allora non c'è fretta. Resta un po' qua con me: ho da parlarti di una faccenda che mi preme, e per la quale chiedo tutta la tua discrezione. Tu non ignori che conto di far sposare mia figlia al mio amico messer Turio.

VALENTINO: Lo so, signore. E certamente sarebbe un matrimonio ricco e onorato, senza dire che il gentiluomo è pieno di virtù, di munificenza, di merito: ha tutte le qualità per aspirare alla mano della vostra leggiadra figliuola. Non può Vostra Grazia indurla ad accettarlo?

DUCA: No, sai, ella è capricciosa e bisbetica, caparbia, riottosa e superba, disobbediente e testarda; non sente doveri, non ha riguardi né timore per suo padre. Ma ormai, a dirtela tutta, ho aperto gli occhi; quel suo carattere orgoglioso l'ha straniata dal mio affetto, e se un tempo speravo per i miei tardi anni il conforto delle sue amorevoli cure filiali, oggi son risoluto di ammogliarmi e dar lei a chiunque la pigli. Si tenga per tutta dote la sua bellezza, dacché non fa conto né di me né dei miei averi.

VALENTINO: E in tutto questo come vorrebbe Vostra Grazia ch'io entrassi?

DUCA: Abita qui in Milano una gentildonna per la quale io sospiro, ma riservata e contegnosa com'è non si lascia punto commuovere dalla mia eloquenza di vecchio. Vorrei che tu, Valentino, mi fossi precettore (da tanto ho dimenticato come si corteggiano le signore; e la moda è così mutata!); che tu m'insegnassi la via per far posare sopra di me i suoi sguardi celesti.

VALENTINO: Convincetela con qualche regalo, se non apprezza i discorsi. Più assai delle parole una signora sente di una fulgida gemma il linguaggio silente.

DUCA: Ma ella ha sdegnato un dono che le inviai.

VALENTINO: La donna finge spesso di sdegnare proprio quello che più desidera. Insistete a mandarne, ricordando che Amore dal primitivo sprezzo trae più intenso calore. Se fa la corrucciata non è d'odio l'effetto, ma del volervi rendere più ancora a lei soggetto; quando poi vi maltratta congedarvi non vuole: quelle sciocchine smaniano, se rimangono sole. Fate mostra di nulla, checché dica, e restate: di rado un "Via di qui!" vuol dir "Non ritornate". Vantate le sue grazie: e, fosse nera in viso, giurate che ha un sembiante degno del paradiso.

Insomma è un buono a nulla chi la bocca ha provvista di lingua ed una donna con essa non conquista.

DUCA: Ma quella di cui ti parlo è già promessa dai suoi parenti a un giovane di merito: e così severamente segregata che nessuno di giorno può far conto d'avvicinarla.

VALENTINO: Proverei allora a vederla di notte.

DUCA: Già: ma tutte le porte son chiuse a chiave, e le chiavi tenute al sicuro: impossibile profittar delle tenebre per giungere fino a lei.

VALENTINO: E cosa vieta che vi si arrivi dalla finestra?

DUCA: La sua camera è così in alto e le mura così ripide che non si potrebbe tentare la scalata senza evidente rischio della vita.

VALENTINO: Allora una buona scala di corda da lanciar su, con un paio di rampini per agganciarla, basterebbe a penetrar nella torre di un'altra Ero, se un nuovo Leandro volesse tentare arditamente la sorte.

DUCA: Orbene, quant'è vero che sei un gentiluomo, insegnami come procacciarmi una simile scala.

VALENTINO: Ditemi, signore, quando vorreste servirvene.

DUCA: Questa notte stessa. Amore è come un fanciullino: quel che ha a portata di mano brama ottenerlo immediatamente.

VALENTINO: Alle sette vi procurerò la scala.

DUCA: Ma ascolta: voglio andarci solo: come potrò trasportarla meglio?

VALENTINO: Sarà così leggera, signore, che vi basterà nasconderla sotto un mantello un po' lungo.

DUCA: Uno come il tuo farebbe al caso?

VALENTINO: Certo, mio buon signore.

DUCA: Fammelo un po' vedere: me ne procurerò uno uguale.

VALENTINO: Ma, Vostra Grazia, qualunque mantello farà al caso.

DUCA: E come ho da metterlo? Lascia che mi provi un po' il tuo.

(Solleva il mantello di Valentino. Una lettera e la scala cadono in terra) Oh! che lettera è questa? Che vedo? "A Silvia!". Ed ecco qui lo strumento adatto alla mia impresa! Per una volta tanto sarò così indiscreto da spezzare i sigilli. (Legge)

"Disciolgo nella notte i pensier miei Incontro a Silvia, schiavi messaggeri.

Oh potessi ancor io volare a lei Con pari levità di que' pensieri!

Riposan essi nel tuo sen pudico, Mentr'io, lor re, la sorte a' miei soggetti Invidio, e quella grazia maledico Che di tal grazia li fe' benedetti.

Odio me stesso, che li feci andare Dove in cambio di loro vorrei stare...

Che vuol dir ciò?

Ma ti verrò stanotte a liberare".

Proprio così, infatti: ecco anche la scala che doveva servire all'impresa. Oh Fetonte - perché ben sei il figlio di Merope aspiri tu dunque a condurre il carro celeste e a bruciar l'universo con la tua folle temerità? Vuoi tu impadronirti degli astri, sol perché rifulgono sopra di te? Va', vile intruso, schiavo temerario! Va' a largire l'adulazione dei tuoi sorrisi ai pari tuoi! E ricordati che devi soltanto alla mia pazienza, non ai tuoi meriti, se mi limito a scacciarti. Restami grato di questo benefizio più che di tutti gli altri che troppo generosamente ti ho prodigato fin qui. Ma se pensi d'indugiar nei miei stati più di quanto occorra per una immediata partenza da questa Corte, ah, per il cielo! la mia collera vincerà di molto l'affetto ch'io possa aver mai provato per mia figlia o per te.

Vattene: non voglio nemmeno ascoltar le tue inutili scuse; fuggi, se ti è cara la vita!

 

(Esce)

 

VALENTINO: E perché non la morte, piuttosto che una vivente tortura?

Morire è come esser messi al bando di se medesimi. Silvia è un altro me: bandirmi da lei è esiliar me da me stesso: mortale esilio! Qual luce è luce, se non per veder Silvia? Qual gioia è gioia, se Silvia non mi è vicina? o se non altro poter pensare che mi è vicina, e godere almeno il riflesso della perfezione? Se una notte Silvia non mi è vicina, non ha armonia il canto del rosignolo; se un giorno non contemplo Silvia, quel giorno non esiste per me. Ella è l'essenza stessa di me ed io non sono, se quel suo dolce influsso non mi riscalda, non m'illumina, non mi carezza, non mi alimenta. Col sottrarmi alla condanna mortale non eviterei di morire: se mi attardo qui non vado incontro che alla morte, ma se fuggo di qui fuggo lontano dalla vita.

 

(Entrano PROTEO e CIRIOLA)

 

PROTEO: Corri, ragazzo, svelto, e trovamelo!

CIRIOLA: Ehilà! ehilà!

PROTEO: Chi hai visto?

CIRIOLA: Quello che stiamo cercando: non fa un passo che non sia una passione.

PROTEO: Sei proprio Valentino?

VALENTINO: No.

PROTEO: Chi allora? il suo spirito?

VALENTINO: Neppure.

PROTEO: E chi dunque?

VALENTINO: Nessuno.

CIRIOLA: Come può parlare nessuno? Padrone, lo bastono?

PROTEO: Chi?

CIRIOLA: Nessuno.

PROTEO: Te lo proibisco, mariolo.

CIRIOLA: Ma, signore, una volta che bastono nessuno: vi prego...

PROTEO: Smettila, ho detto, gaglioffo. Valentino mio, una parola.

VALENTINO: I miei orecchi son chiusi e non possono udire buone novelle, tante furono le cattive che già li hanno percossi.

PROTEO: Seppellirò dunque in un muto silenzio anche le mie, perché sono aspre, crudeli e dolorose.

VALENTINO: E' morta Silvia?

PROTEO: Mai più, Valentino.

VALENTINO: Mai più Valentino, infatti, per l'adorabil Silvia! Mi ha tradito?

PROTEO: Mai più, Valentino.

VALENTINO: Mai più Valentino, se Silvia mi avesse tradito! Che notizie dunque mi rechi?

CIRIOLA: C'è un editto, signore, che vi 'blandisce'.

PROTEO: Che ti bandisce (questa ahimè è la notizia) da Milano, da Silvia e dall'amico tuo.

VALENTINO: Oh, di codesto dolore mi sono già tanto nutrito che l'eccesso mi darà allo stomaco. Sa Silvia del mio esilio?

PROTEO: Sì, sì: e contro a tale condanna, che se non è revocata, conserva tutta la sua efficacia, ha offerto un oceano di perle disciolte, o lagrime come altri voglia chiamarle; le ha versate ai piedi del padre spietato, umilmente prostrandosi dinanzi a lui e torcendosi le mani, quelle mani il cui candore s'addiceva così al suo tormento, che pareva averle sbiancate l'angoscia. Ma né i ginocchi reclini né le pure mani imploranti, né i tristi sospiri, i profondi gemiti, i flutti argentei delle lacrime son valsi a commuovere l'inflessibile padre. "Se Valentino sia preso, morrà". Anzi, la supplichevole intercessione di lei per ottenerti grazia l'ha esacerbato al punto, da rinchiuderla in un'angusta prigione con la minaccia crudele di non trarvela più.

VALENTINO: Oh, basta... A meno che la parola che stai per dire non abbia potere di darmi la morte. Ti prego, se è così, di mormorarla nel mio orecchio come finale de profundis al mio dolore infinito.

PROTEO: Cessa di gemere su quello che non ha riparo, e cerca un riparo a quello di cui gemi. Il tempo nutrisce e alleva ogni felice esito. Se rimani, non rivedrai per questo il tuo amore; e ogni indugio ti scorcia la vita. La speranza è il bastone degli innamorati: ti sostenga nel lasciare la corte, e maneggialo contro la disperazione.

Te lontano, potranno esser qui le tue lettere. Indirizzale a me, e saprò io fare in modo che raggiungano il candido seno della tua Silvia. Orsù, non è il momento delle rimostranze. Vieni: ti accompagnerò fin oltre alle porte della città, e prima di separarci parleremo ancora a lungo di tutto quanto interessa il tuo amore. Per amor di lei, se non di te stesso, pensa al pericolo che corri; e seguimi!

VALENTINO: Ti prego, Ciriola, se vedi il mio servo, digli che mi raggiunga senza indugio alla Porta di mezzanotte.

PROTEO: Svelto, marrano, corri a ricercarlo! Andiamo, Valentino.

VALENTINO: Oh dolce Silvia! oh triste Valentino!

 

(Escono Valentino e Proteo)

 

CIRIOLA: Io non sono che uno scervellato, vedete: eppure ho abbastanza comprendonio per intendere che il mio padrone è una specie di furfante: però non lo perderò per questo, se è vero che Dio li fa e poi li accoppia. Nessuno al mondo sa che sono innamorato: eppure sono innamorato: ma neppure un attacco di cavalli ce la farebbe a strapparmi questo segreto e il nome della donna che amo. Perché è una donna, sì: ma chi sia questa donna non lo dirò neppure a me stesso.

Eppure è la ragazza di un lattaio: eppure non è una ragazza, perché ha dato da fare alle comari; eppure una ragazza è, perché è la ragazza del suo padrone, che gli passa un mensile. Ha più qualità lei d'un cane spagnolo, che per una semplice cristiana non è dir poco. (Sfodera una carta) Ecco il catalogo delle sue virtù. "'In primis': sa andare a prendere e sa portare". Neppure un cavallo potrebbe far di meglio.

Anzi, un cavallo non sa andare a prendere: sa soltanto portare. Dunque vale più di una giumenta. "'Item': sa mungere". Una gran qualità, sapete, per una ragazza che ha le mani pulite!

 

(Entra Schizzo)

 

SCHIZZO: Ebbene, messer Ciriola, che notizie del tuo padrone? Come se la barcamena?

CIRIOLA: La barca mena? Già, è in mare?

SCHIZZO: Il tuo solito vizio di fraintendere. Che notizie, dunque, in codesta carta?

CIRIOLA: Le più nere che tu abbia mai udito.

SCHIZZO: Perché poi nere?

CIRIOLA: Già, nere come l'inchiostro.

SCHIZZO: Fammi leggere.

CIRIOLA: Va' là, testa di rapa: tu non sai leggere.

SCHIZZO: Bugiardo, so e come.

CIRIOLA: Ti voglio mettere alla prova. Sentiamo: chi ti ha messo al mondo?

SCHIZZO: Per Iddio: il figlio del mio nonno.

CIRIOLA: Oh pigraccio analfabeta! E' stato il figlio della tua nonna e questo dimostra che non sai leggere.

SCHIZZO: Su via, tonto, fammi provare sulla tua carta.

CIRIOLA: Eccola, e che San Nicola ti aiuti!

SCHIZZO: 'In primis': sa mungere".

CIRIOLA: Sa mungere, sicuro.

SCHIZZO: 'Item': sa spillare la birra".

CIRIOLA: E di qui il detto: chi spilla bene Dio lo mantiene.

SCHIZZO: 'Item': sa rammendare".

CIRIOLA: Ha buona memoria e si rammenta di tutto.

SCHIZZO: 'Item': sa far la calza".

CIRIOLA: E che bisogno ha un uomo di farsi tirar su le calze da una ragazza che gliele sa fare?

SCHIZZO: 'Item': sa lavare e sbattere".

CIRIOLA: Dote egregia, perché così non occorre darle lavate di capo e battiture.

SCHIZZO: 'Item': sa filare".

CIRIOLA: Allora le cose fileranno bene, se essa può guadagnarsi la vita filando.

SCHIZZO: 'Item': ha molti pregi senza nome".

CIRIOLA: Che è quanto dire pregi bastardi, perché non conoscono i loro padri e quindi non hanno nome.

SCHIZZO: "Ora vengono i suoi difetti".

CIRIOLA: Alle calcagna delle sue virtù.

SCHIZZO: "'Item': non c'è da baciarla a digiuno, causa il suo alito".

CIRIOLA: Be', a questo si rimedia con una colazione. Avanti.

SCHIZZO: 'Item': è una buona bocca".

CIRIOLA: Un compenso al fiato cattivo.

SCHIZZO: 'Item': parla dormendo".

CIRIOLA: Mal di poco, purché non dorma parlando.

SCHIZZO: 'Item': parla adagio".

CIRIOLA: Oh, ignorantaccio chi l'ha segnato tra i difetti! Parlare adagio per una donna è virtù. Scancella, fammi il piacere, e mettilo in testa alle sue doti.

SCHIZZO: 'Item': è callida".

CIRIOLA: Calda? Scancella anche questo: è l'eredità di Eva e non si può levargliela.

SCHIZZO: 'Item': non ha denti".

CIRIOLA: Non m'importa neppur di questo, perché la crosta piace a me.

SCHIZZO: 'Item': è ringhiosa".

CIRIOLA: Be', meno male allora che non ha denti per mordere.

SCHIZZO: 'Item': gusta sovente il mommo".

CIRIOLA: Se il mommo è buono, lo gusti pure. E se non lo gustasse lei lo gusterei io: le cose buone vanno gustate.

SCHIZZO: 'Item': è prodiga".

CIRIOLA: Della sua lingua è impossibile, se c'è scritto che parla adagio. Della sua borsa nemmeno, perché la terrò chiusa io. Di qualche cos'altro può darsi, ma non saprei come impedirglielo. Be', avanti.

SCHIZZO: "Ha più capelli che testa, più difetti che capelli, e più soldi che difetti".

CIRIOLA: Alto là: me la sposo! Prima di questo articolo, due o tre volte avevo deciso di farla mia, e altre due o tre volte di non pensarci neppure. Leggilo daccapo.

SCHIZZO: "'Item': ha più capelli che testa...".

CIRIOLA: Più capelli che testa! Può darsi e te lo dimostro. Il coperchio della saliera sta sopra al sale, e perciò è più del sale, i capelli che stanno sopra alla testa son più della testa, perché il più vince il meno. Poi che viene?

SCHIZZO: "... più difetti che capelli...".

CIRIOLA: Questo è un vero guaio! Così non fosse!

SCHIZZO: "... e più soldi che difetti".

CIRIOLA: Ecco una parola che rende deliziosi i difetti. Sì, sì, me la prendo. E se questo matrimonio si combina, giacché tutto è possibile...

SCHIZZO: Allora?

CIRIOLA: Allora ti dirò... che il tuo padrone ti aspetta alla Porta di mezzanotte.

SCHIZZO: Me?

CIRIOLA: Te, sì. E chi ti credi di essere? Ne ha aspettati dei più degni.

SCHIZZO: E debbo andare a raggiungerlo?

CIRIOLA: Correre devi: ti sei trattenuto tanto che andare non basterebbe più.

SCHIZZO: E perché non me l'hai detto prima? Il canchero alle tue lettere d'amore!

 

(Esce)

 

CIRIOLA: E ora, per aver letto la mia lettera sarà bastonato a dovere.

Villanzone indiscreto: che impari a ficcare il naso nelle faccende degli altri! Voglio seguirlo. Me la godrò un

mondo a vedergli somministrare una buona lezione.

 

(Esce)

 

 

 

SCENA SECONDA - Milano. Una sala nel Palazzo del Duca

(Entrano il DUCA e TURIO)

 

DUCA: Non avete più a temere ch'ella non vi ami, messer Turio, ora che Valentino è bandito dalla sua presenza.

TURIO: Ma da quando egli è in esilio mi disprezza ancor più, rifugge dalla mia compagnia e mi tratta con tanto sdegno che ormai dispero di conquistarla.

DUCA: Deboli come figure tagliate nel ghiaccio sono le immagini d'Amore, che con un po' di fiamma si liquefanno perdendo ogni forma.

Non ci vorrà molto a disciogliere il gelo dei suoi pensieri, e l'indegno Valentino sarà dimenticato.

 

(Entra PROTEO)

 

Oh, messer Proteo: ebbene? E' partito il vostro concittadino, secondo il bando?

PROTEO: Partito, mio buon signore.

DUCA: Mia figlia si cruccia di questo distacco.

PROTEO: Con un poco di tempo il suo dolore si dissiperà.

DUCA: Ne sono convinto; ma Turio non la pensa così. Il buon concetto in cui ti tengo, Proteo, e che più volte hai dimostrato di meritare, mi sprona a confidarmi con te.

PROTEO: Possa io non vivere, Vostra Grazia, più a lungo di quanto io non resti lealmente devoto a Vostra Grazia.

DUCA: Tu sai che è nei miei voti più ardenti un'unione fra messer Turio e mia figlia.

PROTEO: Lo so, mio signore.

DUCA: E non ignori, credo, ch'ella si oppone ai miei voleri.

PROTEO: Vi si opponeva quando Valentino era qui.

DUCA: Sì: ma persevera ancora nella sua perversità. Che possiamo noi fare perché dimentichi l'amore di Valentino ed ami invece messer Turio?

PROTEO: La via migliore è di calunniare Valentino, accusandolo d'esser falso, vile, e di bassa estrazione: tre cose che le donne hanno in odio.

DUCA: E' giusto: ma penserà che lo diciamo per odio.

PROTEO: Si, se a dirlo fosse un nemico di Valentino. Bisognerebbe, invece, che lo dicesse con molti rigiri qualcuno ch'ella conosca per amico di lui.

DUCA: In tal caso non potreste essere che voi ad assumervi la parte del calunniatore.

PROTEO: E questo mi ripugna, signore. E' un mestiere troppo abbietto per un gentiluomo: tanto più poi contro l'amico migliore.

DUCA: Ma dal momento che nessuna buona parola potrebbe giovargli, come gli nocerebbe la diffamazione? E' dunque un atto neutrale, questo che vi chiedo da amico.

PROTEO: Avete vinto, mio signore. E se è vero che quello della calunnia sia il metodo giusto, allora fate pur conto ch'ella cesserà in breve di amarlo. Tuttavia, anche pensando ch'io riesca a strapparle dall'anima l'amore per Valentino, non per questo si innamorerà di messer Turio.

TURIO: Infatti, nello sdipanar dal suo cuore codesta passione, bisognerà, perché non s'imbrogli e non giovi più a nessuno, che voi cerchiate di aggomitolarla a me: basterà lodarmi tanto quanto denigrerete Valentino.

DUCA: E noi ci fidiamo, Proteo, di riporre questa faccenda nelle vostre mani. Fu Valentino stesso a dirci che siete già uno schiavo fedele d'amore; né certo vi muterete ora d'un tratto. Con tale sicurtà vi concederemo di accedere a Silvia liberamente e d'intrattenerla:

triste, abbattuta, malinconica come si trova, sarà ora lieta di vedervi per amore del vostro amico; e di ciò voi profitterete per indurla con persuasivi discorsi ad odiare il giovane Valentino, ad amar questo gentiluomo.

PROTEO: Farò il meglio che posso. Ma anche voi, messer Turio, dovreste ingegnarvi di più: che so, provarvi ad inviarle, per invescare i suoi sentimenti nelle vostre panie, mesti sonetti le cui rime ben studiate fossero cariche di opportune lusinghe.

DUCA: Sì, grande è la forza della celestiale poesia.

PROTEO: Ditele che sull'altare della sua bellezza voi immolate i vostri pianti, i vostri sospiri, il vostro cuore; scrivetele fino a che l'inchiostro sia secco, e tornate poi a inumidirlo di lagrime; stillate qualche verso pieno di commozione, che attesti la schiettezza dei vostri aneliti: ché con nervi di poeti fu teso quel liuto di Orfeo, le cui vibrazioni sublimi sapevano intenerire l'acciaio e le pietre, ammansare le tigri, far sì che i mostruosi leviatani dagli inesplorati abissi affiorassero a danzar sulle spiagge. E dopo queste dolenti elegie, accompagnato da una melodiosa orchestra di musici, recatevi a notte sotto la finestra della vostra bella intonando sui loro strumenti un malinconico canto; bene il profondo silenzio notturno si adatterà alla soave mestizia di codeste esalanti armonie.

Così e non altrimenti potrete ottenere che Silvia sia vostra.

DUCA: Questa tua lezione mostra che sei stato innamorato.

TURIO: E subito stanotte porrò il tuo consiglio in pratica. Andiamo dunque senz'altro in città, mio caro Proteo, mio buon puntatore, per riunire un gruppo di abili musici. Ho con me un sonetto che è quello che ci vuole per dar l'avvio ai tuoi buoni suggerimenti.

DUCA: Dunque all'opera, signori!

PROTEO: Terremo compagnia a Vostra Grazia fin dopocena, poi disporremo il nostro piano.

DUCA: No, no, provvederete senza indugio; vi terrò per iscusati.

 

(Escono)

 

 

 

ATTO QUARTO

 

SCENA PRIMA - Una foresta fra Milano e Verona

(Entrano alcuni Banditi)

 

PRIMO BANDITO: Attenti, ragazzi: scorgo un passeggero.

SECONDO BANDITO: Fossero anche dieci c'è da andargli addosso, non da tirarsi indietro.

 

(Entrano VALENTINO e SCHIZZO)

 

TERZO BANDITO: Alto là, messere: buttateci tutto quello che avete, o vi butteremo in terra noi per svaligiarvi.

SCHIZZO: Siamo perduti, signore... Sono i famosi banditi, il terrore dei viaggiatori!

VALENTINO: Amici miei.

PRIMO BANDITO: Niente, niente, messere: siamo vostri nemici.

SECONDO BANDITO: Zitto, ascoltiamolo.

TERZO BANDITO: Per la mia barba! sicuro che bisogna ascoltarlo: ha l'aria d'un uomo come si deve.

VALENTINO: Sappiate allora che ho ben poco da perdere, tanto mi è nemica la sorte. Le mie ricchezze sono questi poveri abiti:

spogliatemene e vi sarete presi tutto il mio.

SECONDO BANDITO: Dove eravate diretto?

VALENTINO: A Verona.

PRIMO BANDITO: Donde venite?

VALENTINO: Da Milano.

TERZO BANDITO: Vi avete soggiornato a lungo?

VALENTINO: Forse sedici mesi: ma ci sarei rimasto di più se non m'avesse colpito la maligna fortuna.

SECONDO BANDITO: Esiliato?

VALENTINO: Sì.

SECONDO BANDITO: Per quale delitto?

VALENTINO: Per una causa che non posso ridir senza pena. Ho ucciso un uomo: e non finisco di pentirmi della sua morte, benché lo abbia vinto in cavalleresco duello, ad armi pari e senza mezzi sleali.

PRIMO BANDITO: Allora non avete da pentirvi, se è andata a codesto modo. Ma vi bandirono per una colpa così lieve?

VALENTINO: Sì; e non mi pare condanna eccessiva.

SECONDO BANDITO: Sapete qualche lingua?

VALENTINO: Viaggiando in gioventù mi sono procurato questo vantaggio, senza del quale spesso mi sarei trovato male.

TERZO BANDITO: Per la pelata del fratacchione di Robin Hood! Costui sarebbe il re che ci vuole alla nostra banda salvatica!

PRIMO BANDITO: E lo sarà. - Signore, una parola.

SCHIZZO: Mettetevi con loro; è un'onestissima ladreria.

VALENTINO: Zitto, gaglioffo!

SECONDO BANDITO: Diteci un po': avete nessuna risorsa?

VALENTINO: Nulla, fuorché la mia fortuna.

TERZO BANDITO: Sappiate allora che diversi fra noi, nati gentiluomini, si trovarono per pazzie di gioventù esclusi dal consorzio degli uomini rispettabili. Io stesso fui bandito da Verona dono aver tentato di rapire una ricca ereditiera, parente stretta del duca.

SECONDO BANDITO: E io da Mantova perché in un accesso di furore pugnalai al cuore un gentiluomo.

PRIMO BANDITO: E io per qualche erroruccio del genere. Ma veniamo al fatto. Se vi confessiamo le nostre colpe è nella speranza che possano scusare questa nostra vita di fuorilegge; inoltre, considerando che siete di bell'aspetto, e a quanto dite, pratico di varie lingue, e l'uomo perfetto di cui abbisogniamo nella nostra professione...

SECONDO BANDITO: Ma soprattutto perché siete un esiliato stiamo qui a trattare con voi. Dunque: vi piacerebbe essere il nostro generale? e facendo di necessità virtù, vivere con noi in queste solitudini?

TERZO BANDITO: Che te ne pare? Vuoi dividere la nostra sorte? Se dici di sì sarai il comandante; e noi ci faremo guidare da te, ti rispetteremo e ameremo come nostro capitano e nostro re.

PRIMO BANDITO: Ma se non gradisci il favore sei morto.

SECONDO BANDITO: Non sopravviverai per gloriarti dell'offerta che ti abbiamo fatto.

VALENTINO: L'offerta è accettata. Vivrò insieme con voi: purché non sia quistione di maltrattare le donnette e i poveri viandanti.

TERZO BANDITO: No: rifuggiamo anche noi da così vili imprese. Orsù, vieni, ti condurremo alla nostra banda. Vedrai il tesoro che abbiamo accumulato: è a tua disposizione come lo siamo noi tutti.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SECONDA - Milano. Il Palazzo del Duca; sotto le finestre di Silvia

(Entra PROTEO)

 

PROTEO: Prima ho tradito Valentino, ed ora debbo ingannare Turio.

Fingendo di parlare in vantaggio di lui ho modo di manifestarle il mio amore; ma Silvia è troppo bella, troppo fedele, troppo pura per lasciarsi sedurre dalle mie indegne profferte. Quando le protesto la schiettezza della mia passione, mi rinfaccia la falsità verso l'amico; quando offro voti alla sua bellezza, mi rammenta che fui spergiuro rompendo fede a Giulia che amavo: eppure con tutti questi rimproveri - e ne basterebbero di meno aspri a scoraggiare un innamorato - più Silvia disprezza il mio amore, più questo, come un cane spagnolo, s'attacca a lei e le scodinzola intorno. Ma ecco qua Turio. Andremo sotto le sue finestre a lusingarle l'orecchio con qualche serenata.

 

(Entra TURIO coi Musici)

 

TURIO: E che, messer Proteo: vi siete insinuato qui furtivamente prima di noi?

PROTEO: Proprio così, Turio gentile: voi ben sapete che Amore s'insinua furtivamente là dove non ha libero accesso.

TURIO: Lo so; ma spero, signore, che voi non amiate da queste parti.

PROTEO: Al contrario. Non sarei venuto se non amassi.

TURIO: Chi? Silvia?

PROTEO: Già, Silvia: come amico vostro.

TURIO: E io come amico ve ne ringrazio. Ma orsù, signori, accordate gli strumenti, e forza a sonare!

 

(Entra l'OSTE seguito da GIULIA in abito di paggio)

 

OSTE: Be', e ora che vi succede, mio giovine cliente? Mi parete diventato 'malinconico'.

GIULIA: Ahimè, bravo oste, essere allegro non posso.

OSTE: Ci penso io a farvi stare allegro. Gusterete della buona musica e vedrete quel gentiluomo che cercate.

GIULIA: Ma lo sentirò anche parlare?

OSTE: Sicuro che lo sentirete.

GIULIA: Quella per me sarà musica.

 

(Incomincia la musica)

 

OSTE: Ascoltate, ascoltate!

GIULIA: E' fra costoro?

OSTE: Sì; ma ora zitto e ascoltiamo.

CANZONE.

Chi è mai Silvia, che i pastori Vanno a gara in esaltarla?

Bella e saggia, di splendori Certo il ciel volle adornarla Perché regni sopra i cuori.

Gentilezza in lei si onora Di congiungersi a beltà.

Da' suoi occhi Amore implora Un rimedio a cecità, E guarito vi dimora.

Lodi a Silvia il canto espande, Alla sua grazia divina; Per la terra è dono grande Aver tale una regina.

Su, rechiamole ghirlande!

OSTE: E che? Siete più triste di prima: come mai, giovinotto? Vi ha deluso la musica?

GIULIA: V'ingannate; è il musicante che mi ha deluso.

OSTE: E perché, mio bel giovine?

GIULIA: Dà in falso, babbino.

OSTE: Come, non sono intonate le corde?

GIULIA: Sì, ma stonano con quelle del mio cuore.

OSTE: Avete l'orecchio fino.

GIULIA: Così fossi sordo! Mi fa venire il cuore grosso.

OSTE: Veggo che la musica non vi diletta.

GIULIA: No, quando è così ingrata.

OSTE: Sentite ora che bel cambiamento di melodia.

GIULIA: E' proprio il cambiamento che mi fa patire.

OSTE: Vorreste che sonassero sempre la stessa aria?

GIULIA: Vorrei che un solo non sonasse che una cosa sola. Ma ditemi, oste, questo messer Proteo di cui abbiamo discorso, visita spesso quella gentildonna?

OSTE: Vi ripeterò quel che me ne ha detto il suo servo Ciriola:

l'adora a dismisura.

GIULIA: Dov'è Ciriola?

OSTE: E' andato a ricercare il suo cane: domani, per ordine del padrone, deve offrirlo in dono alla signora.

GIULIA: Zitto, facciamoci da una parte. La brigata si scioglie.

PROTEO: Non temete, messer Turio: saprò così bene perorare per voi che dovrete riconoscermi maestro d'astuzie.

TURIO: E dove ci rivedremo?

PROTEO: Al pozzo di San Gregorio.

TURIO: Addio.

 

(Escono Turio ed i Musici)

(Appare SILVIA alla finestra)

 

PROTEO: La buona sera a voi, madonna.

SILVIA: Grazie a tutti, signori, per la musica. Chi parlava?

PROTEO: Uno, signora, che se voleste riconoscerlo sinceramente devoto, imparereste presto a riconoscerlo dalla voce.

SILVIA: Messer Proteo, mi figuro.

PROTEO: Messer Proteo, graziosa signora, e vostro servo.

SILVIA: Cosa volete?

PROTEO: Fare il desiderio vostro.

SILVIA: Vi accontenterò. Il desiderio mio è che ve ne andiate subito a letto. Oh, traditore, oh, spergiuro, uomo falso e sleale. Mi credi così vana, sciocca da lasciarmi sedurre dalle tue adulazioni, tu che tante hai tratto in inganno con mentite promesse? Va', torna a colei che amavi e implora il suo perdono! Quanto a me, lo giuro su questa pallida regina della notte, sono così lontana dal cedere ai tuoi voti che te per le tue infami proposte disprezzo, e tra un momento me stessa sgriderò per il tempo che perdo a parlarti.

PROTEO: Non nego, mio dolce amore, di aver amato un'altra donna: ma è morta.

GIULIA (a parte): Se lo affermassi io sarebbe una falsità, certa come sono che non è sepolta.

SILVIA: E sia pure. Ma Valentino, l'amico tuo, è vivo ancora; tu medesimo sei testimonio che gli son fidanzata. Non arrossisci dunque di tradirlo con queste tue indegne lusinghe?

PROTEO: Ho anche sentito dire che Valentino è morto.

SILVIA: Fa' conto allora che anch'io lo sia: puoi star sicuro che il mio amore è sepolto nella sua tomba.

PROTEO: Lasciate, dolce signora, ch'io lo dissotterri.

SILVIA: Va' al sepolcro di quella tua signora e invoca l'amor suo; o se non vi riesci, sotterravi il tuo!

GIULIA (a parte): Ecco un consiglio che non starà neanche a sentirlo.

PROTEO: Donna dal cuore spietato, concedete se non altro alla mia passione un'immagine, quel ritratto che sta appeso nella vostra stanza; ad esso rivolgerò tutte le mie parole e i sospiri e le lagrime. Se ad altri è votata la vostra divina persona ed io non sono che un'ombra, che mi sia dato almeno di consacrare all'ombra vostra questo amore tenace.

GIULIA (a parte): Se tu avessi la persona tradiresti anche lei, per ridurla un'ombra come me.

SILVIA: Mi ripugna essere il vostro idolo, messere. Ma dal momento che ben si addice alla vostra falsità di adorare le ombre e prostrarvi dinanzi a mendaci parvenze, mandatemi pure qualcuno domattina, e ve lo farò avere. Buon riposo.

PROTEO: Sì, buon riposo come al condannato che aspetti l'alba e il carnefice.

 

(Escono Proteo e Silvia)

 

GIULIA: Oste, vogliamo andare?

OSTE: Per la Madonna! mi ero addormentato.

GIULIA: Di grazia, e dove abita messer Proteo?

OSTE: Alla mia locanda, diamine. Oh, guarda, è quasi giorno.

GIULIA: No: ma è stata questa la notte più lunga, la più dura della mia vita.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA TERZA - La stessa

(Entra EGLAMUR)

 

EGLAMUR: E' questa l'ora che madonna Silvia mi ha pregato di venir da lei per mettermi a parte dei suoi propositi. Vuol ch'io l'aiuti in qualche faccenda importante. Ehi, signora, signora!

 

(Silvia riappare alla finestra)

 

SILVIA: Chi chiama?

EGLAMUR: Un servitore ed amico, che attende i comandi di vossignoria.

SILVIA: Mille volte buon giorno, messer Eglamur.

EGLAMUR: E a voi altrettanti, madonna. Son venuto di prima mattina, secondo gli ordini di vossignoria, per sapere in che posso servirvi.

SILVIA: Oh Eglamur, tu sei valente, saggio, compìto gentiluomo, di nobilissimi sensi: non lo dico per adularti, credimi! Tu non ignori né la viva inclinazione ch'io provo per l'esiliato Valentino, né che mio padre vorrebbe forzarmi a sposare quello sciocco Turio, che detesto con tutta l'anima. Anche tu sei innamorato: e ti ho sentito dire che nessun maggior dolore ti percosse l'anima di quando morì la donna da te fedelmente amata, e tu giurasti eterna castità sulla sua tomba. Or vorrei, Eglamur, raggiungere Valentino a Mantova, dove so che ha riparato: e come le strade sono pericolose desidero aver la tua preziosa compagnia, affidarmi alla tua illibatezza e al tuo onore. Non oppormi, Eglamur, lo sdegno di mio padre; pensa soltanto a questo mio dolore - il dolore di una donna! - e come sia giusto ch'io fugga per sottrarmi a indegne nozze, quali il cielo e la sorte usano maledire.

E' dal profondo di un cuore pien di doglia come il mare di sabbie che ti supplico di accompagnarmi. Se poi rifiuti, tieni almeno nascosto quanto ti ho confidato; e m'industrierò ad andar sola.

EGLAMUR: Compatisco di cuore le vostre pene, signora; e poiché so quanto onesta ne sia la causa, acconsento a partire con voi. Che possa venirmene male così poco m'importa, come ardentemente desidero che a voi cada ogni bene. Quando volete che andiamo?

SILVIA: Stasera.

EGLAMUR: Dove vi troverò?

SILVIA: Alla cella di frate Patrizio, dove penso di confessarmi.

EGLAMUR: Non mancherò sicuramente. Buon giorno, graziosa signora.

SILVIA: Buon giorno, mio gentile Eglamur.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA QUARTA - La stessa

(Entra CIRIOLA col cane)

 

CIRIOLA: Son pasticci grossi, credete a me, quando l'amico dell'uomo si comporta con l'uomo da figlio d'un cane! Uno che l'ho preso cucciolo, che stavano per affogarlo e l'ho salvato, mentre tre o quattro dei suoi orbi fratelli e sorelle erano bell'e andati a fondo!

Me lo sono allevato con una pazienza da dire: "Così vorrei veder allevato un cane!". Ed ecco che il padrone mi manda a offrirlo in dono alla signora Silvia, e non sono ancora entrato nella sala da pranzo che lui mi salta accanto al vassoio della signora e ruba la sua coscia di cappone! Uh, che scandalo, quando un figlio d'un cane non sa comportarsi in società! Ne vorrei avere uno che fosse così bravo che, per così dire, non si facesse dare il cane. Se non avessi avuto io più cervello di lui addossandomi la sua colpa, credo proprio che l'avrebbero impiccato: quanto è vero che son vivo! Giudicatene voi. In compagnia di altri tre o quattro cani gentiluomini va a cacciarsi sotto la tavola del duca: neanche il tempo, con licenza parlando, di fare una pisciata, che tutta la sala lo sentì all'odore. "Fuori il cane!" dice uno. "Che cagnaccio è questo?" dice un altro. "Cacciatelo a frustate!" dice un terzo. "Impiccatelo!" dice il duca. Io, che conoscevo l'odore, capisco subito che era stato Granchio; e mi avvicino a quello che tien la frusta per i cani. "Amico - gli faccio - vuoi frustar quel cane?". "Sì, perbacco", risponde lui. "Gli fai un gran torto - dico - perché sono stato io". E su due piedi mi caccia fuori a frustate. Quanti padroni farebbero altrettanto per i loro servitori? E bastasse! Giuro che una volta mi son lasciato mettere alla gogna per via di qualche focaccia che aveva rubato lui:

altrimenti l'avrebbero giustiziato. Un'altra volta mi feci mettere alla berlina causa certe oche che aveva azzannato, tutto per evitargli di passare un guaio. Eh, ora te ne sei scordato, vero? Ma io me ne rammento, sai, dello scherzo che mi hai combinato quando mi congedavo dalla signora Silvia! O non ti avevo ordinato di starmi a vedere, e di fare quello che facevo io? E quando mi hai visto, a me, alzare la gamba e far acqua sulle sottane d'una gentildonna? Mi hai visto mai fare una cosa simile?

 

(Entra PROTEO seguito da GIULIA in abito di paggio)

 

PROTEO: Ti chiami Sebastiano? Mi vai a genio e voglio adoprarti subito in qualche faccenda.

GIULIA: Ai vostri comandi: farò il meglio che posso.

PROTEO: Ci conto. (A Ciriola) Be', villanzone, dove hai bighellonato questi due giorni, figlio d'una scanfarda?

CIRIOLA: Per Iddio, messere: ho portato il cane alla signora Silvia, come m'avete ordinato.

PROTEO: E che ha detto di quel gioiellino?

CIRIOLA: Per Iddio! che era un figlio d'un cane; e che, per un regalo simile, meritavate per tutto ringraziamento lo spasso dei cani.

PROTEO: Ma se l'è tenuto?

CIRIOLA: Neanche per sogno. Eccolo qui, l'ho riportato indietro.

PROTEO: Come! E' questo che le hai offerto da parte mia?

CIRIOLA: Sì, signore: quell'altro scoiattolino me l'avevano rubato certe forche di ragazzi sulla piazza del mercato, e allora le ho offerto il mio che è dieci volte più grosso del vostro e perciò è un regalo dieci volte più bello!

PROTEO: Via! fuori dai piedi! E ritrova il mio cane o non venirmi mai più dinanzi! Via, ho detto! Resti lì perché io soffochi di rabbia?

(Esce Ciriola) Un malandrino che ogni momento mi fa sfigurare.

Sebastiano, se ti ho preso al mio servizio è in parte perché ho bisogno d'un giovane come te, che sappia condurre con discrezione gli affari miei mentre non posso fidarmi di quello sciocco villano; ma soprattutto per il tuo aspetto e per i tuoi modi, che se non m'inganno rivelano buona educazione, buon successo e sincerità: è per questo che ti prendo con me. Ed ora va'; eccoti questo anello da portare a madonna Silvia. Molto mi amava, quella che me lo donò.

GIULIA: Si direbbe però che voi non l'amaste, se potete disfarvi di un tal pegno. O è morta?

PROTEO: No, credo che viva.

GIULIA: Ohimè!

PROTEO: Cos'è questo ohimè?

GIULIA: Non posso non compiangerla.

PROTEO: E perché dovresti compiangerla?

GIULIA: Perché capisco che doveva amarvi quanto voi amate Silvia. Ella sogna l'uomo che ha dimenticato l'amore di lei; voi adorate colei che non si cura dell'amor vostro. Non è doloroso che Amore si diverta a giocare così ? Pensavo a tutto questo e mi è venuto detto: ohimè!

PROTEO: Bene, bene; le darai l'anello e insieme questa lettera. Quella lassù è la sua stanza. Dille che le ricordo la promessa del suo divino ritratto. Eseguita poi l'ambasciata torna a casa, dove mi troverai mesto e solitario nella mia camera.

 

(Esce)

 

GIULIA: Quante altre donne vorrebbero assumersi una tale incombenza?

Oh povero Proteo! tu hai messo la volpe a guardia del gregge. Ma perché lo compiango, sciocca che sono, mentre egli mi disprezza con tutta l'anima? E' perché ama lei che mi disprezza; ed è perché amo lui che lo compiango. Ecco l'anello che quando mi lasciò gli diedi per vincolarlo a non dimenticare il mio amore; e ora, sciagurata messaggera, mi bisognerà supplicare per un oggetto che non vorrei ottenere, dovrò offrire una cosa che bramerei fosse respinta, e magnificare la sua fedeltà che vorrei veder disprezzata. Io sono la fedele amante del mio padrone, ma servir fedelmente il mio padrone non posso, se non voglio tradire me stessa. Comunque la corteggerò in nome suo, ma con tutta freddezza: perché sa il cielo come non desidero che raggiunga l'intento.

 

(Entra SILVIA con Seguito)

 

Buon giorno, graziosa signora. Datemi modo, vi prego, di parlare con madonna Silvia.

SILVIA: E che vorresti da lei, se fossi io quella?

GIULIA: Supplico in tal caso la vostra pazienza di ascoltar l'ambasciata che debbo farvi.

SILVIA: Da parte di chi?

GIULIA: Del mio padrone, messer Proteo, madonna.

SILVIA: Ah, vi manda per un ritratto?

GIULIA: Sì, signora.

SILVIA: Orsola, va' a pigliare quel mio ritratto. [E' portato il ritratto) Ed ora portalo al tuo padrone, ma digli da parte mia che una certa Giulia, troppo presto dimenticata dal suo cuore incostante, starebbe assai meglio nella sua stanza che non questa ombra.

GIULIA: Vogliate, signora, leggere questa lettera... Oh, perdonatemi, ve ne ho data un'altra per sbaglio: eccovi la vostra.

SILVIA: Lasciami vedere anche quella, te ne prego.

GIULIA: Non posso, buona signora, scusatemi.

SILVIA: Come credi. Ma non darò neanche un'occhiata allo scritto del tuo padrone: pieno, già lo so, d'invocazioni e giuramenti di nuovo conio, che romperà così facilmente come io lacero questo foglio.

GIULIA: Egli offre anche quest'anello a vossignoria.

SILVIA: Vergogna tanto maggiore da parte sua, in quanto l'ho sentito più volte raccontare che la sua Giulia glielo aveva dato quando partì.

Benché quel dito traditore lo abbia già profanato, il mio non farà a Giulia un tale oltraggio.

GIULIA: Ed essa vi ringrazia.

SILVIA: Che dici?

GIULIA: Che vi ringrazio, madonna, per la pietà che le dimostrate.

Povera signora, quanto torto le fa il mio padrone!

SILVIA: La conosci?

GIULIA: Quasi come me stesso: e vi assicuro che le mille volte ho pianto all'idea delle sue pene.

SILVIA: Penserà forse che Proteo l'abbia dimenticata.

GIULIA: Lo credo anch'io; ed è per questo che si dispera.

SILVIA: Non è molto bella?

GIULIA: E' stata assai più bella di ora, madonna. Quando credeva che il mio padrone l'amasse, a mio giudizio era bella come voi. Ma da quando trascura di guardarsi allo specchio e disdegna la maschera che la riparava dai raggi del sole, l'aria ha avvizzito le rose delle sue guance e offeso i gigli del volto, sì che ormai s'è fatta bruna come me.

SILVIA: E come è grande?

GIULIA: A un dipresso ha la mia statura. A Pentecoste, quando rappresentiamo i nostri lieti spettacoli, quei giovani mi diedero una parte di donna: e indossai le vesti di madonna Giulia che secondo il giudizio di tutti parevan fatte a mio taglio. Ecco come so che siamo della stessa altezza. Quel giorno la feci piangere a buono, perché avevo una parte malinconica; ero Arianna, signora, che si dispera per il tradimento e l'indegna fuga di Teseo; e l'ho recitata con lacrime così sincere che la mia povera signora, commossa, si diede a piangere amaramente. Vorrei morire se in fondo all'anima non sentivo il suo stesso dolore.

SILVIA: Ti sarà certo riconoscente, paggio gentile. Ohimè, povera donna infelice e abbandonata! Piango anch'io se ripenso alle tue parole. Prendi, ragazzo, eccoti la mia borsa; te la do per amore della tua dolce padrona, e perché tu l'amavi. Addio.

GIULIA: Ed ella ve ne ringrazierà, se mai verrete a conoscerla. (Esce Silvia col Seguito) Una dolce gentildonna, bella e virtuosa! Ora che ho visto quanto rispetto ella porta all'amore di Giulia, non dispero che l'intraprendenza del mio padrone finisca delusa. Ohimè, come l'amore può farsi gioco di se stesso! Ecco qui il suo ritratto:

guardiamolo. Mi pare che se avessi la medesima acconciatura, questo mio volto sarebbe bello quanto il suo, senza dire che il pittore l'ha un poco adulata, a meno che non sia io ad adularmi. Lei ha la capigliatura dai riflessi di rame, io bionda come l'oro: se è tutta qui la differenza che me l'ha rapito, saprò ben procurarmi una parrucca di quella tinta! I suoi occhi son glauchi come il vetro, e i miei pure lo sono; mentre ha bassa la fronte, ed io spaziosa. Cosa dunque amerebbe egli in lei ch'io non possa rendere amabile in me, se questo folle Amore non fosse un cieco iddio? Vieni, ombra di te medesima; vieni via e porta teco quest'altra ombra che è la tua rivale. Oh parvenza insensibile! tu sarai amata e baciata, venerata e adorata: ma se nella sua adorazione ci fosse un barlume di ragionevolezza, è questa mia viva persona che egli dovrebbe idolatrare al posto tuo! Sarò gentile con te grazie alla tua padrona che mi ha trattata con bontà; sa Giove altrimenti se non ti avrei graffiato questi occhi senza vista per strapparti dal cuore del mio padrone!

 

(Esce)

 

 

 

ATTO QUINTO

 

SCENA PRIMA - Milano. Un'Abbazia

(Entra EGLAMUR)

 

EGLAMUR: Il sole comincia a indorare il cielo a ponente. Ormai Silvia dovrebb'essere per raggiungermi alla cella di frate Patrizio: e non mancherà sicuramente. Perché gli innamorati non si sbagliano d'ora; o caso mai è per arrivare in anticipo, tanta è la smania che li punge.

Eccola infatti che viene.

 

(Entra SILVIA)

 

Felice sera, madonna.

SILVIA: Amen, amen! Non vi fermate, buon Eglamur, e usciamo subito per la postierla presso il muro dell'abbazia. Ho paura d'esser seguita da qualche spione.

EGLAMUR: Non temete. In due o tre leghe raggiungiamo le foreste; sarà agevole là dentro far smarrire le nostre peste.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SECONDA - Milano. Una stanza nel Palazzo del Duca

(Entrano TURIO, PROTEO e GIULIA)

 

TURIO: Ebbene, messer Proteo, che dice Silvia alle mie istanze?

PROTEO: Mi è parsa meglio disposta del solito, signor mio; benché trovi qualcosa da ridire sulla vostra persona.

TURIO: E che? avrei le gambe troppo grosse?

PROTEO: Anzi, troppo sottili.

TURIO: Metterò gli stivali per rimpolparle.

GIULIA (a parte): Ma l'amore non se ne lascerà spronare a ciò che non gli aggrada.

TURIO: E del mio volto che dice?

PROTEO: Che è pallido.

TURIO: Qui mentisce, la capricciosa: ho la pelle bruna.

PROTEO: Ma le perle son pallide, e un vecchio proverbio dice: "A donna bella uomo bruno è perla".

GIULIA (a parte): E' vero: perle simili offendono la vista alle donne.

Preferirei chiudere gli occhi che guardarle.

TURIO: Apprezza la mia conversazione?

PROTEO: Poco, quando parlate di guerra.

TURIO: Ma molto quando parlo d'amore e di pace?

GIULIA (a parte): E anche di più quando la lasciate in pace.

TURIO: Che dice del mio coraggio?

PROTEO: Non lo mette in dubbio, messere.

GIULIA (a parte): Eh già: lo conosce per codardo.

TURIO: Che dice dei miei natali?

PROTEO: Che siete di buona discendenza.

GIULIA (a parte): Sicuro: è disceso da nobile a balordo.

TURIO: Fa conto dei miei possedimenti ?

PROTEO: Oh, certo: e li compatisce.

TURIO: Perché?

GIULIA (a parte): Perché sono toccati un tal somaro.

PROTEO: Perché li alloccate.

GIULIA: Ecco il duca.

 

(Entra il DUCA)

 

DUCA: Olà, messeri: chi di voi ha veduto ultimamente Eglamur?

TURIO: Io no.

PROTEO: Neppur io.

DUCA: E mia figlia?

PROTEO: Nemmeno.

DUCA: Dunque è fuggita per raggiungere quell'indegno Valentino, ed Eglamur l'accompagna. Non c'è dubbio possibile: sono stati incontrati nella foresta da frate Lorenzo, che vi faceva penitenza. Eglamur l'ha riconosciuto bene, e lei gli è parsa: benché, mascherata com'era, non possa affermarlo con sicurezza. Senza contare che Silvia aveva manifestato l'intenzione di confessarsi stasera da frate Patrizio, e non c'è andata; circostanza che conferma la sua fuga. Vi scongiuro quindi di non restar qui a discorrere, ma di mettervi senza indugio a cavallo. Mi raggiungerete ai piedi della montagna sulla via di Mantova, dove i fuggitivi sono diretti. Svelti, miei buoni signori; e seguitemi.

 

(Esce)

 

TURIO: Questo si chiama essere una ragazza capricciosa: fuggir la fortuna che la insegue! Li voglio rincorrere, più per vendicarmi di Eglamur che per amore di quella Silvia bizzarra.

 

(Esce)

 

PROTEO: E anch'io li inseguirò: ma più per amor di Silvia che per odio verso Eglamur che l'accompagna.

 

(Esce)

 

GIULIA: E io gli terrò dietro: ma più per ostacolar questo amore che per odio verso Silvia, fuggita per amore.

 

(Esce)

 

 

 

SCENA TERZA - Una foresta sui confini di Mantova

(Entrano Banditi con SILVIA)

 

PRIMO BANDITO: Via, via, un po' di pazienza: dobbiamo condurvi dal nostro capo.

SILVIA: Mille sventure ben più gravi m'insegnarono a sopportar questa pazientemente.

SECONDO BANDITO: Orsù, portatela via.

PRIMO BANDITO: Dov'è il gentiluomo che l'accompagnava?

TERZO BANDITO: E' veloce di gamba e ci è scappato di mano; ma Mosè e Valerio gli stanno alle costole. Tu va' con lei al limite occidentale della foresta, dov'è il capitano; noi continueremo a dar la caccia al fuggitivo. Il bosco è circondato: non può sfuggirci.

 

(Escono tutti meno il Primo Bandito e Silvia)

 

PRIMO BANDITO: Andiamo, vi condurrò alla spelonca del capo. Non abbiate paura: è uomo d'onore, né permetterà che siate trattata men che bene).

SILVIA: Ah per te, Valentino, sopporto queste pene.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA QUARTA - Un'altra parte della foresta

(Entra VALENTINO)

 

VALENTINO: Come l'uso crea nell'uomo l'abitudine! Questo ombroso deserto, questi boschi solinghi li preferisco ormai alle città popolate e fiorenti. Qui posso sedermi solo e non visto intonando il doloroso racconto delle mie sventure sulle note malinconiche del rosignolo. Oh tu che hai casa dentro al mio petto, non restar così a lungo lontana dalla tua dimora, se non vuoi che, fatta cadente, essa rovini senza lasciar vestigia di sé! Restaurami, Silvia, con la tua presenza! Conforta, ninfa gentile, il tuo amante desolato! (Rumore di dentro) Ma che strepiti, che confusione son questi di oggi? Saranno sicuramente quei miei compagni: gente che non conosce legge fuor del proprio piacere, aggrediscono forse qualche sciagurato viandante. E benché mi siano devoti, ho sempre un gran da fare per trattenerli da selvaggi eccessi. Nasconditi, Valentino: chi è che viene? (Si nasconde)

 

(Entrano PROTEO, SILVIA e GIULIA)

 

PROTEO: Anche se voi, signora, non volete degnarvi di riconoscere quanto il vostro servo fa per voi, pure il servigio che vi ho reso rischiando la vita per liberarvi da quel malandrino che certo avrebbe fatto oltraggio al vostro onore, merita almeno in cambio un benevolo sguardo. Non potrei io chiedervi né voi concedermi ricompensa più lieve.

VALENTINO (a parte): Quello che veggo e che sento è come un sogno.

Dammi pazienza, Amore, a contenermi un poco.

SILVIA: Oh sventurata, oh infelice che sono!

PROTEO: Infelice, signora, eravate prima che io venissi; ma raggiungendovi vi ho resa felice.

SILVIA: Infelicissima mi rendi con la tua vicinanza!

GIULIA (a parte): E me pure, quando vi si avvicina.

SILVIA: M'avesse adunghiata un leone famelico, avrei preferito servir di pasto alla belva piuttosto che vedermi salvare dal traditore Proteo. Oh mi sia testimone il cielo che se amo Valentino come l'anima mia, altrettanto e non più - ché non sarebbe possibile - odio lo spergiuro e vile Proteo! Va' dunque e abbandona le tue insistenze!

PROTEO: E quale rischio benché mortale non affronterei per un solo vostro sguardo cortese? Ma è dunque la maledizione dell'amore, che la donna non ami - è legge confermata per esperienza eterna - colui dal quale è amata?

SILVIA: Né Proteo ama colei che pure lo idolatra. Leggi in cuore a Giulia, tuo primo, tuo vero amore: per la quale spartisti la tua fede in mille giuramenti che poi hai mutato in altrettanti spergiuri per volgerti a me! Ora non ti resta più fede di sorta. A meno che tu non ne avessi due, e sarebbe peggio che non averne: perché non averne affatto è preferibile alla duplicità della fede in cui una è di troppo. Oh traditore del tuo amico leale!

PROTEO: Ma in amore chi rispetta l'amicizia?

SILVIA: Tutti tranne Proteo.

PROTEO: Ebbene, se la persuasiva dolcezza delle mie parole appassionate non ha saputo piegarvi a più indulgente attitudine, vi corteggerò da soldato, usando a conquistarvi, contro la natura stessa d'amore, le armi della violenza.

SILVIA: Oh cielo!

PROTEO: E saprò forzarti alle mie brame.

VALENTINO (avanzandosi): Indegno bruto! Cessa di abbrancarla: amico di falsa lega!

PROTEO: Valentino!

VALENTINO: Un amico come tanti: senza fede né affetto! Ecco cosa sono gli amici oggigiorno, oh scellerato che hai tradito tutta la mia fiducia! Mi bisognava vederlo con questi occhi per crederci. Né oggi oserei più dire che ho un solo amico sulla terra: tu mi proveresti il contrario. E di chi fidarsi ormai, se la mano destra è spergiura al petto? Che pena, Proteo, di non poter più credere in te, e di sentirmi straniero al mondo per colpa tua! La ferita più intima è la più profonda. Sciagurato momento in cui ti si rivela che l'amico migliore tra i nemici si cela!

PROTEO: Colpa e vergogna mi fanno egualmente smarrito. Perdonami, Valentino. Se un rincrescimento sincero può essere riscatto bastante all'offesa, io te lo offro: il dolore che provo è grande come il male commesso.

VALENTINO: Così son pago: e ti riaccolgo nel novero degli onesti. Chi non si contenta del pentimento non merita di stare né sulla terra né in cielo: indulgono al rimorso entrambi questi regni, e dell'Eterno stesso si placano gli sdegni. Per dimostrarti quanto sia schietto il mio perdono, il posto che ho nel cuore di Silvia a te lo dono.

GIULIA: Oh me infelice!

 

(Sviene)

 

PROTEO: Soccorriamo il mio paggio.

VALENTINO: Be', ragazzo: che scherzi son questi? Cosa ti capita? Apri gli occhi, su, parla.

GIULIA: Buon signore, il mio padrone mi aveva incaricato di consegnare un anello a madonna Silvia: e io, per negligenza, non l'ho fatto.

PROTEO: Dov'è quest'anello ragazzo?

GIULIA: Eccolo qui.

 

(Gli porge un anello)

 

PROTEO: Come? Lasciami vedere. Oh, ma è quello che avevo dato a Giulia!

GIULIA: Scusate, signore: ho sbagliato. Ecco l'anello che volevate offrire a Silvia.

 

(Mostra un altro anello)

 

PROTEO: Ma come ti trovi a posseder quell'anello? L'avevo dato a Giulia partendo.

GIULIA: E Giulia stessa lo ha dato a me e Giulia stessa l'ha portato qui.

PROTEO: Come, Giulia?

GIULIA: Riconosci colei a cui dedicasti tutti i tuoi giuramenti, e che li ha coltivati nel profondo del cuore! Quante volte coi tuoi spergiuri le hai spaccato il cuore alla radice! Oh Proteo, che almeno i miei panni ti facciano arrossire! Vergognati perché ho dovuto indossare quest'abito immodesto: se pur tale può dirsi un travestimento ispirato dall'amore. Assai meglio si scusa donna che muti aspetto, di quanto non si scusi l'uomo che muta affetto.

PROTEO: L'uomo che muta affetto: è vero... Oh cielo! non fosse volubile l'uomo toccherebbe la perfezione. E' quest'unico errore che a tutti i suoi peccati e colpe dà la spinta. Ma prima assai di vincere, la mia incostanza è vinta. Silvia non so nel volto quali grazie riveli, che in Giulia non ritrovino i miei occhi fedeli.

VALENTINO: Su via, datemi entrambi la mano, e che unendole io possa vedervi ormai felici. Amatevi: è peccato star più a lungo nemici.

PROTEO: Attesti il cielo che è questo il mio solo desiderio.

GIULIA: E anche il mio.

 

(Entrano Banditi col DUCA e TURIO)

 

BANDITI: Buona preda! Buona preda!

VALENTINO: Fermi! Fermi, ho detto! E' monsignore il duca. Riceva vossignoria la più devota accoglienza da parte di un uomo in disgrazia, da Valentino il bandito.

DUCA: Voi, messer Valentino!

TURIO: Veggo là anche Silvia; e Silvia è mia.

VALENTINO: Indietro, Turio; o sei morto: non azzardarti entro il raggio della mia collera! E non dire che Silvia è tua; se osi ancora ripeterlo, Verona non ti rivedrà. Eccola, è qua: provati soltanto a toccarla con un dito, a sfiorare l'amor mio anche solo con l'alito!

TURIO: Non m'importa di lei, messer Valentino, assolutamente: pazzo chi mette repentaglio la vita per una donna che non l'ama! Io non avanzo nessuna pretesa: è tua.

DUCA: Sempre più vile, e spregevole ti dimostri, dopo aver smaniato per lei come hai fatto, abbandonandola con tanta facilità. Per l'onore degli avi miei, ammiro, Valentino, il tuo ardimento, e ti giudico degno dell'amore di un'imperatrice. Sappi dunque che da questo istante dimentico ogni trascorso rancore, cancello ogni astio e ti richiamo alla mia Corte. Chiedimi tu gli onori dovuti al tuo impareggiabile merito ed io fin da ora te li accordo con queste parole: Valentino, tu sei un gentiluomo di buona schiatta; prenditi Silvia, ché l'hai ben meritata.

VALENTINO: Ringrazio vossignoria: in questo dono è la mia felicità. Ma ora per amore di vostra figlia vi supplico di concedermi un'altra grazia.

DUCA: Per amor tuo la concedo, qualunque essa sia.

VALENTINO: Questi banditi coi quali mi sono unito è tutta gente dotata di degne qualità. Perdonate le loro colpe e revocate la sentenza che li esilia. Sono pentiti, nobile signore: d'animo buono e cortese, li troverete adatti a essere altamente impiegati.

DUCA: Sia come vuoi: li unisco a te nel perdono. Assegnerai a ciascuno, tu che li conosci, una mansione idonea. Ma ora partiamo:

tutte le nostre contese hanno da concludersi con feste solenni, in trionfale letizia.

VALENTINO: E lungo la strada mi prenderò l'ardire di far sorridere vossignoria con le mie chiacchiere. Che ve ne pare, nobil signore, di questo paggetto?

DUCA: Un ragazzo molto grazioso. Perché arrossisce?

VALENTINO: E' più grazioso che ragazzo, ve accerto, signore.

DUCA: Che volete dire?

VALENTINO: Se lo gradite, vi narrerò cammin facendo eventi che vi faranno stupire. Vieni, Proteo: non farai altra penitenza che di sentir rivelare la storia dei tuoi amori. Dopo di che il giorno delle mie nozze sia il medesimo delle tue: una sola festa, una sola casa, una reciproca e sola felicità.

 

(Escono)