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"L'uomo
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Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collection/Collana: Biografie
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Anno/Year:
2015
Pagine/Pages:
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"Neuroscience
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Edited by/a cura di: Giuseppe Leo Prefaced by/prefazione
di: Georg Northoff
Writings by/scritti di: D. Mann
A. N. Schore R. Stickgold
B.A. Van Der Kolk G. Vaslamatzis M.P. Walker
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collection/Collana: Psicoanalisi e neuroscienze
Anno/Year: 2014
Pagine/Pages: 300
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Vera
Schmidt, "Scritti su psicoanalisi infantile ed
educazione"
Edited by/a cura di: Giuseppe Leo Prefaced by/prefazione
di: Alberto Angelini
Introduced by/introduzione di: Vlasta Polojaz
Afterword by/post-fazione di: Rita Corsa
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collana: Biografie dell'Inconscio
Anno/Year: 2014
Pagine/Pages: 248
ISBN:978-88-97479-05-5
Prezzo/Price: € 29,00
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Resnik,
S. et al. (a cura di Monica Ferri), "L'ascolto dei
sensi e dei luoghi nella relazione terapeutica"
Writings by:A.
Ambrosini, A. Bimbi, M. Ferri, G.
Gabbriellini, A. Luperini, S. Resnik,
S. Rodighiero, R. Tancredi, A. Taquini Resnik,
G. Trippi
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collana: Confini della Psicoanalisi
Anno/Year: 2013
Pagine/Pages: 156
ISBN:978-88-97479-04-8
Prezzo/Price: € 37,00
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Silvio
G. Cusin, "Sessualità e conoscenza"
A cura di/Edited by: A. Cusin & G. Leo
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collana/Collection: Biografie dell'Inconscio
Anno/Year: 2013
Pagine/Pages: 476
ISBN: 978-88-97479-03-1
Prezzo/Price: €
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AA.VV.,
"Psicoanalisi e luoghi della riabilitazione", a cura
di G. Leo e G. Riefolo (Editors)
A cura di/Edited by: G. Leo & G. Riefolo
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collana/Collection: Id-entità mediterranee
Anno/Year: 2013
Pagine/Pages: 426
ISBN: 978-88-903710-9-7
Prezzo/Price: €
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AA.VV.,
"Scrittura e memoria", a cura di R. Bolletti (Editor)
Writings by: J.
Altounian, S. Amati Sas, A. Arslan, R. Bolletti, P. De
Silvestris, M. Morello, A. Sabatini Scalmati.
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collana: Cordoglio e pregiudizio
Anno/Year: 2012
Pagine/Pages: 136
ISBN: 978-88-903710-7-3
Prezzo/Price: € 23,00
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AA.VV., "Lo
spazio velato. Femminile e discorso
psicoanalitico"
a cura di G. Leo e L. Montani (Editors)
Writings by: A.
Cusin, J. Kristeva, A. Loncan, S. Marino, B.
Massimilla, L. Montani, A. Nunziante Cesaro, S.
Parrello, M. Sommantico, G. Stanziano, L.
Tarantini, A. Zurolo.
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collana: Confini della psicoanalisi
Anno/Year: 2012
Pagine/Pages: 382
ISBN: 978-88-903710-6-6
Prezzo/Price: € 39,00
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AA.VV., Psychoanalysis
and its Borders, a cura di
G. Leo (Editor)
Writings by: J. Altounian, P.
Fonagy, G.O. Gabbard, J.S. Grotstein, R.D. Hinshelwood, J.P.
Jimenez, O.F. Kernberg, S. Resnik.
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collana/Collection: Borders of Psychoanalysis
Anno/Year: 2012
Pagine/Pages: 348
ISBN: 978-88-974790-2-4
Prezzo/Price: € 19,00
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AA.VV.,
"Psicoanalisi e luoghi della negazione", a cura di A.
Cusin e G. Leo
Writings by:J.
Altounian, S. Amati Sas, M. e M. Avakian, W. A.
Cusin, N. Janigro, G. Leo, B. E. Litowitz, S. Resnik, A.
Sabatini Scalmati, G. Schneider, M. Šebek,
F. Sironi, L. Tarantini.
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collana/Collection: Id-entità mediterranee
Anno/Year: 2011
Pagine/Pages: 400
ISBN: 978-88-903710-4-2
Prezzo/Price: € 38,00
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"The Voyage Out" by Virginia
Woolf
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
ISBN: 978-88-97479-01-7
Anno/Year: 2011
Pages: 672
Prezzo/Price: € 25,00
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"Psicologia
dell'antisemitismo" di Imre Hermann
Author:Imre Hermann
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
ISBN: 978-88-903710-3-5
Anno/Year: 2011
Pages: 158
Prezzo/Price: € 18,00
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"Id-entità mediterranee.
Psicoanalisi e luoghi della memoria" a cura di Giuseppe Leo
(editor)
Writings by: J.
Altounian, S. Amati Sas, M. Avakian, W. Bohleber, M. Breccia, A.
Coen, A. Cusin, G. Dana, J. Deutsch, S. Fizzarotti Selvaggi, Y.
Gampel, H. Halberstadt-Freud, N. Janigro, R. Kaës, G. Leo, M.
Maisetti, F. Mazzei, M. Ritter, C. Trono, S. Varvin e H.-J. Wirth
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
ISBN: 978-88-903710-2-8
Anno/Year: 2010
Pages: 520
Prezzo/Price: € 41,00
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"Vite soffiate. I vinti della
psicoanalisi" di Giuseppe Leo
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Edizione: 2a
ISBN: 978-88-903710-5-9
Anno/Year: 2011
Prezzo/Price: € 34,00
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"La Psicoanalisi e i suoi
confini" edited by Giuseppe Leo
Writings by: J.
Altounian, P. Fonagy, G.O. Gabbard, J.S. Grotstein, R.D.
Hinshelwood, J.P. Jiménez, O.F. Kernberg, S. Resnik
Editore/Publisher: Astrolabio Ubaldini
ISBN: 978-88-340155-7-5
Anno/Year: 2009
Pages: 224
Prezzo/Price: € 20,00
"La Psicoanalisi. Intrecci Paesaggi
Confini"
Edited by S. Fizzarotti Selvaggi, G.Leo.
Writings by: Salomon Resnik, Mauro Mancia, Andreas Giannakoulas,
Mario Rossi Monti, Santa Fizzarotti Selvaggi, Giuseppe Leo.
Publisher: Schena Editore
ISBN 88-8229-567-2
Price: € 15,00
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Passato
remoto e passato prossimo.
L’osservazione
che fanno Bernfeld e Cassirer Bernfeld (1981) a proposito del curioso
atteggiamento che ebbe
Freud nei confronti delle sue città, Freiberg (Pribor) e Vienna: fu molto
felice quando la prima volle ricordare la sua nascita, in occasione
del suo settantacinquesimo compleanno,
con una targa apposta sulla sua casa natale, mentre rifiutò con disprezzo
la proposta della città di Vienna di intitolare a lui la via in cui
abitava, mi ha suscitato una
particolare fantasia interpretativa. Da un lato abbiamo un grande
interesse di Freud per l’archeologia
e la cultura classica, per la preistoria infantile dell’uomo sia da
un punto di vista
ontogenetico, sia filogenetico; dall’altro vediamo come nella sua
particolare modalità di
dar posto al ricordo nella sua vita prediliga dar spazio alla storia
(passato prossimo) piuttosto
che alla preistoria (passato remoto). Dal fatto che i nomi dei suoi
figli rappresentino un
modo per esprimere riconoscenza alle figure della sua formazione
scientifica piuttosto che
la sua formazione umana, la famiglia, mi sembra che egli si riferisca
in questo caso alla sua
storia e non alla sua preistoria.
Freiberg
tuttavia è legata alla sua preistoria, mentre Vienna è la culla
della sua storia. Abbiamo allora
una sorta di contraddizione che fa pensare. E fa pensare ai drammi
infantili, a quelle
esperienze segnate da una grande conflittualità, quel tipo di
conflittualità che è molto difficile
elaborare sostanzialmente. Freiberg rappresenta il luogo della
serenità, dei giochi e
delle prime fondamentali relazioni, ma d’altro lato è anche il
luogo in cui è nato il rapporto conflittuale
col padre-nonno, temuto e distante, ed è anche luogo del lutto, la
morte del fratellino
Julius, che presumibilmente venne a rompere irrimediabilmente l’alone
magico del luogo e delle
relazioni dell’infanzia (v. Trabucco, 2007) .
Vienna
era odiata perché era il luogo dell’ostracismo, della diffidenza,
della fatica a farsi riconoscere.
Ma infine anche del successo e dell’individuazione.
Allora
si può pensare che nella scelta di Freud di nominare i suoi figli
come monumenti alle sue
memorie storiche sia nascosto un compromesso per cui nei personaggi
della sua storia sono
nascosti i più antichi numi della sua preistoria infantile, liberati
degli aspetti dolorosi ed
angoscianti, che un riferimento diretto farebbe invece immediatamente
risorgere. L’archeologia
che guida Freud nelle sue prime mosse dell’esplorazione del mondo
inconscio, torna, come
osserva Petrella (1990), alla conclusione del suo lavoro in maniera
ulteriormente complessa.
Questo aspetto del pensiero freudiano sottende la concezione estremamente
articolata che la memoria viene ad avere nel pensiero psicoanalitico,
funzione psichica in cui
i piani del tempo non sono semplicemente sovrapposti, ma anche compresenti.
Freud
riesce evidentemente a mantenere nella sua mente le compresenze dei
suoi retaggi più o meno
antichi, come osserva sempre Petrella (1990, p. 969), come “simbolo
di fiducia ... nella
capacità e nella pazienza dell’uomo di atteggiarsi verso di esso
attraverso il potere fragile
della sua sensorialità e l’elaborazione critica della figurazione,
della fantasia e di un discorso
che aspira all’adeguatezza”.
Queste
qualità forse non hanno fatto parte dell’esperienza di tutti i suoi
figli. Nell’universo interno
di Freud sembrano venire a coabitare personaggi collocabili su diversi
piani temporali e
spaziali, e che formano una complessa costellazione che garantisce una
sufficiente complessità
e pluralità (v. Bolognini, 2008, 24) su cui si può sviluppare il
processo creativo, la
libertà dello spirito di espandere il proprio campo e di tessere le
proprie figurazioni. Nel
caso dei figli di Sigmund viceversa possiamo pensare che in molte
situazioni sia venuta a
mancare proprio questa complessità e varietà. Nel caso di un padre
così “ingombrante”, i
riferimenti tendono inevitabilmente a restringersi, la sguardo mentale
ad avere un unico o per
lo meno un preponderante riferimento, da seguire o da fuggire.
La
capacità di Sigmund di aver cura delle memorie in modo così
complesso e creativo sembra
avere avuto una maggiore ricaduta sui nipoti, che non sui figli. Forse
in funzione del fatto che
i nipoti possono guardare all’immagine di un siffatto nonno con quel
distacco che rende
possibile una distinzione ed una relativizzazione.
Vediamo così
come il nipotino Ernst, il primo nipote di Freud, oltre che oggetto di
infant observation ante
litteram per il nonno, è stato un grande affetto per tutta la
famiglia, a cui si sono
prodigate tutte le cure possibili e, attraverso un lungo e doloroso
percorso, giunge a poter
vivere una riconoscenza libera nei confronti della propria famiglia
Freud. Ernst infatti scelse
di tenere il cognome della madre e del nonno.
La
nipote Sophie, primogenita di Martin, attraverso un lungo percorso
personale, che ci ha lasciato
testimoniato nei suoi due libri, è giunta a vivere una vita che pur
tra molte difficoltà personali,
ha avuto uno sviluppo fondamentalmente di soddisfazione. Anche ella si
è mossa in questo
dilemma: “… mantenere un equilibrio fra la lealtà e l’impegno
nei confronti della
famiglia e delle tradizioni e il desiderio personale di cavarmela da
sola, di camminare con le
mi gambe e di avere una mentalità indipendente e forse anche ribelle.
Questo dilemma può
diventare particolarmente vivo quando si fa parte di una famiglia
importante, ma penso che
si tratti di un conflitto universale” (1988, p.379).
Il
nipote Lucian, ultimogenito di Ernst, ha avuto sicuramente grande
successo, come pittore, in
una vita sicuramente molto travagliata, in funzione di una mentalità
senz’altro “ribelle”.
Lucian Freud e Jane
McAdam Freud: tradizione e creatività.
Lucian
nacque a Berlino nel 1922, secondo figlio di Ernst, ed ebbe in dono
dal nonno, all’età di
sedici anni, il libro “Storia d’Egitto” di J.H. Breasted del
1906, nella traduzione tedesca del
1936. All’epoca egli frequentava a Londra le migliori scuole d’arte
e si guardava a lui come
una promessa dell’arte contemporanea. Il desiderio di fare il
pittore del padre, Ernst,
fu così realizzato, anche se era la madre, Lucie Brasch, che sembrava
investire molto sui
figli. Era la madre che chiedeva costantemente a Lucian di impartirle
lezioni di disegno. Era
della madre che Lucian iniziò una serie di ritratti, nel 1972, che
comporteranno più di
mille sedute di posa. Non sembra quindi che vi sia stata un’esplicita
pressione paterna nell’indirizzare
Lucian verso l’arte pittorica. Avere come madre una potenziale
artista può essere stata
una "combinazione" che potrebbe anche contenere il residuo
del desiderio paterno,
una presenza che tuttavia sembrerebbe essere stata facilitante e non coercitiva.
Viceversa
l’eredità del nonno sembra avere avuto una profonda influenza: il
libro “egizio” compare
nell’opera di Lucian e nell’iconografia che lo riguarda. Il
lascito di Sigmund è sempre
stato presente nello studio del pittore, una celebre foto lo ritrae
davanti al Geschichte Aegyptens
e alcune sue opere, del 1991 e 1994, sono riferite alle figure 120-121
di quel volume: due volti
di gesso di El-Amarna, di cui uno potrebbe essere quello di Amenofi III.
Come
osserva Bonomi (2006), ciò che viene ad accomunare l’opera dei due
Freud, Sigmund e
Lucian, è un guardare, al di là delle apparenze, a finestre dell’animo
che vanno ad aprirsi su scenari che
riguardano le angosce più profonde, intorno alle quali vengono a
costruirsi le
rappresentazioni della realtà della mente.
I l
“realismo” di Lucian riguarda una realtà che non è quella
apparente, ma quel sentimento che
permea l’essere del soggetto. I ritratti della madre sono stati
iniziati dopo la morte del padre,
nel 1970. Lucie visse un lutto inelaborabile per la perdita del marito
e ciò che Lucian andava
dipingendo, come dice Bonomi (2006), è la depressione della madre.
Anche Sigmund ha vissuto
una madre “morta” (v. Green, 1980), uccisa nella sua vitalità dal
lutto per la morte del
piccolo Julius. Freud afferma che la sua autoanalisi, e l’opera che
ne deriva, L’interpretazione
dei sogni, discende dal lavoro del lutto susseguente alla morte del padre:
forse il lutto attuale va a risollevare memorie affettive legate alla
primaria esperienza di
perdita che egli patì all’età di tre anni e mezzo per la morte del
fratellino e la depressione materna
(v. Trabucco, 2007). L’inconscio si apre sul perturbante ed esso
alla morte. Il guardare
alla morte è uno degli aspetti che uniscono Lucian e Sigmund.
Francis Bacon ebbe a
dire dell’amico Lucian che era realista senza essere reale e che rappresentava
“un corpo che non sa cosa fare di se stesso, un enigma che si rende
visibile soltanto negli
interstizi tra un’azione e l’altra, perché è nei vuoti, così
come in tutto ciò che è
fermo, immobile, fisso, che si annuncia quello che in psicoanalisi
chiameremmo l’oggetto
interno morto” (Bonomi, 2006, 25).
Nelle opere in cui
rappresenta le figure del libro lasciatogli dal nonno dopo quarant’anni
di attività, “Lucian
si è mantenuto in contatto con una sua fonte di ispirazione interna
che si rispecchiava in
quei volti fissi ed enigmatici ... Questo libro attesta poi come egli
avesse posto il problema
della morte al centro della sua opera ... Egli, proprio come il nonno,
aveva fatto della sua
opera l’arena su cui affrontare e padroneggiare il problema della morte”
(ibidem, 31).
Così come nell’opera
di Sigmund si può arrivare al fondo dell’esperienza emotiva a
ritrovare l’impronta
che il silenzio lascia nella matrice dell’esistenza, la morte che
traspare nell’esperienza del
“perturbante”, così le figure rappresentate da Lucian disfatte o
le maschere di gesso
mostrano l'essenza del soggetto, dove il senso deve ancora sorgere dal
silenzio, o dove affonda
nel nulla.
La psicoanalisi e l’arte
s’incontrano così sull’orlo dell’abisso, quel punto così
descritto da Starobinsky:
“L'arte non è un'efficace operazione di salvezza, bensì una
pantomima sublime sul
bordo della tomba, che vela per un solo istante i terrori dell'abisso
… raffigura … la
vertigine mortale a cui l'artista (ma io direi l'uomo) è esposto …
perché subisce la mancanza d'essere
che si lega alla natura illusoria dell'arte (e dell’esistenza)”
(1970, 106-110, parentesi
mie).
Quel punto di cui
parla Bion in cui nasce la necessità del pensiero, l’incontro della
preconcezione con la
non-cosa. L’edificazione del pensiero, della rappresentazione e del
significato per contenere
l’esperienza -incontenibile- del nulla e del non-senso, della morte
come dissoluzione del
nostro universo interno, fatto di senso e di bellezza.
Jane McAdam Freud,
racconta come il padre Lucian si sia definito “il migliore dei padri
assenti”: “Benché
scherzasse, penso che questa dichiarazione dimostrasse una notevole
autoconsapevolezza ...
Noi condividevamo una passione per l’arte e ci siamo capiti
attraverso il lavorare
insieme ...” (McAdam Freud, 2012).
Jane ha a lungo
avuto il solo cognome della madre, McAdam, in quanto Lucian abbandonò
lei e i suoi tre fratelli
quando ella aveva otto anni. La vita di Lucian fu, da questo punto di
vista, molto disordinata: ebbe per lo meno quattordici figli, alcuni
dei quali non sapevano bene
chi fosse il padre, e un paio di essi, quando lo seppero,
abbandonarono le loro attività e
si dichiararono “artisti, figli di Lucian Freud”, un po’ sulla
scia del prozio Martin.
Jane si è imposta
come artista nel periodo in cui non aveva rapporti col padre, di cui
non portava allora il
cognome. La sua crescita e affermazione artistica è avvenuta quindi
in uno spazio pubblico
che non era consapevole che ella fosse la figlia di Lucian Freud.
Tuttavia ella sapeva chi
era suo padre e non ha voluto mettersi in “competizione” con lui,
ma sembra aver tratto
sostanza del suo operare artistico proprio da questa memoria più
affettiva: “Una potente
esperienza sensoriale tenuta nel profondo. Penso che i ricordi guidino
così, essi danno forza e
vengono convogliati in una forza risonante all’interno” (Damoah, 2013).
Ricordi stratificati nelle generazioni, una ricerca di radici che va
sempre più all’indietro e
in profondità.
Tra le opere di Jane
vi è una serie di disegni a matita che non sono altro che
riproduzioni della
collezione di reperti archeologici del bisnonno Sigmund. Jane afferma
che, copiando tali
oggetti, ritrova motivi di somiglianza con la propria scultura ... “Una
questione di coincidenze o
il sorgere di possibili istinti genetici sconosciuti?” (2006, 78).
Così ella legge la “collezione
di sculture di Sigmund Freud”, come le “sculture di Sigmund Freud”,
trovando in questa
matrice una radice familiare alla sua passione per la scultura: “Ciò
in sé stimola la mia
curiosità e forgia uno stretto legame” (v. 2006). “Il mio scopo
è di mostrare attraverso la
comparazione, le connessioni estetiche e scultoree che hanno
attraversato l’attività di
collezionare reperti antichi e lo scolpire” (2006, 78). Jane vede
Sigmund come un antesignano dei
moderni artisti e delle loro “installazioni”: il modo in cui egli
disponeva le diverse statuette
sulla sua scrivania e nel suo studio seguiva un preciso disegno
significativo, in modo
che ognuna di esse fosse al centro dello sguardo dell’osservatore -
lui stesso - e con la
loro disposizione andassero a rappresentare dei riferimenti
significativi sul piano sia culturale,
sia emozionale. “La disposizione degli oggetti da parte di Freud era
sempre ponderata e
concettuale” (ib.). Bolognini (2008, 15) osserva come gli oggetti
antichi di Freud nel suo
studio fossero “un mondo costitutivo di oggetti interni/esterni,
quindi, fonte al contempo
di conforto e di ispirazione in un’area illusionale intermedia
potenzialmente creativa”.
Peraltro
la scultura è stato anche il primo gesto artistico del padre, Lucian
Freud. È del 1937 la sua
unica scultura, che gli valse l'ammissione alla Central School of Art
and Crafts di Londra. La
nonna paterna rivelò a Jane che Lucian inizialmente voleva scolpire,
ma non finì il suo
corso, e successivamente egli stesso gli confermò questo fatto, così
Jane afferma: “Io gioco
con l'idea che ho finito il corso per conto di mio padre su una sorta
di livello inconscio” (Damoah,
2013).
Il convergere, umano
e artistico, si “materializza” in un punto apparentemente tecnico:
la natura materica della
pittura di Lucian “che deve espandersi all’intera superficie,
rendendo reale, cioè
tridimensionale, l’illusione della figura dipinta” (ibidem), e che
richiama il plasmarsi della
creta nella scultura di Jane: “Da allora ho guardato la pittura di
mio padre e la mia
scultura e ho considerato il loro punto d’incontro come un’allegoria
dell’incontrarsi a metà
strada fra i processi della pittura e della scultura” (ibidem).
J.
McAdam Freud (2014) osserva come nel proprio lavoro artistico siano in
opera delle funzionalità,
come la semplificazione e la condensazione, che sono propri del lavoro
del sogno, come strumenti
che permettono la sublimazione.
Il
concetto di sublimazione, deviazione dalla meta pulsionale in Freud,
è stato profondamente rivisitato
nello sviluppo del pensiero psicoanalitico. Farò riferimento in
particolare qui a M.
Spira (1986). Per questa autrice il lavoro che si compie “sublimando”
ha qualità che fanno
andare col pensiero alla concezione del sogno di W. Bion.
Per
Spira “la sublimazione è il risultato dell’integrazione di
frammenti sensorio-affettivi che si
amalgamano mediante un’elaborazione che fa loro assumere le forme
del desiderio attivo (dare
vita a ...)”. Tale amalgamazione permette al sé di arricchirsi e di
combattere il senso di
dispersione (pulsione di morte) data da una sensorialità priva di
pensiero.
La
memoria, la tradizione che ci deriva dai nostri padri può
rappresentare questo insieme di
infinite e contraddittorie stimolazioni che necessitano del lavoro del
sogno/artistico per poter
essere organizzate in una rappresentazione che “dia vita a ...”.
Nel
processo creativo, così come nel sogno, il percorso dell’esperienza
soggettiva, che riguarda
anche le “memorie”, non procede dall’inconscio al conscio, ma
“rende il conscio inconscio
(cioè rende l’esperienza cosciente vissuta disponibile per i più
ricchi processi di pensiero
propri del lavoro psicologico inconscio)” (Ogden, 2009, p. 9).
Il
processo di costruzione della propria identità passa inevitabilmente
attraverso una continua rielaborazione
delle proprie memorie. Sappiamo come il lavoro della memoria non sia mai
esaurito, in quanto la nachträglichkeit è sempre necessariamente
operante. Ogni “memoria”
non è mai ricordata una volta per tutte.
Il
“calco” delle nostre relazioni primarie, il bagaglio dell’eredità
che queste relazioni lasciano nel
nostro mondo interno, è struttura base per la nostra crescita
mentale. Tale “calco” sostiene
la nostra identità. Crescere sulla base della tradizione, ci ricorda
Winnicott.
Nel
caso di Jane, la tradizione è connotata dalla presenza di due
antenati di grande “peso”:
Sigmund, il bisnonno, e Lucian, il padre. Mi sembra in questo caso
particolarmente evidenziata
quella tensione “tra influenzamento e originalità” che è alla
base della situazione edipica,
così come è stata definita da Loewald (1979) e da Ogden (2009). “Nella
misura in cui i genitori
sono stati trasformati dal processo di internalizzazione, i genitori
hanno contribuito alla
creazione di un figlio che è capace di essere e diventare diverso da loro”
(Ogden, 2009, p. 195). E’ in funzione di questo lavoro di
internalizzazione e trasformazione che
il “calco” diviene struttura relazionale che sostiene.
Mold
(from Webster’s new world dictionary):1) A pattern, hollow form, or
matrix for giving a certain
shape or form to something in a plastic or molten state [Un modello,
forma cava o matrice per
dare una certa forma a qualcosa in uno stato fuso o plastico]; 2) a
downy or furry growth on
the surface of organic matter, fused by fungi, especially in the
presence of dampness or
decay [una peluria o crescita pelose sulla superficie di materia
organica, fuso da funghi,
specialmente in presenza di umidità o decadimento] 3) loose, soft,
easily worked soil ...
good for growing plants [terreno morbido, facilmente lavorato ...
buono per la coltivazione
di piante].
Questa
triplice deriva di significato di questo termine, mould, o mold in
americano, mi sembra
contenere una storia: dentro la matrice della nostra memoria, delle
nostre relazioni di base,
che ci formano e ci sostengono, possono svilupparsi diversi destini,
in funzione della
capacità che noi possiamo sviluppare di interagire con essa.
Se
noi restiamo solamente dentro questo “calco”, senza interagire
creativamente con esso,
allora la nostra identità farà la “muffa”, e il calco con essa.
Nel caso invece di una creativa
relazione il calco stesso diverrà un ricco e nutritivo terreno di
crescita per la nostra “pianta”
identitaria.
Incidentalmente
ciò può essere particolarmente vero per noi psicoanalisti, allorché
si resti troppo
soggiogati ad una “scuola”, fedeli ai padri ad oltranza,
situazione che invece di sostenere lo
sviluppo del pensiero, lo soffoca e distrugge la creatività
personale. Forse certe manifestazioni
“iconoclaste” nella storia del movimento psicoanalitico possono
trovare qui delle loro
ragioni, come una formazione reattiva verso una eccessiva
sottomissione ai “padri”. In
altro senso il “calco” è testimonianza di una “presenza assente”.
Il “calco” è la forma dell’assente.
Come dice Jane: “I channelled the mystery of the absent presence
into the filling of the
mould as is necessary for the process of casting sculpture” (2014).
L’assenza dell’oggetto
è ciò che promuove lo sviluppo del pensiero e della simbolizzazione,
e quindi dei processi
creativi.
Il
rapporto tra Lucian e Jane è segnato dall’assenza, da una lunga
separazione e da un nuovo
ritrovarsi, proprio attraverso il comune medium linguistico dell’arte.
Questo profondo “guardarsi”,
quando nel 90-91 posano l’uno per l’altra per otto mesi,
rappresenta il bisogno di
colmare quello iato di assenza che si è prodotto con la separazione
dei genitori e i venti anni
di “scomparsa” del padre.
“Non
voglio perdere la magia e il potere della memoria” afferma Jane (Damoah,
2013). La memoria è il
centro della sua opera e al di fuori di questo parametro molti
significati andrebbero perduti.
La
cura della memoria transgenerazionale, così tangibile nei riguardi
del padre e del bisnonno, passa
attraverso il riconoscimento del debito verso la madre, anch’essa un’artista,
che è molto
sottovalutata secondo Jane, e le cure dei nonni paterni. Jane ricorda
il nonno Ernst non tanto
per la sua figura professionale, ma proprio come nonno, che la andava
a prendere e con cui
mangiava dopo la scuola (com. personale): un ricordo di una calda
affettività, che l’ha
sostenuta nella sua crescita. La mostra nel Freud Museum di Londra (Hattestone,
2012) assume così il significato della riunione di quattro
generazioni, ognuna delle
quali ha lasciato la sua impronta, che lei ritrova come un mondo
interno estremamente ricco
e stimolante. Nella casa di Maresfield Gardens, dove il bisnonno ha
vissuto gli ultimi tempi
della sua vita, ricreandovi il suo ambiente che il nonno ha
ristrutturato, Jane espone
i ritratti del padre che ha realizzato quando Lucian accettò di
posare per lei interrompendo la
sua frenetica attività quando si ritrovarono, e infine sul letto di
morte. Così come Lucian
ritrasse la madre, andando a ritrovare il lutto per il padre, così
Jane in questi ritratti
sembra recuperare l’immagine del padre, che prima di essere morente
è stato assente e che
infine è recuperato nell’opera come rappresentazione
interna/esterna.
Il
percorso di individuazione di Jane passa attraverso la valorizzazione
di relazioni interne creative.
Ella sembra aver potuto conservare nello spazio interno della mente
per vent’anni gli
aspetti vitali e creativi del padre e ciò può aver contribuito a
costituire la base della sua
identità (anche) artistica: “L’intensità del mio sentimento può
aver avuto a che fare con mio
padre, in quanto la sua intensità in generale e specialmente per il
suo lavoro è stato qualcosa
che ho sperimentato fin da giovane, dalla nascita: egli c’era quando
sono nata. Questo livello
di intensità per la vita, per quello che uno fa io l’ho sempre
sentita” (Damoah, 2013).
Dice ancora Jane: “Quando vivi con tale intensità e passione come
parte della tua
identità, sia che venga da un genitore o da una fonte interna, le due
cose si mischiano, o
detto in un altro modo vengono interiorizzate ...” (ibidem). Il
lungo allontanamento del
padre ha creato evidentemente una ferita, ma ha alimentato il
desiderio di una ricongiunzione
con una figura che con la sua presenza, se pur così breve, ha saputo
offrire qualcosa di
fondamentalmente vitale. Ciò si va ad unire, oltre che con qualcosa
proveniente “da una
fonte interna”, con tutto ciò che l’ambiente materno e familiare
ha saputo offrire. “Entrambi
i miei genitori erano artisti ... Molti amici dei miei genitori erano
artisti, così ho capito
presto che devi sforzarti per arrivare al meglio ...” (ibidem).
La
vitalità del padre, la presenza rassicurante, incoraggiante e
affettuosa della madre, la presenza
dei nonni paterni, la suggestione di “quel” bisnonno sembrano aver
creato intorno a Jane un
humus sul quale la sua creatività ha potuto dispiegarsi e svilupparsi
con grande senso di
libertà.
Memoria e creatività.
Il
lavoro della memoria che Jane Freud mette in atto ha la caratteristica
di essere profondamente permeato
dal senso del tempo. Le radici che ella va ricostruendo nei continui
legami tra l’ora e l’allora,
non tendono mai ad una negazione del tempo, o più radicalmente ad
un suo annientamento (Green, 2000), bensì ad una continua
ritrascrizione e sviluppo delle
memorie, che in sé vengono a riproporsi come contenuti da rielaborare
(elementi β) e che
possono trovare diverse possibilità di espressione, sviluppi e nuove
comprensioni, andando
verso quella dimensione che è rappresentata dalla riconciliazione con
il rimosso, come scrive
Freud (1914), ovvero verso il perdono (Ricoeur, 1998). La memoria,
nella sua forma compiuta,
non è feticcio - espressioni non di “lavoro” ma di coazione a
ripetere - che garantisca
da una angosciosa e destrutturante separazione, ma contiene la
consapevolezza della
perdita subita e la sua risoluzione simbolica nel mondo interno.
Se
il contenuto di una memoria rimane come un "fotogramma
fisso" all'interno della mente, si
pone come "cosa in sé", esperienza che non è potuta
passare, che non è stato possibile trasformare
in sogno, quindi espressione non di una funzione simbolizzante, ma
coazione a ripetere. Il
ricordo che non riesce a trovare una sua elaborazione significativa,
resta estraneo al senso
del tempo, che, viceversa, se accettato, potrebbe indirizzarlo verso
un vissuto della “passeità”
che potrebbe essere denotata dal senso del “non essere più”, o dell’“essere
stato” (v. Ricoeur, 1998; Heidegger, 1927), in funzione di diverse
possibili derive elaborative.
La
possibilità di vivere il passato come “essere stato” mi sembra
che si fondi su una relazione con
l’elemento temporale che abbia trovato una pacificazione, rispetto
agli aspetti persecutori
del tempo-“Crono” che divora i propri figli. Il senso della
perdita che connota l’esperienza
del tempo potrebbe trovare una sua “riconciliazione” con ciò che
è perduto attraverso il
lavoro del lutto e della simbolizzazione. “La malattia stessa deve
cessare di essere per lui
qualche cosa di esecrabile e diventare piuttosto un degno avversario,
una parte del suo essere
che si fonda sopra buoni motivi, e da cui dovranno essere tratti
elementi preziosi per la
sua vita ulteriore. La riconciliazione col rimosso testimoniato dai
sintomi è così avviata
fin dall’inizio e ciò implica altresì una certa tolleranza verso
la malattia. Se ora, in
base a questo nuovo rapporto con la malattia, si acuiscono i conflitti
e si manifestano sintomi
che prima erano soltanto adombrati, è possibile rassicurare il
paziente con l’osservazione
che si tratta soltanto di aggravamenti necessari ma transitori, e che
non può uccidere un
nemico assente o non sufficientemente vicino” (Freud, 1914, 358). La
riconciliazione non può
passare attraverso la rimozione perché riconciliarsi comporta, come già
osservava Freud, un lavoro di confronto, anche di “guerra”, un
percorso faticoso comunque, che
può permettere di non annientare l’esperienza, ma di recuperare
ciò che può essere
integrato nel contesto del Sé. I “buoni motivi” della malattia
sono i sensi possibili che
solo una rinarrazione può permettere di costruire intorno ai dati
dell’esperienza.
Talvolta
il ricordare, attraverso la continua “ristampa” delle memorie,
viene a significare l’impossibilità
di dimenticare, ovvero il lasciare spazi nella mente atti a permettere
una ritrascrizione dei
ricordi che, senza alterarne la sostanza, ne modifichi il tono, i
sensi possibili. Penso
che credere in una sostanza immutabile del ricordo rappresenti la
necessità mitico/ scientifica
dell’esperienza soggettiva, che io vedo sostenuta dalla triade di
vertici categoriali arte-scienza-mito:
“Scienza e arte si fondono l’una nell’altra attraverso l’osservazione
e l’esplorazione del
mondo sensoriale; arte e religione attraverso la rêverie e il focus interiore;
religione e scienza attraverso il rispetto dell’idea di una realtà
che non è né inventata né
immaginata ma che esiste al di là del nostro desiderio e del nostro controllo”
(Harris Williams, 2010, 36).
La
nachträglickeith essenzialmente modifica il tono ed il senso della
memoria, senza alterarne la
sostanza. L’alterazione della sostanza del ricordo verrebbe a
corrispondere ad una
deformazione tendente all’annientamento della realtà e del tempo,
realizzando l’oblio. La
relazione memoria/oblio si può ritrovare nella vita mentale come un
momento aurorale, in
quanto, come ricorda Bion: “Sono la simbolizzazione del sogno ed il
lavoro del sogno che
rendono possibile la memoria” (1992, 67). In questa primaria
funzione del pensiero possiamo
trovare le basi del lavoro della memoria, che si svolge sul limite
dell’oblio. L’oblio può
essere inteso come azione del tempo che erode i ricordi, come voleva
Aristotele. Ma d’altro
lato l’oblio si pone come beanza del senso, inesaustività della
rappresentazione, scarto
tra reale e rappresentato. All’essenzialità dell’oblio si
connette il “lavoro” della memoria, lavoro
psichico di costituzione del senso in funzione dell’esperienza che
la illumina progressivamente
di nuove luci, con una significazione après-coup che permette di
scorgere, o inventare,
continuamente nuovi sensi.
Tale
ritrascrizione, un transito sempre rinnovato nello spazio
mentale/onirico delle memorie, si
realizza in un racconto che per essere possibile deve rinunciare a
parti più o meno vaste di esse: sarebbe impossibile raccontare una
storia su alcunché con il pieno utilizzo di tutti i dati a
disposizione. Il racconto per essere possibile deve quindi selezionare
i ricordi, salvarne alcuni e sacrificarne altri, più o meno
definitivamente, per rendere possibile il racconto (v. Ricoeur, 1988,
1998). Il racconto che ne risulta può essere qualcosa che può
configurare la “coesione di una vita”, come sosteneva in modo
filosofico-poetico Dilthey, o permettere quei vari momenti di
ritrascrizione simbolizzante della propria esperienza che segnano il
passo necessario del progredire umano della vita mentale. Il ricordare
si esercita con la necessaria privazione di una consistente quantità
di dati: togliendo elementi per rendere possibile un racconto,
aggiunge all’insieme un elemento fondamentale: il senso. Lo spazio
lasciato dall’oblio fornisce anche quello spazio in cui è possibile
ricombinare i ricordi
in insiemi di senso sempre nuovi (effetto caleidoscopico della
memoria).
L’ambiente
familiare per Jane sembra proprio aver creato quelle condizioni
perché ella potesse veramente
“prendersi cura” del suo mondo interno, così riccamente popolato.
“Avere un genio come
padre non è quindi un’esperienza comune”, come ci ricorda Martin
e per Jane la storia si
ripete, in parte nello stesso modo in cui questa non comune esperienza
può essere stata vissuta
per esempio da Anna Freud. Tuttavia in Jane la comunanza espressiva
col padre assume un tono che a me pare differente rispetto a quanto
può essere stato per
Anna. A me sembra che nel caso di Anna si sia venuta a creare quella
situazione che Bolognini
ha così definito: una relazione con “un genitore da non ‘tradire’
collocandolo in un
contesto familiare più ampio, e poi crescendo e differenziandosene;
bensì a cui appartenere
o con cui identificarsi completamente anziché parzialmente” (2008,
17). Ciò comporta una
“ipersemplificazione” teorica, segnalata anche da Sandler (1983),
“dovuta a un eccesso di
transfert dell’analista verso l’equivalente genitoriale o
narcisistico rappresentato
dall’oggetto ispirativo” (Bolognini, 2008, 19), e implica una
coartazione nella possibilità
di scambi creativi con “l’altro da sé”. Ma se Anna Freud si
trovava di fronte ad una
famiglia analitica estremamente “corta”, unica discendente del “Padre”,
Jane si è trovata in una
situazione più simile a quella di un analista di oggi, inscritto in
un nucleo familiare ampio
e articolato, in cui gli apporti alla propria crescita si intrecciano
in modo fecondo e spesso
imprevedibile.
Jane
si pone in continuità col padre, non in competizione. Sembra aver
colto semi non sbocciati
della sua opera - “Io gioco con l'idea che ho finito il corso per
conto di mio padre su una
sorta di livello inconscio” - e trova con lui un punto d’incontro
“a metà strada”, in un punto
di intreccio di pittura e scultura. La ricca rete di relazioni che
intorno a lei erano presenti e
attive sembra aver permesso uno sviluppo non “endogamico” del suo
linguaggio e del suo
pensiero, un muoversi dalle basi delle sue variegate origini verso
percorsi personali, attraverso
una libera elaborazione delle memorie, che è determinata dal liberare
tale funzione dalla
costrizione della ripetizione e della riproduzione identica, per poter
essere utilizzata in modo
dinamico e trasformativo, così come in psicoanalisi la permeabilità
verso i diversi sviluppi
che l’originario corpus freudiano ha prodotto può permettere lo
sviluppo non endogamico
dei gruppi psicoanalitici.
Tradizione, creatività
e crescita dell’/nell’istituzione psicoanalitica.
“I nostri genitori sono i nostri più grandi
oppressori e anche la nostra più grande ispirazione”
(Jane McAdam Freud).
“… in ciascun campo culturale non
è possibile essere originale eccetto che sulla base della
tradizione. Per
altro verso nessuno nell’ambito di quelli che contribuiscono alla
cultura
ripete, se non in forma di citazione deliberata, e il
peccato che non si può perdonare in
campo culturale è il plagio. L’azione reciproca fra
originalità e accettazione della tradizione
quale base dell’inventiva, mi sembra essere una
altro esempio, appunto, molto affascinante,
dell’azione reciproca tra separazione e unione” (Winnicott,
1967, 171).
I
percorsi che ho cercato di seguire nelle discendenze freudiane mi
hanno dato l’idea che l’elaborazione
del conflitto tra crescita originale e identificazione, o adesione al
modello, passi attraverso
una particolare modalità di “curare le memorie”, intese come
tracce delle esperienze
relazionali, in funzione di una capacità di “sognare i ricordi”
nello spazio mentale creato
dalla triangolazione edipica e di ampliare lo spazio mentale
attraverso la possibilità di
ritrascrizione delle memorie stesse.
Non
penso che il “campo culturale” di cui parla Winnicott si possa
isolare rispetto all’attività psichica
in generale, la quale continuamente produce “microelementi culturali”,
ovvero elementi che vanno
a costituire, particella dopo particella, l’edificio psichico del
soggetto e quindi del
mondo che poi può essere più o meno condiviso.
La
capacità di saper mantenere nel proprio spazio interno una traccia
trasmissibile delle acquisizioni
maturate nella propria crescita implica che il soggetto abbia la
possibilità di apprendere,
non solo dalla propria esperienza, ma anche da quella dell’altro. E
qui entra in gioco
esattamente quel conflitto tra tradizione e originalità di cui parla
Winnicott. Allora bisogna “tentare
di comprendere il lavoro necessario a elaborare gli insegnamenti
altrui senza rimanere
intrappolati in una relazione di eccessiva dipendenza” (Foresti,
2007, 86). Come ricorda
Faimberg (1993), il riconoscimento è alla base della creazione:
Winnicott riconosce di
aver letto il lavoro di Lacan “Le stade du miroir” e, riconosciuto
ciò, può ripensare il
tutto in una chiave originale.
Ma
quando chi legge non è Winnicott, ovverosia un pari, ma un soggetto
in formazione, un figlio?
È naturale che si passi da un processo di identificazione ad una fase
di disidentificazione, da
una crescita osservante e ligia, a momenti adolescenziali di rivolta e
di rifiuto. In ogni caso,
nella trasmissione della vita psichica, ci ricorda ancora Faimberg, è
in agguato l’identificazione
alienante, per cui “il bambino resta assoggettato a ciò che i
genitori dicono o
tacciono” (1993, 143). Il genitore in questo caso verrebbe a perdere
la funzione di facilitatore
nella conoscenza della verità psichica del soggetto e a determinare
il fatto che il soggetto
“in certi momenti, funziona psichicamente nello stesso registro che
è all’origine della
sua identificazione alienante” (ibidem, 145).
La
comunità psicoanalitica è stata fin dall’inizio fortemente
caratterizzata da una struttura familiaristica,
aggregata in modo molto stretto intorno alla figura del padre
fondatore, ma poi
sviluppando il proprio albero genealogico in un intrico così
complesso, che di certe fronde
si è quasi persa la connessione con la radice originaria. Tale
proliferazione, che può
essere alla radice di conflittualità “tribali”, può venire
contenuta, come osserva Petrella (2004),
proprio dalla funzione dell’istituzione e dalla sua relativa
univocità.
La
fantasmatizzazione storico-narrativa, che costituisce la storia
interna e quindi la struttura psichica
dell’analista, si forma sia in funzione delle capacità educative
dei “genitori” analitici che
delle qualità proprie del soggetto.
In
pratica, ogni analista in formazione può divenire una Anna Freud, o
una Jane Freud (ovviamente
prendendo qui queste due figure come estremi metaforici, al di là
della loro complessità
storica reale). Come osserva Barnà (2004, 69), il processo di
interiorizzazione, se
funziona in un ambiente psichico, interno e esterno, sufficientemente
buono, può portare ad
una “plasticità particolare di questa costituzione interiore che, come
la memoria, sarebbe
suscettibile di un’incessante ri-definizione, di una
ricategorizzazione esperienziale”.
È
ovvio che i personaggi della nostra storia analitica - analista
personale, supervisori, maestri
in genere - vengono a sovrapporsi ai personaggi della nostra
preistoria infantile. Si sovrappongono
ma non coincidono ed è proprio questo sfasamento che permette di
costituire un mondo
interno variegato, plastico e permeabile. Gaburri (2004) osserva come
nella situazione della
“famiglia” dell’analista la funzione paterna sia deputata, oltre
che a contenere gli
aspetti preedipici e narcisistici, “a fare la spola tra mondo
interno e mondo esterno”, a
promuovere quindi gli aspetti di disidentificazione e di
emancipazione, facendosi attivamente
da parte, e quindi
scongiurando l’endogamia.
Viceversa
i processi sostenuti dalle identificazioni alienanti possono portare
ad una degenerazione della
famiglia analitica in una “famiglia a stampo mafioso”, per cui “ci
sono allievi/figli tenuti chiusi in casa e fatti con lo stampino”
(Bolognini, 2004, 63), che garantiscono, attraverso
la loro identificazione narcisistica, il supporto narcisistico a “genitori”
che spesso si sentono
investiti del possesso del “verbo” psicoanalitico, riversato in
loro dai “numi” dell’olimpo analitico
personale. Molto spesso assistiamo ad una strana qualificazione degli analisti,
cui viene riconosciuto un valore particolare, perché “ha fatto l’analisi
con X!”. Anche assodato
che X sia effettivamente un analista e maestro di valore, è
chiaramente possibile che
abbia avuto anche degli allievi di basso profilo! Sembra quasi che
essere un buon analista
possa essere una qualità che si trasmette come un titolo nobiliare.
Le
“famiglie a stampo mafioso” (forse una sorta di degenerazione del
"comitato segreto" che
aveva anche delle sue ragioni storiche nel momento in cui Freud lo
volle) si considerano ovviamente
come le uniche detentrici della verità e sottopongono ad ostracismo i
non-credenti e
non-praticanti. Si chiudono in “oasi ecologiche” dove viene
mantenuto lo stato di
natura incontaminato da elementi inquinanti, ma spesso tali oasi hanno
la strana tendenza a
trasformarsi in piccoli (per fortuna) Jurassik Park. In questo senso,
la funzione “delle
istituzioni psicoanalitiche di grandi dimensioni, che certamente hanno
molti e ben noti difetti,
svolgono però una funzione fondamentale come antidoto all’endogamia
teorico-clinica”(Bolognini, 2008, 27).
L’istituzione
psicoanalitica ha tuttavia sempre avuto, anche attraverso varie
difficoltà, la capacità
di mantenere una vitalità di fondo che permette di ovviare a queste
derive. Credo che la
capacità di riconoscere la “nonnità” di Freud, di cui ha parlato
spesso Bolognini (2004,
2008, 2012), possa dare quel carattere di unitarietà originaria all’albero
genealogico psicoanalitico
che garantisca, in linea di massima, un confronto tra diversi sviluppi
di una matrice comune.
Il
percorso formativo dell’analista è stato paragonato da Bolognini ai
percorsi formativi degli artisti
che, passando di bottega in bottega, vanno a formare il loro stile
nuovo e personale. Il
bagaglio teorico e formativo dell’analista può divenire così sia
fonte di una plastica e
continua ricombinazione, e di una continua ispirazione, sia il nostro
più grande oppressore.
“Le
costruzioni teoriche, scriveva Bion, non sono solo ciò che serve a
capire quello che accade:
‘Nella psicoanalisi, la teoria è essa stessa lo strumento di cui ci
serviamo per far accadere
ciò che accade’ (Bion, 1992, 106). In questo senso, le teorie sono
al tempo stesso un
ausilio indispensabile e un ostacolo difficilmente superabile”
(Foresti, 2007, 106). Vale
ricordare quando Winnicott ammoniva a pensare a quanto i nostri
interventi, magari “teoricamente
corretti”, abbiano impedito il cambiamento nei nostri pazienti.
Le
formulazioni teoriche, osserva ancora Bolognini (2004, 65) “non
hanno alcun significato se
non nella misura in cui vengono sostanziati nelle azioni e nella
personalità delle figure da
cui il bambino dipende”. È quindi la capacità di trasmettere e di
apprendere la teoria come
una base su cui poter effettuare infinite variazioni: quella libertà
che hanno certi musicisti di
assumere una base armonica e su questa inventare infinite variazioni
melodiche. Ho usato
questo paragone in quanto la base armonica di un pezzo musicale è
quello meno apparente: un
musicista può essere accusato di plagio se riproduce la melodia, non l’armonia.
Allora
quale può essere l’armonia che è sottesa al pensiero
psicoanalitico, al di là delle diverse melodie
che diversi autori hanno inventato?
Forse
l’inconscio, forse le angosce di base dell’essere umano, forse i
fatti fondamentali della
vita: nascita; creatività dei genitori; morte.
La
qualità della mente nel suo incessante “farsi” mi sembra ben
caratterizzata nella funzione della
memoria, che oscilla continuamente tra l’idea della “fedeltà” e
la necessità della ricostruzione,
tra l’evidenza del mantenere a quella del perdere e che nella sua
plasticità ritrova la
matrice più profonda della creatività, che non è un creare dal
nulla, ma essere capace
di sorprendere con ciò che c’è e che può così divenire
assolutamente nuovo. Il
parallelo che ho proposto tra gli sviluppi della famiglia Freud, e
quello della famiglia psicoanalitica freudiana,
mi sembra che contenga un filo rosso che li lega: è l’allontanarsi
dalla influenza troppo
pressante di un’immagine idealizzata del/i padre/i, e delle teorie
che vengono
transferalmente a rappresentarli, che permette non solo di consentire
una maggiore libertà e
creatività dei discendenti, ma anche di rendere il “testo” del
padre più ricco e visibile
in una sua intima complessità che la lettura idealizzata e priva di
prospettiva appiattisce in
un unico piano. “Ci viene così dato l’esempio di un pensiero che
non teme la contraddizione,
che conosce la relatività delle sue figurazioni ... È questa un’importante
eredità del discorso
freudiano. Ci possiamo chiedere se gli sviluppi della psicoanalisi
hanno sempre rispettato l’apertura
straordinaria di questo pensiero figurativo, la sua capacità di
praticare duttilmente la contraddizione senza perdere la padronanza
del discorso”. (Petrella, 1990,
969).
La
complessità del pensiero freudiano può essere apprezzata grazie a
questo distacco; e d’altro
lato il distacco può permettere ai “discendenti” di utilizzare il
lascito con la massima libertà,
come lo vediamo realizzato nelle vicende dei suoi figli: sono gli
ultimi che riescono ad
avere una maggiore autonomia, ma al contempo sono quelli che riescono
a mantenere un rapporto
più affettuoso con la famiglia d’origine. E’ un fatto comunemente
riscontrato che i figli
dei geni patiscono il peso del confronto e che questo viene facilmente
a compromettere una
libera possibilità di crescita. Spesso questi soggetti riescono ad
allontanarsi dal campo d’ombra
che il gigante stende su di loro e a conquistarsi uno spazio autonomo nella
vita. Ma nel caso della relazione maestro/allievo, tale allontanamento
non può che realizzarsi
attraverso un più faticoso lavoro di individuazione, che deve
elaborare eventuali
idealizzazioni, pur restando, ovviamente, nello stesso ambito. E poi
ci sono i nipoti.
Sigmund
ebbe otto nipoti: a parte i due che morirono in giovane età, solo dei
due figli di Martin non
si hanno notizie, mentre tutti gli altri ebbero vite per lo meno
dignitose, quando non di
successo.
La
possibilità di vivere la figura del nonno come una bonaria presenza,
illustre certamente, ma
connotata dalla affettuosità indulgente che caratterizza i nonni,
sembra aver permesso loro
di potersi allontanare e tornare liberamente alle aree di sua
pertinenza. Anche nel mio
“controtransfert” mi sono trovato a vivere qualcosa di simile:
come dicevo, sentirmi
raccontare un sogno dalla discendente di Freud non mi ha fatto sentire
in una situazione di
soggezione, ma anzi, bonariamente guardato. E l’interpretazione che
silenziosamente mi sono
formulato era piuttosto distante dai parametri dell’ “Interpretazione”
! Credo che questo abbia a che fare con quanto auspicato da Bolognini,
della possibilità degli analisti
di giungere a vivere pienamente la “nonnità” di Freud, in questo
modo al contempo rinsaldando
la tradizione e aprendosi alla propria originalità.
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