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Vera
Schmidt, "Scritti su psicoanalisi infantile ed
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Collana: Biografie dell'Inconscio
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Resnik,
S. et al. (a cura di Monica Ferri), "L'ascolto dei
sensi e dei luoghi nella relazione terapeutica"
Writings by:A.
Ambrosini, A. Bimbi, M. Ferri, G.
Gabbriellini, A. Luperini, S. Resnik,
S. Rodighiero, R. Tancredi, A. Taquini Resnik,
G. Trippi
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collana: Confini della Psicoanalisi
Anno/Year: 2013
Pagine/Pages: 156
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Silvio
G. Cusin, "Sessualità e conoscenza"
A cura di/Edited by: A. Cusin & G. Leo
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collana/Collection: Biografie dell'Inconscio
Anno/Year: 2013
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AA.VV.,
"Psicoanalisi e luoghi della riabilitazione", a cura
di G. Leo e G. Riefolo (Editors)
A cura di/Edited by: G. Leo & G. Riefolo
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
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Anno/Year: 2013
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"Scrittura e memoria", a cura di R. Bolletti (Editor)
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Altounian, S. Amati Sas, A. Arslan, R. Bolletti, P. De
Silvestris, M. Morello, A. Sabatini Scalmati.
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AA.VV., "Lo
spazio velato. Femminile e discorso
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a cura di G. Leo e L. Montani (Editors)
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Massimilla, L. Montani, A. Nunziante Cesaro, S.
Parrello, M. Sommantico, G. Stanziano, L.
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AA.VV., Psychoanalysis
and its Borders, a cura di
G. Leo (Editor)
Writings by: J. Altounian, P.
Fonagy, G.O. Gabbard, J.S. Grotstein, R.D. Hinshelwood, J.P.
Jimenez, O.F. Kernberg, S. Resnik.
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AA.VV.,
"Psicoanalisi e luoghi della negazione", a cura di A.
Cusin e G. Leo
Writings by:J.
Altounian, S. Amati Sas, M. e M. Avakian, W. A.
Cusin, N. Janigro, G. Leo, B. E. Litowitz, S. Resnik, A.
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"The Voyage Out" by Virginia
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dell'antisemitismo" di Imre Hermann
Author:Imre Hermann
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"Id-entità mediterranee.
Psicoanalisi e luoghi della memoria" a cura di Giuseppe Leo
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Altounian, S. Amati Sas, M. Avakian, W. Bohleber, M. Breccia, A.
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Gampel, H. Halberstadt-Freud, N. Janigro, R. Kaës, G. Leo, M.
Maisetti, F. Mazzei, M. Ritter, C. Trono, S. Varvin e H.-J. Wirth
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
ISBN: 978-88-903710-2-8
Anno/Year: 2010
Pages: 520
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"Vite soffiate. I vinti della
psicoanalisi" di Giuseppe Leo
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
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Anno/Year: 2011
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"La Psicoanalisi e i suoi
confini" edited by Giuseppe Leo
Writings by: J.
Altounian, P. Fonagy, G.O. Gabbard, J.S. Grotstein, R.D.
Hinshelwood, J.P. Jiménez, O.F. Kernberg, S. Resnik
Editore/Publisher: Astrolabio Ubaldini
ISBN: 978-88-340155-7-5
Anno/Year: 2009
Pages: 224
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"La Psicoanalisi. Intrecci Paesaggi
Confini"
Edited by S. Fizzarotti Selvaggi, G.Leo.
Writings by: Salomon Resnik, Mauro Mancia, Andreas Giannakoulas,
Mario Rossi Monti, Santa Fizzarotti Selvaggi, Giuseppe Leo.
Publisher: Schena Editore
ISBN 88-8229-567-2
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Girerò per le strade finché non sarò stanca morta
saprò vivere sola e fissare negli occhi
ogni volto che passa e restare la stessa.
[…]
Sentirò intorno a me scivolare gli sguardi
e saprò d’esser io: gettando un’occhiata,
mi vedrò tra la gente.
Cesare Pavese, 1936
Incipit
In un altro
lavoro (Tabanelli, Scotto di Fasano 2014), Nascere lontano:
geografie della maternità, riflettevo su una specifica questione,
questa: “si può pensare, oggi, a una cultura africana, dedicata all’infanzia,
‘originaria’, cioè definita da ritmi, tempi e modi di allevamento
del bambino fissi e storicamente organizzati? Non possiamo infatti
ignorare che attualmente, nell’Est e nel Sud del mondo, ci troviamo
di fronte a situazioni ampiamente trasformate, nel bene e nel male,
dai processi di colonizzazione e di decolonizzazione. Ne consegue che
anche i soggetti che emigrano in ‘Occidente’ non sono soggetti dal
punto di vista culturale ‘puri’, poiché hanno già vissuto
processi forti di acculturazione o deculturazione che contribuiscono a
creare una forte precarietà proprio sul piano culturale” (p.90).
In questo
contributo, vorrei riflettere su quegli interrogativi supportata dal
pensiero di studiosi che hanno maturato una importante esperienza di
lavoro con soggetti cosiddetti ‘migranti’ trapiantati in luoghi
lontani per cultura e caratteristiche da quelli di origine. Hanno
accettato di riflettervi con me Fethi Benslama, Virginia De Micco,
Ludovica Grassi, Gohar Homayounpour, Alfredo Lombardozzi e Eleonora
Salvadori.
Una
premessa sul termine ‘migranti’
Prima però di
arrivare al nocciolo della questione, si impone una riflessione sul
termine ‘migranti’. Come sottolineava Francesconi (2010), alla
dizione ‘immigrati’ e/o ‘emigrati’ si è sostituita, per
riferirsi a chi abbandona la propria terra d’origine, la parola ‘migranti’.
Ci si può domandare, sottolineava Francesconi, se nell’immaginario
comune oggi, rispetto a ieri, alla possibilità di accogliere e ‘integrare’
in sé, da un punto di vista societario, l’Altro da sé (per cui il
ricorso al participio passato si rivelava maggiormente idoneo a
sottolineare la ‘stabilizzazione’ dello ‘straniero’ nel nuovo
contesto di vita), si sia sostituita un’accoglienza ‘a termine’,
precaria, che fa di ogni ambiente, per chi vi arriva in cerca di casa
e lavoro, un ‘non luogo’, nel quale l’identità non può che
configurarsi come ‘in corso d’opera’, mai scontata e
stabilizzata: appunto, ‘migrante’. Tale considerazione mi è parsa
significativa a gettare luce su un fenomeno inquietante del nostro
tempo: quello della ricerca di un’identità forte, priva di
sfumature, che caratterizza gli islamici nati all’estero di seconda
generazione. In effetti, non possiamo non chiederci, da un punto di
vista psicoanalitico, quale sia l’effetto, a livello inconscio, di
un’identità ‘a priori’ caratterizzata da un participio
presente, un’identità priva di un ‘posto fisso’ in ogni senso e
in ogni dove. Mi sovviene, a tale proposito, un episodio nel film Cous
Cous, di Abdellatif Kechiche (2007), nel quale un ‘migrante’
è sconvolto da una violenta crisi dissociativa quando sperimenta con
angoscia la mancanza della possibilità di capire e di farsi capire.
Nella condizione esistenziale priva di identità, non può che
scompensarsi, avendo perduto le coordinate di riferimento in grado di
garantire stabilità e continuità. La trasparenza, l’invisibilità
annientano la fiducia inconscia nel proprio senso di continuità,
cioè nella certezza di possedere un’identità, di ‘esserci’. Lo
si vede accadere molto bene in altro film, La famiglia, di
Ettore Scola (1987). Nell’episodio al quale faccio riferimento, si
vedono due adulti in piedi e un bambino piccolo tra le loro gambe.
Arriva alle ginocchia degli adulti. L’inquadratura è
prevalentemente centrata all’altezza degli occhi del bambino. Gli
adulti si interrogano l’un l’altro su dove sarà il piccolo
protagonista, il tono è serio, il bambino all’inizio ride e sta al
gioco, poi dice: ‘Sono qui!’. Gli adulti continuano a cercarlo
come se non lo vedessero né lo sentissero, mentre il piccolo, sempre
più allarmato, grida la propria presenza, finché crolla in una
disperazione ai limiti dello scompenso. Quello cui si assiste è una
vera e propria nullificazione del sé. Un altro episodio, descritto da
Naouri (1998), illustra molto efficacemente quale può essere l’esito
dell’attacco all’identità soggettiva. Si tratta di due fratelli
osservati nel suo ambulatorio dall’autore, il più grande, di circa
sette anni, non aveva accettato la nascita del minore, di quattro anni
più piccolo. Non perdeva occasione di aggredirlo, senza che questi
facesse nulla per contrastare la violenza del più grande, del quale
anzi prendeva le difese quando veniva punito o sgridato per il suo
comportamento aggressivo. Fino al giorno in cui accadde qualcosa di
diverso. “Il piccolo andò a prendere un giocattolo e subito il
fratello glielo portò via. […] Il piccolo gli lasciò il giocattolo
senza fare resistenza e andò a giocare sulla bilancia. Suo fratello
lo cacciò immediatamente. Anche questa volta il piccolo lo lasciò
fare e andò a sedersi sulla sedia a dondolo, da cui suo fratello lo
fece ovviamente sloggiare. Il giochetto continuò così per qualche
minuto a una velocità incredibile e con una violenza, dispensata e
subita, insopportabile. Fino al momento in cui il piccolo
improvvisamente si arrestò […] fermando con il suo sguardo bruno […]
lo slancio del fratello e dicendogli: «Sei me, tu? E io, io sono te?
Non so più se sono me o sono te. Tu lo sai se io sono te? Tu sai se
tu sei me? Magari io sono te. Magari io non sono me. Magari io sono
me. Magari io non sono te. Magari tu sei te. Dimmelo, tu lo sai? Me lo
vuoi dire?»“ (247,8). In effetti al vissuto, quando non alla
realtà, di attacchi predatori di scelte, corrisponde inevitabilmente
una frammentazione identitaria. È per tali ragioni che è importante
interrogarsi sulla possibilità di resilienza a protezione del Sé.
Laddove resilienza è interrogare sé e l’altro proprio sul confine
me/non me.
Scrivevo altrove
(2009) che la società contemporanea è caratterizzata, da un punto di
vista antropologico, dal fatto che oggi più che nel passato l’Altro
è colui che perturba un modo d’essere de-finito. Nei non-luoghi
(Augé 1993) del nostro tempo gli immigrati forzano, turbano e
trasformano i contenitori delle identità individuali e istituzionali.
Al confronto con tali forme di assolutà alterità (Ghirelli
2002) si reagisce con la ‘tautologia della paura’ (Dal Lago 1999),
dove dominano vissuti di solitudine, precarietà, minaccia incombente
- che trasformano il modo d’essere individuale -, con reazioni
connesse, di conseguenza, a atteggiamenti xenofobi: il che incide
sulle trasformazioni istituzionali, si pensi ad esempio alla proposta
di istituire classi separate per gli stranieri. Inoltre, l’identità
migrante è di per sé perturbante, poiché è “l’identità di chi
non è più una persona completa […] con tutti i suoi desideri e
bisogni: è come frammentata nelle cose che fa […] noi continuiamo a
trattarli come fossero soltanto braccia” (Ghirelli 2002, 130).
Se da sempre i
motivi principali della paura dell’uomo sono riconducibili al mondo
esterno e alle relazioni con gli altri, come ha mostrato Freud (1929)
ne Il disagio della civiltà, oggi l’incertezza esistenziale
che caratterizza la condizione umana connota in modo specifico tali
storici motivi d’angoscia. Scrive Dal Lago (1999): “Definisco ‘tautologico’
[un meccanismo stabile di produzione mediale della paura] quando la
semplice enunciazione dell’allarme ([ad esempio quella di un’]’invasione
di immigrati delinquenti) dimostra la realtà che esso denuncia.
Questi meccanismi ‘autopoietici’ sono noti in sociologia […] se
gli uomini definiscono le situazioni come reali, esse sono reali nelle
loro conseguenze.” (73). L’Altro in effetti è colui che perturba
il confine dell’identità, che è sia de-limitazione sia area di
coappartenza in quanto incontro di due bordi. La questione non può
essere semplificata, “differenza e limite sono essenziali. […] Il
limite non è […] una proiezione arbitraria] […] ma è il prodotto
di una relazione” (Raffestin 1992, 45). Come notano Menatti e
Bonesio (2004), “i discorsi sulla questione delle identità da
contrapporre all’omologazione mondialista oscillano tra due
paradigmi opposti: da un lato l’idea di identità forti, centrate […]
su se stesse, chiuse e incomunicanti […]; dall’altro una
concezione ‘debole’ […] che guarda all’identità come […] a
uno scambio […] fra […] stili culturali differenti, nell’orizzonte
tardo-moderno di un mondo dove non ci sono più autenticità
culturali, ma svariate forme di meticciato, di sincretismo, di
mescolanze, di babelismo: identità dunque inevitabilmente
relazionali, miste. […] Il modello dell’identità chiusa in se
stessa, nella sua forma più oltranzista, privilegia l’autoriferimento
[…] tanto da correre il rischio dell’intolleranza. […]
Viceversa, il modello dialogico “debole” prende atto dell’ibridazione
culturale prodotta dalla modernità […] Nel mondo globalmente
interconnesso, che parla […] un unico linguaggio, quello della
tecnica occidentale, […] l’opera occidentale di deculturazione ha
[…] prodotto il deserto dello sradicamento, a confrontarsi [sono]
frammenti di identità […] in forma di […] mescolanze,
ibridazioni, sincretismi. È ciò che, secondo Latouche, si starebbe
verificando nel Terzo e Quarto Mondo, con […] l’affermarsi di
fenomeni sempre più diffusi […] di sincretismo culturale […],
possibili proprio […nel] planetario supermercato delle merci e delle
immagini attuato dalla tecnica. […] in questo scenario [si va a
costituire] un soggetto culturale indebolito, il cui atteggiamento
dominante è quello di consumatore di merci, le differenze si smussano
e il sacrosanto riconoscimento delle ragioni dell’altro tende a
diventare lo smarrimento di sé” (77-78).
Affermano le
Autrici che non va salvaguardato il dialogo di per sé quanto
piuttosto un dialogo ‘forte’, ‘radicale’, in cui le differenze
che entrano in confronto restano tali: “nel senso che occorre
riuscire a vedersi dal punto di vista esterno […] ma senza
rinunciare a essere quello che si è. Una pratica del dentro/fuori
insieme” (78) perché non prendano vita fenomeni riconducibili alla
categoria dell’immunizzazione (cfr. Esposito 2002). “Il concetto
di immunitas (immunità), [infatti,] si pone sul fronte opposto
rispetto a quello di communitas (comunità). Immunis è un vocabolo
privativo […] Chi risulta senza munus è dispensato da una serie di
obblighi di carattere giuridico, e in senso lato anche di carattere
morale, nei confronti dell’altro. […] L’immunis è, quindi, un
privilegiato rispetto a colui che insieme ad altri è obbligato al
munus, ossia a chi è communis, colui che fa parte di una communitas,
di un gruppo politico e sociale fondato su rapporti di reciprocità e
obblighi di scambio” (80).
Oggi, la
comunità esiste in quanto attratta e risucchiata nel suo opposto, l’immunità;
la comunità attuale include l’opposto perché ne ha necessità per
continuare a vivere (si pensi al fatto che oggi i lavori più faticosi
e sottopagati sono delegati ai migranti), affermando una logica di
esclusione: io esisto in quanto non sono un’altra persona; ciò che
in tal modo viene perduta è la memoria del fatto che se io sono è
perché lo devo all’altro. Ecco perché è anticomunitario l’esito
cui l’immunizzazione conduce, la comunità in quanto tale
insostenibile e l’esito catastroficamente autodissolutivo
innegabile, come mostrano lo sfascio delle istituzioni e la sciatteria
che caratterizza la maggior parte delle relazioni.
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