William Shakespeare

 

TROILO E CRESSIDA

 

 

 

PERSONAGGI

 

PRIAMO, re di Troia

ETTORE, TROILO, PARIDE, DEIFOBO, ELENO: suoi figli

MARGARELONE, figlio bastardo di Priamo

ENEA, ANTENORE: comandanti troiani

CALCANTE, sacerdote troiano passato ai Greci

PANDARO, zio di Cressida

AGAMENNONE, il generale greco

MENELAO, suo fratello

ACHILLE, AJACE, ULISSE, NESTORE, DIOMEDE, PATROCLO: comandanti greci

TERSITE, un greco deforme e scurrile

ALESSANDRO, servo di Cressida

Un Servo di Troilo

Un Servo di Paride

Un Servo di Diomede

ELENA, moglie di Menelao

ANDROMACA, moglie di Ettore

CASSANDRA, figlia di Priamo, profetessa

CRESSIDA, figlia di Calcante

Soldati e Persone del seguito, Greci e Troiani

 

 

 

Scena: Troia e il Campo greco dinanzi alla città

 

 

 

PROLOGO

 

La scena è posta a Troia. Dalle isole della Grecia i principi orgogliosi, il loro gran sangue scaldato, hanno spedito al porto d'Atene le lor navi cariche dei ministri e degl'istrumenti della cruda guerra: sessanta e nove cinti di real corona, dalla baia d'Atene salpano alla volta della Frigia; e han fatto voto di mettere a sacco Troia dentro alle cui forti mura la rapita Elena, la regina di Menelao, giace col lascivo Paride, e codesta è la contesa. A Tenedo giungono essi, e i vascelli che pescano a fondo vomitano colà il loro bellicoso carico: ora sulle dardane pianure i freschi e ancora illesi Greci piantano i loro splendidi padiglioni: la città di Priamo dalle sei porte, Dardana, Timbria, Elea, Cheta, Troiana ed Antenoride, con massicce sbarre e ben commessi e infissi catenacci, serra dentro i Troiani. Ora l'aspettativa, stimolando gl'irrequieti spiriti dall'una parte e dall'altra, Troiani e Greci, li spinge tutti ai rischi; e qui io vengo prologo armato, ma non perché io presuma della penna dell'autore o della voce degli attori, ma per esser conforme al nostro argomento, per dirvi, cortesi spettatori, che il nostro dramma salta sopra all'esordio e alle primizie di quelle pugne, e comincia nel mezzo; balzando via di là a quel che può disporsi in un dramma.

Approvate o censurate, fate a vostro piacere; sia bene o male, tali sono le sorti della guerra.

 

 

 

ATTO PRIMO

 

SCENA PRIMA - Troia. Davanti al Palazzo di Priamo

(Entrano TROILO, armato, e PANDARO)

 

TROILO: Chiama qui il mio valletto, voglio di nuovo togliermi l'armi di dosso: perché dovrei guerreggiare fuori delle mura di Troia, quand'io trovo sì crudel battaglia qui dentro? Ogni Troiano che è padrone del suo cuore, vada egli al campo; Troilo, ahimè! non lo ha più.

PANDARO: Non si rimedierà mai questa faccenda?

TROILO: I Greci son forti, e abili nella misura della loro forza, fieri quanto abili, e quanto fieri, valenti; ma io son più debole della lacrima d'una donna, più mite del sonno, più sciocco dell'ignoranza, meno valente d'una vergine durante la notte, e inabile come l'inesperta infanzia.

PANDARO: Ebbene, di questo ti ho parlato abbastanza: per parte mia, non vuo' immischiarmene o occuparmene più oltre. Chi vuol cavare una focaccia dal grano, aspetti la macinazione.

TROILO: Non ho io aspettato?

PANDARO: Già, la macinazione, ma devi aspettare l'abburattamento.

TROILO: Non ho io aspettato?

PANDARO: Già, l'abburattamento, ma devi aspettare la lievitazione.

TROILO: Pure ho aspettato.

PANDARO: Già, fino alla lievitazione; però nella parola "dipoi" ci sono ancora l'intridere, il far la focaccia, lo scaldare il forno, e la cottura; anzi, devi attender anche il raffreddamento, o puoi correre il rischio di scottarti le labbra.

TROILO: La Pazienza stessa, qualunque dea essa sia, meno rifugge dal soffrire che io non faccia. Alla regal mensa di Priamo io siedo; e quando la leggiadra Cressida entra nei miei pensieri... Ah, è così, traditore!... "Quand'essa entra!"... quando ne è fuori?

PANDARO: Ebbene, iersera essa appariva più leggiadra che io mai vedessi apparir lei, o alcun'altra donna.

TROILO: Stavo per dirti: allorché il mio cuore, quasi spaccato da un sospiro, era sul punto di spezzarsi, pel timore che Ettore o mio padre mi osservassero, io, come quando il sole illumina una tempesta, ho seppellito questo sospiro nella grinza d'un sorriso, ma il dolore che è celato in un'apparente letizia è come quella gioia che il fato cangia in subitanea tristezza.

PANDARO: Se i suoi capelli non fossero un po' più scuri di quelli d'Elena - be', lasciamo stare - non ci sarebbero più paragoni tra le donne: ma per parte mia, essa è mia parente, non vorrei, come lo chiamano, lodarla, ma vorrei che qualcuno l'avesse udita parlare ieri, com'io la udii: non voglio toglier lode al senno di tua sorella Cassandra, ma...

TROILO: O Pandaro! io ti dico, Pandaro... quand'io ti dico, che lì le mie speranze giacciono annegate, non mi rispondere a quante braccia di profondità esse siano immerse. Io ti dico che son folle dell'amore di Cressida: tu rispondi: "essa è leggiadra"; tu versi nell'aperta ulcera del mio cuore i suoi occhi, i suoi capelli, le sue guance, la sua andatura, la sua voce; maneggi nel tuo discorso, oh, quella mano di lei, in paragone della quale tutti i bianchi sono inchiostro che scrivono il lor proprio biasimo, alla cui morbida stretta la lanugine del giovane cigno è ruvida, e la quintessenza dei sensi dura come la pietra d'un bifolco; questo tu mi dici, ed è vero quel che tu mi dici quand'io dichiaro che l'amo, ma, così dicendo, invece d'olio e di balsamo, tu immergi in ogni squarcio che m'ha inflitto amore, il coltello che l'ha aperto.

PANDARO: Io non dico più della verità.

TROILO: Tu non la dici tutta.

PANDARO: In fede mia, non voglio immischiarmene. Sia essa quel che è:

se è bella, tanto meglio per lei; e se non lo è, ha fra mano di che rimediarvi TROILO: Buon Pandaro, suvvia. Pandaro!

PANDARO: Le mie pene sono state la ricompensa delle mie fatiche; mal giudicato da lei e mal giudicato da te mi sono intromesso e intromesso, ma poche grazie mi son guadagnate per le mie pene.

TROILO: Come! sei tu adirato, Pandaro? come, con me?

PANDARO: Perché essa è mia parente, ecco che non è bella come Elena:

se essa non fosse mia parente, sarebbe di venerdì così bella come Elena è di domenica. Ma che importa a me? Fosse una mora, non me ne importerebbe; per me fa lo stesso.

TROILO: Dico io forse che essa non è bella?

PANDARO: Non me ne importa se lo dici o no. E' una sciocca a rimanere addietro a suo padre: che se ne vada dai Greci; e così le dirò la prima volta che la vedo. Per parte mia, non vuo' immischiarmi né occuparmi più oltre della faccenda.

TROILO: Pandaro...

PANDARO: Io, no.

TROILO: Dolce Pandaro...

PANDARO: Di grazia, non seguitare a parlarmi! Vuo' lasciar le cose al punto che le ho trovate, e farla finita.

 

(Pandaro esce. Un allarme)

 

TROILO: Tacete, ingrati clamori! tacete, sgarbati suoni ! Sciocchi dall'una parte e dall'altra! Elena dev'essere ben leggiadra, se ogni dì la dipingete tale col vostro sangue. Io non posso combattere con tal viatico; è un tema troppo poco sostanzioso per la mia spada. Ma Pandaro... o iddii, come mi affliggete! Non posso giungere a Cressida se non per mezzo di Pandaro; ed egli è così ostico a lasciarsi persuadere a persuaderla, come essa è d'un'ostinata castità contro ogni corteggiamento. Dimmi, o Apollo, per amore della tua Dafne, che è Cressida, e che Pandaro, e noi, che cosa? L'India è il letto di lei; colà ella giace, una perla: quel che è tra la nostra Ilio e il luogo ov'ella risiede, lo si chiami selvaggio e vagabondo flutto; noi il mercante, e questo veleggiante Pandaro la nostra dubbiosa speranza, il nostro convoglio e il nostro vascello.

 

(Allarme. Entra ENEA)

 

ENEA: Ebbene, principe Troilo! perché non al campo?

TROILO: Perché non là: questa è risposta degna d'una donna, dacché è donnesco esser via di là. Che nuove, Enea, dal campo, oggi?

ENEA: Che Paride è rientrato, ferito.

TROILO: Da chi, Enea?

ENEA: Troilo, da Menelao.

TROILO: Sanguini pure: scalfito per scornato; Paride è trafitto dal corno di Menelao.

 

(Allarme)

 

ENEA: Odi, che bel sollazzo c'è oggi fuor di città.

TROILO: Ce ne sarebbe uno migliore dentro, se "potessi" fosse "posso".

Ma sia pure pel sollazzo di fuori: sei là diretto?

ENEA: In tutta fretta.

TROILO: Suvvia, andiamo dunque insieme.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SECONDA - La stessa. Una strada

(Entrano CRESSIDA ed ALESSANDRO)

 

CRESSIDA: Chi erano quelle che son passate?

ALESSANDRO: La regina Ecuba ed Elena.

CRESSIDA: E dove vanno?

ALESSANDRO: Alla torre di levante, la cui eminenza comanda come suddita tutta la valle, a veder la battaglia. Ettore, la cui pazienza è come una forma di virtù, s'è risentito oggi: ha rimproverato Andromaca, ed ha battuto il suo armiero; e, come se in guerra ci fosse economia di tempo, prima che sorgesse il sole era armato alla leggera, ed eccolo partir pel campo; dove ogni fiore, a mo’ di profeta, ha pianto per quel che ha previsto nell'ira di Ettore.

CRESSIDA: Qual era la cagione della sua ira?

ALESSANDRO: E' voce che sia questa: tra i Greci v'è un nobile di sangue troiano, nipote di Ettore, lo chiamano Ajace.

CRESSIDA: Bene; e che si dice di costui?

ALESSANDRO: Dicono che sia un uomo davvero unico, e stia da solo.

CRESSIDA: Ma così fan tutti gli uomini, a meno che non siano ubriachi, malati, o senza gambe.

ALESSANDRO: Quest'uomo, madonna, ha spogliato molte bestie dei loro particolari aggiunti: è valente come il leone, rude come l'orso, lento come l'elefante; un uomo in cui la natura ha così stipato gli umori che il suo valore è un battuto di stoltezza, e la sua stoltezza ha una salsa di discrezione: non v'è uomo dotato d'una virtù che egli non ne mostri barlume, né v'è uomo tocco da una menda, che egli non ne rechi un'ombra: costui è melanconico senza causa, e gaio a contrappelo: ha le articolazioni d'ogni cosa, ma ogni cosa talmente disarticolata che egli è un gottoso Briareo, con molte mani senza l'uso d'alcuna; o un cieco Argo, tutt'occhi e vista nessuna.

CRESSIDA: Ma perché dovrebbe quest'uomo che fa sorridere me, fare infuriare Ettore?

ALESSANDRO: Dicono che ieri s'azzuffò con Ettore nella battaglia e l'abbatté; la stizza e l'onta per la qual cosa ha da quel momento in poi tenuto Ettore digiuno e insonne.

CRESSIDA: Chi viene verso di noi?

ALESSANDRO: Signora, vostro zio Pandaro.

 

(Entra PANDARO)

 

CRESSIDA: Ettore è un prode.

ALESSANDRO: Quant'altri mai al mondo, madonna.

PANDARO: Che vuol dir ciò? che vuol dir ciò?

CRESSIDA: Buon giorno, zio Pandaro.

PANDARO: Buon giorno, nipote mia Cressida. Di che parlate? Buon giorno, Alessandro. Come va, nipote? Quando siete stata ad Ilio?

CRESSIDA: Stamane, zio.

PANDARO: Di che parlavate quando son venuto? Ettore s'era armato ed era partito prima che giungeste ad Ilio? Elena non s'era levata, eh?

CRESSIDA: Ettore era partito, ma Elena non s'era levata.

PANDARO: Appunto; Ettore s'è riscosso di buon'ora.

CRESSIDA: Di codesto si stava parlando, e della sua ira.

PANDARO: Era adirato?

CRESSIDA: Così afferma costui.

PANDARO: Invero lo era; e ne so la cagione: menerà le mani oggi, questo posso dir loro; e c'è Troilo che non gli starà molto addietro; si guardino da Troilo, questo pure io posso dir loro.

CRESSIDA: Che! è irato anche lui?

PANDARO: Chi, Troilo? Troilo è il migliore dei due.

CRESSIDA: O Giove! non c'è paragone.

PANDARO: Come? non tra Ettore e Troilo? Conoscete un uomo se lo vedete?

CRESSIDA: Sì, se l'ho visto prima e l'ho conosciuto.

PANDARO: Ebbene, io dico che Troilo è Troilo.

CRESSIDA: Allora dite come me; perché io son sicura che egli non è Ettore.

PANDARO: No, e neanche Ettore è Troilo, ci corre!

CRESSIDA: E' giusto per ciascuno di loro; egli è se stesso.

PANDARO: Se stesso! Ahimè, povero Troilo, potesse egli esserlo!...

CRESSIDA: Ma lo è.

PANDARO: Vorrei andare a piedi nudi fino all'India, a patto che lo fosse.

CRESSIDA: Egli non è Ettore.

PANDARO: Se stesso! no, non è se stesso: potesse esserlo! Ebbene, gli dèi son lassì!; il tempo darà cura o sepoltura. Ebbene, Troilo, potesse il mio cuore albergare nel corpo di lei! No, Ettore non è migliore di Troilo.

CRESSIDA: Scusatemi.

PANDARO: E' più anziano.

CRESSIDA: Perdonatemi, perdonatemi.

PANDARO: L'altro non ha ancora raggiunto quell'età; cambierete tono quando l'altro l'ha raggiunta. Ce ne vorrà del tempo prima che Ettore abbia il senno di lui!

CRESSIDA: Non ne avrà bisogno se ha il proprio.

PANDARO: O le sue qualità.

CRESSIDA: Poco importa.

PANDARO: O la sua bellezza.

CRESSIDA: Non si addirebbe a lui; la sua propria è migliore.

PANDARO: Non avete discernimento nipote: Elena medesima giurò l'altro giorno, che Troilo per un bruno, perché ha il viso bruno, debbo confessarlo, ma neanche proprio bruno...

CRESSIDA: No, è bruno senz'altro.

PANDARO: Affé, a dire la verità, bruno e non bruno.

CRESSIDA: A dir la verità, vero e non vero.

PANDARO: Essa lodò la sua carnagione al di sopra di quella di Paride.

CRESSIDA: Come, se Paride ha abbastanza colorito!

PANDARO: Infatti.

CRESSIDA: Allora Troilo ne avrebbe troppo: se essa lo ha lodato al di sopra di lui, la sua carnagione è più accesa di quella di lui: se lui ha abbastanza colorito, e l'altro più acceso, la lode è troppo fiammante per una buona carnagione. Tanto varrebbe che l'aurea lingua di Elena avesse elogiato Troilo per un naso rosso.

PANDARO: Vi giuro, credo che Elena ami lui più di Paride.

CRESSIDA: Allora ell'è davvero una gaia greca.

PANDARO: Ma sì, son sicuro che è così L'altro giorno essa è venuta da lui alla finestra ad arco e, sapete, egli non ha più di tre o quattro peli sul mento...

CRESSIDA: In verità, l'aritmetica d'un tavernaio potrebbe presto fare il totale dei suoi addendi in quel punto.

PANDARO: Già, è molto giovane; eppure egli può toglier su di terra quanto suo fratello Ettore, che non ci correran tre libbre.

CRESSIDA: Come, è un uomo così giovane, e un togliroba così vecchio?

PANDARO: Ma per dimostrarvi che Elena lo ama: essa è venuta, ed eccola che mi pone la sua bianca mano sul suo mento diviso...

CRESSIDA: Giunone, abbi pietà! come capitò che si dividesse?

PANDARO: Suvvia, sapete, ha una fossetta. Io credo che il sorridere si addica di più a lui che a qualunque altro uomo in tutta la Frigia.

CRESSIDA: Oh, egli sorride valorosamente!

PANDARO: Non è così?

CRESSIDA: Sicuro, come una nuvola d'autunno.

PANDARO: Be', dite pure. Ma per provarvi che Elena ama Troilo...

CRESSIDA: Troilo non si ritrarrà dalla prova, se la prova ha da esser codesta.

PANDARO: Troilo! ma se non fa più conto di lei di quel che io non faccia d'un uovo fradicio!

CRESSIDA: Se voi amate un uovo fradicio quanto amate un capo scarico, mangereste i pulcini nel guscio.

PANDARO: Non posso fare a meno di ridere a pensare come essa gli solleticava il mento: invero, ell'ha una mano meravigliosamente bianca, devo confessarlo...

CRESSIDA: Senza bisogno del cavalletto.

PANDARO: Ed essa si caccia in capo di scoprire un pelo bianco sul mento di lui.

CRESSIDA: Ahimè, povero mento! parecchie verruche son più ricche.

PANDARO: Ma si fece un tal ridere! la regina Ecuba rise finché gli occhi le traboccarono.

CRESSIDA: Già, di pietre da màcina...

PANDARO: E Cassandra rise.

CRESSIDA: Ma c'era un fuoco più temperato sotto la pentola dei suoi occhi: anche a lei traboccarono gli occhi?

PANDARO: Ed Ettore rise.

CRESSIDA: E che era tutto questo ridere?

PANDARO: Gnaffe, pel pelo bianco che Elena scoprì sul mento di Troilo.

CRESSIDA: Se fosse stato un pelo verde, avrei riso anch'io.

PANDARO: Non risero tanto pel pelo quanto per la graziosa risposta di lui.

CRESSIDA: Quale è stata la sua risposta?

PANDARO: Lei disse: "Non ci sono che cinquanta peli sul vostro mento, e un d'essi è bianco".

CRESSIDA: Questa è la questione posta da lei.

PANDARO: Precisamente, non fate questione di ciò. "Cinquantun peli - disse lui - e uno bianco: quel pelo bianco è mio padre, e tutto il resto sono i suoi figli". "Giove! - disse lei - quale di questi è Paride mio sposo?". "Il forcelluto - disse lui strappateglielo e dateglielo". Ma si fece un tal ridere, ed Elena arrossì tanto, e Paride s'irritò tanto, e tutti gli altri risero tanto, da passare ogni descrizione.

CRESSIDA: E allora adesso smettete, ché ci ha messo un bel pezzo a passare.

PANDARO: Ebbene, nipote, ieri v'ho detto una cosa; pensateci sopra.

CRESSIDA: Così faccio.

PANDARO: Vi posso giurare che è vera: egli piange su di voi, come fosse un uomo nato d'aprile.

CRESSIDA: E io crescerò su nelle sue lacrime, come un'ortica all'approssimarsi di maggio.

 

(Uno squillo di ritirata)

 

PANDARO: Udite, ritornano dal campo. Vogliamo star ritti qui, a guardarli mentre passano per andare ad Ilio? di grazia, buona nipote; mia dolce nipote Cressida.

CRESSIDA: A piacer vostro.

PANDARO: Qui, qui; qui c'è un ottimo posto: qui possiamo vedere splendidamente. Vi dirò i nomi di tutti mentre passano, ma osservate Troilo più degli altri.

CRESSIDA: Non parlate così forte.

 

(Enea attraversa la scena)

 

PANDARO: Quello è Enea: non è quello un uomo aitante? egli è uno dei fiori di Troia, vi dico: ma osservate Troilo, ora vedrete.

CRESSIDA: Chi è quello?

 

(Passa Antenore)

 

PANDARO: Quello è Antenore: egli ha uno spirito mordente, vi dico, ed è un uomo assai buono; è una delle menti più quadrate di Troia, quali che siano le altre, e prestante della persona. Quando viene Troilo?

tra un momento vi mostrerò Troilo: se lui mi vede, vedrete che mi ammiccherà.

CRESSIDA: Lui vi darà di miccio?

PANDARO: Vedrete.

CRESSIDA: Se è così, chi è ricco avrà di più ancora.

 

(Passa Ettore)

 

PANDARO: Quello è Ettore, quello, quello, guardate, quello, quello è un uomo in gamba! Va' per la tua strada, Ettore! Ecco un uomo magnifico, nipote. O magnifico Ettore! Guarda che aspetto ha! Non è egli un uomo magnifico?

CRESSIDA: Oh, un uomo magnifico!

PANDARO: Non lo è forse? A vederlo s'allarga il cuore. Guardate che intaccature ha sull'elmo! guardate laggiù, vedete? guardate là: non è per burla; queste son botte, le tolga chi può, come si dice: codeste sono intaccature!

CRESSIDA: Le han fatte le spade?

PANDARO: Le spade! Checchessia, poco gl'importa; gli venisse incontro il diavolo, sarebbe lo stesso: giuraddio, s'allarga il cuore! Ecco che arriva Paride, ecco che arriva Paride.

 

(Passa Paride)

 

Guardate laggiù, nipote; non è un valoroso lui pure? Sicuro, è magnifico! Chi ha detto che è ritornato ferito oggi? non è affatto ferito: come s'allargherà il cuore a Elena! Oh, potessi veder Troilo adesso! Vedrete Troilo fra un momento.

CRESSIDA: Chi è quello?

 

(Passa Eleno)

 

PANDARO: Quello è Eleno. Mi chiedo dove sia Troilo. Quello è Eleno.

Credo che non sia uscito oggi. Quello è Eleno.

CRESSIDA: Eleno sa battersi, zio?

PANDARO: Eleno? macché! Sì, si batte alla bell'e meglio. Mi domando dove sia Troilo. Ascoltate! non sentite la gente gridare "Troilo"?

Eleno è un sacerdote.

CRESSIDA: Chi è quel meschinello?

 

(Passa Troilo)

 

PANDARO: Dove, laggiù? quello è Deifobo. Ecco Troilo! ecco un uomo, nipote! Ehem! Prode Troilo! principe della cavalleria.

CRESSIDA: Zitto, per carità, zitto!

PANDARO: Osservatelo: notatelo. O prode Troilo! Guardatelo bene, nipote, guardate com'è insanguinata la sua spada, e come il suo elmo ha più intaccature di quello d'Ettore; e che aria e che andatura son le sue. O mirabile giovinetto! non ha ancor visto i ventitré. Va' per la tua strada Troilo, va' per la tua strada! Avessi per sorella una Grazia, o per figlia una Dea, toccherebbe a lui la scelta. O uomo mirabile! Paride? A petto di lui Paride è sudiciume; e scommetto che Elena darebbe un occhio per fare a cambio.

CRESSIDA: Arrivano degli altri.

 

(Passano Soldati)

 

PANDARO: Asini, sciocchi, babbei! loppa e crusca, loppa e crusca!

pappa dopo la carne! potrei vivere e morire sotto gli occhi di Troilo.

Non guardate più, non guardate più; le aquile se ne son ite:

cornacchie e gazze, cornacchie e gazze! Preferirei essere un uomo come Troilo che Agamennone e la Grecia tutta.

CRESSIDA: Tra i Greci c'è Achille, un uomo che val più di Troilo.

PANDARO: Achille! un barrocciaio, un facchino, un vero e proprio cammello.

CRESSIDA: Via via.

PANDARO: "Via, via!". E che, non ci avete discernimento? non ci avete occhi? Sapete che cos'è un uomo? Non sono i natali, la bellezza, la prestanza, l'eloquenza, la maschiezza, il sapere, la gentilezza, la virtù, la giovinezza, la liberalità e simili il sale e le spezie che fan condimento a un uomo?

CRESSIDA: Già, un uomo tritato: per poi venir cotto senza fave nel pasticcio, perché l'uomo la fava ce l'ha fuori.

PANDARO: Siete una tal donna! non si sa mai da che parte vi mettete in guardia.

CRESSIDA: Sul dorso, per difendere il mio ventre; sul mio ingegno, per difendere i miei accorgimenti; sulla mia segretezza, per difendere la mia onestà; sulla mia maschera, per difendere la mia bellezza; e su di voi per difender tutte queste cose: e da tutte queste parti io mi metto in guardia, e in mille punti io veglio.

PANDARO: Ditemi una delle vostre veglie.

CRESSIDA: Ecco, per codesto veglierò su di voi: anzi, questa è una delle mie principali parate; se io non posso difendere ciò che non vorrei fosse colpito, posso vegliare a che voi non andiate a ridire come ho ricevuto il colpo; a meno che non gonfi sì da non potersi celare, ché allora vegliare sarebbe invano.

PANDARO: Siete una tal donna!

 

(Entra il Paggio di Troilo)

 

PAGGIO: Signore, il mio padrone vorrebbe parlarvi immediatamente.

PANDARO: Dove?

PAGGIO: Nella vostra casa; là egli si sta togliendo le armi di dosso.

PANDARO: Buon garzone, ditegli che vengo. (Il paggio esce) Sospetto che egli sia stato ferito. State bene, buona nipote.

CRESSIDA: Arrivederci, zio.

PANDARO: Sarò da voi, nipote, tra breve.

CRESSIDA: Per portarmi, zio?

PANDARO: Sicuro, un segnale da parte di Troilo.

CRESSIDA: A codesto segnale voi siete un ruffiano. (Pandaro esce) Parole, voti, doni, lacrime, e l'olocausto d'amore, egli offre intraprendendo per un altro; ma in Troilo io vedo mille volte di più di quel che non sia nello specchio degli elogi di Pandaro. Eppure torco il viso. Le donne sono angeli quando le si corteggiano: cosa conquistata capo ha, l'anima del piacere sta nel venirne a capo: colei che è amata nulla sa se non sa questo, che gli uomini stimano la cosa non ancora guadagnata più di quel che non valga; e non è ancor nata colei che sappia che l'amore ottenuto è così dolce come quando il desiderio supplicava. Per cui io insegno questa massima impartita da amore: conquistate, gli uomini ci comandano; non guadagnate, c'implorano: sicché, sebbene il mio cuore rechi dentro amor saldo, nulla di ciò apparirà dai miei occhi.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA TERZA - Il Campo greco

(Dinanzi alla tenda d'Agamennone. Fanfara. Entrano AGAMENNONE, NESTORE, ULISSE, MENELAO, ed altri)

 

AGAMENNONE: Principi, che affanno ha messo l'itterizia sulle vostre guance? L'ampia profferta che fa la speranza in tutti i disegni iniziati quaggiù sulla terra vien meno nella promessa larghezza:

intoppi e disastri crescono nelle vene delle azioni più altamente allevate; come, per la confluenza di congregate linfe, nodi corrompono lo schietto pino e deviano la sua grana, rendendola torta ed aberrante dal suo corso di sviluppo. Né, o principi, ci riesce nuovo che noi siam delusi nella nostra aspettativa in quanto che dopo un assedio di sette anni le mura di Troia stanno ancora in piedi; dacché ogni azione trascorsa di cui abbiamo ricordo, il cimento l'ha condotta di sbieco e di traverso sì da non rispondere allo scopo, e a quell'incorporea figura del pensiero che le dette la supposta forma. Perché dunque, o principi, guardate le nostre opere con guance confuse, e le chiamate onte? che in verità altro non sono che i protratti cimenti che il gran Giove adopera per trovare persistente costanza negli uomini: la finezza del qual metallo non si trova nel favor della fortuna; ché allora l'ardito e il codardo, il saggio e lo stolto, il dotto e l'ignorante, il duro e il molle, sembran tutti affini e imparentati; sebbene, nel vento e nella tempesta del suo cipiglio, la distinzione, con ampio e possente ventilabro, soffiando su tutti, dissipa via i leggeri; e quel che ha massa o peso appar da sé ricco in virtù e non commisto.

NESTORE: Con debita osservanza del divino seggio, o grande Agamennone, Nestore chioserà le tue ultime parole. Nel rimprovero della sorte è la vera prova degli uomini: quando il mare è liscio, quanti leggeri schifi di nessun conto osano veleggiare sul suo paziente seno, facendo rotta con quelli di più nobile corbame! Ma che il rubesto Borea appena irriti la gentil Teti, e tosto vedi la nave di salde coste tagliar liquide montagne, balzando fra i due umidi elementi come il destriero di Perseo: dov'è allora il presuntuoso schifo i cui deboli mal fasciati fianchi appena un momento fa rivaleggiavano con la grandezza?

o è fuggito al porto o è divenuto un bocconcino per Nettuno. Così l'apparenza del valore e il reale pregio del valore si separano nelle tempeste della fortuna; perché quand'essa raggia e splende l'armento ha più travaglio dall'assillo che dalla tigre; ma se il tagliente vento rende flessibili le ginocchia dei nocchieruti roveri, e le mosche volano al riparo, allora l'essere coraggioso, come stimolato dal furore, col furore s'accorda, e con accento intonato sulla stessa chiave replica ai rabbuffi della fortuna.

ULISSE: Agamennone, tu grande comandante, nervo e spina della Grecia, cuore delle nostre file, anima e solo spirito, in cui le tempre e le menti di tutti dovrebbero inabissarsi, odi ciò che dice Ulisse. Oltre all'applauso e all'approvazione che, (ad Agamennone) o potentissimo pel tuo luogo e il tuo imperio, (a Nestore) e tu o sommamente reverendo per la tua estesa vita, io do a entrambi i vostri discorsi, che sono stati tali che, Agamennone, tutte le mani della Grecia dovrebbero levarli in alto in tavole di bronzo; e tali ancora che, venerabile Nestore striato d'argento, dovrebbero con un vincolo aereo possente come l'asse su cui ruota il cielo, legare tutte le orecchie greche alla tua esperta lingua, pur piaccia a voi entrambi, tu grande e tu saggio, udir parlare Ulisse.

AGAMENNONE: Parla, o principe d'Itaca, e men s'attenda che vana materia di nessun peso divida le tue labbra di quanto non confidiamo d'udir musica, arguzia, e oracolo quando il sozzo Tersite apre le sue flagellanti mascelle.

ULISSE: Troia, che ancor sta sulla sua base, sarebbe a terra, e la spada del grande Ettore mancherebbe di padrone, non fosse per queste cause. La prerogativa del comando è stata negletta: e guardate quante tende greche forman vano in questa pianura, altrettante vane fazioni.

Quando il generale non è come l'arnia a cui tutti i foraggiatori dovrebbero riparare, che miele può attendersi? Quando gli alti gradi van travestiti, i più indenni fanno altrettanto bella mostra nella mascherata. I cieli stessi, i pianeti, e questo centro dell'universo, osservan grado, priorità, e posto, perseveranza, corso, proposizione, stagione, forma, ufficio, e costume, seguendo un preciso ordine; e perciò il magnifico pianeta Sole è in nobile eminenza installato e posto nella sfera tra gli altri: il cui occhio salutifero corregge i sinistri aspetti dei pianeti maligni, e come il bando d'un re, ingiunge senza intoppo a buoni e a malvagi; ma quando i pianeti in maligna mescolanza si sviano dal loro ordine, quali pestilenze, e quali portenti, quale tenzone, quale infuriar del mare e sussultar della terra, commozione di venti, paure, mutamenti, orrori, stornano e spaccano, lacerano e sradicano l'unità e il calmo connubio dei ceti dalla lor fissa condizione! Oh, quando è scossa la gerarchia, che è la scala a tutti gli eccelsi disegni, l'impresa languisce! Come potrebbero le comunità, i gradi nelle scuole, e le fratellanze nelle città, il pacifico commercio tra separanti sponde, la primogenitura e il diritto di nascita, la prerogativa dell'età, corone, scettri, allori, conservare il loro legittimo posto se non per mezzo della gerarchia! Sol togliete la gerarchia, mettete fuori tono quella corda, e udite che discordo segue; ogni cosa si scontra in puro antagonismo:

le circoscritte acque non mancherebbero di gonfiare il loro seno al di sopra delle rive e di ridurre in poltiglia tutto questo solido globo:

la forza la farebbe da padrona sulla debolezza, e il figlio brutale colpirebbe il proprio padre a morte: la possa sarebbe il diritto; o piuttosto diritto e torto, tra la cui infinita tenzone risiede la giustizia, perderebbero i loro nomi, e la giustizia il suo. Indi ogni cosa si risolve in potere, potere in volere, volere in appetito; e l'appetito, lupo universale, così doppiamente secondato da potere e volere, è uopo faccia una preda universale, e infine divori se stesso.

Grande Agamennone, questo caos, quando è soffocata la gerarchia, segue l'affogamento. Ed è codesta negligenza di gerarchia che a passo a passo retrocede, mentre si propone di salire. Il generale è disprezzato da colui che è un grado più giù, questi dal prossimo, e quel prossimo, da quello che è sotto; così ciascun grado, dietro l'esempio del primo scaglione che è stanco del suo superiore, sviluppa un'invidiosa febbre di pallido ed esangue livore: ed è questa febbre che tien Troia in piedi, non già il suo nerbo. Per finire un lungo discorso, Troia s'appoggia alla nostra debolezza, non alla sua forza.

NESTORE: Assai saggiamente Ulisse ha qui reso manifesta la febbre onde tutta la nostra possa è inferma.

AGAMENNONE: Trovata la natura della malattia, Ulisse, qual è il rimedio?

ULISSE: Il grande Achille, che l'opinione incorona nervo e avambraccio del nostro esercito, avendo le orecchie piene della sua fama di vento, diviene schizzinoso circa il suo valore, e nella sua tenda rimane a farsi beffa dei nostri disegni: con lui Patroclo su un pigro letto tutto il santo giorno lancia motti scurrili; e con gesti ridicoli e goffi, che, calunniatore, egli chiama imitazione, ci mette in scena.

Talora, o grande Agamennone, s'investe dello smisurato potere a te conferito e a mo' di attore che si pavoneggia, avendo ogni abilità riposta nei tendini delle sue gambe, ei si solluccherà a udire il ligneo dialogo e il frastuono tra i suoi gran passi e il palco, in tale compassionevole e sforzata apparenza egli contraffà la tua grandezza: e quando parla è come una serie di note quando le si vogliono accordare; con termini non squadrati che, cadessero dalla lingua del ruggente Tifone parrebbero iperboli. A codesti pistolotti il vasto Achille, crogiolandosi sul suo oppresso giaciglio, sghignazza uno strepitoso applauso; dal fondo del suo petto, urla: "Eccellente!

tale e quale Agamennone. Adesso recitami la parte di Nestore; schiarisciti la gola, carezzati la barba, come lui quando si prepara a perorare". Ciò viene fatto, con tanta approssimazione quanta è tra i più estremi termini delle parallele, con tanta somiglianza quanta è tra Vulcano e la sua sposa; eppure il divo Achille seguita a gridare:

"Eccellente. E' Nestore tale e quale. Ora rappresentamelo, Patroclo, quando s'arma per andare incontro al nemico in un allarme notturno". E allora, sicuro, i deboli difetti dell'età devon fornir materia di sollazzo; tossire e sputare, e con un annaspare alla gorgiera far tremolare avanti e indietro la fibbia: a questo giuoco Messer Valore muore dalle risa: urla: "Oh, basta, Patroclo o dammi costole d'acciaio! Farò scoppiare tutto nel piacere del mio accesso". E a questo modo ogni nostra abilità, virtù, natura, forma, tutto ciò che è particolare e tutto ciò che è generale esattamente in quanto a grazia gesti, disegni, ordini, cautele, esortazioni alla pugna, o discorsi per la tregua, successo o sconfitta, quello che è e quel che non è, serve di tema a codesti due per far caricature.

NESTORE: E a imitazione di questi due che, come dice Ulisse, l'opinione incorona con imperial nominanza, molti sono infetti. Ajace è divenuto protervo e porta la testa con altrettanto stile e tanta alterigia quanto l'arrogante Achille; come lui rimane nella sua tenda; fa banchetti faziosi; si beffa del nostro stato di guerra, audace come un oracolo, e stimola Tersite, uno sciagurato la cui bile conia calunnie come una zecca, a paragonarci con ogni sozzura, a impiccolire e screditare il nostro ardimento, per circondato che sia da molteplici perigli.

ULISSE: Biasimano la nostra politica e la chiamano codardia; contano la saviezza come estranea alla guerra; disistimano la previdenza, e non apprezzano altre azioni che quelle della mano: le qualità silenziose e mentali, che escogitano quante mani debbono colpire, quando l'occasione le richiede, e conoscono a misura del loro sforzo d'osservazione il peso dei nemici: ebbene, codesto non ha la dignità d'un dito. Chiaman codesto un lavoro da farsi in letto, cartografia, guerra da gabinetto; sicché l'ariete che fa breccia nel muro per via del grande impeto e della rudezza del suo colpo, lo antepongono alla mano di colui che costruì la macchina o a coloro che con la sottigliezza del loro intelletto guidano a lume di ragione l'operazion dell'ordigno.

NESTORE: Si conceda questo e il caval d'Achille vale parecchi figli di Teti.

 

(Uno squillo)

 

AGAMENNONE: Che tromba è? guarda, Menelao.

MENELAO: E' da Troia.

 

(Entra ENEA)

 

AGAMENNONE: Che desiderate dinanzi alla nostra tenda?

ENEA: E' questa la tenda del grande Agamennone, di grazia?

AGAMENNONE: Precisamente.

ENEA: Può uno che è araldo e principe portare un grazioso messaggio alle sue orecchie regali?

AGAMENNONE: Con una sicurtà più forte del braccio d'Achille dinanzi a tutti i capi greci, che ad una voce chiamano capo e generale Agamennone.

ENEA: Graziosa licenza ed ampia sicurtà. Come può uno che è estraneo a quegli imperiali sguardi distinguerli dagli occhi degli altri mortali?

AGAMENNONE: Come?

ENEA: Io lo chiedo affin di poter risvegliare in me la reverenza, e ordinare alle guance di tenersi pronte con un rossore modesto come l'aurora quand'essa freddamente adocchia il giovine Febo. Qual è quel dio in carica, guidatore d'uomini? Qual è l'alto e possente Agamennone?

AGAMENNONE: Questo Troiano si burla di noi; o gli uomini di Troia sono cerimoniosi cortigiani.

ENEA: Cortigiani liberali ed affabili, come inchinati angeli, quando son disarmati; codesta è la lor fama in tempo di pace: ma vogliano essi apparire soldati, hanno fiere passioni, buone braccia, forti membra, salde spade; e, Giove favorendo, nessuno ha sì gran cuore. Ma calma Enea! calma, Troiano! poniti il dito sulle labbra. Il merito della lode scolora il suo valore, se quegli che vien lodato è lui stesso latore della lode; ma ciò che il restio nemico elogia, codesto è soffio che la fama spira; questa lode, essa sola pura, trascende.

AGAMENNONE: Messere, voi di Troia, vi chiamate Enea?

ENEA: Sì, Greco, codesto è il mio nome.

AGAMENNONE: Qual è la vostra faccenda, di grazia?

ENEA: Messere, perdonate; è per le orecchie di Agamennone.

AGAMENNONE: Egli non ascolta in privato nulla che venga da Troia.

ENEA: Né io da Troia vengo a bisbigliargli: io reco una tromba per risvegliare il suo orecchio, per dare attenta inclinazione ai suoi sensi, e quindi per parlare.

AGAMENNONE: Parla francamente come il vento: non è l'ora in cui Agamennone dorme; affinché, o Troiano, tu sappia che egli è desto, te lo dice lui stesso.

ENEA: Tromba, suona forte, spandi la tua voce d'ottone per tutte queste pigre tende; e sappia ogni focoso Greco che quel che Troia onestamente intende sarà detto ad alta voce. (Squillo di tromba) Abbiamo, grande Agamennone, qui a Troia un principe chiamato Ettore - Priamo è suo padre - che in questa uggiosa e continuata tregua si sente arrugginire: m'ha ordinato di prendere un trombettiere, e di parlare in questi termini. Re, principi, signori! Se v'è uno tra i più prodi della Grecia che tenga più al suo onore che al suo agio, che cerchi la sua gloria più di quel che non tema il suo pericolo, che conosca il proprio valore, e non conosca il proprio timore, che ami la sua amante più che nella sola confessione (con fallaci voti alle amate labbra di lei), ed osi affermare la sua beltà e il suo pregio in altri incontri che con lei, a lui questa sfida! Ettore, in vista dei Troiani e dei Greci, proverà, o si adopererà del suo meglio per provare, che egli ha una donna più saggia, più bella, più fedele che mai Greco non abbia circondato colle sue braccia, e domani verrà a far suonare la sua tromba, a metà strada tra le vostre tende e le mura di Troia, per provocare un Greco che sia fedele in amore: se un tale venga, Ettore l'onorerà; se nessuno, egli dirà a Troia al suo ritirarsi, che le dame greche han la pelle fosca, e non valgono scheggia di lancia. Proprio così.

AGAMENNONE: Questo sarà detto ai nostri amanti, sire Enea; se nessuno di loro abbia animo in tale faccenda, li avrem lasciati tutti a casa:

ma noi siamo soldati; e possa quel soldato dimostrarsi un semplice codardo, che non intenda d'essere, non sia stato, o non sia innamorato! Se dunque uno ve n'è che lo sia, o lo sia stato o intenda d'esserlo, costui va incontro ad Ettore; se niun altro, io son quell'uno.

NESTORE: Digli di Nestore, uno che era uomo quando l'avolo d'Ettore non era ancora divezzato: ora egli è vecchio, ma se non v'è nel nostro esercito greco un nobil uomo che abbia una scintilla di fuoco da rispondere pel suo amore, digli da parte mia che io nasconderò la mia barba d'argento in una celata d'oro, e metterò quest'avvizzito muscolo nel mio bracciale; e, lui incontrando, gli dirò che la mia donna era più bella della sua avola, e casta quanto altra mai al mondo: sia pure egli nella piena della gioventù, io proverò questa verità con le mie tre gocce di sangue.

ENEA: Vieti il cielo tal penuria di gioventù!

ULISSE: Amen.

AGAMENNONE: Bel sire Enea, lasciate che io vi tocchi la mano; dapprima vi menerò al nostro padiglione. Achille avrà notizia di quest'intento; e così ogni signore della Grecia, di tenda in tenda: voi banchetterete con noi prima di partire, e troverete l'accoglienza dovuta a un nobile avversario.

 

(Escono tutti meno Ulisse e Nestore)

 

ULISSE: Nestore!

NESTORE: Che dice Ulisse?

ULISSE: Ho nel cervello una giovane idea; siate voi il mio tempo per ridurla a qualche forma.

NESTORE: Che cos'è?

ULISSE: E' questo: ottusi cunei spaccano duri nocchi: il granito orgoglio che s'è gonfiato sino a questo grado di maturità nel rigoglioso Achille deve o venire reciso all'istante, o, sparpagliandosi, genererà un semenzaio di simil malanno, per aduggiarci tutti.

NESTORE: E come, dite?

ULISSE: Questa sfida che invia il prode Ettore, per quanto sia diffusa genericamente, si rivolge di proposito soltanto ad Achille.

NESTORE: L'intento è perspicuo come sostanza il cui ammontare si calcola in piccole cifre: e, allorché si pubblicherà la sfida, non dubitate che Achille, fosse il suo cervello arido come le dune della Libia - sebbene, lo sa Apollo, è risecco abbastanza scoprirà con grande speditezza di giudizio, sì con celerità, che l'intento di Ettore è a lui diretto.

ULISSE: E si scoterà per rispondergli, credete?

NESTORE: Sì, così si conviene: chi altrimenti potreste opporre che possa cavarsela con onore contro Ettore, se non Achille? Benché sia un simulacro di combattimento, pure la nostra reputazione è molto in giuoco in codesto cimento; ché qui i Troiani assaggiano la nostra più chiara fama col loro palato più fine: e credete a me, Ulisse, la nostra rinomanza sarà su un'impari bilancia in quest'avventata azione; ché l'esito, sebbene particolare, darà un saggio in bene o in male, nei confronti di tutto il resto; in tali indici, sebbene sian piccoli segni ai volumi che essi precedono, si scorge il pargoletto simbolo della gigantesca massa di cose che verranno per disteso. Si suppone che colui che incontra Ettore provenga dalla nostra scelta: e la scelta, essendo comune atto di tutte le nostre anime, fa il merito criterio della sua elezione, e bolle, quasi espresso da tutti noi, un uomo distillato dalle nostre virtù; il quale non riuscendo, che incoraggiamento riceve di qui la parte vincitrice, a rinsaldare una forte opinione di se stessi! la quale, nutrita, le membra sono i suoi istrumenti, non meno operanti delle spade e degli archi che le membra dirigono.

ULISSE: Perdonate il mio discorso, perciò si conviene che Achille non si scontri con Ettore. Come mercanti mostriamo le nostre più scadenti mercanzie, e speriamo che forse si venderanno; se no, il lustro del meglio che ancora rimane da mostrare, farà miglior mostra. Non consentite che mai Ettore e Achille si scontrino; poiché e il nostro onore e la nostra onta in questo caso sono seguitati da due strani segugi.

NESTORE: Io non li vedo con le mie vecchie pupille: che cosa sono?

ULISSE: Quella gloria che il nostro Achille riceverebbe da Ettore, se egli non fosse superbo, noi tutti la porteremmo con lui: ma egli è già troppo insolente; e sarebbe meglio per noi di arrostire nel sole africano che nell'orgoglio e nel pungente sprezzo dei suoi occhi, se egli se la cavasse bene con Ettore; foss'egli sconfitto, ebbene, avremmo distrutto la nostra general reputazione nella macchia che colpirebbe il nostro miglior guerriero. No, si faccia un sorteggio; e con un accorgimento si disponga che quello stolido d'Ajace estragga la sorte di combattere con Ettore: tra noi gli si dia riconoscimento come il più degno, ché questo servirà di purga al gran Mirmidone che si crogiola nel clamor dell'applauso; e farà abbassare la sua cresta che s'inarca più superba dell'azzurra Iride. Se l'ottuso scervellato Ajace la scampa, lo copriremo d'acclamazioni: se fallisce, continueremo ad avere opinione che possediamo uomini migliori. Ma dia o no nel segno, la vita del nostro progetto assume cosiffatto senso: Ajace eletto trae giù le piume d'Achille.

NESTORE: Ulisse, ora io comincio a gustare il tuo consiglio; e ne darò immediatamente un assaggio ad Agamennone: andiam tosto da lui. Due cagnacci si domeranno l'un l'altro: solo l'orgoglio deve aizzare i mastini, quasi fosse il loro osso.

 

(Escono)

 

 

 

ATTO SECONDO

 

SCENA PRIMA - Parte del Campo greco

(Entrano AJACE e TERSITE)

 

AJACE: Tersite!

TERSITE: E se Agamennone avesse le bolle? ne fosse ripieno, da capo a piedi, generalmente?

AJACE: Tersite!

TERSITE: E se quelle bolle scorressero? di', non correrebbe allora il generale? non sarebbe codesto un purulento bubbone?

AJACE: Cane!

TERSITE: Allora uscirebbe da lui qualche materia: per ora non ne vedo punta.

AJACE: Figlio di lupa, non ci senti? Senti questo, allora.

 

(Lo colpisce)

 

TERSITE: Ti colga la peste di Grecia, bastardo buacciolo di signore!

AJACE: Parla dunque, muffitissimo lievito, parla: ti renderò venusto a forza di colpi.

TERSITE: Più presto t'instillerò io arguzia e santità a forza di beffe: ma credo che più presto il tuo cavallo saprà dire un'orazione che tu non impari una preghiera a memoria. Tu sai colpire, no? la morìa scarlatta pei tuoi scherzi di rozza!

AJACE: Fungo velenoso, apprendimi il proclama.

TERSITE: Credi che io non abbia senso, che mi colpisci a questo modo?

AJACE: Il proclama!

TERSITE: Sei proclamato uno scimunito, credo.

AJACE: Smettila, porcospino, smettila: mi prudon le dita.

TERSITE: Potessi sentirti prudere da capo a piedi, e toccasse a me di grattarti! ti renderei la più schifosa rogna della Grecia. Quando sei fuori ad attaccare, sei lento a colpire come chiunque altro.

AJACE: Il proclama, dico!

TERSITE: Non passa ora che tu non borbotti e inveisca contro Achille, e sei pieno d'invidia della sua grandezza come Cerbero lo è della beltà di Proserpina, oh, se abbai contro di lui!

AJACE: Madonna Tersite!

TERSITE: Lui tu dovresti colpire.

AJACE: Pagnottella !

TERSITE: Lui ti triterebbe in minuzzoli col suo pugno, come un marinaio spezza un biscotto.

AJACE: Canaglia, figlio di puttana!

 

(Lo picchia)

 

TERSITE: Dài, dài.

AJACE: Sgabello di strega!

TERSITE: Giù, dài, dài, signore dalla zucca di pappa! non ci hai più cervello di quel che io non ne abbia nei gomiti; un somarello potrebbe farti da maestro, o prode scorbutico asino! tu non sei qui che per tribbiare Troiani, e sei menato pel naso da quelli che hanno un ette d'ingegno, come barbaro schiavo. Se seguiti a picchiarmi, io comincerò dal tuo calcagno, e ti dirò cosa sei pollice per pollice, tu, essere senza viscere, tu!

AJACE: Cane !

TERSITE: Scorbutico signore!

AJACE: Canaglia!

 

(Lo picchia)

 

TERSITE: Idiota di Marte! dài, villania, dài cammello; dài, dài.

 

(Entrano ACHILLE e PATROCLO)

 

ACHILLE: Che è, che è, Ajace? perché fate così? Che è, Tersite, che succede, ohé?

TERSITE: Vedete lui costì, lo vedete?

ACHILLE: Sì, che succede?

TERSITE: Guardatelo, vi dico.

ACHILLE: E' quel che sto facendo; che succede?

TERSITE: Ma guardatelo bene.

ACHILLE: "Bene!" ma è quel che sto facendo.

TERSITE: Eppure non lo guardate bene; poiché, per chiunque lo prendiate, egli è Ajace.

ACHILLE: M'è noto codesto, sciocco.

TERSITE: Già, ma codesto sciocco non è noto a se stesso.

AJACE: Epperò io ti picchio.

TERSITE: Oh, ve', ve', che dramme d'arguzia egli sputa fuori! i suoi sotterfugi hanno orecchie lunghe così! Ho tartassato il suo cervello più di quel che lui non abbia battuto le mie ossa: comprerò nove passeri per un denaro, e la sua "pia mater" non vale la nona parte d'un passero. Codesto signore, o Achille, Ajace, che ha il senso nel ventre e le budella nel capo, io racconterò a voi ciò che dico di lui.

ACHILLE: Cosa?

TERSITE: Quest'Ajace, dico...

 

(Ajace fa segno di colpirlo)

 

ACHILLE: Suvvia, buon Ajace.

TERSITE: ...non ha tanto sale in zucca da...

ACHILLE: Suvvia, debbo tenervi.

TERSITE: ...da turar la cruna dell'ago di Elena, per la quale viene a combattere.

ACHILLE: Zitto, sciocco.

TERSITE: Zitto e cheto vorrei stare, ma lo sciocco non mi lascia: lui costì, quel desso guardate lì!

AJACE: Oh, maledetta canaglia; io ti...

ACHILLE: Volete fare a gara d'ingegno con uno sciocco?

TERSITE: No, vi garantisco, perché quello d'uno sciocco svergognerà il suo.

PATROCLO: Buone parole, Tersite.

ACHILLE: Qual è il litigio?

AJACE: Ho ordinato a questo vil barbagianni di farmi conoscere il tenore del proclama e lui si fa beffe di me.

TERSITE: Io non sono al tuo servizio.

AJACE: Be', seguita, seguita.

TERSITE: Il mio servizio qui è volontario.

ACHILLE: Il vostro ultimo servizio è stato una gravezza, non è stato volontario; nessuno è picchiato di sua volontà: Ajace è stato qui il volontario, e voi siete stato come arruolato di forza .

TERSITE: Proprio così; un bel po' anche del vostro spirito si trova nei vostri muscoli, o ci son de' bugiardi. Bella preda farà Ettore se fa schizzar fuori il cervello d'un di voi due: tanto gli gioverebbe schiacciare una noce mucida senza gheriglio.

ACHILLE: Come, anche con me, Tersite?

TERSITE: C'è Ulisse, e il vecchio Nestore, il cui senno era muffito prima che i vostri nonni mettessero unghie ai piedi, che v'aggiogano come bovi da tiro e vi fanno arare i campi di Marte.

ACHILLE: Cosa, cosa?

TERSITE: Sì, verità vera: ih, Achille! ih, Ajace! ih!

AJACE: Vi taglierò la lingua.

TERSITE: Non importa: dopo parlerò quanto te.

PATROCLO: Basta con le parole, Tersite; zitto!

TERSITE: Starò zitto quando la cagna d'Achille me l'ordina, eh?

ACHILLE: Questa è per te, Patroclo.

TERSITE: Vuo' vedervi impiccati come teste di legno, prima che io venga di nuovo nelle vostre tende; voglio starmene dove c'è vivacità d'ingegno e lasciare la fazione degli sciocchi.

 

(Esce)

 

PATROCLO: Tanto di guadagnato per noi.

ACHILLE: Gnaffe, codesto, messere, vien proclamato per tutto l'esercito: che Ettore, all'ora quinta del sole, con un trombettiere tra le nostre tende a Troia, domattina chiamerà all'armi qualche cavaliere che abbia fegato; e tale che osi sostenere cosa, non so: è una bazzecola. Addio.

AJACE: Addio. Chi gli risponderà?

ACHILLE: Non lo so: si mette a sorte; altrimenti, lui sapeva chi sarebbe stato il suo uomo.

AJACE: Oh, volete dir voi. Andrò a informarmi più precisamente.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SECONDA - Troia. Una stanza nel Palazzo di Priamo

(Entrano PRIAMO, ETTORE, TROILO, PARIDE e ELENO)

 

PRIAMO: Dopo tante ore, vite, parole consumate, così ancora di nuovo Nestore dice da parte dei Greci: "Rendete Elena, e tutto l'altro danno, quale onore offeso, tempo perduto, travaglio, spesa, feriti, amici, e qualunque altra cosa cara è stata consumata nella calda digestione di questo cormorano di conflitto, sarà cancellato". Ettore, che dici di questo?

ETTORE: Benché nessuno tema i Greci meno di me, per quel che tocchi il mio particolare, pure, o temuto Priamo, non v'è dama di più tenere viscere, più spugnosa ad assorbile il timore, più pronta a gridare, "Chi sa quel che seguirà?" di quel che non sia Ettore. La piaga della pace è la sicurezza, la sicurezza sicura di sé; mentre il modesto dubbio è chiamato il fanale dei saggi, la tenta che ricerca al fondo del peggio. Che Elena se ne vada: da che la prima spada fu sguainata per questa contesa, ogni anima che abbiam pagato come decima - e queste decime si contano a migliaia - è stata tanto cara quanto Elena; voglio dire, dei nostri: se abbiamo perduto tante decine dei nostri per conservare cosa non nostra, né, se avesse il nostro nome, pari per noi al valore di una decina di noi, che merito c'è nell'argomento che nega la restituzione di lei?

TROILO: Ohibò, ohibò, fratello! Pesate voi la dignità e l'onore d'un re sì grande come il temuto padre nostro su una bilancia di volgari once? volete sommare sul pallottoliere l'incommensurabilità del suo infinito? affibbiare una vita sconfinata con spanne e pollici sì minuscoli come timori e grani di senno? ohibò, vergogna, per gli dèi!

ELENO: Non fa meraviglia che voi mordiate così ferocemente codesti grani, dacché ne siete sì sprovvisto. Dovrebbe il padre nostro non reggere il gran governo dei suoi affari con grani di senno, perché il vostro discorso che così lo consiglia ne è privo?

TROILO: Voi siete fatto pei sogni e i sonni fratello sacerdote; di senno voi v'impellicciate i guanti. Ecco quel che il senno vi dice:

sapete che un nemico vi vuol male; sapete che una spada è pericolosa a maneggiare: che meraviglia dunque, quando Eleno vede un Greco e la sua spada, se egli mette le stesse ali del senno alle sue calcagna, e fugge come Mercurio sgridato da Giove, o come una stella svelta dal proprio orbe! Allora, se parliamo di senno, chiudiamo le nostre porte e dormiamo: la virilità e l'onore avrebbero cuor di lepre se impinguassero il loro pensiero di null'altro che di questo impinzato senno: il senno e la prudenza fanno impallidire il fegato e mortificano la gagliardia.

ETTORE: Fratello, essa non vale quel che costa a tenerla.

TROILO: E che vale alcunché se non quanto è stimato?

ETTORE: Ma il valore non riposa su una volontà particolare; deve la sua stima e la sua nobiltà tanto al suo aver pregio in sé, quanto a colui che lo apprezza. E' folle idolatria fare il culto più grande di quel che non sia il nume; e vaneggia quella volontà che è inchinevole a quel che contagiosamente la affetta, senza qualche parvenza del preteso merito.

TROILO: Sposo oggi una donna, e la mia elezione è guidata dalla mia volontà; la mia volontà accesa dai miei occhi e dai miei orecchi, due adusati piloti tra le perigliose rive della volontà e del giudizio.

Come poss'io evitare, benché la mia volontà prenda in uggia ciò che ha eletto, la moglie che ho scelto? non vi può essere scappatoia per rifuggirne e tener fermo nell'onore. Non rimandiamo le sete al mercante quando le abbiamo macchiate; e i cibi rimasti non li gettiamo nell'impassibile mondezzaio perché ora siam pieni. Fu ritenuto opportuno che Paride traesse qualche vendetta sui Greci: il fiato del vostro pieno consenso gonfiò le sue vele; i mari e i venti, antichi litiganti, fecero tregua e gli resero servizio: egli toccò il desiato porto, e per una vecchia zia che i Greci tenevano prigioniera, recò una regina greca, la cui gioventù e freschezza copre di rughe quella d'Apollo, e fa appassire il mattino. Perché la teniamo? i Greci trattengono la nostra zia: vale essa la pena d'esser trattenuta? e come, essa è una perla, il cui pregio ha lanciato più di mille navi e ha cambiato re coronati in mercanti! Se confessate che fu saggio che Paride andasse, come di necessità dovete, poiché gridavate tutti "Va', va'"; se confessate che egli ha riportato una nobile preda, come di necessità dovete, perché tutti battevate le mani e gridavate "Inestimabile!", perché ora condannate l'esito delle vostre proprie sagge deliberazioni e commettete un atto che la Fortuna non ha mai commesso, destituite il pregio che stimavate più ricco del mare e della terra? Oh! furto abbiettissimo aver rubato ciò che noi temiamo di conservare, ma ladri indegni d'una cosa in tal modo rubata, noi che facemmo loro nella loro terra quell'oltraggio che temiamo di garantire nel nostro luogo natìo!

CASSANDRA (di dentro): Piangete, Troiani, piangete!

PRIAMO: Che rumore, che strepito è questo?

TROILO: E' la nostra sorella folle, riconosco la sua voce.

CASSANDRA (di dentro): Piangete, Troiani!

ETTORE: E' Cassandra.

 

(Entra CASSANDRA, delirante)

 

CASSANDRA: Piangete, Troiani, piangete! prestatemi diecimila occhi, ed io li riempirò di lacrime profetiche ETTORE: Taci, sorella, taci!

CASSANDRA: Vergini e garzoni, mezza età e rugosa vecchiaia, tenera infanzia che non sai che piangere, aumentate i miei clamori! paghiamo per tempo una porzione della massa di lamenti che verranno. Piangete, Troiani, piangete! esercitate gli occhi alle lacrime! Troia deve cessar d'essere, e il superbo Ilion cadere: il nostro tizzone di fratello, Paride, ci arde tutti. Piangete, Troiani, piangete! Elena e malanno! Piangete, piangete! Troia brucia, se non lasciate Elena partire.

 

(Esce)

 

ETTORE: Ebbene, giovane Troilo, questi veementi accessi di divinazione nella nostra sorella non operano qualche punta di rimorso? o il vostro sangue è sì follemente ardente che nessun discorso della ragione, nessun timore di cattivo successo in una cattiva causa può mitigarlo?

TROILO: Come, fratello Ettore! noi non dobbiamo misurare la giustizia di ciascun atto secondo che la determini il successo, né deprimere il coraggio dell'animo nostro, perché Cassandra è folle: i suoi deliri di mentecatta non possono far venire a schifo la bontà d'una contesa che tiene tutti i nostri onori impegnati a metterla in buona luce. Per quel che mi riguarda, io non ne son tocco più degli altri figli di Priamo; e Giove vieti che sia fatta tra noi cosa alcuna che possa irritare il più debole impulso a combattere in suo favore e sostenerla.

PARIDE: Altrimenti il mondo potrebbe trovare ree di leggerezza le mie azioni e i vostri consigli; ma io ne attesto i numi, il vostro pieno consenso dette ali alla mia propensione e troncò tutti i timori che accompagnavano sì formidabil progetto: perché che cosa, ahimè, possono queste mie sole braccia? che propugnazione è nel valore d'un solo, per contrastare l'urto e l'inimicizia di coloro che questa lite non poteva non eccitare? Eppure, lo protesto, fossi io solo a sobbarcarmi alle difficoltà, e avess'io sì ampio potere quanto ho volere, Paride non ritratterebbe mai quel che ha fatto, né languirebbe nel perseguimento.

PRIAMO: Paride, tu parli com'uno infatuato dal dolce diletto: tu ne hai ancora il miele, ma questi il fiele; sicché esser prode non torna a merito alcuno.

PARIDE: Signore, io non mi rappresento solo il piacere che tal bellezza porta seco, ma io vorrei che la macchia del suo bel ratto fosse cancellata nel custodirla onorevolmente. Qual tradimento sarebbe verso la predata regina, quale ignominia per la vostra gran dignità, quale onta per me, rinunziare ora al possesso di lei a termini d'abbietta costrizione! Può essere che sì degenere divisamento prenda pur piede nei vostri generosi petti? Non esiste nella nostra parte spirito sì tapino che non abbia cuore da osare o spada da sguainare quando si difenda Elena, e nessuno sì nobile la cui vita sarebbe male spesa o la morte inonorata quand'Elena ne fosse l'oggetto: quindi, io dico, ben possiamo noi combattere per colei che, ben lo sappiamo, negli ampi spazi del mondo non trova eguale.

ETTORE: Paride e Troilo, avete entrambi parlato bene; e sulla causa e la questione che si dibatte avete chiosato, ma superficialmente; non molto diversi da giovani, che Aristotele giudicava inetti a udire filosofia morale. Le ragioni che voi allegate più concludono all'ardente passione d'un sangue stemperato che a formare una libera determinazione tra il giusto e l'ingiusto; ché il piacere e la vendetta hanno orecchie più sorde del serpe alla voce d'un'equanime decisione. La natura brama che il possessore sia reintegrato in tutti i suoi diritti; ebbene qual cosa è più strettamente dovuta in tutta l'umanità se non sia la moglie al marito? Se questa legge di natura è corrotta dall'appetito, se grandi animi, per una condiscendenza parziale ai loro ottenebrati affetti resistono ad essa, v'è una legge in ogni ben ordinata repubblica per piegare quelle furenti passioni che son più disobbedienti e riottose. Se dunque Elena è la moglie del re di Sparta, come si sa che è, queste leggi morali della natura e delle genti dicono ad alta voce di restituirla: persistere a far male non attenua il male, ma lo rende assai più grave. Tale è l'opinione di Ettore, a onor del vero; pur non di meno, miei focosi fratelli, io propendo con voi a risolvere di seguitare a tenere Elena, poiché è questa una causa che impegna assai la dignità di tutti e di ciascuno di noi.

TROILO: Ecco, costì avete toccato l'anima del nostro disegno: se non fosse la gloria quello a cui noi miriamo anziché l'effettuazione dei nostri accesi risentimenti, non vorrei che una goccia di più di sangue troiano fosse versata in difesa di lei. Ma, degno Ettore, essa è tema d'onore e di rinomanza, sprone a imprese gagliarde e magnanime, il cui valore può al presente abbattere i nostri avversari, la cui fama nel tempo avvenire può canonizzarci; poiché, presumo, il prode Ettore non vorrebbe per tutti i proventi dell'ampio mondo perdere sì ricco vantaggio di promessa gloria quale sorride in fronte a questa impresa

ETTORE: Io son vostro, o valorosa progenie del gran Priamo. Una tracotante sfida io ho mandata tra i torpidi e faziosi nobili di Grecia che colpirà di stupore i loro sonnacchiosi animi. Ebbi sentore che il loro gran generale dormiva mentre la gelosia serpeggiava nell'esercito: questa sfida, presumo, lo risveglierà.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA TERZA - Il Campo greco Dinanzi alla tenda d'Achille

(Entra TERSITE)

 

TERSITE: Ebbene, Tersite! che? smarrito nel labirinto del tuo furore?

Dovrà quell'elefante d'Ajace averla vinta così? lui mi picchia ed io lo beffeggio: la bella soddisfazione! vorrei che fosse all'incontrario; che io potessi picchiarlo, mentre lui mi beffasse.

Giuraddio, imparerò a evocare e a chiamar su le dimonia, ma vuo' veder qualche esito delle mie malevole esecrazioni. Poi c'è Achille, un esimio ingegnere! Se Troia non è presa prima che questi due l'abbiano minata, le sue mura rimarranno in piedi finché non cadranno da sé. O tu, gran fulminatore dell'Olimpo, dimenticati d'esser Giove, il re degli dèi, e tu, Mercurio, perdi tutta la serpentina astuzia del tuo caduceo, se non togliete a costoro quell'ette, quello zinzino di comprendonio che hanno; il quale perfino la supina ignoranza sa esser sì copiosamente scarso, che per circonvenzione non libererà una mosca da un ragno, senza che essi traggano i loro ponderosi brandi e taglino la tela. Dopo di che, disdetta a tutto il campo! o piuttosto il mal francese? poiché codesto, mi pare, è il malanno appropriato a coloro che fan guerra per una gonnella. Ho fatto le mie preghiere; Invidia dimonia, di' amen. Ohé, monsignore Achille!

 

(Entra PATROCLO)

 

PATROCLO: Chi è costà? Tersite! Buon Tersite, entra e mettiti a sbeffeggiare.

TERSITE: Se io mi fossi potuto rammentare d'una patacca dorata, tu non avresti corso fuori della mia contemplazione; ma non importa, tu stesso su di te! La maledizione comune dell'umanità, stoltezza e ignoranza, sia tua in cento doppi! il cielo ti preservi da un istruttore, e la disciplina non ti venga dappresso! Che il tuo sangue sia la tua guida fino alla morte! allora se colei che ti acconcia dice che tu sei un bel cadavere, giuro e spergiuro che essa non ha avvolto nel sudario altro che appestati. Amen. Dov'è Achille?

PATROCLO: Come, sei tu davvero? stavi dicendo le preghiere?

TERSITE: Sì: che i cieli m'ascoltino!

 

(Entra ACHILLE)

 

ACHILLE: Chi c'è?

PATROCLO: Tersite, signore.

ACHILLE: Dove, dove? Sei venuto? Perché cacio mio, digestione mia, perché non ti sei imbandito alla mia mensa per tanti pasti? Suvvia, che cos'è Agamennone?

TERSITE: Il tuo comandante, Achille. E ora dimmi, Patroclo, che cos'è Achille?

PATROCLO: Il tuo signore, Tersite. E allora dimmi, ti prego, quel che sei tu stesso.

TERSITE: Il tuo conoscitore, Patroclo. Ma dimmi, Patroclo, che cosa sei tu?

PATROCLO: Puoi dirlo tu che mi conosci.

ACHILLE: Oh, dillo, dillo!

TERSITE: Enuncerò per ordine l'intera questione. Agamennone comanda Achille; Achille è il mio signore; io sono il conoscitore di Patroclo, e Patroclo è uno sciocco.

PATROCLO: Furfante!

TERSITE: Calma, sciocco, non ho ancora finito.

ACHILLE: E' un uomo privilegiato. Prosegui, Tersite.

TERSITE: Agamennone è uno sciocco; Achille è uno sciocco, Tersite è uno sciocco; e, come ho detto dianzi, Patroclo è uno sciocco.

ACHILLE: Suvvia, deduci questo.

TERSITE: Agamennone è uno sciocco a pretendere di comandare Achille; Achille è uno sciocco a lasciarsi comandare da Agamennone; Tersite è uno sciocco a servire un tale sciocco; e Patroclo è uno sciocco positivo.

PATROCLO: Perché sono uno sciocco?

TERSITE: Rivolgi codesta domanda al Creatore. A me basta che tu lo sia. Guardate, chi vien qui?

ACHILLE: Patroclo, non vuo' parlar con nessuno. Vieni dentro con me, Tersite.

 

(Esce)

 

TERSITE: Che gran giunteria, quanta impostura, e quanta furfanteria; e la ragion di tutto è una bagascia e un becco; bella lite davvero per suscitar gelose fazioni e dissanguarsi a morte! La secca serpigine colga tal soggetto! e la guerra e la fornicazione confondan tutti!

 

(Esce)
(Entrano AGAMENNONE, ULISSE, NESTORE, DIOMEDE e AJACE)

 

AGAMENNONE: Dov'è Achille?

PATROCLO: Dentro la sua tenda, ma mal disposto, signore.

AGAMENNONE: Fategli sapere che noi siam qui. Egli ha vilipeso i nostri messi; e noi mettiam da parte le nostre prerogative venendo a visitarlo: che ciò gli sia detto, che egli per caso non pensi che noi non osiamo sollevare la questione del nostro alto posto, o che non sappiamo chi siamo

PATROCLO: Glielo dirò.

 

(Esce)

 

ULISSE: L'abbiam visto all'ingresso della sua tenda: non è infermo.

AJACE: Sì, ha l'infermità del leone, soffre di cuore orgoglioso:

potete chiamarla malinconia, se volete mandargliela buona; ma, sulla mia testa, è orgoglio: ma perché, perché? che ce ne mostri la ragione.

Una parola, signore.

 

(Conduce da parte Agamennone)

 

NESTORE: Che cosa spinge Ajace ad abbaiar così contro di lui?

ULISSE: Achille con adescamenti gli ha tolto il suo pazzo.

NESTORE: Chi, Tersite?

ULISSE: Proprio lui.

NESTORE: Allora Ajace non avrà nulla da dire se ha perduto il suo argomento.

ULISSE: No, vedete, il suo argomento è colui che ha il suo argomento, Achille.

NESTORE: Tanto meglio; la loro contesa è più nei nostri desideri che la loro intesa; ma doveva essere una forte alleanza se c'è voluto un pazzo per romperla!

ULISSE: L'amicizia che non è legata dalla saggezza, la follia può agevolmente scioglierla. Ecco che vien Patroclo.

 

(Rientra PATROCLO)

 

NESTORE: Niente Achille con lui?

ULISSE: L'elefante ha giunture, ma non per le riverenze: le sue son gambe per l'uso, non per le genuflessioni.

PATROCLO: Achille m'incarica di dirvi che egli è assai dolente se alcunché di diverso dal vostro diporto e piacere ha mosso la Vostra Grandezza e questo nobil seguito a fargli visita; egli spera che non sia stato che per la vostra salute e la vostra digestione, una boccata d'aria dopo pranzo.

AGAMENNONE: Statemi a sentire, Patroclo, noi conosciamo fin troppo bene queste risposte: ma la sua schermita, sì celermente alata di scherno, non può sfuggire alla nostra apprensione. Molto credito egli ha, e molta ragione abbiam noi a riconoscerglielo; eppure tutte le sue virtù, non virtuosamente da lui riguardate, cominciano a perdere il loro splendore ai nostri occhi, sì, come delle belle frutta su un piatto sozzo rischiano di marcire senza essere assaggiate. Andate a dirgli che noi siam venuti per parlargli; e non peccherete dicendo che noi lo riteniamo più che superbo e men che cortese, più grande nella sua presunzione che non nel quaderno del giudizio; e che persone più di lui degne stan qui al beneplacito della selvatichezza che egli ha assunto, celano il sacro potere della loro autorità e sottoscrivono con deferenza alla sua capricciosa predominazione, già, spiano le sue proterve lune, i suoi flussi e riflussi, come se il corso e l'intera condotta di questa guerra seguissero la sua corrente. Andate a dirgli questo, e aggiungete che se egli tien su tanto il suo prezzo, faremo a meno di lui, ma lo lasceremo da parte, come non portabil macchina, con questo referto: "Qui si richiede azione, questo non può andare alla guerra"; noi diam la nostra approvazione a un nano che si muove di più che a un gigante che dorme: ditegli così.

PATROCLO: Lo farò, e senz'altro vi porterò la sua risposta.

 

(Esce)

 

AGAMENNONE: D'una risposta di seconda mano non rimarrem soddisfatti; noi siam venuti a parlare con lui. Ulisse, entrate voi.

AJACE: In che è egli da più d'un altro?

AGAMENNONE: Non più di quanto egli pensa d'esserlo.

AJACE: E' egli da tanto? Non credete che egli si creda di valere più di me?

AGAMENNONE: Non v'ha dubbio.

AJACE: E voi sottoscriverete la sua opinione e direte che egli è tale?

AGAMENNONE: No, nobile Ajace; voi siete altrettanto forte, valoroso e saggio, non meno nobile, assai più cortese, e in tutto e per tutto più trattabile.

AJACE: Perché dovrebbe un uomo essere orgoglioso? In che modo si fomenta l'orgoglio? Io non so che cosa sia orgoglio.

AGAMENNONE: La vostra mente ne è tanto più chiara, Ajace e le vostre virtù tanto più belle. L'orgoglioso divora se stesso: l'orgoglio è di se medesimo specchio, tromba, cronaca; e chiunque si loda altrimenti che nell'azione, divora l'azione nella lode.

AJACE: Io detesto l'orgoglioso come detesto la generazione de' rospi.

NESTORE (a parte): Eppure egli ama se stesso: non è ciò strano?

 

(Entra ULISSE)

 

ULISSE: Achille non scenderà in campo domani.

AGAMENNONE: Qual è la sua scusa?

ULISSE: Non si fa forte d'alcuna, ma lascia libero corso al suo talento, senza osservanza o riguardo per alcuno, singolare nel suo volere e nella sua presunzione.

AGAMENNONE: Perché non vuol egli alla nostra affabile richiesta togliersi dalla sua tenda e respirar l'aria con noi?

ULISSE: Ogni nonnulla, pel solo fatto che gli vien richiesto, egli lo rende importante: egli è ossesso dalla sua grandezza, e non parla a se medesimo se non con un orgoglio che recalcitra nel dar fiato a se stesso: l'immaginato merito tiene nel suo sangue sì gonfio e ardente discorso, che dominato a gara dalle sue facoltà mentali e dalle attive, Achille ribolle in gran tumulto e sconquassa se medesimo: che dovrei dirvi? egli è sì pestilentemente orgoglioso che i segni mortali del contagio gridano: "Non c'è rimedio".

AGAMENNONE: Vada da lui Ajace. Caro signore, andate a salutarlo nella sua tenda: si dice che egli vi tenga in considerazione, e a vostra richiesta si lascerà un po' piegare.

ULISSE: O Agamennone, fate che ciò non accada. Noi benediremo i passi che farà Ajace per allontanarsi da Achille: dovrà l'orgoglioso signore che unge la sua arroganza col proprio grasso e non tollera che cosa al mondo entri nei suoi pensieri, se non quel che medita e rumina lui stesso, dovrà egli esser venerato da tale che noi consideriamo maggior idolo di lui? No, questo tre volte degno e valentissimo signore non deve avvilir così la sua palma nobilmente acquistata, né, per quanto sta in me, abbassare il suo merito insigne non meno di quello d'Achille, andando da Achille: sarebbe un lardellare il suo già pingue orgoglio e aggiungere nuovi carboni al Cancro allorché brucia avendo accolto il grande Iperione. Questo signore andar da lui! Lo vieti Giove, e dica con la voce del tuono: "Achille, va' da lui!".

NESTORE (a parte): Ottimamente; lo liscia pel suo verso.

DIOMEDE (a parte): E come il suo silenzio trangugia questo plauso!

AJACE: Se vado da lui, col mio pugno armato gli rompo il muso.

AGAMENNONE: Oh, no, non andrete.

AJACE: E se farà il superbo con me, io stregghiero la sua superbia.

Lasciatemi andar da lui.

ULISSE: No, pel prezzo di tutto ciò per cui combattiamo!

AJACE: Un gaglioffo, un insolente!

NESTORE (a parte): Come dipinge se stesso.

AJACE: Non potrebbe esser compagnevole?

ULISSE (a parte): Il corvo grida contro il color nero.

AJACE: Gli salasserò gli umori io!

AGAMENNONE (a parte): Il malato la vuol far da medico.

AJACE: Se tutti la pensassero come me...

ULISSE (a parte): L'ingegno passerebbe di moda.

AJACE: Non l'avrebbe vinta così, avrebbe da ingoiar spade, prima:

l'orgoglio la farà da padrone?

NESTORE (a parte): Se fosse così, fareste a mezzo.

ULISSE (a parte): Lui ne avrebbe dieci decimi

AJACE: Lo rimpasterò io, lo renderò trattabile.

NESTORE (a parte): Non è ancora caldo a puntino: farcitelo d'elogi: versate, versate; la sua ambizione è a secco.

ULISSE (a Agamennone): Signore, voi vi pascete troppo di questa avversione.

NESTORE: O nobile generale, non fate così.

DIOMEDE: Dovete prepararvi a combatter senza Achille.

ULISSE: E' codesto fare il suo nome che l'offende. Ecco un uomo... ma siamo in sua presenza; resterò zitto.

NESTORE: Perché dovreste? Lui non è invidioso come Achille.

ULISSE: Lo sappia il mondo intero, che egli è altrettanto valente.

AJACE: Un cane figlio di puttana, che così si trastulla con noi! Oh, se fosse un Troiano!

NESTORE: Qual vizio sarebbe ora in Ajace...

ULISSE: Se egli fosse orgoglioso...

DIOMEDE: O bramoso d'elogio...

ULISSE: O sornione di natura...

DIOMEDE: O ritroso, o pieno di sé!

ULISSE: Grazie al cielo, signore, tu sei d'una dolce indole; sia lodato colui che t'ha generato, e colei che ti allattò: celebrato sia il tuo precettore, e le tue doti naturali sian tre volte celebrate, oltre ogni studio: ma quanto a colui che disciplinò alla pugna le tue braccia, Marte divida l'eternità in due e gliene dia metà; e quanto al tuo vigore, il portator di tori Milone ceda il suo titolo al nerboruto Ajace. Io non vuo' lodare la tua saggezza, che come un termine, un recinto, una sponda, delimita le tue spaziose ed estese qualità: ecco qui Nestore, istrutto da vetustà d'anni, ei deve, egli è, egli non può non esser saggio; ma perdonate, padre Nestore, se fossero i vostri giorni verdi come quelli d'Ajace e il vostro cervello della stessa tempra, non avreste preminenza su di lui, ma sareste come Ajace.

AJACE: Posso chiamarvi padre?

NESTORE: Sì, mio buon figliuolo.

DIOMEDE: Lasciatevi guidare da lui, signor Ajace.

ULISSE: Non c'è da indugiare qui; il cervo Achille sta sodo al macchione. Piaccia al nostro gran generale di convocare tutto il suo concilio di guerra; nuovi re son giunti a Troia: domani dobbiamo star saldi con tutte le nostre forze: e qui è un maestro di milizia; vengano cavalieri da levante a ponente e scelgano il loro fiore, Ajace terrà testa al più valente.

AGAMENNONE: Andiamo al consiglio. Achille se ne dorma pure: leggeri palischermi veleggian veloci, sebbene scafi più grossi peschino profondo.

 

(Escono)

 

 

 

ATTO TERZO

 

SCENA PRIMA - Troia. Il Palazzo di Priamo

(Entrano PANDARO e un SERVO)

 

PANDARO: Amico! chi! vi prego, una parola: non siete voi del seguito del giovine signor Paride?

SERVO: Sì, messere, quando cammina dinanzi a me.

PANDARO: Voglio dire, voi dipendete da lui?

SERVO: Messere, io dipendo dal signore.

PANDARO: Dipendete da un nobile gentiluomo; è mestieri ch'io lo iodi.

SERVO: Il signore sia lodato!

PANDARO: Mi conoscete, non è vero?

SERVO: Affé, messere, superficialmente.

PANDARO: Amico, imparate a conoscermi meglio. Io sono il signor Pandaro.

SERVO: Spero di conoscere Vostro Onore migliore, un giorno.

PANDARO: Lo desidero.

SERVO: Voi siete in istato di grazia.

PANDARO: Grazia! oh, no, amico, Onore e Signoria sono i miei titoli.

(Musica di dentro) Che musica è questa?

SERVO: Non la conosco che in parte, messere; è una musica in varie parti.

PANDARO: Conoscete i musici?

SERVO: In tutto e per tutto, messere.

PANDARO: Per chi suonano?

SERVO: Per gli ascoltanti messere.

PANDARO: Per piacere di chi, amico?

SERVO: Pel mio, messere, e di coloro che amano la musica.

PANDARO: Dimanda, voglio dire, amico.

SERVO: Chi debbo dimandare, messere?

PANDARO: Amico, non ci s'intende. Io son troppo cerimonioso, e tu sei troppo astuto. A richiesta di chi suonano costoro?

SERVO: Ora sì che ci siamo, messere. Sì, messere, a richiesta di Paride mio signore che è là in persona; con lui la Venere mortale, colei che è come il sangue del cuore della bellezza, l'anima invisibile dell'amore...

PANDARO: Chi, mia nipote Cressida?

SERVO: No, messere, Elena: non siete riuscito a indovinarlo dai suoi epiteti?

PANDARO: Sembrerebbe, compare, che tu non avessi visto madonna Cressida. Io vengo a parlare con Paride da parte del principe Troilo:

vuo' fargli un assalto complimentoso, ché il mio affare è bollente.

SERVO: Affare bollente: ecco una frase da stufa, davvero.

 

(Entrano PARIDE e ELENA con Seguito)

 

PANDARO: Belle cose a voi, mio signore, e a tutta questa bella brigata! bei desideri, una bella misura, bellamente li guidino!

specialmente a voi, regina! bei pensieri siano il vostro bel guanciale!

ELENA: Caro signore, voi siete pieno di belle parole.

PANDARO: E' vostro bel piacere dirlo, dolce regina. Bel principe, ecco della buona musica partita.

PARIDE: Voi l'avete fatta partire, cugino; e, sulla mia vita, voi la racconcerete di nuovo: la rappezzerete con un pezzo di vostra fattura.

Egli è pieno d'armonia, Lenuccia.

PANDARO: No, veramente, signora.

ELENA: Oh, signore!

PANDARO: Stonato, in verità; sacrosanta verità, stonatissimo.

PARIDE: Ben detto, mio signore! Be', così dite a tempo.

PANDARO: Ho una faccenda con monsignore, cara regina. Monsignore, mi consentite una parola?

ELENA: No, questo non ci metterà alla porta: noi vi ascolteremo cantare, per certo.

PANDARO: Bene, dolce regina, voi scherzate! Ma, diamine, ecco, signore: il mio caro signore e stimatissimo amico, Troilo vostro fratello...

ELENA: Monsignor Pandaro, signor mio melato...

PANDARO: Via, dolce regina, via... si raccomanda a voi molto affettuosamente.

ELENA: Non ci defrauderete della vostra melodia: se lo fate, che la nostra malinconia ricada sul vostro capo!

PANDARO: Dolce regina, dolce regina! ecco una dolce regina, affé.

ELENA: E render triste una dolce signora è gran villania. No, questo non vi servirà a niente; no davvero, ma che! No, di tali parole io non mi curo; no, no.

PANDARO: E, mio signore, egli vi prega che se il re lo domandasse a cena, facciate le sue scuse.

ELENA: Monsignor Pandaro...

PANDARO: Che dice la mia dolce regina, la mia dolcissima regina?

PARIDE: Che intrapresa ha tra mano? dove cena stasera?

ELENA: No, ma, mio signore...

PANDARO: Che dice la mia dolce regina? Mia nipote s'adirerebbe con voi. Voi non dovete sapere dov'egli cena.

PARIDE: Scommetterei la testa che è con colei che all'allegria mi dispone, Cressida.

PANDARO: No, no, niente di questo; non date nel segno. Ecco qui: colei che all'allegria vi dispone è indisposta.

PARIDE: Sta bene, farò le sue scuse.

PANDARO: Sì, mio buon signore. Ma perché dovreste dir Cressida? no, la vostra povera dispensatrice è indisposta.

PARIDE: Intravedo.

PANDARO: Intravedete! che cosa intravedete? Suvvia, datemi uno strumento. Eccomi a voi, dolce regina.

ELENA: Ah, questo è fatto in cortesia.

PANDARO: Mia nipote è orribilmente innamorata d'una cosa che voi possedete, dolce regina.

ELENA: Essa l'avrà, messere, purché non sia il signor mio Paride.

PANDARO: Lui? no, essa non ne vuole affatto; lei e lui fan due.

ELENA: L'unione, dopo la disunione, potrebbe farli far tre.

PANDARO: Via, via, non vuo' più sentir altro di questo. Ora vi canterò una canzone.

ELENA: Sì, sì, ve ne prego. In fede, dolce signore, tu hai una bella fronte.

PANDARO: Sicuro, continuate pure.

ELENA: Il tuo canto sia d'amore: questo amore ci disfarà tutti. O Cupido, Cupido, Cupido!

PANDARO: L'amore! sarà proprio così.

PARIDE: Benissimo dunque: amore, amore, nient'altro che amore.

PANDARO: E in fede mia, comincia così. (Canta) Amore, amore, è amor che ci dismaga!

Poiché lo strale infiamma d'amore daino e damma; riduce in fin di vita pur senza far ferita ma vellicando tuttavia la piaga.

Gridan gli amanti, ahi! cuori infranti!

Ma qual pareva stral che ancide l'ahi ahi tramuta in: ah, ah, ih!.

E amor morendo vive e ride:

ahi! ahi! di qua, poi: ih, ah, ah!

L'ahi ahi finisce in ah, ah, ah!

Olà!

ELENA: Innamorato, davvero, fino alla punta del naso.

PARIDE: Non mangia che colombe, l'amore; e codesto genera sangue caldo, e il sangue caldo genera caldi pensieri, e i caldi pensieri generano calde azioni, e le calde azioni sono l'amore.

PANDARO: E' questa la generazione d'amore? caldo sangue, caldi pensieri e calde azioni? Ma codeste son vipere: è l'amore una generazione di vipere? Dolce signore, chi va al campo quest'oggi?

PARIDE: Ettore, Deifobo, Eleno, Antenore, e tutta la cavalleria di Troia: ben volentieri mi sarei armato quest'oggi, ma la mia Lenuccia non l'ha voluto. Com'è che mio fratello Troilo non è ito?

ELENA: Fa il muso a qualche cosa: voi sapete tutto, signor Pandaro.

PANDARO: Io? no, melata regina. Bramo d'apprendere com'è andata loro quest'oggi. Vi rammenterete delle scuse di vostro fratello?

PARIDE: A capello.

PANDARO: Addio, dolce regina.

ELENA: Raccomandatemi a vostra nipote.

PANDARO: Lo farò, dolce regina.

 

(Esce. Suona la ritirata)

 

PARIDE: Son di ritorno dal campo: andiamo al palazzo di Priamo a salutare i guerrieri. Dolce Elena, debbo supplicarvi di aiutare a disarmare il nostro Ettore: le sue ostinate fibbie, toccate da queste vostre bianche dita incantatrici, obbediranno di più che non al filo dell'acciaio o alla forza di muscoli greci; voi farete di più che tutti i re delle isole: disarmerete Ettore.

ELENA: Ci sarà cagion d'orgoglio il servirlo, Paride; sì, l'omaggio che riceverà da noi ci darà maggior palma in bellezza di quanta non abbiamo, sì, ci conferirà maggior lustro.

PANDARO: O dolce, io t'amo al di sopra d'ogni pensiero.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SECONDA - La stessa. Il verziere di Pandaro

(Entrano PANDARO e il Servo di TROILO, e s'incontrano)

 

PANDARO: Ebbene, dov'è il tuo padrone? da mia nipote Cressida?

SERVO: No, signore; egli aspetta voi per esservi condotto.

 

(Entra TROILO)

 

PANDARO: Oh, eccolo che viene. E così, e così?

TROILO: Gaglioffo, vattene!

 

(Il Servo esce)

 

PANDARO: Hai visto mia nipote?

TROILO: No, Pandaro: passeggio presso alla sua porta, come un'anima straniera sulle rive dello Stige, aspettando il traghetto. Oh, sii tu il mio Caronte, e dammi un celere transito a quei campi dov'io possa sdraiarmi sulle aiuole di gigli promesse ai meritanti. O gentil Pandaro! Strappa dalle spalle di Cupido le sue ali variopinte, e con me vola da Cressida.

PANDARO: Passeggia qui nel verziere. Io te la condurrò subito.

 

(Esce)

 

TROILO: Mi sento le vertigini, l'aspettativa mi dà il capogiro.

L'immaginato godimento è così dolce, che incanta i miei sensi. Che sarà quando il rugiadoso palato gusterà davvero il tre volte raffinato nettare d'amore? la morte, io temo, un deliquio annientatore, o una gioia troppo fina, troppo sottilmente potente, troppo acuta nella sua dolcezza perché le mie più grosse facoltà possan tollerarla: ecco quel che temo, e temo pure di perder discernimento tra i miei gaudi, come un battaglione, quando carica alla rinfusa il nemico che fugge.

 

(Rientra PANDARO)

 

PANDARO: Essa si sta preparando; verrà tosto: ora ti conviene avere il cervel teco. Essa arrossisce tanto, e le manca il fiato a tal segno, come se fosse stata atterrita dalla fantasima: vado a prenderla. E' la più leggiadra furfantella: ha il fiato così corto come un passero pur mo' chiappato.

 

(Esce)

 

TROILO: La stessa commozione stringe il mio senso: il mio cuore batte più fitto d'un polso febbricitante; e tutte le mie facoltà smarriscono il loro potere come un vassallo che inopinatamente incontri l'occhio del suo sovrano.

 

(Rientra PANDARO con CRESSIDA)

 

PANDARO: Via, via, che bisogno avete d'arrossire? il pudore è un pargoletto. Eccola qui: fa' ora a lei i giuramenti che hai fatto a me.

Che! ve ne siete andata di nuovo? avete bisogno di veglia per diventar maniera, eh? Fatevi innanzi, fatevi innanzi; se vi ritraete vi metteremo tra le stanghe. Perché non le rivolgi la parola? Suvvia, alzate questa tendina, e fateci veder la vostra pittura. Ahimè! come siete restia a offendere la luce del giorno; se fosse buio, vi accostereste più celermente. Su, su; tira di passatella, e bacia il boccino! Oh dunque! un bacio in enfiteusi! fabbrica qui, carpentiere; l'aria è dolce. Oh, vi falleranno i cuori prima che io vi separi. Il falco vale il terzuolo, per tutte le anatre del fiume: sotto! sotto!

TROILO: Mi avete privato della parola, signora.

PANDARO: Le parole non pagan debiti, datele fatti; ma essa vi priverà pur dei fatti se mette la vostra attività alla prova. Che! di nuovo a far lezi? Ecco qua: "In testimonianza di che le parti scambievolmente"... Avanti, avanti: io vo a procacciar del fuoco.

 

(Esce)

 

CRESSIDA: Volete entrare, mio signore?

TROILO: O Cressida! quante volte mi son desiderato a questo punto!

CRESSIDA: Desiderato, signor mio? Gli dèi concedano... o mio signore!

TROILO: Che cosa dovrebbero concedere? Perché questa leggera interruzione? Qual sospettoso fondime scorge la mia dolce signora nella fonte del nostro amore?

CRESSIDA: Più fondime che acqua, se i miei timori hanno occhi.

TROILO: I timori fanno di cherubini diavoli non vedono mai secondo verità.

CRESSIDA: Il timore cieco, guidato dalla ragione veggente, va con passo più sicuro della cieca ragione che incespica senza timore:

temere il peggio spesso previene il male.

TROILO: Oh, che la mia signora non concepisca timore alcuno: in tutto il trionfo di Cupido non è presentato alcun mostro.

CRESSIDA: E neanche niente di mostruoso?

TROILO: Null'altro fuorché le nostre promesse; quando giuriamo di pianger mari, di vivere nel fuoco, d'inghiottire scogli, di mansuefare tigri; pensando esser più arduo per la nostra amante d'escogitare abbastanza imposizione che per noi di sottoporci a qualsiasi difficoltà imposta. Questa è la mostruosità d'amore, madonna, che la volontà è infinita, e l'esecuzione ristretta; che il desiderio è sconfinato, e l'atto schiavo del limite.

CRESSIDA: Dicono che tutti gli innamorati giurino d'eseguir più cose che non siano capaci, e pure riservino una capacità che essi non mettono mai ad esecuzione; promettendo di condurre a perfezione più di dieci e adempiendo meno della decima parte di uno. Quei che hanno voce di leone e agire di lepre, non sono essi mostri?

TROILO: Vi sono di cotali? tali non siamo noi. Lodateci come siam saggiati, approvateci secondo la prova che facciamo; il nostro capo andrà ignudo sinché il merito non l'incoroni. Nessun adempimento in aspettativa avrà un elogio presente: non daremo nome al merito prima della sua nascita, e nato che sia, il suo aggiunto sarà umile. Poche parole per una schietta fede: Troilo sarà tale per Cressida, che il peggio che l'invidia potrà dire sarà di schernire la sua fedeltà; e quel che la verità potrà dire di più veritiero non sarà più veritiero di Troilo.

CRESSIDA: Volete entrare, mio signore?

 

(Rientra PANDARO)

 

PANDARO: Come, arrossite ancora? non avete ancora finito di conversare?

CRESSIDA: Ebbene, zio, qualunque sciocchezza io faccia la dedico a voi.

PANDARO: Ve ne ringrazio: se monsignore ha un bimbo da voi, lo darete a me. Siate fedele a monsignore: se egli si ritrae, rimproveratene me.

TROILO: Conoscete ora i vostri ostaggi; la parola di vostro zio, e la mia ferma fede.

PANDARO: Be', vuo' dar la mia parola anche per lei. Le donne della nostra casata, se sono lente a cedere ai corteggiamenti, son costanti una volta guadagnate: son come le lappole; s'attaccano dove son gittate.

CRESSIDA: Ora mi vien l'ardire, e m'incuora. Principe Troilo, io v'ho amato giorno e notte per molti uggiosi mesi.

TROILO: Perché dunque la mia Cressida è stata così difficile a vincere?

CRESSIDA: Difficile a sembrar vinta; ma io sono stata vinta, mio signore, al primo sguardo che mai... perdonatemi... se io confesso molto, voi farete il tiranno. Ora io ho amore per voi; ma, fino ad ora, non tanto che io non potessi padroneggiarlo: in fede, io mentisco; i miei pensieri eran come fanciulli sfrenati, divenuti troppo caparbi per la loro madre. Vedete che sciocche siamo! Perché ho chiacchierato? chi sarà leale con noi, quando noi siamo così indiscrete verso noi stesse? Ma, benché io v'amassi di cuore, non vi feci profferte; pure, in fede mia, desideravo d'essere un uomo, o che noi donne avessimo il privilegio degli uomini, di parlare per prime.

Mio dolce amico, ordinatemi di frenare la lingua; che in questo rapimento io certo dirò cosa di cui avrò a pentirmi. Vedete, vedete!

il vostro silenzio, astuto nella sua mutezza, strappa alla mia fragilità l'anima stessa del mio consiglio. Chiudetemi la bocca.

TROILO: Così farò, benché ne esca una musica soave.

PANDARO: Carino, affe'!

CRESSIDA: Mio signore, vi supplico di perdonarmi; non era mia intenzione di mendicare così un bacio: ne ho vergogna; o cieli! che ho fatto! Per questa volta prenderò commiato da voi, mio signore.

TROILO: Commiato, dolce Cressida?

PANDARO: Commiato! se voi prendete commiato fino a domattina...

CRESSIDA: Vi prego, contentatevi.

TROILO: Che cosa vi offende, signora?

CRESSIDA: Messere, la mia propria compagnia.

TROILO: Non potete evitare voi stessa.

CRESSIDA: Lasciate che io me ne vada e ne faccia prova. Ho un genere di me che risiede con voi; però per me sì ingeneroso, che vuole abbandonar se stesso per esser lo zimbello d'un altro. Dov'è il mio senno? Vorrei esser partita. Non so quel che mi dico.

TROILO: Ben sanno quel che dicono color che parlano sì saviamente.

CRESSIDA: Forse, signor mio, io mostro più astuzia che amore, e mi son lasciata trascorrere appieno a sì ampia confessione, per prendere all'amo i vostri pensieri; ma voi siete savio, ossia non amate, perché esser savio e amare eccede il potere dell'uomo; codesto s'appartiene agli dèi superni.

TROILO: Oh, se io pensassi che fosse in potere d'una donna (e, se lo è, lo voglio presumere in voi) d'alimentar per sempre la lampada e i fuochi del suo amore, di conservar giovine la sua impegnata fede sì che sopravviva all'esteriore bellezza, con un animo che si rinnovella più celermente che il sangue non si stempri: o se questa convinzione potesse persuadermi, che la mia lealtà e fedeltà a voi potessero trovare la pariglia e il contrappeso d'una così vagliata purezza d'amore: come ne sarei allora esaltato! ma ahimè! io son così schietto come la semplicità della schiettezza, e più semplice dell'infanzia della schiettezza.

CRESSIDA: In codesto io guerreggerò con voi.

TROILO: O virtuosa lotta! quando la drittura guerreggia con la drittura a chi sarà la più dritta. I fedeli garzoni innamorati nei secoli venturi attesteranno la lor fede nel nome di Troilo: quando le loro rime, piene di proteste, di giuramenti, di grandi comparazioni, saranno a corto d'immagini, la fedeltà stancandosi di ripetere d'esser "schietta come l'acciaro, fedele come le piante alla luna, come il sole al giorno, come la tortora al compagno, come il ferro alla calamita, come la terra al suo centro", ecco, dopo tutte le comparazioni di fedeltà, quasi per citare l'autentico autore della fede, "fedele come Troilo" coronerà i versi e santificherà i loro numeri.

CRESSIDA: Possiate esser profeta! Se io sono disleale, o m'allontano d'un capello dalla fedeltà, quando il tempo sarà invecchiato e avrà dimenticato se stesso, quando le gocce d'acqua avran consumato i sassi di Troia, e il cieco oblìo avrà divorato città, e stati possenti senza lasciar traccia si saranno sbriciolati in polveroso nulla, pure la memoria, d'infedele a infedele, tra le donzelle, infedeli in amore, rimproveri la mia infedeltà! quando avran detto "malfida come l'aria, come l'acqua, il vento o la terra sabbiosa, come la volpe all'agnello, come il lupo al nato della giovenca, come il leopardo alla cerva, o la matrigna al figliastro", sì, aggiungano, per colpire al cuore la falsità, "perfida come Cressida".

PANDARO: Suvvia, affare concluso; apponetevi, apponetevi il suggello:

io sarò il testimonio. Ecco, io tengo la tua mano, ed ecco quella di mia nipote. Se mai vi mostrate infedeli l'uno all'altra, dopo che mi son preso tante pene per unirvi insieme, che tutti i miseri ruffiani sian chiamati col mio nome fino alla fine del mondo; si chiamino tutti Pandari; tutti gli uomini costanti sian Troili, tutte le donne infedeli Cresside, e tutti i mezzani Pandari! Dite amen.

TROILO: Amen.

CRESSIDA: Amen.

PANDARO: Amen. Dopo di che io vi mostrerò una camera con un letto, il quale letto, perché non abbia a parlare dei vostri leggiadri certami, schiacciatelo a morte: suvvia! E Cupido conceda a tutte le fanciulle qui che han la lingua legata, un letto, una camera, e un Pandaro che apparecchi questa faccenda.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA TERZA - Il Campo greco

(Entrano AGAMENNONE, ULISSE, DIOMEDE, NESTORE, AJACE, MENELAO e CALCANTE)

 

CALCANTE: Orbene, principi, pei servigi che vi ho reso, l'occasione m'incita a gran voce a chiedere ricompensa. Rappresentatevi alla mente che per via della visione che io ho delle cose future, ho abbandonato Troia, lasciato i miei possessi, incorso nel nome di traditore, esposto me stesso, in luogo di beni certi e goduti, a dubbie sorti; alienando da me tutto ciò che il tempo, la conoscenza, la consuetudine, e la condizione avevan reso intrinseco e familiare alla mia natura; e qui per servirvi, son divenuto come nuovo al mondo, estraneo, sconosciuto: vi supplico, a mo' d'assaggio, di darmi un piccolo beneficio di tra quei molti registrati nelle promesse, i quali, voi dite, vivono per tornare a mio vantaggio.

AGAMENNONE: Che vuoi da noi, Troiano? fa' dimanda.

CALCANTE: Voi avete un prigioniero troiano chiamato Antenore, preso ieri: Troia lo tiene in gran conto. Spesso voi avete, e spesso ne avete avuto grazie, desiderato la mia Cressida in ben cospicuo cambio, la quale Troia ha sempre negato; ma codesto Antenore è un tal cavicchio nelle loro faccende, che tutte le loro negoziazioni debbono rilassarsi, mancando il suo maneggio; ed essi vogliono darci quasi un principe di sangue, un figlio di Priamo, in cambio di lui: mandatelo, o grandi principi, ed egli comprerà mia figlia; e la presenza di lei cancellerà affatto ogni servigio che io ho reso con ben accetta fatica.

AGAMENNONE: Diomede lo conduca, e ci meni qui Cressida: Calcante avrà quel che ci domanda. Buon Diomede, apprestatevi acconciamente per questo scambio; e insieme sappiateci riferire se Ettore intende domani trovar risposta a questa sfida: Ajace è pronto.

DIOMEDE: Codesto io farò, ed è un incarico a cui io sono orgoglioso di sobbarcarmi.

 

(Escono Diomede e Calcante)

(Appaiono ACHILLE e PATROCLO dinanzi alla loro tenda)

 

ULISSE: Achille sta sull'ingresso della sua tenda: piaccia al nostro generale di passare a mo' d'estraneo dinanzi a lui, come se egli fosse dimenticato; e voi, principi tutti, lanciate a lui uno sguardo negligente e distante: io verrò per ultimo. E' probabile che egli mi chiederà perché si posino su di lui occhi sì disapprovanti: se è così io ho un medicinal divisamento da usare tra la vostra sostenutezza e il suo orgoglio, che egli non dimanderà di meglio che di bere. Ciò potrebbe giovare: l'orgoglio non ha altro specchio per vedersi fuorché l'orgoglio, ché pieghevoli ginocchi alimentano l'arroganza e sono il guiderdone del superbo.

AGAMENNONE: Eseguiremo la vostra idea, e assumeremo un'aria di sostenutezza mentre passiamo dinanzi: così faccia ciascun signore, e o non lo saluti, ovvero lo saluti sdegnosamente, il che lo scuoterà più che di non esser guardato. Faccio strada.

ACHILLE: Che! il generale viene a parlarmi? Conoscete il mio animo; io non vuo' più combattere contro Troia.

AGAMENNONE: Che dice Achille? vuol egli qual cosa da noi?

NESTORE: Vorreste qualcosa dal generale, mio signore?

ACHILLE: No.

NESTORE: Nulla, signor mio.

AGAMENNONE: Meglio così.

 

(Escono Agamennone e Nestore)

 

ACHILLE: Buon giorno, buon giorno.

MENELAO: Addio, addio.

 

(Esce)

 

ACHILLE: Cosa? il becco mi disprezza?

AJACE: Come va, Patroclo?

ACHILLE: Buon giorno, Ajace.

AJACE: Eh?

ACHILLE: Buon giorno.

AJACE: Sì, e buon proseguimento, anche!

 

(Esce)

 

ACHILLE: Che voglion dire costoro? Non riconoscono Achille?

PATROCLO: Passan oltre come estranei: solevano inchinarsi, e farsi precedere presso Achille dai loro sorrisi; venire così umili come usavano strisciare dinanzi ai santi altari.

ACHILLE: E che? son divenuto povero ultimamente? E' certo che la grandezza, una volta che sia caduta di grazia alla fortuna, deve anche cader di grazia agli uomini: quel che egli sia, il decaduto lo leggerà così presto negli occhi altrui come lo sentirà nella sua propria caduta; ché gli uomini, a mo' delle farfalle, non mostrano le loro ali infarinate che alla buona stagione, e non v'è uomo che, per essere semplicemente uomo, riceva onore, ma viene onorato per quegli onori che sono fuori di lui, quali la posizione, la ricchezza e il favore, premi del caso altrettanto spesso che del merito: e quand'essi cadono, da quei labili sostegni che sono, e l'affetto che su di essi s'appoggiava è labile altrettanto, l'uno tira giù l'altro e insieme periscono nella caduta. Ma cosi non è di me: la fortuna ed io siamo amici: io godo in piena misura di tutto ciò che possedevo eccetto che degli sguardi di costoro; i quali, sembra, scoprono in me qualcosa che non è degno di quell'insigne riguardo che sì spesso mi han tributato.

Ecco qui Ulisse: vuo' interrompere la sua lettura. Ebbene, Ulisse!

ULISSE: Ebbene, gran figlio di Teti!

ACHILLE: Che cosa state leggendo?

ULISSE: Uno spirito bizzarro mi scrive qui: "L'uomo per riccamente dotato che sia, per cospicuo che sia il suo avere esteriore o interiore, non può menar vanto di avere quello che egli ha, né sente quel che egli possiede se non per riflessione; come quando le sue virtù splendendo su altri li scaldano e rifrangono di nuovo quel calore sull'originatore primo".

ACHILLE: Questo non è bizzarro, Ulisse. La bellezza che qui si porta sul volto, il portatore non la conosce, ma si raccomanda agli occhi degli altri: l'occhio stesso, quel purissimo spirito dei sensi, non si vede, non uscendo di se medesimo; ma se occhio s'oppone ad occhio, si salutan tra loro colla lor rispettiva forma; ché la contemplazione non si volge su di sé finché non abbia viaggiato, e non si sia sposata laddove può vedere se stessa. Codesto non è affatto bizzarro.

ULISSE: Non è la proposizione che io trovo ostica: essa è familiare; ma la conclusione dell'autore, che nella sua disamina espressamente dimostra che nessun uomo è padrone di nulla, per quanta consistenza ci sia in lui o per via di lui, finché egli non comunichi ad altri le sue doti; né egli da sé se ne fa un'idea finché non le veda prender forma nell'applauso che le divulga, il quale, come un arco, riverbera la voce, o come una porta d'acciaio prospiciente il sole, riceve e restituisce la sua immagine e il suo calore. Molto rimasi assorto io in questo, e immediatamente vi lessi il caso dell'oscuro Ajace. Cieli, che uomo è costui! proprio un cavallo che reca non sa cosa. O Natura, quante cose vi sono, basse nell'opinione, e preziose nell'uso! E quante, d'altronde, preziosissime nella stima e povere in valore!

Vedremo dunque domani - per un atto gittatogli dal mero caso - Ajace venire in fama! O cieli! che cosa fanno certi uomini, mentre altri tralasciano di fare! Come certuni strisciano nel palazzo della capricciosa Fortuna, mentre gli altri fanno gl'idioti sotto gli occhi di lei! Come uno si mangia l'orgoglio d'un altro, mentre l'orgoglio digiuna nella sua bizzarria! Bisogna vederli quei condottieri greci!

di già batton sulla spalla quello zoticone d'Ajace, quasiché il suo piede fosse sul petto del prode Ettore, e la superba Ilio ululasse.

ACHILLE: Lo credo; ché essi mi son passati accanto come fan gli avari coi mendichi, né mi han dato una parola o un'occhiata benigna: come, son le mie opere dimenticate?

ULISSE: Il Tempo, signor mio, ha una bisaccia sul groppone, dove mette elemosine per l'oblìo, enorme mostro d'ingratitudine: quegli avanzi sono buone opere passate; le quali son divorate sì tosto che fatte, e dimenticate non appena compiute: la perseveranza, signor mio caro, conserva l'onore rilucente: aver fatto è star appeso fuor di moda, come rugginosa armatura in monumentale dileggio. Mettetevi senz'altro in cammino; ché l'onore precorre una stretta sì angusta che uno solo può andarvi di fronte: tenete poi il sentiero, ché l'emulazione ha mille figli che s'incalzano un dopo l'altro: se cedete il passo, o vi ritraete dal diritto cammino, come una marea penetrata essi vi si precipitano innanzi e vi lasciano ultimo; o come un generoso cavallo caduto nella prima fila, voi giacete là a far da pavimento alla vil retroguardia, travolto e calpesto: poiché quel che essi fanno in presente, benché minore dell'opera vostra passata, deve soverchiarla; che il Tempo è come un ospite alla moda, che stringe appena la mano al convitato che parte, e con le braccia spalancate, come se volesse volare, abbranca quello che arriva: l'accoglienza sorride sempre, e l'addio se ne va sospirando. Oh, la virtù non cerchi rimunerazione per ciò che è stata, perché la bellezza, l'ingegno, gl'illustri natali, il vigore delle ossa, il merito di servizio, l'amore, l'amicizia, la carità son tutti soggetti all'invido e calunnioso Tempo. Un tratto di natura fa tutti gli uomini d'una razza, che tutti ad una voce elogiano i nuovi trastulli, benché sian fatti e foggiati di cose passate, e danno alla polvere che sia un po' dorata più lodi che all'oro coperto di polvere. L'occhio presente elogia il presente oggetto: sicché non meravigliarti, tu uomo grande e completo, se tutti i Greci cominciano ad adorare Ajace; dacché le cose che si muovono attirano più l'occhio di ciò che sta fermo. Il grido andava un tempo a te, e ancora potrebbe, e pur potrà di nuovo, se tu non volessi seppellirti vivo, e insaccare la tua reputazione nella tua tenda; tu le cui gloriose gesta, recentemente compiute su questi campi, han creato emule missioni tra gli stessi dèi, e han spinto il grande Marte a parteggiare.

ACHILLE: Ho forti ragioni per questa mia secessione.

ULISSE: Ma contro la vostra secessione le ragioni son più potenti ed eroiche. E' noto, Achille, che siete innamorato di una delle figlie di Priamo.

ACHILLE: Come? noto?

ULISSE: C'è da meravigliarsi? La provvidenza che è in uno Stato oculato conosce quasi ogni grano dell'oro di Pluto, trova il fondo degli abissi inscandagliabili, va d'un passo col pensiero, e quasi, come gli dèi, svela i pensieri nelle lor mute culle. V'è nell'anima dello Stato un mistero, di cui non v'è relazione che osi immischiarsi, che ha operazione più divina di quanto il fiato o la penna non possano esprimere. Tutto il commercio che voi avete avuto con Troia è tanto perfettamente cosa nostra che vostra, signore; e meglio assai converrebbe ad Achille di metter colla schiena a terra Ettore anziché Polissena; ma dovrà dolere al giovine Pirro che è ora in patria, quando la fama suonerà la tromba nelle nostre isole, e tutte le fanciulle greche canteran danzando: "la sorella del grande Ettore ha vinto Achille, ma il nostro grande Ajace ha valorosamente abbattuto lui". Addio, signore: io parlo come uno che v'ama; lo sciocco scivola sul ghiaccio che voi dovreste rompere.

 

(Esce)

 

PATROCLO: In tal senso, Achille, io ti ho sollecitato. Una donna divenuta impudente e mascolina non è più aborrita d'un uomo effeminato in tempo d'azione. Di questo si dà a me la colpa: pensano che il mio scarso gusto per la guerra e il tuo grande amore per me così ti rattengano. Mio dolce amico, levati; e il languido lascivo Cupido scioglierà dal tuo collo il suo amoroso laccio, e come una goccia di rugiada scossa dalla criniera del leone, si dissolverà in aria.

ACHILLE: Ajace dunque combatterà con Ettore?

PATROCLO: Sì; e forse riceverà per lui molto onore.

ACHILLE: Vedo che la mia reputazione è a repentaglio; la mia fama è malignamente trafitta.

PATROCLO: Oh, sta' dunque in guardia! Male guariscono le ferite che l'uomo si fa da sé: l'omissione di fare ciò che è necessario suggella carta bianca al pericolo; e il pericolo, come il ribrezzo della quartana, sottilmente assale anche quando sediamo pigri nel sole.

ACHILLE: Va' a cercarmi Tersite, dolce Patroclo: manderò il giullare da Ajace a pregarlo d'invitare i signori troiani dopo il combattimento a venirci a trovare qui senz'armi. Ho una voglia donnesca, un appetito che mi dà la nausea, di vedere il grande Ettore nelle sue vesti di pace; parlar con lui e contemplarne il viso, finché ne abbia sazi gli occhi. Ecco una fatica risparmiata!

 

(Entra TERSITE)

 

TERSITE: Un miracolo!

ACHILLE: Che cosa?

TERSITE: Ajace va su e giù pel campo in cerca di se stesso.

ACHILLE: E come?

TERSITE: Domani deve combattere in singolar tenzone con Ettore ed è sì profeticamente orgoglioso d'un'eroica bastonatura che farnetica senza dir nulla.

ACHILLE: Come può esser ciò?

TERSITE: Già, fa la ruota su e giù come un pavone, un passo e una fermata; rumina come un'ostessa che non ha altra aritmetica che il suo cervello per fare i conti; si morde il labbro con un'aria astuta, come chi dicesse: "Ci sarebbe senno in questa testa, se volesse uscirne"; e ve n'è infatti ma giace in lui così freddo come il fuoco nella selce, che non si mostra senza picchiare. Quell'uomo è finito per sempre, perché, se Ettore non gli rompe il collo nel combattimento, se lo romperà lui da sé con la vanagloria. Non mi riconosce: io gli ho detto: "Buongiorno Ajace", e lui risponde: "Grazie, Agamennone". Che pensate di costui che mi prende pel generale? E' diventato un pesce fuor d'acqua, privo di favella, un mostro. Maledetta la rinomanza! uno può portarla di tutti e due i versi, come un farsetto di cuoio.

ACHILLE: Tu devi essere il mio ambasciatore a lui, Tersite.

TERSITE: Chi, io? ma se egli non vuol rispondere a nessuno; ei professa il non rispondere; parlare è da pezzenti; lui ha la lingua nelle braccia. Vuo' assumere la sua persona: che Patroclo mi rivolga delle domande, vedrete lo spettacolo di Ajace.

ACHILLE: Dai, Patroclo: digli che io umilmente richiedo il prode Ajace d'invitare il valorosissimo Ettore a venire senz'armi alla mia tenda; e di procurargli un salvacondotto per la sua persona dal magnanimo, illustrissimo, e sei o sette volte onorevole capitano generale dell'esercito greco, Agamennone, eccetera. Digli questo.

PATROCLO: Giove benedica il grande Ajace!

TERSITE: Uhm!

PATROCLO: Vengo da parte del degno Achille...

TERSITE: Ah!

PATROCLO: Che umilissimamente vi richiede d'invitare Ettore alla sua tenda...

TERSITE: Uhm!

PATROCLO: E di procurargli un salvacondotto da Agamennone.

TERSITE: Agamennone!

PATROCLO: Sì, mio signore.

TERSITE: Ah!

PATROCLO: Che rispondete a questo?

TERSITE: Che Dio sia con voi, con tutto il cuore.

PATROCLO: La vostra risposta, messere.

TERSITE: Se domani è una bella giornata, alle undici andrà in un modo o nell'altro; comunque, mi pagherà caro prima d'avermi.

PATROCLO: La vostra risposta, messere.

TERSITE: State bene, con tutto il cuore.

ACHILLE: Via, non è mica su questo tono, eh?

TERSITE: No, ma è fuor di tono così. Qual musica sarà in lui quando Ettore gli avrà fatto schizzar fuori il cervello, non so, nessuna, son certo, a meno che il violinista Apollo non prenda i suoi nervi per farne minugie.

ACHILLE: Suvvia, gli porterai subito una lettera.

TERSITE: Fatemene portare un'altra al suo cavallo, che, dei due, è l'animale più intelligente.

ACHILLE: La mia mente è torbida come una fonte agitata, ed io stesso non ne vedo il fondo.

 

(Escono Achille e Patroclo)

 

TERSITE: Fosse la fonte della vostra mente di nuovo chiara, che io potessi abbeverarvi un somaro! Vorrei esser piuttosto zecca in una pecora, che sì prode ignoranza.

 

(Esce)

 

 

 

ATTO QUARTO

 

SCENA PRIMA - Troia. Una strada

(Entrano da un lato ENEA e un Servo con una torcia; dall'altro PARIDE, DEIFOBO, ANTENORE, DIOMEDE, ed altri con torce)

 

PARIDE: Guardate, oh! chi è laggiù?

DEIFOBO: E' il signor Enea.

ENEA: E' costà il principe in persona? Se io avessi così buona occasione di starmene a giacere quale avete voi, principe Paride, soltanto un celestial negozio potrebbe privare della mia società la mia compagna di letto.

DIOMEDE: Questo è pure il mio pensiero. Buon giorno, signor Enea.

PARIDE: Un valoroso greco, Enea; prendete la sua mano; ne sia prova il tenore del vostro discorso, in cui narraste come Diomede, giorno per giorno per un'intera settimana, vi fu addosso sul campo di battaglia.

ENEA: Salute a voi, prode messere, durante i parlari della gentil tregua; ma quando io v'incontri armato, tal nera sfida quale il mio animo possa pensare o il mio coraggio eseguire.

DIOMEDE: L'una e l'altra Diomede abbraccia. Il nostro sangue è ora calmo, e, finché sia tale, salute! Ma si incontrino contesa e occasione, per Giove, farò il cacciatore della tua vita con tutta la mia forza, il mio accanimento, e la mia astuzia.

ENEA: E tu caccerai un leone, che fuggirà con la faccia all'indietro.

Ora, in umana gentilezza, benvenuto a Troia! per la vita d'Anchise, benvenuto davvero! Per la mano di Venere io giuro, nessun vivente può così amare l'essere che egli intende d'uccidere più eccellentemente.

DIOMEDE: Siamo d'uno stesso animo. O Giove, fa' che Enea viva, se il suo fato non debba esser la gloria della mia spada, mille complete rivoluzioni solari! Ma, per il mio bramoso onore, fallo morire, ogni suo membro una piaga, e ciò domani!

ENEA: Ci conosciamo bene.

DIOMEDE: Sì, e aneliamo di conoscerci peggio.

PARIDE: Questo è il più dispettoso gentil saluto, il più nobile odioso amore, di cui io abbia mai udito. Quale faccenda, signore, di sì buon'ora?

ENEA: Il re mi ha mandato a chiamare, ma perché non so.

PARIDE: Il suo disegno vi si fa incontro: era di condurre questo Greco alla casa di Calcante, e di consegnargli colà, in cambio del liberato Antenore, la bella Cressida. Dateci la vostra compagnia, o, se vi piace, precedeteci colà sollecitamente. Io penso per fermo, o piuttosto chiamo il mio pensiero conoscenza certa, che mio fratello Troilo si trova là stanotte: svegliatelo e dategli notizia della nostra venuta con tutta la spiegazione del suo motivo: temo che saremo assai mal ricevuti.

ENEA: Questo io v'assicuro: egli preferirebbe che Troia fosse portata in Grecia, anziché Cressida portata via da Troia.

PARIDE: Non c'è rimedio; così vuole l'acerba disposizione dei tempi.

Orsù, signore; noi vi seguiremo.

ENEA: Buon giorno a tutti.

 

(Esce)

 

PARIDE: E ditemi, nobile Diomede, in fede, ditemi veracemente, proprio da schietto sodale, chi, a vostro parere, merita di più la bella Elena, io o Menelao?

DIOMEDE: Entrambi egualmente: ben merita d'averla egli che la cerca, senza farsi scrupolo alcuno della sua macchia, a prezzo di tale un inferno di pena e mondo d'affanno, e voi altrettanto di serbarla, voi che la difendete, senza sentire il sapore del suo disonore, a prezzo di sì costosa perdita di ricchezza e d'amici: egli, come un piangoloso becco, vorrebbe bere la feccia e il fondiglio d'un barile che ha perso il razzente; voi, come un lussurioso, vi compiacete di generare da puttaneschi lombi i vostri eredi; a pesarli i vostri meriti si bilanciano, ma lui come lui ha il tracollo per via d'una puttana.

PARIDE: Siete troppo aspro con la vostra compatriota.

DIOMEDE: Essa è aspra alla sua patria. Ascoltatemi, Paride: per ogni perfida goccia nelle sue vene di baldracca s'e spenta la vita d'un Greco; per ogni scrupolo del suo contaminato peso di carogna è stato ucciso un Troiano. Da quando è stata capace di parlare essa non ha dato fiato a tante parole buone quanti sono i Greci e i Troiani che han sofferto per lei la morte.

PARIDE: Bel Diomede, voi fate come gli avventori, biasimate la cosa che desiderate di comprare; ma noi in silenzio teniamo in gran conto questa virtù: non vanteremo quello che intendiamo di vendere. Di qui è il nostro cammino.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SECONDA - La stessa. Cortile della casa di Pandaro

(Entrano TROILO e CRESSIDA)

 

TROILO: Mia cara, non disturbarti: la mattina è fredda.

CRESSIDA: Allora, mio dolce signore, chiamerò giù mio zio; lui disserrerà le porte.

TROILO: Non lo disturbare; a letto, a letto! il sonno uccida quegli occhi leggiadri, e dia ai tuoi sensi sì soave sequestro com'è quello dei pargoli, scevro d'ogni pensiero!

CRESSIDA: Buon giorno, allora.

TROILO: Ora ti prego, a letto!

CRESSIDA: Sei stanco di me?

TROILO: O Cressida, non fosse che il giorno affaccendato, desto dall'allodola, ha suscitato le sboccate cornacchie, e che la sognante notte non consente più a celare le nostre gioie, io non me ne andrei via da te.

CRESSIDA: La notte è stata troppo breve.

TROILO: Maledetta strega; cogli scellerati essa sta a tedio, come l'inferno, ma fugge gli amplessi dell'amore con ali più istantanee del pensiero. T'infredderai, e mi maledirai.

CRESSIDA: Ti prego, trattienti: voi uomini non volete mai trattenervi.

O sciocca Cressida! Avrei potuto stare ancora sulle mie, e allora ti saresti trattenuto. Ascolta! su c'è qualcuno.

PANDARO (di dentro): Che? tutte le porte sono aperte qui?

TROILO: E' tuo zio.

CRESSIDA: Lo colga la peste! ora se ne farà beffe: bel tempo avrò io!

 

(Entra PANDARO)

 

PANDARO: Ebbene, ebbene! come vanno le verginità? Eccovi qua, verginella! dov'è mia nipote Cressida?

CRESSIDA: Andate a impiccarvi, beffardo ziaccio! Mi spingete a fare...

e poi mi date anche la baia.

PANDARO: A far cosa? a far cosa? lo dica dunque: che cosa vi ho spinta a fare?

CRESSIDA: Via, via, maledetto il vostro cuore! voi non sarete mai buono, né soffrirete che altri lo sia.

PANDARO: Ah, ah! Ohimè, poverina! povera "capocchia"! non hai dormito stanotte? non l'ha voluta lasciar dormire, omaccio che non era altro?

il lupo mannaro se lo pigli!

 

(Bussano di dentro)

 

CRESSIDA: Non te l'ho detto? Oh, se picchiassero sul suo capo! Chi è alla porta! andate a vedere, zietto, Mio signore, ritornate nella mia camera: voi sorridete e mi burlate, come se io vi mettessi un'intenzione sconveniente.

TROILO: Ah, ah!

CRESSIDA: Via, v'ingannate, io non penso a una tal cosa. (Bussano di dentro) Con che fervore picchiano! Vi prego, rientrate: non vorrei per la metà di Troia che voi foste veduto qui.

 

(Escono Troilo e Cressida)

 

PANDARO: Chi è? che c'è? volete buttar giù la porta? Ebbene, che c'è?

 

(Entra ENEA)

 

ENEA: Buon giorno, messere, buon giorno.

PANDARO: Chi è? monsignore Enea! in verità non vi avevo riconosciuto:

che notizie recate così di buon'ora?

ENEA: Non è qui il principe Troilo?

PANDARO: Qui! a che fare?

ENEA: Via, egli è qui, signore, non lo negate: è molto importante per lui di parlare con me.

PANDARO: E' qui, voi dite? è più di quel che io non sappia, vi giuro:

quanto a me son tornato a casa tardi. E che cosa ci starebbe a fare?

ENEA: Chi? be', be'... via, via, gli nuocerete senza accorgervene. Gli sarete fedele al punto di tradirlo. Non sappiate nulla di lui, ma nondimeno fatemelo venir qui; andate.

 

(Entra TROILO)

 

TROILO: Ebbene, che c'è?

ENEA: Signore, ho appena agio di salutarvi, tanto è urgente la mia faccenda: stan per giungere Paride vostro fratello, e Deifobo, il greco Diomede, e il nostro Antenore che ci vien consegnato; in cambio di lui, senz'altro, innanzi il primo sacrificio entro quest'ora, dobbiamo rimettere nelle mani di Diomede madonna Cressida.

TROILO: Così è stato concluso?

ENEA: Da Priamo e dal consiglio generale di Troia: essi stan per giungere e son pronti a mandare la cosa ad effetto TROILO: Come il mio successo si prende giuoco di me! Vado a incontrarli: e, monsignore Enea, ci siamo incontrati per caso; voi non mi avete trovato qui; andate.

ENEA: Bene, bene, signore; i segreti della natura non sono dotati di più taciturnità.

 

(Escono Troilo ed Enea)

 

PANDARO: E' mai possibile? conquistata appena e già perduta? il diavolo si prenda Antenore! Il giovane principe ne impazzirà. La peste colga Antenore! Gli avessero rotto il collo!

 

(Rientra CRESSIDA)

 

CRESSIDA: Ebbene, che c'è? Chi era qui?

PANDARO: Oh, oh!

CRESSIDA: Perché sospirate così profondamente? dov'è il mio signore?

se n'è andato! Ditemi, dolce zio, che cosa c'è?

PANDARO: Potessi essere tanto giù sotto terra quanto son di sopra!

CRESSIDA: O numi! che cosa c'è?

PANDARO: Ti prego, rientra. Non fossi tu mai nata! Lo sapevo che saresti stata la sua morte. Oh, povero signore! la peste colga Antenore!

CRESSIDA: Mio buono zio, v'imploro, in ginocchio v'imploro, che cosa c'è?

PANDARO: Devi andartene, ragazza, devi andartene; sei data in cambio di Antenore. Devi andar da tuo padre, e allontanarti da Troilo: sarà la sua morte; sarà la sua rovina: egli non potrà sopportarlo.

CRESSIDA: O dèi immortali! io non andrò.

PANDARO: Tu devi.

CRESSIDA: Non voglio, zio; ho dimenticato mio padre; non ho niun sentimento di consanguineità; nessun parente, nessun amore, nessun sangue, nessun'anima che sia così vicina a me come il dolce Troilo. O numi divini! fate del nome di Cressida il colmo della perfidia se essa mai abbandona Troilo! Tempo, forza, e morte, assoggettate questo corpo a tutti i vostri rigori; ma la salda base e fabbrica del mio amore è come il centro stesso della terra, che attira a sé ogni cosa. Mi ritiro a piangere...

PANDARO: Va', va'.

CRESSIDA: A strapparmi i lucenti capelli, a graffiarmi queste celebrate guance, a spezzare coi singhiozzi la mia limpida voce, a infrangere il mio cuore a forza di gridar: Troilo. Non voglio andarmene da Troia.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA TERZA - La stessa. Dinanzi alla casa di Pandaro

(Entrano PARIDE, TROILO, ENEA, DEIFOBO, ANTENORE, e DIOMEDE)

 

PARIDE: E' giorno alto, e celermente s'approssima l'ora prefissa per la consegna di lei a questo valoroso Greco. Mio buon fratello Troilo, dite alla signora quel ch'essa deve fare, e sollecitatela all'uopo.

TROILO: Entrate nella sua casa: io la condurrò al Greco immantinente:

e quando io la consegno nelle sue mani, considerale un altare, e tuo fratello Troilo un sacerdote che vi offre il suo proprio cuore.

PARIDE: Io so che cosa sia l'amore, e vorrei poterlo soccorrere come lo compiango! Vi prego, entrate, signori.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA QUARTA - La stessa. Una camera nella casa di Pandaro

(Entrano PANDARO e CRESSIDA)

 

PANDARO: Moderatevi, moderatevi!

CRESSIDA: Perché mi parlate di moderazione? Il dolore che io assaggio è squisito, pieno, perfetto, e imperversa con un affetto così veemente come quello che lo causa. Come posso moderarlo? Se potessi temporeggiare con la mia passione, o stemperarla in un sapore debole e più freddo, potrei dare al mio dolore la stessa indignazione, ma il mio amore non ammette alcuna lega che lo svilisca, e neppure il mio dolore in sì preziosa perdita.

 

(Entra TROILO)

 

PANDARO: Eccolo, eccolo, eccolo che viene. Ah, dolci tortorini !

CRESSIDA: Oh, Troilo. Troilo!

 

(Lo abbraccia)

 

PANDARO: Che paio di dolenti! Vuo' abbracciarli anch'io. "O cuore", come dice la bella canzone...

"O cuore, oppresso cuore, perché sospiri senza essere infranto?" ed esso risponde:

"Perché non puoi sfogare il tuo dolore con amicizia o col dar voce al pianto".

Non c'è mai stata rima più vera. Non gittiam via nulla, ché tempo verrà in cui potremo aver bisogno di tali versi: lo vediamo, lo vediamo. Ebbene, agnellini miei!

TROILO: Cressida, io t'amo con sì vagliata purezza, che i beati numi, come irati con la mia passione, più accesa in zelo della devozione che fredde labbra esalano alle loro deità, ti strappano via da me.

CRESSIDA: Son gelosi gli dèi?

PANDARO: Già, già, è un caso troppo evidente.

CRESSIDA: Ed è vero che io debbo andarmene da Troia?

TROILO: E' un'odiosa verità.

CRESSIDA: Come, e anche da Troilo?

TROILO: Da Troia e da Troilo.

CRESSIDA: E' mai possibile?

TROILO: E incontanente; onde l'offesa della sorte respinge commiato, scansa ruvidamente ogni indugio, brutalmente defrauda le nostre labbra d'ogni rigiugnimento, a forza impedisce i nostri allacciati abbracci, strangola i nostri cari voti pur mentre nascono dal nostro travagliato respiro. Anche noi, che con tante migliaia di sospiri ci siamo comprati l'un l'altra, dobbiamo venderci a vil prezzo con la rude brevità ed emissione d'un solo. Il tempo ingiurioso ora con la fretta d'un ladro affardella alla rinfusa il suo ricco bottino: tanti arrivederci quante ci sono stelle in cielo con voci distinte e baci di conferma in soprappiù, ei li abborraccia in un rilassato addio, e ci tiene a stecchetto con un sol bacio famelico, dissaporito dal sale di rotti pianti.

ENEA (di dentro): Mio signore, è pronta madonna?

TROILO: Ascolta! ti chiamano: dicono alcuni che il Genio così grida "Vieni!" a colui che deve morire in un istante. Di' loro d'aver pazienza, ella vien subito.

PANDARO: Dove sono le mie lacrime? piovete, per far cessare questo vento, o il mio cuore sarà sbarbicato!

 

(Esce)

 

CRESSIDA: Debbo dunque andar dai Greci?

TROILO: Non c'è rimedio.

CRESSIDA: Una mesta Cressida tra i gai Greci! Quando ci rivedremo?

TROILO: Odimi, amor mio. Sii solo fedele in cuore...

CRESSIDA: Io fedele? evvia! che malvagia supposizione è codesta?

TROILO: No, dobbiamo fare un blando uso delle rimostranze, poiché si tratta di separarci: io non dico "sii fedele", perché io tema di te, ché io gitterei il mio guanto anche alla Morte, che non v'è macula nel tuo cuore; ma "sii fedele" io dico per preformare la mia susseguente protestazione; sii fedele, e io ti rivedrò.

CRESSIDA: Oh, sarete esposto, mio signore, a pericoli infiniti quanto imminenti, ma io sarò fedele.

TROILO: Ed io diverrò amico del pericolo. Porta questa manica.

CRESSIDA: E tu questo guanto. Quando ti rivedrò?

TROILO: Io corromperò le sentinelle greche, per potervi visitare la notte. Ma pure, sii fedele.

CRESSIDA: O cielo! "sii fedele" di nuovo!

TROILO: Odi perché lo dico, amore: i giovani greci son pieni di qualità; essi sono amorosi, ben temperati coi doni di natura e ridondanti d'arti e di destrezza: come possano commuovere le novità e le doti dell'animo con l'avvenenza, ahimè, me lo fa temere una specie di religiosa gelosia, la quale, ti supplico, chiama virtuoso peccato.

CRESSIDA: O cielo! voi non mi amate.

TROILO: Possa io morire da furfante allora! In questo io non metto in dubbio la tua fede quanto soprattutto il mio merito: io non so cantare, né saltabeccar la volta, né addolcire la conversazione, né giocare a giuochi sottili, tutte belle virtù a cui i Greci sono sommamente proclivi e inchinevoli: ma io posso dire che in ciascuna di queste grazie s'annida un dimonio silenzioso e mutamente eloquente che sa astutissimamente tentare. Ma tu non lasciarti tentare.

CRESSIDA: Credete che io voglia?

TROILO: No. Ma si può fare qualcosa che noi non vogliamo: e qualche volta siamo diavoli verso noi stessi quando vogliam tentare la fralezza delle nostre forze, presumendo della lor potenza che è mutevole.

ENEA (di dentro): Ebbene, mio buon signore...

TROILO: Su via, baciami, e separiamoci.

PARIDE (di dentro): Fratello Troilo!

TROILO: Buon fratello, venite qui, e conducete con voi Enea e il Greco.

CRESSIDA: Mio buon signore, sarete voi fedele?

TROILO: Chi, io? ahimè! è il mio vizio, la mia colpa: mentre altri con astuzia vanno in pesca di gran rinomanza, io con gran veracità piglio pura dabbenaggine; mentre alcuni con furberia doran le lor corone di rame, con veracità e semplicità io porto ignuda la mia. Non temere della mia fede; la morale dei mio senno è "semplice e fido"; questa è tutta la sua portata.

 

(Entrano ENEA, PARIDE, ANTENORE, DEIFOBO e DIOMEDE)

 

Benvenuto, messer Diomede! Ecco la signora che noi vi consegniamo in cambio di Antenore: alle porte della città, signore, io la metterò nelle tue mani, e lungo il cammino t'informerò quale ella sia.

Trattala bellamente; e, sull'anima mia, bel Greco, se mai tu sia alla mercé della mia spada, di' il nome di Cressida, e la tua vita sarà salva come Priamo è in Ilio.

DIOMEDE: Bella madonna Cressida, così vi piaccia, risparmiate i ringraziamenti che questo principe s'attende: lo splendore dei vostri occhi, il cielo delle vostre guance, patrocinano per voi onesto trattamento; e per Diomede voi sarete una padrona, e lo comanderete in tutto.

TROILO: Greco, tu non mi tratti cortesemente, a far vergogna allo zelo della mia preghiera col lodare costei: io ti dico, signore di Grecia, che ella tanto s'innalza al di sopra delle tue lodi quanto tu sei indegno di chiamarti suo servo. Io ti ingiungo di trattarla bene, solo in forza di questa mia ingiunzione; giacché, pel tremendo Plutone, se tu non lo farai, quand'anche fosse tua difesa la gran mole d'Achille, io ti taglierò la gola.

DIOMEDE: Oh, non vi adirate, principe Troilo, e lasciate che il mio posto e il mio messaggio mi privilegino a parlare liberamente; quando io sarò via di qui, non avrò da render conto che al mio piacimento, e sappiate, signore, che io nulla farò dietro ingiunzione: essa sarà apprezzata secondo il suo merito; ma diciate voi "sia così", il mio spirito e il mio onore mi faran rispondere "no".

TROILO: Andiamo alle porte! Io ti dico, Diomede, questa bravacciata t'obbligherà spesso a nascondere il capo. Madonna, datemi la mano, e mentre camminiamo, rivolgiamo a noi stessi la nostra bisognevol conversazione.

 

(Escono Troilo, Cressida e Diomede. Suono di tromba)

 

PARIDE: Udite! la tromba di Ettore.

ENEA: Come abbiamo speso questa mattinata! Il principe penserà ch'io sia tardo e negligente, io che avevo giurato di precederlo a cavallo sul campo di battaglia.

PARIDE: E' colpa di Troilo. Andiamo, andiamo, al campo con lui.

DEIFOBO: Facciamo presto.

ENEA: Sì, con la fresca alacrità d'uno sposo accingiamoci a metterci alle calcagna di Ettore: la gloria di Troia nostra dipende oggi dal suo chiaro valore e dalla sua sola cavalleria.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA QUINTA - Il Campo greco. E' apparecchiata la lizza

(Entrano AJACE, armato, AGAMENNONE, ACHILLE, PATROCLO, ULISSE, NESTORE, ed altri)

 

AGAMENNONE: Eccoti in fresco e bell'arnese anticipando il tempo. Con coraggio che non sta alle mosse da' con la tua tromba un alto segnale a Troia, o terribile Ajace; sicché l'aria spaventata possa trapassare il capo del gran campione e qui l'attragga.

AJACE: Trombettiere, ecco la mia borsa. Ora squarcia i tuoi polmoni. e fendi il tuo oricalco: soffia, gaglioffo, finché la tua gota dalla sferica turgenza s'enfi più della colica del tumido Aquilone. Orsù, distendi il tuo petto, e fa' che i tuoi occhi sgorghino sangue; tu soffi per Ettore.

 

(Suona la tromba)

 

ULISSE: Nessuna tromba risponde ACHILLE: Non è che primo mattino AGAMENNONE: Non è quello Diomede con la figlia di Calcante?

ULISSE: E' lui, conosco il modo della sua andatura; si solleva sulle punte: quel suo spirito, nell'aspirazione l'alza su dalla terra.

 

(Entra DIOMEDE con CRESSIDA)

 

AGAMENNONE: E' questa madonna Cressida?

DIOMEDE: Proprio lei.

AGAMENNONE: Carissimamente benvenuta tra i Greci, dolce signora.

NESTORE: Il nostro generale vi saluta con un bacio.

ULISSE: Pure tal gentilezza non è che particolare; meglio sarebbe se ella fosse baciata in generale.

NESTORE: Davvero un cortese consiglio: comincerò io. Ecco per Nestore.

ACHILLE: Toglierò quell'inverno via dalle vostre labbra, bella signora: Achille vi augura il benvenuto.

MENELAO: Una volta avevo buon motivo di baciare.

PATROCLO: Ma questo non è un motivo per baciare ora; perché così nel suo ardire Paride dette una capatina, e così separò voi e li vostro motivo.

ULISSE: O mortal canchero e argomento di tutto il nostro disdoro! Onde perdiamo le nostre teste per far le sue corna d'oro.

PATROCLO: Il primo è stato il bacio di Menelao questo è il mio:

Patroclo vi bacia.

MENELAO: Oh. questo è conto!

PATROCLO: Paride e io baciam sempre per suo conto.

MENELAO: Vuo' avere il mio bacio, messere. Madonna, permettete...

CRESSIDA: Quando baciate, date o ricevete?

PATROCLO: E do e ricevo.

CRESSIDA: Ci metterei la vita in una posta, voi ricevete il bacio che più costa; per cui niente bacio.

MENELAO: Io vi darò in soprammercato, vi darò tre per uno.

CRESSIDA: Vi ponete in caffo! date pari, o nessuno.

MENELAO: In caffo, madonna! Baciando non si fa caffo né pari.

CRESSIDA: Ma Paride l'ha fatto, ché voi sapete che s'è preso il caffo delle donne, e s'è messo in pari con voi.

MENELAO: Mi date un nocchino in capo.

CRESSIDA: No, vi giuro!

ULISSE: Infatti, quel suo corno è troppo duro per l'unghia vostra, ed impari è la posta. Dolce signora, posso chiedervi un bacio?

CRESSIDA: Lo potete.

ULISSE: Lo bramo.

CRESSIDA: Ebbene, chiedete allora.

ULISSE: Ebbene, allora per amor di Venere, sia il mio voto esaudito, quand'Elena ritorni vergine, e a suo marito.

CRESSIDA: Son vostra debitrice; reclamatelo quand'è l'ora.

ULISSE: Mai è il mio giorno, e il vostro bacio allora.

DIOMEDE: Signora, una parola: vi condurrò da vostro padre.

 

(Diomede mena via Cressida)

 

NESTORE: E' una donna di pronto spirito.

ULISSE: Il malanno su di lei! Hanno un linguaggio i suoi occhi, le sue guance, le sue labbra, sicuro, il suo piede parla; i suoi spiriti lascivi s'affacciano a ogni giuntura e mossa del suo corpo. Oh, queste affrontatrici, dalla lingua sì sciolta, che danno un accostante benvenuto prima di riceverlo, e spalancano le tavolette dei loro pensieri a ogni pruriginoso lettore, notale per sozze prede dell'opportunità e figlie della libidine.

 

(Suono di tromba di dentro)

 

TUTTI: La tromba dei Troiani.

AGAMENNONE: Laggiù viene la truppa.

 

(Entrano ETTORE, armato, ENEA, TROILO ed altri Troiani, con Seguito)

 

ENEA: Salute a voi tutti, capi della Grecia! che si farà per colui che avrà in pugno la vittoria? o intendete che si proclami un vincitore?

volete che i cavalieri si incalzino fino al termine d'ogni estremità, o saran separati da qualche voce o ordine del campo? Ettore ha detto di chiederlo.

AGAMENNONE: E come piacerebbe ad Ettore?

ENEA: Non se ne cura; obbedirà alle condizioni.

ACHILLE: Questo agire è degno di Ettore; ma è pieno di sicurezza, un po' d'orgoglio, e un bel po' di disprezzo pel cavaliere che gli sta contro.

ENEA: Se il vostro nome non è Achille, messere, qual è?

ACHILLE: Se non è Achille, alcuno.

ENEA: Dunque Achille; ma, quale che sia, sappiate questo: negli estremi di grande e di piccolo, il valore e l'orgoglio si sorpassano in Ettore; l'uno quasi infinito come il tutto, l'altro inane come il nulla. Stimatelo bene, e quel che appare come orgoglio è cortesia.

Questo Ajace è per metà fatto del sangue di Ettore; per amor di che la metà di Ettore rimane a casa; mezzo cuore, mezzo braccio, mezzo Ettore viene a cercare questo misticato cavaliere, mezzo troiano e mezzo greco.

ACHILLE: Certame di principianti, allora? Oh, vi capisco.

 

(Rientra DIOMEDE)

 

AGAMENNONE: Ecco ser Diomede. Andate, gentil cavaliere, fatevi presso al nostro Ajace: a quel modo che voi e il signore Enea consentirete sull'ordine della loro pugna, così sia; o a oltranza, oppure un semplice scontro: i campioni essendo parenti, per metà cessa la loro lotta prima che comincino i colpi.

 

(Ajace ed Ettore entrano in lizza)

 

ULISSE: Eccoli già affrontati.

AGAMENNONE: Chi è quel Troiano dall'aspetto così mesto?

ULISSE: Il più giovane figlio di Priamo, un vero cavaliere: non ancor maturo, eppure senza pari; fermo di parola, parlante coi fatti e non fattivo con la lingua; non di leggeri provocato, né, provocato, di leggeri placato: il suo cuore e la sua mano aperti entrambi e liberali; ché ciò che egli ha, egli dona, ciò che pensa egli mostra; eppur non dona finché il giudizio non guidi la sua larghezza, né degna di dar voce a un impari pensiero. Virile come Ettore, ma più pericoloso; poiché Ettore, nella vampa della sua ira, concede venia a oggetti di pietà; ma costui nel calor dell'azione è più vendicativo dell'amore geloso. Lo chiamano Troilo, e pongono su di lui una seconda speranza, così ben fondata come quella su Ettore. Così dice Enea, uno che conosce il giovine a menadito, e a quattr'occhi me lo ha così descritto nella grande Ilio.

 

(Suono d'allarme. Ettore e Ajace combattono)

 

AGAMENNONE:. Sono ingaggiati, NESTORE: Sta' saldo, Ajace!

TROILO: Ettore, tu dormi; svegliati!

AGAMENNONE: I suoi colpi son ben diretti: dài, Ajace!

DIOMEDE: Dovete cessare.

 

(Le trombe cessano di suonare)

 

ENEA: Principi, basta, così vi piaccia.

AJACE: Non sono ancora caldo; ricominciamo.

DIOMEDE: Come piace ad Ettore.

ETTORE: Ebbene, allora non più. Tu sei, o gran signore, figlio della sorella di mio padre, cugino germano della prole del gran Priamo; il vincolo del nostro sangue vieta tra noi due una sanguinosa emulazione.

Fosse la tua commistione di greco e di troiano tale che tu potessi dire: "Questa mano è tutta greca e questa è troiana; i muscoli di questa gamba tutti greci, e questa è tutta di Troia; il sangue di mia madre scorre nella guancia destra, e questa sinistra contiene quello di mio padre": per Giove Onnipotente, tu non potresti riportare da questo scontro con me un membro greco dove la mia spada non avesse lasciato l'impronta della nostra inimicizia: ma i giusti iddii vietano che una sola goccia di sangue che tu hai derivato da tua madre, la mia sacra zia, debba essere effusa dalla mia spada mortale! Lascia che io ti abbracci, Ajace: per Colui che tuona, tu hai braccia gagliarde; Ettore vuole che esse cadano su di lui così: cugino, ogni onore a te!

AJACE: Ti ringrazio, Ettore: tu sei un uomo troppo gentile e troppo generoso: io ero venuto per ucciderti, cugino, e per recar di qui un grande aggiunto acquistato per la tua morte.

ETTORE: Neanche Neottolemo sì ammirabile, sul cui splendente cimiero la Fama coi suoi più alti proclami grida: "Questo è lui!", potrebbe ripromettersi un aggiunto onorifico strappato ad Ettore.

ENEA: V'è attesa qui da ambo le parti per quel che farete.

ETTORE: Rispondiamo, l'esito è un abbraccio: Ajace addio.

AJACE: Se potessi trovar successo con le mie preghiere, come io raramente avrò occasione, inviterei il mio famoso cugino alle nostre tende greche.

DIOMEDE: E' il desiderio di Agamennone, e il grande Achille brama di vedere il valoroso Ettore disarmato.

ETTORE: Enea, chiamate qui da me il mio fratello Troilo, e significate agli spettatori della nostra parte troiana questa amorevole intervista; pregateli di tornare alla città. Dammi la mano, cugino; vuo' mangiare con te e vedere i vostri cavalieri.

AJACE: Il grande Agamennone viene qui a incontrarci.

ETTORE: I più degni tra loro dimmi nome per nome, ma quanto ad Achille, i miei occhi scrutatori lo ravviseranno alla sua ampia e imponente statura.

AGAMENNONE: Degno nell'armi! Benvenuto quanto è possibile per chi vorrebbe sbarazzarsi d'un simile nemico: ma questo non è dare il benvenuto: intendi più chiaramente che quel che è trascorso e quel che ha da venire è coperto di gusci e dell'informe rovina dell'oblìo; ma in questo momento presente, la fede e la fidanza, mondate d'ogni falso torcimento, ti augurano, con la più divina integrità, dal più profondo del cuore, o grande Ettore, il benvenuto.

ETTORE: Io ti ringrazio, o imperiale Agamennone.

AGAMENNONE (a Troilo): Mio caro signore di Troia, altrettanto a voi.

MENELAO: Lasciate che io confermi il saluto del mio principesco fratello: voi, coppia di marziali fratelli, siate qui i benvenuti.

ETTORE: A chi dobbiamo rispondere?

ENEA: Al nobile Menelao.

ETTORE: Oh, a voi, mio signore? pel guanto di Marte, grazie! Non mi burlate se io adotto l'inusitato giuramento; la vostra "quondam" consorte giura sempre pel guanto di Venere: essa sta bene, ma non m'ha incaricato di raccomandarla a voi.

MENELAO: Non la nominate ora, signore; essa è un tema letale.

ETTORE: Oh, perdonate! io v'ho offeso.

NESTORE: Io t'ho, valoroso Troiano, veduto sovente, affaticandoti nel destino, aprirti un crudele solco tra le file della gioventù greca: ed io t'ho veduto, ardente come Perseo, spronare il tuo destriero frigio spregiando molte prostrazioni e sottomissioni, quando hai sospeso nell'aria la tua spada alzata, senza lasciarla cadere sui caduti, sì che io ho detto ad alcuno che mi stava dappresso: "Ecco là Giove, che dispensa la vita". E ti ho veduto sostare e prender fiato, quando ti s'è stretto intorno un cerchio di Greci, come un lottatore olimpico:

codesto io ho veduto; ma questo tuo sembiante, sempre chiuso nell'acciaio, io non ho mai veduto prima d'ora. Io conobbi il tuo avolo, e una volta ho combattuto con lui: era un buon soldato: ma, pel gran Marte, capitano di tutti noi, egli non fu mai tuo pari. Lascia che un vecchio t'abbracci; e, degno guerriero, sii il benvenuto alle nostre tende.

ENEA: E' il vecchio Nestore.

ETTORE: Che io t'abbracci, buona cronaca antica, che sì a lungo hai camminato tenendoti per mano col tempo: reverendissimo Nestore, son lieto di stringerti al petto.

NESTORE: Potessero le mie braccia eguagliarti nella contesa, com'esse contendono con le tue in cortesia.

ETTORE: Vorrei che lo potessero.

NESTORE: Ah! per questa barba bianca, combatterei teco domani. Ebbene, benvenuto, benvenuto! Ho veduto il tempo...

ULISSE: Mi domando come stia in piedi quella città, quando abbiam qui presso di noi la sua base e la sua colonna.

ETTORE: Conosco bene, signore Ulisse, il vostro volto. Ah, messere, molti Greci e molti Troiani son morti, dacché per la prima volta io vidi voi e Diomede a Ilio, nella vostra greca ambasceria.

ULISSE: Messere, io vi predissi allora quel che sarebbe accaduto: la mia profezia non è ancora che a mezza strada; ché quelle mura là, che spavalde muniscono la vostra città, quelle torri, le cui lascive cime carezzano le nubi, dovran baciare i lor propri piedi.

ETTORE: Non debbo credervi: stanno ancor salde, e modestamente penso che la caduta d'ogni pietra frigia costerà una goccia di sangue greco:

il fine corona l'opera, e quel vecchio arbitro comune, il Tempo, vi metterà fine un giorno.

ULISSE: Sicché rimettiamocene a lui. Cortesissimo e valentissimo Ettore, benvenuto. Dopo il generale, vi prego che per prima cosa voi banchettiate con me e veniate a trovarmi nella mia tenda.

ACHILLE: Io ti preverrò, signore Ulisse, costì! Ora, Ettore, ho saziato di te i miei occhi; con minuto scrutinio io t'ho esaminato, Ettore, e considerato giuntura per giuntura.

ETTORE: E' questo Achille?

ACHILLE: Io sono Achille.

ETTORE: Sta' su bello, ti prego, lasciati guardare.

ACHILLE: Contemplami fin che tu ne sia sazio.

ETTORE: Ecco, ho già fatto.

ACHILLE: Tu sei troppo breve: io vuo' una seconda volta scrutarti membro a membro come se volessi comprarti.

ETTORE: Oh, tu mi rileggerai come un libro dilettevole; ma in me c'è di più di quanto tu non intenda. Perché mi opprimi così coi tuoi occhi?

ACHILLE: Ditemi, o cieli, in qual parte del suo corpo io lo distruggerò? là, o là o là? che io possa dare un nome alla particolar ferita, e individuare la breccia stessa da cui sarà fuggita la grande anima di Ettore. Rispondetemi, cieli!

ETTORE: Gli dèi beati si screditerebbero, o uomo superbo, a rispondere a tal domanda. Sta' su di nuovo: credi tu di prendermi la vita così a tuo bell'agio da poter nominare innanzi in precisa congettura dove mi colpirai a morte?

ACHILLE: Io ti dico di sì.

ETTORE: Fossi tu l'oracolo a dirmi codesto, io non ti crederei. Oramai sta' bene in guardia, perché io non ti ucciderò costì, o costì, o costì, ma, per la fucina che foggiò l'elmo di Marte, io t'occiderò da per tutto, sì, per tutta la persona. O voi saggissimi Greci, perdonatemi questa vanteria; la sua insolenza trae follia dalle mie labbra; ma io tenterò azioni che eguaglino queste parole; o possa io non mai...

AJACE: Non irritarti, cugino: e voi, Achille, lasciate da parte queste minacce, fino a che il caso e la volontà non vi conducano al cimento:

voi potete ogni dì avere a sazietà d'Ettore, se ne avete appetito. La signoria della Grecia, io temo, può a stento persuadervi a misurarvi con lui.

ETTORE: Vi prego, lasciate che vi vediamo in campo; abbiamo avuto battaglie dappoco, da che voi avete ripudiato la causa dei Greci.

ACHILLE: Me ne preghi, Ettore? Domani io t'affronto, spietato come la morte; stasera tutti amici.

ETTORE: La tua mano su questo patto.

AGAMENNONE: Innanzi tutto, o voi tutti pari di Grecia, andate alla mia tenda; colà si faccia banchetto plenario: dipoi, come l'agio di Ettore e le vostre liberalità concorrano insieme, intrattenetelo singolarmente. Si battano i tamburi, si dia fiato alle trombe, che questo gran soldato possa conoscere quanto egli sia il benvenuto.

 

(Escono tutti eccetto Troilo e Ulisse)

 

TROILO: Mio signore Ulisse, ditemi, ve ne scongiuro, in qual parte del campo dimora Calcante?

ULISSE: Nella tenda di Menelao, o eminentissimo Troilo: colà Diomede banchetta con lui stasera, quel Diomede che non mira né il cielo né la terra, ma dispensa tutta l'attenzione e l'inclinazione d'amoroso sguardo sulla bella Cressida.

TROILO: Dolce signore, vi sarò io tanto obbligato, quando avrem lasciata la tenda d'Agamennone, di venir condotto là?

ULISSE: Ai vostri comandi, messere. Con altrettanta cortesia, ditemi, quale reputazione aveva questa Cressida a Troia? Non aveva là forse un amante che piange la sua assenza?

TROILO: Oh, messere! a tali che vantandosi mostran le loro cicatrici è dovuta irrisione. Volete venir oltre, signore? Ella era amata, ella amava, ella è amata, ed ama; ma sempre il dolce amore è cibo pel dente della fortuna.

 

(Escono)

 

 

 

ATTO QUINTO

 

SCENA PRIMA - Il Campo greco. Dinanzi alla tenda d'Achille

(Entrano ACHILLE e PATROCLO)

 

ACHILLE: Gli riscalderò il sangue con vino greco stasera e glielo raffredderò domani con la mia scimitarra. Patroclo, festeggiamolo al colmo.

PATROCLO: Ecco che viene Tersite.

 

(Entra TERSITE)

 

ACHILLE: Or dunque, bubbone d'invidia! tu, schianza sfornata dalla natura, che novelle?

TERSITE: Ebbene, tu, effigie di quello che sembri, e idolo degl'idiotolatri, ecco una lettera per te.

ACHILLE: Di dove, frammento?

TERSITE: Ebbene, tagliere colmo di gnocchi, da Troia.

PATROCLO: Chi tiene la tenda, ora?

TERSITE: La cassetta del cerusico, o la ferita del paziente.

PATROCLO: Ben detto, avversione! e che bisogno c'è di queste gherminelle?

TERSITE: Fammi il favore di star zitto, ragazzo; non m'avvantaggio delle tue ciance: dicono che tu sia il bagascio di Achille.

PATROCLO: Bagascio tu, furfante! che vuol dire?

TERSITE: Già, la sua puttana mascola. E ora tutte le putride malattie del mezzogiorno, la torsione delle budella, le ernie, i catarri, un carico di renella nella schiena, le letargie, le fredde parlasie, gli occhi scerpellini, la malsania del fegato, i rantoli dei polmoni, la vescica piena di postema, le sciatiche, le fornaci di calcina nelle palme, il mal d'ossa incurabile, e il rugoso feudo perpetuo dell'erpete, colgano e ricolgano tali innaturali discoprimenti.

PATROCLO: Suvvia, dannabil ricettacolo d'invidia, a che maledici così?

TERSITE: O che maledico te?

PATROCLO: Già, punto, bariletto sfessato, informe cagnaccio figlio di puttana, punto.

TERSITE: Punto? e allora perché sei esasperato, tu inutile spregevole matassa di bavella, tu tendina di taffettà verde per occhi malati, tu nappa della borsa d'un prodigo? Ah, come il povero mondo è tormentato da tali moscerini, diminutivi della natura!

PATROCLO: Fuori, fiele!

TERSITE: Uovo di fringuello!

ACHILLE: Mio dolce Patroclo, son del tutto frustrato nel mio gran disegno di battaglia domani. Ecco una lettera della regina Ecuba, un segnale d'affetto da parte di sua figlia, il mio bell'amore, ed entrambe mi rimproverano e mi fanno obbligo di mantenere un giuramento che ho fatto. Io non vuo' violarlo: cadete, Greci; vieni meno, fama; onore, vattene o resta; il mio voto supremo è qui, a questo obbedirò.

Vieni, vieni, Tersite, aiutami a rassettare la mia tenda; questa notte dev'esser tutta spesa a banchettare. Suvvia, Patroclo.

 

(Escono Achille e Patroclo)

 

TERSITE: Con troppo sangue, e troppo poco cervello, questi due potrebbero diventar pazzi: ma se essi lo divengono con troppo cervello e troppo poco sangue, io sarò medico di pazzi. Ecco Agamennone, un compare abbastanza onesto, e uno a cui piaccion le passere, ma non ha tanto cervello quanto cerume nelle orecchie: e quella vaga metamorfosi di Giove là, suo fratello, il toro, statua archetipa, e torto monumento dei cornuti: un taccagno corno da scarpe appeso a una catena alla gamba di suo fratello: a quale altra forma se non quella che è potrebbe ridurlo lo spirito lardellato di malizia e la malizia farcita di spirito? A quella d'un asino, sarebbe nulla: ché egli è asino e bove insieme: a quella d'un bove, sarebbe nulla: egli è bove e asino insieme. Esser cane, mulo, gatto, puzzola, rospo, lucertola, gufo, nibbio, o aringa senza latte, poco m'importerebbe, ma esser Menelao!

Mi metterei a cospirare contro il destino. Non chiedetemi quello che vorrei essere se non fossi Tersite, ché non m'importerebbe d'essere il pidocchio d'un lebbroso, pur di non essere Menelao. Diamine! spiriti e fuochi!

 

(Entrano ETTORE, TROILO, AJACE, AGAMENNONE, ULISSE, NESTORE, MENELAO e DIOMEDE, con torce)

 

AGAMENNONE: Sbagliamo strada; sbagliamo strada.

AJACE: No, è laggiù. Là, dove vediamo i lumi.

ETTORE: Vi do disturbo.

AJACE: No, punto.

ULISSE: Ecco che viene lui stesso per farvi da guida.

 

(Rientra ACHILLE)

 

ACHILLE: Benvenuto, prode Ettore; benvenuti, principi tutti.

AGAMENNONE: E adesso, bel principe di Troia, vi do la buona notte.

Ajace comanda la guardia che v'è di scorta.

ETTORE: Grazie e buona notte al generale dei Greci.

MENELAO: Buona notte, signore.

ETTORE: Buona notte, dolce signore Menelao.

TERSITE: Dolce latrina: "dolce" ha detto! dolce sentina, dolce fogna.

ACHILLE: Buona notte e bene arrivati a un tempo, a quelli che se ne vanno e a quelli che restano.

AGAMENNONE: Buona notte.

 

(Escono Agamennone e Menelao)

 

ACHILLE: Il vecchio Nestore rimane, e voi pure, Diomede, fate compagnia ad Ettore per un'ora o due.

DIOMEDE: Non posso, signore; ho un affare importante di cui è ora il momento. Buona notte, grande Ettore.

ETTORE: Datemi la mano.

ULISSE (a parte a Troilo): Seguite la sua torcia; va alla tenda di Calcante. Io vi terrò compagnia.

TROILO: Dolce messere, voi mi onorate.

ETTORE: E allora, buona notte.

 

(Diomede esce, Ulisse e Troilo lo seguono)

 

ACHILLE: Venite, venite; entrate nella mia tenda.

 

(Escono Achille, Ettore, Ajace e Nestore)

 

TERSITE: Codesto Diomede è un traditor manigoldo, un iniquissimo furfante; non vorrei fidarmi di lui quando ammicca più che d'un serpe quando fischia. Fa gran sfoggio di voce e di promesse come Rissoso, il can da pelo; ma quando adempie, lo predicon gli astronomi: è cosa prodigiosa, avverrà qualche cambiamento: il sole prende a prestito dalla luna quando Diomede mantien la parola. Vuo' piuttosto rinunziare a vedere Ettore che a seguir la traccia di costui: dicono che tenga una scanfarda troiana, e che abiti la tenda del traditore Calcante.

Vuo' andargli dietro. Null'altro che lussuria! tutti bricconi libidinosi!

 

(Esce)

 

 

 

SCENA SECONDA - La stessa. Davanti alla tenda di Calcante

(Entra DIOMEDE)

 

DIOMEDE: Ohé, siete svegli costà? parlate.

CALCANTE (di dentro): Chi chiama?

DIOMEDE: Diomede. E' Calcante, credo. Dov'è vostra figlia?

CALCANTE (di dentro): Viene da voi.

 

(Entrano TROILO e ULISSE, a qualche distanza; dietro a loro, TERSITE)

 

ULISSE: Fermatevi dove la torcia non possa scoprirci.

 

(Entra CRESSIDA)

 

TROILO: Cressida gli va incontro.

DIOMEDE: Ebbene, protetta mia?

CRESSIDA: Oh, mio dolce custode! Udite, ho da dirvi una parola.

 

(Gli parla a bassa voce)

 

TROILO: Come, così familiare!

ULISSE: Sa cantare qualunque uomo a prima vista.

TERSITE: E qualunque uomo può cantar lei se ne sa prender la chiave; essa ha parecchie note.

DIOMEDE: Volete ricordarvi?

CRESSIDA: Ricordarmi? sì.

DIOMEDE: Ebbene, allora fatelo, e che il vostro animo s'appai con le vostre parole.

TROILO: Che dovrebbe essa ricordare?

ULISSE: Ascoltate!

CRESSIDA: Dolce melato Greco, non mi tentate più oltre alla follia.

TERSITE: Furfanteria!

DIOMEDE: E allora...

CRESSIDA: Vi dirò cosa...

DIOMEDE: E via! fanfaluche! siete spergiura.

CRESSIDA: In fede, non posso. Che vorreste che io facessi?

TERSITE: Un giuoco di mano, per essere in segreto aperta.

DIOMEDE: Che cosa avete giurato d'accordarmi?

CRESSIDA: Vi prego, non mi astringete al mio giuramento; ordinatemi di fare qualunque altra cosa, dolce Greco.

DIOMEDE: Buona notte.

TROILO: Reggi, o pazienza!

ULISSE: Che c'è, Troiano?

CRESSIDA: Diomede...

DIOMEDE: No, no, buona notte, non vuo' più essere il vostro zimbello.

TROILO: Uno migliore di te lo è.

CRESSIDA: Udite, una parola nell'orecchio.

TROILO: Peste e pazzia!

ULISSE: Siete commosso, principe; partiamo, vi prego, per tema che il vostro corruccio non trascenda a termini iracondi. Questo luogo è pericoloso; l'ora è affatto letale: vi scongiuro, andiamo.

TROILO: Osservate, vi prego!

ULISSE: No, mio buon signore, allontanatevi: voi correte incontro a una grande alterazione; venite, signore.

TROILO: Ti prego, rimani.

ULISSE: Voi non avete pazienza, venite.

TROILO: Vi prego, restate. Per l'inferno e tutti i tormenti d'inferno, non dirò una parola.

DIOMEDE: Allora, buona notte.

CRESSIDA: Ma no, voi mi lasciate adirato.

TROILO: Questo ti addolora? O fede distrutta!

ULISSE: Ebbene, ebbene, signore!

TROILO: Per Giove, sarò paziente.

CRESSIDA: Custode! oh, Greco!

DIOMEDE: Ohibò, ohibò! addio, voi qui vi trastullate.

CRESSIDA: In fede, non è vero: venite qui di nuovo.

ULISSE: Voi tremate tutto, signore, per qualcosa: volete andare?

Scoppierete.

TROILO: Essa gli accarezza la guancia.

ULISSE: Venite, venite.

TROILO: No, restate; per Giove, non dirò una parola: c'è fra la mia volontà e tutte le offese un baluardo di pazienza: restate ancora un poco.

TERSITE: Come Lussuria dimonia, col suo grasso deretano e il suo dito di tartufo solletica entrambi costoro! Friggi, libidine, friggi!

DIOMEDE: Ma vorrete allora?

CRESSIDA: In fede, sì, ecco; altrimenti non fidatevi più di me.

DIOMEDE: Datemi qualche pegno in garanzia.

CRESSIDA: Vo a cercarvene uno.

 

(Esce)

 

ULISSE: Avete giurato d'esser paziente.

TROILO: Non temete, dolce signore; non sarò me stesso, né prenderò cognizione di ciò che io sento: son tutto pazienza.

 

(Rientra CRESSIDA)

 

TERSITE: Ecco il pegno; ecco, ecco, ecco!

CRESSIDA: Tenete, Diomede, serbate questa manica.

TROILO: O bellezza! dov'è la tua fede?

ULISSE: Mio signore...

TROILO: Sarò paziente, al di fuori lo sarò.

CRESSIDA: Guardate codesta manica; consideratela bene. Egli mi amava... Oh, giovanetta infedele!... Rendetemela.

DIOMEDE: Di chi era?

CRESSIDA: Non importa, ora che l'ho di nuovo: non mi troverò con voi domani sera. Di grazia, Diomede, non visitatemi più.

TERSITE: Ora l'affila: ben detto, cote!

DIOMEDE: Io l'avrò.

CRESSIDA: Che, questa?

DIOMEDE: Sì, codesta.

CRESSIDA: O voi tutti, iddii! Oh, vago, vago pegno! Il tuo signore ora giace nel suo letto pensando a te e a me, e sospira e prende il mio guanto, e gli dà teneri baci memori, come io bacio ora te. No, non me la strappate di mano; colui che prende questa prende insieme il mio cuore.

DIOMEDE: Avevo il vostro cuore fin da prima; questa lo segue.

TROILO: Ho giurato d'aver pazienza.

CRESSIDA: Non l'avrete, Diomede; in fede che no; vi darò qualcos'altro.

DIOMEDE: Vuo' aver codesta. Di chi era?

CRESSIDA: Non importa.

DIOMEDE: Via, ditemi di chi era.

CRESSIDA: Era di uno che mi amava più di quel che mi amerete voi. Ma ora che l'avete, prendetela.

DIOMEDE: Di chi era?

CRESSIDA: Per tutte le ninfe di Diana lassù, e per lei medesima, non vi dirò di chi.

DIOMEDE: Domani la porterò sull'elmo, e affliggerò lo spirito di colui che non ardisce di rivendicarla.

TROILO: Fossi tu il diavolo, e la portassi sul corno, sarebbe rivendicata.

CRESSIDA: Ebbene, ebbene, è fatto, è finito: eppure no; non manterrò la mia parola.

DIOMEDE: E allora, addio; tu non ti farai di nuovo giuoco di Diomede.

CRESSIDA: Non ve ne andrete: non si può dire una parola che subito non v'inalberiate.

DIOMEDE: Non m'aggrada questa giulleria.

TERSITE: Neanche a me, per Plutone: ma quello a cui io non aggradisco mi piace di più.

DIOMEDE: Dunque, debbo venire? l'ora?

CRESSIDA: Sì, venite... o Giove!... venite... ne sarò punita.

DIOMEDE: Addio fino allora.

CRESSIDA: Buona notte: venite, ve ne prego.

(Esce Diomede) Troilo, addio! uno dei miei occhi ancora guarda a te, ma l'altro occhio vede nel mio cuore. Ah, povero sesso nostro; questa colpa io trovo in noi, che l'errore del nostro occhio dirige il nostro animo.

Quel che guida l'errore non può non errare. Oh, quindi si concluda che gli animi governati dagli occhi son pieni di turpitudini.

 

(Esce)

 

TERSITE: Prova di forza che essa non potrebbe più divulgare, a men che dicesse: "Il mio animo è volto al lupanare".

ULISSE: Tutto è finito, signore.

TROILO: E' così.

ULISSE: Perché dunque restiamo?

TROILO: Per fare per l'anima mia un memoriale di ogni sillaba che è stata pronunziata qui. Ma se io narro come questi due hanno agito di concerto, non mentirò io pubblicando una verità? Dacché v'è una credenza nel mio cuore, una speranza sì ostinatamente forte, da invertire l'attestazione degli occhi e degli orecchi, come se questi organi avessero funzioni fallaci, create solo per calunniare. Era Cressida qui?

ULISSE: Io non so evocare spiriti, Troiano.

TROILO: Non era lei, sicuramente.

ULISSE: Sicurissimamente era lei.

TROILO: Eppure il mio diniego non ha sapor di follia.

ULISSE: Il mio neanche, signore: Cressida era qui pur anzi.

TROILO: Non lo si creda per l'onore delle donne! Si pensi che avemmo una madre; non si offra il destro a duri censori, proni, senza argomento, alla diffamazione, di misurare il sesso in genere alla stregua di Cressida: meglio credere che questa non era Cressida.

ULISSE: Che cosa ella ha fatto, principe, che possa macchiare le nostre madri?

TROILO: Nulla, a meno che questa non fosse lei.

TERSITE: Vuol egli stordirsi contro i suoi propri occhi?

TROILO: Lei questa? no, questa è la Cressida di Diomede. Se la bellezza ha un'anima, questa non è lei; se le anime guidano i voti, se i voti sono cose sante, se la santità è la delizia degli dèi, se v'è una norma nell'unità stessa, questa non è lei. O follia del ragionare, che perori in tuo favore e contro! Duplice autorità, in cui la ragione può rivoltarsi senza perdizione, e la menomazione può arrogarsi tutta la ragione senza rivolta: questa è e non è Cressida. Dentro la mia anima ne segue una lotta di sì strana natura che una cosa inseparabile si divide con più intervallo che il cielo dalla terra, e tuttavia l'immensa ampiezza di questa divisione non lascia adito per una punta così sottile come il rotto filo di Ariacne. Prova, o prova! forte come le porte di Plutone! Cressida è mia, legata coi vincoli del cielo:

prova, o prova! forte come il cielo medesimo; i vincoli del cielo si sono allentati, disciolti, slegati; e con un altro nodo, stretto da cinque dita, i brandelli della sua fede, i residui del suo amore, i frammenti, i rimasugli, i minuzzoli e gli unti cincischi della sua ingurgitata fede, son vincolati a Diomede.

ULISSE: Può il degno Troilo essere pur di metà affetto da ciò che il suo sfogo qui esprime?

TROILO: Sì, Greco; e questo verrà ben divulgato in caratteri rossi come il cuore di Marte infiammato di Venere; non mai giovane s'è invaghito con anima così ardente e così salda. Ascoltate, Greco:

quanto io amo Cressida, d'egual peso io odio il suo Diomede; mia è quella manica che egli porterà sull'elmo; fosse pure una celata composta colla perizia di Vulcano, la mia spada la morderebbe. Non la terribile tromba che i marinai chiamano uragano, costretto in massa dal possente sole, intronerà con maggior clamore l'orecchio di Nettuno nella sua discesa di quel che non farà la mia incitata spada cadendo su Diomede.

TERSITE: Gli farà il solletico per la sua concupìa.

TROILO: O Cressida! o falsa Cressida! falsa, falsa, falsa! Che tutte le perfidie si pongano accanto al tuo nome macchiato, e parranno gloriose.

ULISSE: Oh, contenetevi; il vostro sfogo attira qui orecchie.

 

(Entra ENEA)

 

ENEA: Vi cerco da un'ora, signore. Ettore, adesso, si sta armando a Troia: Ajace, vostra guardia, attende per condurvi a casa.

TROILO: Sono con voi, principe. Mio cortese signore, addio. Addio, bellezza ribelle! e, Diomede, sta' saldo, e mettiti un castello sul capo!

ULISSE: Vi accompagnerò fino alle porte.

TROILO: Accettate disperati ringraziamenti.

 

(Escono Troilo, Enea e Ulisse)

 

TERSITE: Mi piacerebbe di poter incontrare quel furfante di Diomede!

Gracchierei come un corvo; gli griderei la malora, gli griderei la malora. Patroclo mi darà qualunque cosa per aver intelligenza di questa puttana: un pappagallo non farebbe di più per una mandorla di quel che non farebbe lui per una scanfarda accomodante. Lussuria, lussuria; sempre guerra e lussuria: non c'è nient'altro che rimanga di moda. Che un diavolo bollente se li prenda!

 

(Esce)

 

 

 

SCENA TERZA - Troia. Davanti al Palazzo di Priamo

(Entrano ETTORE e ANDROMACA)

 

ANDROMACA: Quando è stato il mio signore sì scortesemente disposto a chiudere le sue orecchie all'ammonimento? Disarmatevi, disarmatevi. e non combattete oggi.

ETTORE: Voi m'adescate a usarvi villania; entrate in casa: per tutti gli eterni dèi, io andrò.

ANDROMACA: I miei sogni, sicuramente, riusciranno malaugurosi a questo giorno.

ETTORE: Non più, vi dico.

 

(Entra CASSANDRA)

 

CASSANDRA: Dov'è mio fratello Ettore?

ANDROMACA: Qui, sorella; armato, e sanguinario nell'intento. Unitevi con me in una forte e affettuosa supplicazione; perseguitiamolo in ginocchio; ché io ho sognato d'una sanguinosa perturbazione e tutta questa notte non è stata altro che immagini e forme di strage.

CASSANDRA: Oh, è vero!

ETTORE: Olà, si suoni la mia tromba!

CASSANDRA: Non il segnale di sortita, pel cielo, mio dolce fratello!

ETTORE: Andatevene, ho detto: gli dèi m'han sentito giurare.

CASSANDRA: Gli dèi son sordi a voti accesi e insensati: sono offerte contaminate, più aborrite dei fegati maculati nel sacrificio.

ANDROMACA: Oh, lasciatevi persuadere; non ritenete che sia pio l'offendere per esser giusti: è tanto legittimo quanto, perché vorremmo donare assai, commettere violenti furti e rubare in nome della carità.

CASSANDRA: E' il proposito che rende forte il voto; ma voti a ogni proposito non debbon reggere. Disarmatevi, dolce Ettore.

ETTORE: Statevene chete, v'ho detto; il mio onore ha il sopravvento del mio destino: la vita ogni uomo la pregia; ma l'uomo pregevole ritiene l'onore assai più preziosamente caro della vita.

 

(Entra TROILO)

 

Ebbene, giovane, intendi di combattere oggi?

ANDROMACA: Cassandra, chiamate mio padre per persuaderlo.

 

(Esce Cassandra)

 

ETTORE: No, in fede, giovane Troilo; togliti l'arnese di dosso, giovinetto; oggi mi sento in vena di cavalleria; lasciati crescere i muscoli finché i loro nodi sian forti, e non tentare ancora le schermaglie della guerra. Disarmati, va', e non dubitare, prode ragazzo, che oggi combatterò per te, per me, e per Troia, TROILO: Fratello, avete in voi un vizio di misericordia che meglio si conviene a un leone che a un uomo.

ETTORE: Che vizio è questo, buon Troilo? rimproveramelo.

TROILO: Quando le molte volte il vinto Greco cade, solo al sibilo e al vento della vostra temuta spada, voi comandate loro di rialzarsi e di vivere.

ETTORE: Oh, è atto di giustizia!

TROILO: Atto di giulleria, pel cielo, Ettore.

ETTORE: E via! e via!

TROILO: Per l'amore di tutti gli dèi, lasciamo la romita compassione con le nostre madri, e quando abbiamo le armature affibbiate indosso, l'avvelenata vendetta cavalchi sulle nostre spade, le sproni a pietosa opera, le raffreni dalla pietà.

ETTORE: Ohibò, servaggio, ohibò!

TROILO: Ettore, codesto è far guerra.

ETTORE: Troilo, non vorrei che combatteste oggi.

TROILO: Chi potrebbe trattenermi? Non il fato, non l'obbedienza, né la mano di Marte che mi facesse segno di ritirarmi col suo fiammeggiante bastone; non Priamo ed Ecuba in ginocchio, le loro pupille bruciate da ricorrenti lacrime; né voi, fratel mio, con la vostra fida spada snudata, oppostami per impedirmi, potreste arrestare il mio cammino, se non con la mia distruzione.

 

(Rientra CASSANDRA con PRIAMO)

 

CASSANDRA: Dagli di piglio, Priamo, tienlo forte: egli è la tua gruccia; or se tu perdi il tuo sostegno, tu che t'appoggi a lui, e tutta Troia a te, tutto insieme cade.

PRIAMO: Andiamo, Ettore, andiamo, torna indietro: tua moglie ha sognato; tua madre ha avuto visioni; Cassandra presagisce; ed io stesso son come un profeta improvvisamente rapito, per dirti che questo giorno è malauguroso: dunque torna indietro.

ETTORE: Enea è in campo; ed io mi sono impegnato con molti Greci, sulla fede stessa del valore, di comparire stamattina dinanzi ad essi.

PRIAMO: Già, ma tu non andrai.

ETTORE: Non debbo mancare alla mia fede. Voi mi conoscete osservante del dovere; perciò, signor mio caro, non fate che io sconci il rispetto, ma datemi licenza di seguire col vostro consenso e la vostra voce quella via che qui mi proibite, real Priamo.

CASSANDRA: O Priamo, non gli cedere!

ANDROMACA: No, caro padre.

ETTORE: Andromaca, io sono offeso con voi: per l'amore che mi portate, entrate in casa.

 

(Esce Andromaca)

 

TROILO: Questa scimunita, sognante, superstiziosa ragazza fa tutte queste pronosticazioni.

CASSANDRA: Oh, addio, caro Ettore! Guarda, come tu muori! guarda, come gli occhi tuoi si fanno pallidi! guarda come le tue ferite sanguinano per molti fori Ascolta come Troia rugge, come Ecuba urla! come la povera Andromaca stride il suo dolore! Mira il furore, la frenesia, e lo sbigottimento, come grotteschi lunatici, s'incontrano l'un l'altro e gridan tutti: Ettore! Ettore è morto! Ettore!

TROILO: Via, via!

CASSANDRA: Addio! Ma piano! Ettore, io mi congedo: tu inganni te stesso e tutta Troia nostra.

 

(Esce)

 

ETTORE: Voi siete sbigottito, mio sovrano, alle sue esclamazioni.

Rientrate e rincuorate la città: noi usciremo a combattere, a compiere atti degni d'elogio per narrarveli a sera.

PRIAMO: Addio: gli dèi ti stiano attorno con salvaguardia.

 

(Escono da parti diverse Priamo ed Ettore. Allarmi)

 

TROILO: Sono alle prese; udite! Superbo Diomede, credimi, io vengo a perdere il mio braccio, o a guadagnar la mia manica.

 

(Mentre esce TROILO, entra dall'altra parte PANDARO)

 

PANDARO: Udite, signore, udite!

TROILO: Che c'è?

PANDARO: Ecco una lettera di quella povera ragazza laggiù.

TROILO: Fatemela leggere.

PANDARO: Una etisìa puttana, una puttana canaglia d'etisìa mi tormenta così, e la scimunita sorte di questa ragazza; e tra una cosa e l'altra dovrò lasciarvi uno di questi giorni; e ho anche un catarro negli occhi, e un tal dolore nell'ossa che, a meno d'essere stato affatturato, non so che cosa pensarne. Che cosa dice lei costì?

TROILO: Parole, parole, soltanto parole, nulla che venga dal cuore; l'affetto opera in altro modo. (Straccia la lettera) Va', vento al vento, volgetevi e cangiate insieme. Essa ancora alimenta l'amor mio con parole e ambagi, ma edifica un altro con le sue azioni.

 

(Escono da parti diverse)

 

 

 

SCENA QUARTA - Pianura tra Troia e il Campo greco

(Allarmi. Scorrerie. Entra TERSITE)

 

TERSITE: Ora si stanno arraffando; vuo' andar a vedere. Quel falso abbominevole briccone di Diomede s'è posto sull'elmo la manica di quel tignosuzzo imbecherato scimunito giovin gaglioffo: avrei gusto a vederli alle prese; che quel somarello di Troiano, che è cotto di quella puttana là, potesse rimandare quel furfante puttaniere d'un Greco, con la sua manica, alla falsa lussuria scanfarda, a sentire che altro par di maniche! D'altra parte la politica di quei bindoli birbanti, quel vecchio stantio cacio risecco mangiato dai topi, Nestore, e quel volpone d'Ulisse, non vale una mora di siepe: mi han messo su, i politiconi, quel cagnaccio bastardo d'Ajace contro quel cane di non miglior genìa, Achille, e ora il cagnaccio Ajace è più superbo del cagnaccio Achille, e non si vuole armare oggi; onde i Greci cominciano a esaltare la barbarie, e la polizia acquista cattiva reputazione. Piano! ecco che viene Manica, e quell'altro.

 

(Entra DIOMEDE, seguito da TROILO)

 

TROILO: Non fuggire; ché dovessi tu gittarti nel fiume Stige, ti nuoterei dietro.

DIOMEDE: Tu fraintendi il ritirarsi: io non fuggo, ma sollecitudine d'avvantaggiarmi mi ha sottratto ai rischi della moltitudine. Sta' in guardia!

TERSITE: Serbati la tua puttana, Greco! Battiti per la tua puttana, Troiano! dài per la manica! dài per la manica!

 

(Escono Troilo e Diomede combattendo)
(Entra ETTORE)

 

ETTORE: Chi sei tu, Greco? sei tu degno di combattere con Ettore? Sei tu di sangue e d'onore?

TERSITE: No, sono un villanzone; un tignoso beffardo gaglioffo; un sozzissimo furfante.

ETTORE: Ti credo: vivi.

 

(Esce)

 

TERSITE: Lode a Dio, che tu mi vuoi credere; ma un malanno ti rompa il collo per avermi spaventato! Che n'è di quei furfanti bordellieri?

Credo che si siano inghiottiti l'un l'altro: mi sganascerei dalle risa a un tal miracolo; ma, in certo qual modo, la libidine divora se stessa. Vuo' cercarli.

 

(Esce)

 

 

 

SCENA QUINTA - Un'altra parte della pianura

(Entrano DIOMEDE e un Servo)

 

DIOMEDE: Va', va', servo mio, prendi il cavallo di Troilo; presenta il bel destriero a madonna Cressida: garzone, commenda i miei servigi alla sua bellezza: dille che ho castigato l'amoroso Troiano, e son suo cavaliere per prova.

SERVO: Vado, mio signore.

 

(Esce)

(Entra AGAMENNONE)

 

AGAMENNONE: Rinnovate la battaglia, rinnovate! Il feroce Polidamante ha abbattuto Menone; il bastardo Margarelone ha fatto prigioniero Doreo, e s'erge come un colosso, agitando l'asta, sui cadaveri maciullati dei re Epistrofo e Cedio; Polissene è ucciso; Amfimao e Toante son mortalmente feriti; Patroclo è preso o ucciso e Palamede gravemente ferito e contuso; il terribile Sagittario sbigottisce le nostre schiere: affrettiamoci, Diomede, a portare rinforzo, o periamo tutti.

 

(Entra NESTORE)

 

NESTORE: Andate, recate il corpo di Patroclo ad Achille; e ingiungete ad Ajace dal passo di lumaca d'armarsi, vergogna a lui! Ci sono mille Ettori sul campo: ora qui egli combatte sul suo cavallo Galate, e là gli manca lavoro; ora egli è là appiede, e là fuggono o muoiono, come squamosi branchi dinanzi all'eruttante balena; poi eccolo laggiù, e là i Greci di paglia, maturi per la sua lama, cadono dinanzi a lui, come la mèsse del falciatore: qua, là, e dappertutto, egli lascia e prende, la destrezza così obbedendo al desiderio che quel che vuole ei fa; e fa tanto che l'evidenza è chiamata impossibilità.

 

(Entra ULISSE)

 

ULISSE: Oh! coraggio, coraggio, principi! Il grande Achille si sta armando, piange, maledice, giura vendetta: le ferite di Patroclo hanno riscosso il suo sangue sonnacchioso insieme coi suoi mutilati Mirmidoni, che senza naso, senza mani, stroppiati e tagliati a pezzi, vengono a lui imprecando contro Ettore. Ajace ha perduto un amico, e schiuma colla bocca, ed è armato e alle prese, e rugge in cerca di Troilo, che quest'oggi ha fatto folle e fantastica operazione, ingaggiandosi e districandosi con tal negligente forza e non sforzata diligenza come se la fortuna, a dispetto d'ogni cautela, gli comandasse di trionfare su tutto.

 

(Entra AJACE)

 

AJACE: Troilo! Troilo codardo!

 

(Esce)

 

DIOMEDE: Sì, avanti, avanti!

NESTORE: Ecco, ecco, veniamo a raccolta!

 

(Entra ACHILLE)

 

ACHILLE: Dov'è quest'Ettore? Via, via, ammazzafanciulli, mostra la tua faccia; impara quel che sia scontrare Achille furibondo; Ettore, dov'è Ettore? Io non voglio che Ettore.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SESTA - Un'altra parte della pianura

(Entra AJACE)

 

AJACE: Troilo, codardo Troilo, mostra il tuo capo!

 

(Entra DIOMEDE)

 

DIOMEDE: Troilo, dico, dov'è Troilo?

AJACE: Che vuoi da lui?

DIOMEDE: Voglio correggerlo.

AJACE: Foss'io il generale, tu avresti il mio ufficio prima di codesta correzione. Troilo, dico! ohé, Troilo!

 

(Entra TROILO)

 

TROILO: O traditore Diomede! volgi il tuo falso volto, traditore, e pagami la tua vita che mi devi per il mio cavallo!

DIOMEDE: Ah, sei costì!

AJACE: Combatterò io solo con lui: fermati, Diomede.

DIOMEDE: Egli è la mia preda; non vuo' rimanere a guardare.

TROILO: Venite entrambi, Greci cavillatori; in guardia tutt'e due!

 

(Escono combattendo)
(Entra ETTORE)

 

ETTORE: Oh, Troilo! ben combattuto, o mio più giovin fratello!

 

(Entra ACHILLE)

 

ACHILLE: Ora sì ti vedo. In guardia, Ettore!

ETTORE: Prendi fiato, se vuoi.

ACHILLE: Io sdegno la tua cortesia, superbo Troiano. Sii lieto che le mie braccia son fuori d'esercizio: il mio riposo e la mia negligenza ora ti favoriscono, ma tra poco udrai di me di nuovo; fin allora, va' in traccia della tua fortuna.

 

(Esce)

 

ETTORE: Addio. Sarei stato assai più in gamba, se avessi aspettato te!

Ebbene, fratello?

 

(Entra TROILO)

 

TROILO: Ajace ha preso Enea: lo soffriremo noi? No, per la fiamma di quel glorioso cielo lassù, egli non lo porterà via: io pure sarò preso, o lo libererò. Fato, odi quel ch'io dico! Poco m'importa di finire oggi la mia vita.

 

(Esce)

(Entra un Greco in una sontuosa armatura)

 

ETTORE: Fermati, fermati, o Greco, tu sei un bel bersaglio. No, tu non vuoi? Ben mi piace la tua armatura: io l'ammaccherò, e disserrerò tutti i tuoi ganci. ma ne diverrò padrone. Non vuoi sostare, bestia? E allora fuggi pure, io ti darò la caccia per il tuo vello.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SETTIMA - Un'altra parte della pianura

(Entra ACHILLE coi Mirmidoni)

 

ACHILLE: Venite qui intorno a me, o Mirmidoni miei; fate attenzione a quel che dico. Scortatemi dove io mi volgo: non tirate un sol colpo, ma tenetevi in buona lena, e quando io ho trovato il sanguinario Ettore, recingetelo con le vostre armi tutt'intorno; crudelissimamente eseguite la vostra incombenza. Seguite me, messeri. e tenete d'occhio le mie mosse: è decretato che il grande Ettore debba morire.

 

(Escono)

(Entrano MENELAO e PARIDE, combattendo: poi TERSITE)

 

TERSITE: Il cornuto e il cornificatore sono alle prese. Forza, toro, forza, cane! dalli, Paride, dalli! forza, passero con due femmine!

dalli, Paride, dalli! il toro vince la partita: attento alle corna, oh!

 

(Escono Paride e Menelao)

(Entra MARGARELONE)

 

MARGARELONE: Volgiti, vassallo, e combatti.

TERSITE: Chi sei tu?

MARGARELONE: Un figlio bastardo di Priamo.

TERSITE: Io pure sono un bastardo; io amo i bastardi: io bastardo di nascita, bastardo d'istruzione, bastardo d'animo, bastardo di valore, illegittimo in ogni cosa. Il lupo non mangia della carne di lupo, e perché dovrebbe un bastardo morder l'altro? Bada, che la disputa è malaugurosissima per noi: se il figlio d'una puttana combatte per una puttana, ei chiama il giudizio sul suo capo. Addio, bastardo.

MARGARELONE: Il diavolo ti porti, codardo!

 

(Escono)

 

 

 

SCENA OTTAVA - Un'altra parte della pianura

(Entra ETTORE)

 

ETTORE: Putridissimo centro, così bello di fuori, la splendida armatura t'è costata la vita. Ora l'opera della mia giornata è finita; vuo' prendere un bel respiro: riposa, o spada, tu sei sazia di sangue e di morte.

 

(Si toglie l'elmo e depone la spada)

(Entra ACHILLE coi Mirmidoni)

 

ACHILLE: Guarda, Ettore, il sole comincia calare, la turpe notte gli viene ansando alle calcagna: così con l'avallare e l'ottenebrarsi del sole, per chiudere il giorno, la vita d'Ettore è finita.

ETTORE: Sono inerme; rinunzia a questo vantaggio, Greco.

ACHILLE: Colpite, compagni, colpite! questo è l'uomo che io cerco.

(Ettore cade) Così, Ilio, cadi tu appresso! ora, Troia, inabissati!

Qui giace il tuo cuore, il tuo nervo, la tua spina. Avanti, Mirmidoni, e gridate tutti a più potere: Achille ha ucciso il possente Ettore.

(Suono di ritirata) Udite! un suono di ritirata dalla nostra parte greca.

UN MIRMIDONE: Le trombe troiane la suonano pure, signore.

ACHILLE: L'ala di drago della notte si stende sulla terra, e separa gli eserciti come un moderatore. La mia spada che ha cenato a mezzo, mentre si sarebbe voluta cibare liberalmente, soddisfatta di questa merenduola, se ne va a letto così. (Ringuaina la spada) Suvvia, legate il suo corpo alla coda del mio cavallo, vuo' trascinare il Troiano per il campo.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA NONA - Un'altra parte della pianura

(Entrano AGAMENNONE, AJACE, MENELAO, NESTORE, DIOMEDE ed altri, marciando. Clamori di dentro)

 

AGAMENNONE: Udite, udite! che clamore è questo?

NESTORE: Silenzio, tamburi !

VOCI (di dentro): Achille! Achille! Ettore è ucciso! Achille!

DIOMEDE: Corre voce che Ettore è stato ucciso, e da Achille.

AJACE: Se è cosi, sia detto senza iattanza; il grande Ettore era buono quanto lui.

AGAMENNONE: Si seguiti a marciare con pazienza. Che uno sia mandato a pregare Achille di venirci a trovare nella nostra tenda. Se gli dèi ci han favoriti con questa morte, Troia la grande è nostra, e le nostre aspre guerre son terminate.

 

(Escono marciando)

 

 

 

SCENA DECIMA - Un'altra parte della pianura

(Entrano ENEA e Forze troiane)

 

ENEA: Fermatevi, olà! Alfine siam padroni del campo. Non si torni in città; consumiamo qui la notte.

 

(Entra TROILO)

 

TROILO: Ettore è ucciso.

TUTTI: Ettore! Gli dèi non vogliano!

TROILO: Egli è morto; e alla coda del cavallo del suo uccisore, in bestial guisa, trascinato per l'infame campo. Corrucciatevi, o cieli, e date prontamente effetto al vostro furore! Assidetevi, o dèi, sui troni vostri e colpite Troia tutta! Dico, immediatamente usateci la pietà di brevi flagelli, e non protraete la nostra sicura distruzione!

ENEA: Mio signore, voi scorate l'esercito.

TROILO: Voi non mi comprendete, che mi dite così: io non parlo di fuga, di spavento, di morte, ma sfido tutta l'imminenza in cui gli dèi e gli uomini apprestano i loro danni. Ettore è ito: chi dirà questo a Priamo, o a Ecuba? Che colui che vuol esser per sempre chiamato uccel di malaugurio vada a Troia e dica là che Ettore è morto: ecco una parola che cangerà Priamo in sasso, farà fontane e Niobi delle vergini e delle spose, e fredde statue dei giovani; e, insomma, farà Troia uscir di sé dallo spavento. Ma via marciate: Ettore è morto; non v'è altro da dire. Anzi fermatevi. Voi infami abominevoli tende, così orgogliosamente piantate nelle nostre pianure frigie, che Titano si levi sì presto quant'osa, io vi passerò da parte a parte! E tu, corpulento codardo, nessuno spazio di terra separerà i nostri due odi:

io ti sarò sempre addosso come una malvagia coscienza, che finge fantasmi così ratti come i pensieri della follia. Marciate animosamente verso Troia! andate di buon cuore: la speranza della vendetta nasconderà il nostro interno dolore.

 

(Escono Enea e le Forze troiane)

(Mentre TROILO sta per uscire, entra, dall'altra parte, PANDARO)

 

PANDARO: Ma ascolta, ascolta!...

TROILO: Via, mezzano fattorino! Ignominia e vergogna perseguitino la tua vita, e vivano per sempre col tuo nome!

 

(Esce)

 

PANDARO: Una buona medicina per le mie ossa dolenti! O mondo! mondo!

mondo! così si disprezza il povero agente. O trafficanti e ruffiani, con quanto ardore siete eccitati a operare, e come siete mal compensati! perché i nostri tentativi son cosi amati, e l'opera compiuta così abominata? Abbiam versi per questo? proverbi? Vediamo:

Allegramente sufola il pecchione finché non perde miele e pungiglione; ma appena il dardo della coda è infranto cessano il dolce miele e il dolce canto.

Buoni trafficanti di carne, mettete questo sulle vostre tele dipinte.

Quanti siete qui della casata ruffianesca, struggetevi a mezzo gli occhi per la caduta di Pandaro; o, se non potete piangere, date qualche lamento, se non per me, per le mie dolenti ossa. Fratelli e sorelle del mestiere di guardiaporte, di qui a un due mesi sarà fatto il mio testamento: lo sarebbe ora, se non avessi il timore che fischiasse qualche oca scottata di Winchester. Fin allora, farò sudate e cercherò lenitivi; e, giunto il momento, vi lascerò in legato i miei malanni.

 
(Esce)