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Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
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Edited by/a cura di: Giuseppe Leo Prefaced by/prefazione
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Writings by/scritti di: D. Mann
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Vera
Schmidt, "Scritti su psicoanalisi infantile ed
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Edited by/a cura di: Giuseppe Leo Prefaced by/prefazione
di: Alberto Angelini
Introduced by/introduzione di: Vlasta Polojaz
Afterword by/post-fazione di: Rita Corsa
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collana: Biografie dell'Inconscio
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Pagine/Pages: 248
ISBN:978-88-97479-05-5
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Resnik,
S. et al. (a cura di Monica Ferri), "L'ascolto dei
sensi e dei luoghi nella relazione terapeutica"
Writings by:A.
Ambrosini, A. Bimbi, M. Ferri, G.
Gabbriellini, A. Luperini, S. Resnik,
S. Rodighiero, R. Tancredi, A. Taquini Resnik,
G. Trippi
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collana: Confini della Psicoanalisi
Anno/Year: 2013
Pagine/Pages: 156
ISBN:978-88-97479-04-8
Prezzo/Price: € 37,00
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Silvio
G. Cusin, "Sessualità e conoscenza"
A cura di/Edited by: A. Cusin & G. Leo
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collana/Collection: Biografie dell'Inconscio
Anno/Year: 2013
Pagine/Pages: 476
ISBN: 978-88-97479-03-1
Prezzo/Price: €
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AA.VV.,
"Psicoanalisi e luoghi della riabilitazione", a cura
di G. Leo e G. Riefolo (Editors)
A cura di/Edited by: G. Leo & G. Riefolo
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collana/Collection: Id-entità mediterranee
Anno/Year: 2013
Pagine/Pages: 426
ISBN: 978-88-903710-9-7
Prezzo/Price: €
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AA.VV.,
"Scrittura e memoria", a cura di R. Bolletti (Editor)
Writings by: J.
Altounian, S. Amati Sas, A. Arslan, R. Bolletti, P. De
Silvestris, M. Morello, A. Sabatini Scalmati.
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collana: Cordoglio e pregiudizio
Anno/Year: 2012
Pagine/Pages: 136
ISBN: 978-88-903710-7-3
Prezzo/Price: € 23,00
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AA.VV., "Lo
spazio velato. Femminile e discorso
psicoanalitico"
a cura di G. Leo e L. Montani (Editors)
Writings by: A.
Cusin, J. Kristeva, A. Loncan, S. Marino, B.
Massimilla, L. Montani, A. Nunziante Cesaro, S.
Parrello, M. Sommantico, G. Stanziano, L.
Tarantini, A. Zurolo.
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collana: Confini della psicoanalisi
Anno/Year: 2012
Pagine/Pages: 382
ISBN: 978-88-903710-6-6
Prezzo/Price: € 39,00
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AA.VV., Psychoanalysis
and its Borders, a cura di
G. Leo (Editor)
Writings by: J. Altounian, P.
Fonagy, G.O. Gabbard, J.S. Grotstein, R.D. Hinshelwood, J.P.
Jimenez, O.F. Kernberg, S. Resnik.
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collana/Collection: Borders of Psychoanalysis
Anno/Year: 2012
Pagine/Pages: 348
ISBN: 978-88-974790-2-4
Prezzo/Price: € 19,00
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AA.VV.,
"Psicoanalisi e luoghi della negazione", a cura di A.
Cusin e G. Leo
Writings by:J.
Altounian, S. Amati Sas, M. e M. Avakian, W. A.
Cusin, N. Janigro, G. Leo, B. E. Litowitz, S. Resnik, A.
Sabatini Scalmati, G. Schneider, M. Šebek,
F. Sironi, L. Tarantini.
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collana/Collection: Id-entità mediterranee
Anno/Year: 2011
Pagine/Pages: 400
ISBN: 978-88-903710-4-2
Prezzo/Price: € 38,00
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"The Voyage Out" by Virginia
Woolf
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
ISBN: 978-88-97479-01-7
Anno/Year: 2011
Pages: 672
Prezzo/Price: € 25,00
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"Psicologia
dell'antisemitismo" di Imre Hermann
Author:Imre Hermann
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
ISBN: 978-88-903710-3-5
Anno/Year: 2011
Pages: 158
Prezzo/Price: € 18,00
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"Id-entità mediterranee.
Psicoanalisi e luoghi della memoria" a cura di Giuseppe Leo
(editor)
Writings by: J.
Altounian, S. Amati Sas, M. Avakian, W. Bohleber, M. Breccia, A.
Coen, A. Cusin, G. Dana, J. Deutsch, S. Fizzarotti Selvaggi, Y.
Gampel, H. Halberstadt-Freud, N. Janigro, R. Kaës, G. Leo, M.
Maisetti, F. Mazzei, M. Ritter, C. Trono, S. Varvin e H.-J. Wirth
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
ISBN: 978-88-903710-2-8
Anno/Year: 2010
Pages: 520
Prezzo/Price: € 41,00
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"Vite soffiate. I vinti della
psicoanalisi" di Giuseppe Leo
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Edizione: 2a
ISBN: 978-88-903710-5-9
Anno/Year: 2011
Prezzo/Price: € 34,00
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"La Psicoanalisi e i suoi
confini" edited by Giuseppe Leo
Writings by: J.
Altounian, P. Fonagy, G.O. Gabbard, J.S. Grotstein, R.D.
Hinshelwood, J.P. Jiménez, O.F. Kernberg, S. Resnik
Editore/Publisher: Astrolabio Ubaldini
ISBN: 978-88-340155-7-5
Anno/Year: 2009
Pages: 224
Prezzo/Price: € 20,00
"La Psicoanalisi. Intrecci Paesaggi
Confini"
Edited by S. Fizzarotti Selvaggi, G.Leo.
Writings by: Salomon Resnik, Mauro Mancia, Andreas Giannakoulas,
Mario Rossi Monti, Santa Fizzarotti Selvaggi, Giuseppe Leo.
Publisher: Schena Editore
ISBN 88-8229-567-2
Price: € 15,00
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Nel
lontano Natale del 1997 entrai per la prima volta a Gaza. Era da tempo
che desideravo andarvi per lavorare con i bambini e allora ne ebbi
finalmente la possibilità Devo dare ragione di questo mio desiderio
che mi ha condotto a una lunghissima esperienza con questa terra
martoriata.
La
diaspora palestinese aveva portato a Palermo una piccola comunità
palestinese, di cui feci conoscenza e con alcuni dei giovani che la
componevano divenni molto amica. In particolare con Mohammad Mansur,
che studiava psicologia. La nostra amicizia divenne anche
collaborazione professionale, poiché egli entrò ben presto a far
parte della cerchia di specializzandi con i quali tenevo un gruppo di
supervisione clinica sulla diagnosi in Neuropsichiatria infantile.
In
particolare con tre di essi e con Mohammad iniziammo una ricerca al
Cep, uno dei quartieri più degradati di Palermo, dove iniziammo a
lavorare con i bambini che avevano subito dei traumi. Era lo stesso
lavoro che Mohammad aveva in animo di fare in Palestina, quando vi
fosse tornato dopo la laurea. Non era assolutamente il caso che lui vi
andasse prima, c’era il rischio che gli israeliani non lo facessero
più rientrare in Italia e non avrebbe più potuto laurearsi.
La
ricerca era possibile grazie alla organizzazione non governativa con
la quale collaboravo, il CISS (Cooperazione Internazionale Sud Sud).
Dopo
alcuni mesi feci il mio primo viaggio in Palestina, un viaggio
conoscitivo che ebbe però subito l’effetto di un pugno nello
stomaco.
Ero
partita con l’Associazione per la pace, di cui era presidente Luisa
Morgantina, che poi divenne euro deputato e il cui impegno per la
Palestina dura tuttora.
Era
un viaggio di gruppo del tutto “alternativo”, che mi diede modo di
conoscere la realtà della Cisgiordania e di Gaza. Fu una full
immersion nella realtà di questa terra martoriata e l’ho appena
definita un pugno nello stomaco. Sono cresciuta nell’orrore della
Shoah, leggendo i libri di Primo Levi e il diario di Anna Frank, ma
era pur vero che attraverso gli appassionati racconti di Mohammad
avevo imparato ad amare la Palestina. All’inizio del viaggio il mio
animo era come diviso in due, ma ben presto cominciai a toccare con
mano la terribile situazione dei palestinesi, la cui vita, nelle
grandi e nelle piccole cose, era resa un inferno dalle persecuzioni
israeliane, che accomunavano Gaza e la Cisgiordania, anche se la
situazione della Striscia era più pesante. La violazione continua dei
diritti umani, l’esproprio delle terre, gli innumerevoli check point
che rendevano gli spostamenti difficilissimi, i raid notturni nelle
case, quando i soldati entravano per eseguire arresti indiscriminati,
che nella migliore delle ipotesi portavano e portano alle cosiddette
detenzioni amministrative, che consistono nel tenere in carcere una
persona a tempo indeterminato, senza che venga formulata un’accusa e
senza un processo. Per questo dicevo che il viaggio per me fu come un
pugno nello stomaco. Non riuscivo a credere che un popolo che aveva
tanto sofferto, in un modo così disumano, potesse a sua volta
diventare persecutore di un altro popolo.
Verso
la metà del mio soggiorno entrai a Gaza, con Benedetta, la cooperante
del CISS e potei prendere contatto con i colleghi del Mental Health
Center, una grossa ong palestinese finanziata soprattutto dai paesi
scandinavi. Alcuni psicologi di questa organizzazione stavano
lavorando al follow up dei bambini che avevano partecipato alla prima
intifada e che presentavano quella che le classificazioni
internazionali chiamano PTSD. La sindrome post traumatica da stress
era stata inquadrata nosograficamente sui reduci della guerra del
Vietnam, la maggior parte degli studi erano stati sempre fatti sugli
adulti e quindi le ricerche del Mental Health sui bambini erano
pioneristiche.
Come
eravamo rimasti d’accordo tornai con i miei allievi ai primi di
luglio del 1998, portavamo con noi “i ferri del mestiere”, la
scatola con i giochi che utilizzavo nelle sedute di osservazione con i
bambini.
Atterrammo
a Tel Aviv, dove subimmo i minuziosi controlli della Security
israeliana, costituita da giovanissimi agenti, ben addestrati, che
facevano anche degli estenuanti interrogatori, le domande più
frequenti, ripetute più e più volte, volgevano su quale fosse la
nostra destinazione, cosa eravamo venuti a fare e così via.
L’interrogatorio poteva durare anche un’ora. Così fu in tutti i
miei viaggi in Palestina, ma imparai ben presto a restare calma, a non
perdere la pazienza.
Prendemmo
un taxi e arrivammo al valico di Erez. Con Benedetta lo avevo
oltrepassato in macchina, questa volta invece fu molto più
complicato. Arrivati al check point dovemmo scendere dal taxi e i
nostri bagagli furono passati al metal detector. Facemmo poi un
tragitto a piedi e al check point palestinese trovammo ad attenderci
Taisir, un ingegnere che stava lavorando alla potabilizzazione delle
acque all’interno di un progetto del CISS finanziato dall’Unione
Europea. Taisir ci fu collaboratore e amico per tutto il nostro
soggiorno a Gaza. Mentre percorrevamo in macchina la strada che ci
portava alla casa del CISS, nella quale avremmo alloggiato mi guardai
intorno. C’erano bambini ovunque, Gaza è la terra dei bambini, che
sono numerosissimi. E queste immagini dei ragazzini sono nella mia
mente indissolubilmente legati alla Striscia, assieme al mare, di un
azzurro tanto simile a quello della mia Sicilia. Ma erano anche
evidenti i segni dell’estrema povertà. A Gaza c’erano pochissime
possibilità di lavoro e così uomini e donne andavano a lavorare in
Israele, c’era però bisogno di un permesso particolare, la carta
verde e poi bisognava mettersi in coda al check point all’alba e
tornare la sera tardi.
Adesso
la situazione è peggiorata, Gaza è sigillata, i suoi abitanti non
possono né entrare né uscire e riescono a sopravvivere soltanto
grazie all’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati
palestinesi.
Io
e i miei giovani colleghi imparammo ben presto a conoscere questa
tristissima realtà, ma anche la fierezza di un popolo che continuava
a lottare.
Trascorsi
un mese a Gaza, lavorando con gli psicologi palestinesi. Mettemmo
innanzitutto a confronto le nostre metodologie, quella testologica,
utilizzata dall’equipe diretta dal dottore Samir Quota e la mia
basata sull’osservazione in assetto di gioco.
La
cosa interessante fu che i colleghi palestinesi, in particolare
proprio Samir, s’interessarono moltissimo alla nostra metodologia e
l’applicarono anche loro nel lavoro con i bambini.
Molto
interessante fu l’incontro con un ragazzino di undici anni, Mohammad,
che quando aveva soltanto sei anni aveva partecipato alla prima
Intifada, durante la quale si era trovato in due situazioni
traumatiche, all’interno delle quali era stato brutalmente picchiato
dai soldati israeliani.
I
due eventi erano rimasti impressi nella sua mente con la qualità
delle immagini visive, che si snodavano nella sua mente come le
sequenze di un film, interferendo pesantemente con la sua capacità di
attenzione e concentrazione. Così, pur essendo abbastanza bravo a
scuola, faceva una fatica terribile a seguire le spiegazioni degli
insegnanti.
Era
la prima volta che mi trovavo di fronte a un caso così evidente di
PTSD in un bambino, ma avrei imparato a conoscerla bene nelle mie
ultime quattro missioni.
C’è
però un importante fattore che differenzia i traumi subiti dai
bambini durante la prima intifada e quelli dovuti alle tre terribili
operazioni militari di questi ultimi anni. I bambini che sfidavano i
soldati israeliani tirando pietre erano soggetti attivi di queste
esperienze e questo in un certo senso, li proteggeva dagli effetti del
trauma.
I
ragazzini che ho visto nelle mie quattro missioni sono stati soggetti
passivi dei bombardamenti e questo li ha resi più vulnerabili.
Il
lungo soggiorno non fu soltanto di lavoro, trascorrevamo il pomeriggio
e la sera con Taisir, che ci mostrava con orgoglio il suo lavoro alla
potabilizzazione dell’acqua e ci faceva partecipi delle difficoltà
che stava incontrando per completare la messa in opera degli ultimi
metri di tubazione. Gli israeliani facevano di tutto per intralciare e
ritardare i lavori. Eppure il progetto era importantissimo, l’acqua
di Gaza è pesantemente inquinata ed è anche salmastra.
Trascorrevamo
la sera al ristorante, in riva al mare, discutendo animatamente per
ore, c’era una grande comunione di idee, ma anche delle differenze
culturali, sulle quali i miei giovani colleghi spesso diventavano
intransigenti, mentre io amavo invece sottolineare gli elementi di
comunanza.
L’estate
successiva tornai a Gaza da sola. Volevo continuare la mia
collaborazione con il Mental Health, certo, ma il mio scopo principale
era riuscire ad avere un progetto con il CISS capofila e me stessa
come responsabile scientifico. Avevo bene in mente quali dovessero
essere modalità e finalità di questo progetto.
Mohammad
si era appena laureato con me come relatore con una tesi in cui
metteva a confronto i traumi dei bambini del Cep con quelli di Gaza.
Nell’ultimo
capitolo della sua tesi di laurea scriveva: “Ogni
volta che vedevo bambini, ogni volta che ascoltavo le mamme, ogni
volta che leggevo le loro storie, mi si ripeteva nella mente una
domanda, una sola domanda: che fare?
Questa
domanda ne implica tante altre e bisogna ben formulare le domande per
darsi delle risposte e bisogna capire le richieste che sia i bambini
sia le mamme pongono per riuscire ad aiutarli, cioè per dare una
risposta all’interrogativo: che fare?
Quasi
tutti i bambini palestinesi e siciliani che ho visto hanno subito un
trauma e quasi tutti i loro traumi sono causati da perdite, non
necessariamente fisiche.
La
morte, l’arresto o le ferite gravi delle figure di attaccamento, non
elaborate dal bambino stesso e non contenute da chi si prende cura di
loro, rimangono congelate nella loro mente.
E poi, anche dopo anni, risalgono in superficie e causano al
bambino una sofferenza indicibile.
L’obbiettivo
di questo studio sin dall’inizio non è stato quello di
“studiare” i bambini che hanno subito violenza, ma quello di
aiutarli a superare i loro traumi e di farli crescere in un ambiente
sano che dia loro cure, amore e sicurezza….
…un
intervento realmente trasformativo deve essere a tutto campo.
Innanzitutto non si può prescindere da un mutamento radicale della
situazione socioeconomica e politica, sia nelle realtà occidentali,
sia in Palestina.
Nella
piena consapevolezza di quanto sia lungo e difficile il percorso che
conduce a un reale cambiamento di queste realtà, si deve comunque
iniziare a intervenire sia sui bambini, sia sulle loro famiglie.
Utilizzo come termine che designa, in senso concreto e metaforico, lo
strumento di lavoro necessario: “Centri polivalenti per l’infanzia
e le loro famiglie”.
Se
è pur vero infatti che alcuni bambini palestinesi e del CEP hanno
bisogno di interventi psicoterapeutici individuali o di gruppo, è
altrettanto vero che la complessità dei loro problemi è tale che
richiede modalità di lavoro che devono avere come principali
caratteristiche la poliedricità e la capacità di mutare
continuamente strategia, adattandola ai bisogni propri di ogni singolo
bambino”.
Il
mio rimase soltanto un sogno, io non riuscì ad accedere ad alcun
progetto e mi rimase dentro una grande amarezza.
Certo,
l’anno dopo ebbi la grande soddisfazione di essere invitata a un
congresso internazionale a Gaza, al quale presentai una relazione dal
titolo: “Women of Sicily, women of Palestine”.
Tornai
in Palestina nel 2001 e andai in Galilea dove incontrai Mohammad. Era
infine tornato a casa, una decisione difficilissima, che aveva preso
dopo un lungo anno di riflessione.
Lo
andai a trovare anche nel 2006 e trovai un professionista molto
preparato nel campo dei traumi, ma entrare a Gaza era ormai diventato
impossibile.
Dapprima
la seconda Intifada, molto più dura della prima, poi l’ascesa al
potere di Hamas fecero sì che Israele sigillasse la Striscia.
Fu
una lontananza dolorosa, intrisa di una profonda nostalgia, anche se
cercavo di tenermi sempre informata di quello che accadeva a Gaza e
anche in Cisgiordania.
E
vennero, nel dicembre 2008, i giorni terribili della guerra,
l’operazione che gli israeliani hanno chiamato Piombo fuso e che ha
fatto più di mille e cinquecento morti, di cui un terzo bambini.
Non
appena i bombardamenti cessarono e gli israeliani riaprirono il valico
di Erez Mohammad riuscì a entrare a Gaza, a dare sostegno alle
persone traumatizzate. Mi chiese a lungo di andare con lui, ma, sia
pure con dolore, rifiutai. Sarebbe stato velleitario, senza
un’organizzazione italiana alle spalle.
Malgrado
fossi certa di aver preso la decisione più saggia ero piena di sensi
di colpa che portai con me a lungo.
Due
anni dopo ricevetti da Salvo Maraventano, il responsabile del Ciss per
la Palestina, la richiesta di partecipare a un progetto che si
occupava dei bambini di Gaza, che erano stati gravemente traumatizzati
dai bombardamenti e dall’invasione terrestre dell’esercito
israeliano.
E
così, infine, sono tornata a Gaza.
Se
nel lontano 1997 ero rimasta colpita da Erez, questa volta ho trovato
la situazione molto più complicata, più grave, controlli
minuziosissimi in entrata e ancora di più in uscita. Soltanto i
cooperanti internazionali possono entrare e pochissimi palestinesi ne
possono uscire, per lo più per motivi gravi di salute. Gli abitanti
di Gaza non possono più andare a lavorare in Israele. Si arriva al
valico e bisogna posteggiare la macchina, poi a piedi ci si avvicina a
un enorme edificio in cemento armato e acciaio. Prima di entrare c’è
una guardiola, dove bisogna consegnare i passaporti e attendere,
quanto non è dato sapere, dipende dal poliziotto di turno. Infine si
viene chiamati e il passaporto è restituito, magari assieme a domande
del tipo: “Do you have a
weapon?”. “No, I don’t have”.
Si
entra e uno per volta si viene interrogati dal poliziotto o dalla
poliziotta, domande su domande, ma dipende moltissimo dal personale di
turno, alcuni sono più gentili e meno inquisitori. E poi il primo
tornello, una porta d’acciaio che non si sa quando si aprirà. Ed
infine il lunghissimo camminamento, uno, due, forse tre chilometri,
con la rete metallica ai lati e il tetto di lamiera. Nella mia prima
missione l’ho fatto a piedi, trascinando stancamente il trolley. Poi
per fortuna l’ambasciata turca ha provveduto delle macchinette
elettriche.
L’altra
triste novità i due check point palestinesi, chiamati arba arba e
kamsa kamsa (quattro quattro e cinque cinque), uno di Fatah, uno di
Hamas, e se nel primo si limitano a controllare il passaporto, nel
secondo aprono e perquisiscono i bagagli, alla ricerca di carne di
maiale o di alcolici, nulla di tutto ciò deve ormai entrare a Gaza.
E
infine ho visto Youssif, il coordinatore palestinese del progetto,
rientrato da poco dall’Italia, che ci attendeva con la macchina. Ci
siamo diretti verso l’ufficio del CISS, l’aria era mite, molto più
mite che nella West Bank, guardavo, contenta e triste insieme, fuori
dal finestrino, contenta perché ero di nuovo lì a fare qualcosa per
i bambini, triste per la situazione in cui intuivo avrei lavorato.
La
macchina camminava per le strade di Gaza ed io ritrovavo le vie che mi
erano familiari, i bambini a centinaia, i ragazzini che andavano a
scuola. Non v’erano più macerie e si vedevano un sacco di cantieri
edili aperti, ma le scuole erano ancora insufficienti e vi erano doppi
e tripli turni.
E
così ho iniziato la prima delle quattro missioni che ho fatto sino ai
primi di giugno del 2014.
E’
stata un’esperienza davvero interessante, lo staff degli psicologi e
degli animatori era piena di entusiasmo, anche se dovevano sobbarcarsi
un lavoro molto duro. I bambini che seguivano erano tantissimi, alcuni
di essi li ho visti anche io utilizzando sempre l’osservazione in
assetto di gioco. Gli psicologi avevano scelto per me i casi che più
li mettevano a dura prova, affinché io li potessi consigliare. Ma per
me le consultazioni hanno avuto anche lo scopo di cercare di
trasmettere il mio modo di lavorare con i bambini. Le sedute di
osservazione venivano discusse tutti assieme e questi erano momenti
fecondi di riflessione.
Il
mio lavoro si è potuto svolgere soltanto grazie a Youssif, il
coordinatore palestinese del progetto, che aveva trascorso alcuni anni
della sua vita in Italia, dapprima studiando e poi lavorando. Lì si
era sposato e aveva avuto la prima figlia. Youssif mi ha sempre fatto
da interprete, durante tutte e quattro le mie missioni e le sue
traduzioni erano impeccabili non soltanto per la sua ottima conoscenza
dell’italiano, ma soprattutto perché ha da subito capito lo spirito
del mio modo di lavorare e ha rivelato una grandissima capacità di
immedesimarsi con i bambini, che ha saputo tradurre seguendone i moti
dell’animo.
Sono
tornata ad agosto 2012, la situazione a Gaza pareva tranquilla, ho
lavorato alacremente ma poi è accaduto qualcosa che ha fatto sì che
io entrassi a contatto con i bambini e con tutto il popolo di Gaza
“dal di dentro”. Una notte infatti gli israeliani hanno bombardato
la città, proprio mentre ero lì. Boati spaventosi, che hanno fatto
tremare i vetri della casa che mi ospitava. In apparenza non ho subito
uno shock particolare, la notte ho dormito tranquillamente e
altrettanto tranquillamente mi sono svegliata. Ma non era così, ho
reagito mettendo in atto il meccanismo di difesa della negazione. Me
ne sono accorta il giorno dopo, lavorando con i bambini, che mi hanno
permesso di entrare in contatto con la mia paura, la mia angoscia.
Non
era previsto che dovessi tornare a Gaza molto presto, ma eravamo
riusciti, io, Salvo, Valentina, Youssif, ad avere approvata una
relazione a un congresso internazionale sull’educazione, organizzato
dall’Università di Gaza e da una Università del Massachusetts, che
doveva tenersi nel novembre del 2012.
Ed
è stato in quei giorni che ho vissuto lo stridente contrasto fra la
voglia di una vita “normale” dei palestinesi e la terribile realtà
della guerra.
Quando
sono arrivata la situazione fra Gaza e Israele era pesantissima. A
Khan Younis, un ragazzino era stato ucciso da un colpo di mortaio
israeliano. La risposta di Hamas era stata la solita, lancio dei razzi
Qassam, ordigni artigianali che non hanno mai fatto vittime, ma si
temeva la risposta di Israele. Sono entrata lo stesso a Gaza, ho
partecipato al Congresso, che ha avuto un’ottima riuscita e si è
concluso con una festa molto bella, un pranzo che non finiva più, una
grande torta, piccoli fuochi d’artificio, uno spettacolo con dei
ragazzi che hanno ballalo la Dabka, la danza popolare palestinese.
Certo, tutte e due le notti precedenti c’erano stati degli sporadici
bombardamenti, ma avevo imparato sulla mia pelle che quella era la
normalità della vita a Gaza.
Il
giorno dopo si è scatenato l’inferno. Gli israeliani hanno compiuto
un omicidio mirato, colpendo con un missile la macchina del capo
dell’ala militare di Hamas, che ha risposto moltiplicando il lancio
dei Qassam.
La
risposta di Israele è stata gravissima. Hanno iniziato a bombardare
giorno e notte per dieci giorni e io ero lì, chiusa a casa con i
cooperanti e Michele Giorgio, il corrispondente del quotidiano il
Manifesto per la Palestina.
La
mente umana è strana, come strana è stata la mia reazione, la notte
dormivo malgrado il rumore assordante delle bombe a cui si è aggiunto
il cannoneggiamento delle navi della marina militare israeliana.
Quando
siamo riusciti a uscire da Gaza, appena passato il valico di Erez, i
ragazzi piangevano. Si sentivano in colpa per essere in salvo, mentre
tutti i nostri amici palestinesi, Youssif per primo, gli psicologi,
gli animatori, tutti i bambini di cui ci eravamo fatti carico, erano
rimasti lì, sotto le bombe, rischiando la vita e che, anche quando
fossero sopravvissuti, avrebbero avuto una ulteriore riattivazione dei
traumi.
E’
passato più di un anno e mezzo prima che potessi tornare a Gaza,
l’Unità Territoriale Locale del nostro consolato a Gerusalemme ha
tardato un tempo infinito a rifinanziare il progetto, proprio quando i
ragazzini ne avevano più bisogno.
Erano
gli ultimi giorni di maggio del 2014 quando sono rientrata a Gaza e ho
trovato una città bellissima. I palestinesi erano riusciti a
sgombrare tutte le macerie e a ricostruire tutti i palazzi che erano
stati distrutti dai bombardamenti. Avevano abbattuto il muro di cinta
del porto e lo avevano ampliato, La sera le famiglie con i loro
numerosi bambini, passeggiavano sul lungomare e si fermavano nei
chioschetti del porto a mangiare il gelato.
Ma,
come avevo pensato, l’ultimo attacco israeliano aveva aggravato al
situazione dei bambini. Ho fatto delle consultazioni difficilissime
con delle bambine gravemente traumatizzate. Sono andata via nella
certezza di potere tornare presto ed invece pochi giorni dopo la mia
partenza è iniziato il più terribile degli attacchi israeliani,
l’operazione “Margine protettivo”.
E’
stato un massacro ed ancora una volta sono stati i bambini a pagare il
più alto tributo di morte e mutilazione.
Non
sono ancora tornata a Gaza, la ong di cui sono consulente non vuol
lasciarmi andare e io me ne dolgo perché sono certa che potrei essere
di aiuto ai bambini, ma anche agli operatori, che saranno anche loro
profondamente traumatizzati.
Il
mio pensiero va soprattutto alla mia ultima missione, quella prima di
quest’ultimo inferno, quando la situazione mi
era parsa stranamente più tranquilla.
Ho
già detto però come sia stata la mia missione più difficile da un
punto di vista lavorativo. Ho visto tre ragazzine, una di esse, Maram,
la conoscevo bene, poiché l’avevo incontrata di già durante tutte
e tre le altre missioni. Con le altre due è stato il primo incontro,
drammatico in entrambi i casi. Sono bambine con un trauma gravissimo e
soprattutto una di esse appare essere senza speranza.
Proprio
di essa vorrei narrare, poiché la sua storia e il materiale emerso
durante le sedute di osservazione danno bene l’idea della sofferenza
dei bambini di Gaza.
Iman
è una ragazzina di dieci anni che vive con la sua numerosissima
famiglia (sono tredici fratelli e sorelle, alcuni dei quali sposati e
con figli), in un povero sobborgo. Le loro condizioni economiche sono
molto brutte.
Durante
Piombo fuso si rifugiano in una scuola dell’UNRWA, gli israeliani
promettono una tregua di un paio di ore e così la ragazzina e i suoi
vanno a casa a prendere dei vestiti. Malgrado la tregua cade un
missile, che uccide molte persone, alcuni dei quali sono suoi
familiari. Iman vede con i suoi occhi la cuginetta Fatima fatta a
pezzi e i pezzi del suo corpo sparsi per la strada, Lei viene ferita a
una gamba, resta del tutto cosciente e ricorda la vista del suo osso
bianco.
Dopo
questo terribile episodio Iman è sempre spaventata, la notte non
riesce a dormire da sola, urla e piange mentre sta dormendo, si
sveglia e prega più di una volta per notte perché ha paura di
morire, di giorno non gioca con gli altri bambini, è come se fosse
fragilissima. Le immagini del trauma sono sempre nella sua mente.
Durante il primo incontro con lo psicologo la ragazzina appare molto
stressata e annoiata, è evidente sul suo viso la gravità del trauma
e la pressione che ella vive. Cerca di non parlare dell’incidente
che ha vissuto. E’ da tanto che non sorride. Durante
l’osservazione nella ludoteca si nota che non partecipa a nessun
gioco, sta lontana dagli altri bambini.
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