Capitolo 6
Condotto egli tra le catene di Tunisi, venne comprato da un dovizioso mussulmano, chiamato Sitbarb Alì,
sposo di una donna assai bella, nata nellíebraismo



I tonnaroti vennero incatenati ai remi senza troppi complimenti, visto che tra i banchi delle galeotte bisertine i posti da rimpiazzare erano tanti. Solo Diego e un paio di compagni vennero legati con corde di canapa, imbavagliati e scaraventati in una stivetta senza aria e né luce.

Il trapanese fu svegliato allíimbrunire da una mano leggera, che gli terse il sudore della fronte e gli porse una brocca con dellíacqua da bere.

- Come state, Diego Martinez ? - chiese un uomo anziano dai capelli candidi ed i modi gentili mentre teneva un fazzoletto premuto contro il naso, nella speranza di attenuare il fetore di quello spazio angusto e mal ventilato.

- A parte un gran bozzo in testa e la nausea per líodore di schifìo che si porta dietro questo legno, non sto male. Sono sicuro che quelli ai remi staranno peggio di me. E voi, dottor Sala, cosa fate qui a bordo? Tutto mi sarei aspettato meno che di trovarvi in questo guscio di noce ingrasciata, disse Diego in un tono che tradiva sorpresa ed avvilimento.

Samuele Sala aspettò un poco prima di rispondere. Si vedeva che si trovava a disagio. Apparteneva ad una vecchia famiglia díebrei trapanesi, per lo più banchieri, esiliati in Africa duecento anni prima dal decreto díespulsione díIsabella di Castiglia. Gente sempre in bilico tra la voglia di vendetta per il trattamento spietato subito dai cattolicissimi sovrani e la voglia di tornare in Sicilia. Così con il passare delle generazioni, nei ricordi dei vecchi della comunità, líIsola era diventata una sorta díaltra Terra Promessa, solo un poí più a portata di mano.

Un giorno líormai anziano medico Sala, approfittando di un breve periodo di tolleranza nei confronti delle comunità ebraiche da parte del nuovo governo borbone di Sicilia, si decise di trasferirsi da Tunisi a Trapani, anche spinto dalla curiosità per i progressi della medicina che dalle terre cristiane ricominciavano a diffondersi in tutto il Mediterraneo. Nella città del sale era stato quasi tre anni ad esercitare come medico chirurgo, dando prova di gran bravura e umanità. Poi, come díincanto, era sparito da un giorno allíaltro, lasciando i pazienti e i tanti colleghi che lo stimavano nella costernazione.

Ora stava lì, in quella stivetta malsana e puzzolente a cercare di dare spiegazioni a Diego sul perché un medico anziano e rispettato andava in giro a fare razzìe con i corsari turcheschi.

Dopo aver messo un poí díordine nei suoi pensieri, Samuele Sala alzò con una certa fatica un boccaporto per fare entrare un poí díaria fresca nella stivetta e disse:

- Mi hanno ingaggiato a Tunisi come interprete, per parlare con i prigionieri e capire chi aveva la possibilità di pagare un riscatto. Voi non siete messo male a denari, se non ricordo male. Vostro nonno, Mastro Tore il corallaro, era un lavoratore valente e qualcosa vi avrà pur lasciato in quel suo continuo affannarsiÖ

- Sono denari già impegnati, il testamento di mio nonno parla chiaro
- E come mai è da tanto tempo che le tenete fermi, questi benedetti soldi ? - chiese il medico.

- Fossi stato mio nonno, sarei riuscito a realizzare i suoi progetti in un battibaleno. Io, non sono né pescatore come mio nonno e né soldato come mio padre. Sono solo un indeciso in un mare di guai, a usare le parole di un grande poeta d'Inglaterra.

- Lasciateli stare i poeti, che non è il momento. Piuttosto cercate di svegliarvi, che chi ha troppe fantasie con i turchi non campa a lungo.

- Voi, piuttosto, comíè che siete sparito da Trapani dalla sera alla mattina? Non vi piaceva lavorare da noi? Mi hanno raccontato che facevate meraviglie con i malati di reumatismi; mentre ora vi trovo qui, in mezzo alla fetenzìa di questa barca di ladri,- ribattè Diego.

- Fosse stato per me, io a Trapani ci sarei restato. Solo che, appena mi ero fatto un poí reputazione e clientela, cíera stata troppa gelosia da parte dei colleghi cristiani. Capii che líaria stava cambiando quando assieme ad un medico milanese, un certo Roncajoli, e al vostro dottor Migliorino, feci una conferenza su come curare ogni sorta di malattia usando abluzioni díacqua fredda. Si tratta di una pratica antica, ma che stavamo adattando ai tempi nuovi, con risultati promettenti. Líaula era affollata di medici venuti da tutta la Sicilia, perfino da Catania e Messina, quando dal fondo una voce gridò: "Via gli uccisori di nostro Signore Gesù Cristo dalla Sicilia. Viva la Santa Inquisizione!"

- Un fanatico, - commentò Diego cercando di allentare la corda che gli segava i polsi.

- No, solo un dottoricchio senza arte e né parte, che voleva sbarazzarsi di un concorrente più valente di lui. Qualche giorno dopo mi giunse voce che líInquisizione stava raccogliendo prove contro di me. Amici fraterni mi consigliarono di fuggire. Così míimbarcai in una notte senza luna su una galera maltese diretta a Lampedusa, per poi tornare a Tunisi più povero e amaro di quando ero partito. Adesso mi trovo qui, a cercare di pagare i debiti contratti seguendo quel malaugurato istinto di tornare nella terra dei miei avi, in Siquilliyyah.

- Eí così che gli arabi chiamano la Sicilia?

- Si, ed è meglio che anche voi vi abituate a chiamarla così. E questi, invece, li conoscete? - chiese il dottor Sala indicando gli altri due prigionieri legati e imbavagliati accanto a Diego.

- Li conosco di vista, ma non so i nomi. So solo che sono tonnaroti originari di Paceco. Uno sa suonare il mandolino; líaltro invece è un tipo di poche parole, ma fortissimo lavoratore.

- Come vi chiamate? - chiese il dottor Sala togliendo il bavaglio al prigioniero indicato come suonatore di mandolino.

- Anche yò mi chiamu Diego. Diego da Paceco. E chistu vicinu a mia è l'amicu meo, si chiama Peppe Masso. Eí un omo forti comu 'na roccia, che è un omo forti comu 'na roccia, - aggiunse indicando con orgoglio il bicipite dellíamico.

- Vedo, - disse il medico. Poi porse la brocca con líacqua ai due tonnaroti, che la svuotarono in un attimo.

- Ci state portando a Biserta? - chiese il pacecoto.

- Il resto delle galere andrà a Biserta, mentre noi andremo a Tunisi, dove sarete venduti al mercato.

- Come bestie da soma? Come sacchi di carrube da infornare? -protestò Diego Martinez.

- Usanza de mar, Diego, è questa la tradizione, - disse il medico allargando le braccia.- Anche i cristiani fanno la stessa cosa con gli altri.

- Sempre meno, però. Incatenare dei disgraziati ai remi e non lasciare spazio per il carico è cosa da scimuniti. Con un veliero ben costruito si vola sul mare senza sofferenza e si trasportano montagne di mercanzìe.

-In Barberìa la quistione è un poí più complicata. Mancano le banche.

- E perciò?

-Quando qualcuno ha troppi soldi in casa, non li porta in banca, come da voi. O li nasconde da qualche parte, o compra uno schiavo. Così come certi contadini cristiani usano i porci come salvadanari, qui in Barberìa usano gli schiavi cristiani o neri come depositi delle loro sostanze.

-E le custodiscono bene, queste loro sostanze? - chiese Diego.

-Alcuni bene, altri in modo insensato, proprio come da voi si fa con i soldi. Solo che i soldi, a differenza degli schiavi, non soffrono, o per lo meno non si esprimono.

- Si sintìvi beni, pensu chi semu in un mari di vaiÖ chi semu in un mari di vai, - commentò sconsolato il pacecoto, la cui curiosa abitudine di ripetere spesso le ultime parole di una frase, come a rafforzarne il significato, era nota a tutti nel paese d'origine.

Peppe Masso invece taceva. Dallo sguardo concentrato in un punto della stivetta e dalla tensione che gonfiava la massiccia, armonica muscolatura, si poteva immaginare che se per caso la corda che gli serrava i polsi si fosse allentata, avrebbe fatto saltare in aria a suon di cazzotti tutto il fasciame, le serrette, gli staminali e i boccaporti di quella galera fètida tenuta assieme dalla pietà celeste di qualche marabutto da quattro tarì.

Il dottor Sala osservò Peppe per un poí, soffermandosi sui glutei e sugli addominali. Quindi si rivolse di nuovo a Diego:

-La libertà non ve la posso garantire, ma ci sono buone probabilità che nessuno di voi tre finisca incatenato ai remi. Mia cugina Rachele è sposata in Tunisi ad un uomo molto ricco e pio. Se riesco a farvi comprare da lui, per voi la cattività sarà meno penosa di quanto non accada con tanti altri. Non saprei, però, come riuscire a far comprare da Alì il suonatore di mandolino, - aggiunse il medico osservando pensoso il pacecoto e notando per la prima volta una certa somiglianza fisica del tonnaroto musicante con Diego Martinez.

Ambedue i captivi erano infatti di statura media e fisico asciutto. Se non fosse stato per il viso più bruno e affilato del pacecoto, oltre che per la differenza di una buona ventina di anni d'età, i due si sarebbero potuti confondere per figli di una stessa madre.

- Oltre che a suonare, Diego il Pacecoto è bravo anche a lavorare il corallo, - continuò Martinez.

- Questo vostro compagno di cattività ha curiose qualità che non mi aspettavo in un tonnaroto, - osservò Samuele Sala.

- U fattu è chi avìa tempu chi mancava corallo da travagghiare, chi mancava corallo da travagghiare, e così avìa pinsato di fari la stagione in tonnara, picchì la paga era bona, chi la paga era bona. Cangianno discorso, in Barberìa si trovano i mandolini? - chiese Diego il pacecoto.

- Proprio mandolini no, ma qualcosa del genere si può pure procurare. Dipende dalla musica che vorranno ascoltare i vostri padroni. In Barberìa, però, nella vostra condizione, più che suonare bisognerà stare attenti a non essere suonati, - spiegò con pazienza Samuele Sala. Quindi aprì una borsa da medico che aveva portato con sé e ne estrasse una fiala di vetro contenente un liquido lattigginoso. Lo agitò e poi, cominciando da Martinez, lo passò con del cotone sotto le palpebre dei tre cristiani. A quel punto fece loro aprire le bocche e passò lo stesso liquido acidulo e un poí nauseabondo sulle gengive dei tre prigionieri.

- Che schifìo è? Ci state avvelenando? - chiese il trapanese allarmato.

- Lattice d'eufòrbia, - rispose il medico, tranquillo. Poi aggiunse: - Nelle prossime ore vi si gonfieranno palpebre e gengive, ma fra cinque o sei giorni sarà tutto finito. Fidatevi, è per il vostro bene.

Come il dottor Sala sollevò il boccaporto per uscire dalla stivetta, si sentì per un attimo aria pulita di pini e ginepri: la galera stava costeggiando le ultimi propaggini dellíAtlante del Tell, a poche ore di remo da Tunisi.

Quando, nella tarda mattinata del giorno dopo, lo scafo corsaro mise la prua verso le mura della città, un forte, opprimente vento di scirocco misto a sabbia si era messo a sferzare la laguna, rendendo ancora più penoso lo sforzo degli uomini incatenati ai remi. Soffocati dal caldo e dalla poca aria che circolava nella stivetta dove erano tenuti prigionieri, Diego Martinez ed i suoi compagni avevano già il viso tumefatto e le gengive gonfie ed irritate. Il preparato tossico del dottor Sala stava facendo i suoi effetti.

Dopo aver navigato il canale melmoso che congiunge la laguna alla città, la galera attraccò al molo, privo della solita folla di scaricatori di porto, guardie del Bey, mercanti in cerca di buoni affari e perdigiorno che accoglieva di solito le navi corsare al ritorno dalle razzìe nelle terre dei cristiani. Complice il caldo spietato e la notizia della magra preda che aveva preceduto líormeggio dei bisertini, sul molo stavano pochissime persone, per lo più schiavi cristiani in avanzata età, e quindi un poí più liberi di muoversi, venuti a raccattare notizie sui loro luoghi di origine.

Passarono la prima notte in uno dei cinque bagni presenti a Tunisi in quel periodo per il confinamento degli schiavi. Erano gruppi di edifici al cui interno la vita si svolgeva con regole spietate, a metà strada tra una prigione per debiti inglese ed un campo di prigionia per lavoratori forzati. Chi dimostrava di avere la possibilità di far pagare un riscatto dai familiari, vi rimaneva segregato sino a quando non sarebbero giunti i denari per la liberazione. Gli altri prigionieri, invece, venivano messi all'asta e, se acquistati, sarebbero andati a vivere presso i loro padroni. Il resto degli schiavi, i più sventurati, sarebbero rimasti proprietà pubblica dello stato corsaro come beylik: gravati da ceppi e catene di dimensioni spropositate, avrebbero diviso il resto dei loro giorni tra lunghe, crudeli ore di lavori forzati e la lurida, violenta promiscuità del bagnio.

Destinati alle aste dei giorni successivi, a Diego Martinez, Peppe Masso e Diego da Paceco vennero applicati dal fabbro del bagnio pesanti anelli di ferro alle caviglie destre, sotto lo sguardo aggressivo e compiaciuto del comandante della prigione, il Pascià Guardiano, che rivolto al fabbro commentò cosi' lo stato dei tre siciliani:

-Mirar bono, mercantzia non piacer: beylik!

Al che il fabbro, scoppiando in una fragorosa risata, per poco non aveva mollato una martellata sul piede di Peppe Masso, evitando all'ultimo momento conseguenze spiacevoli sia per lui che per il cristiano che stava incatenando. Un po' più avanti nel tempo, quando i tre avrebbero imparato le prime espressioni in lingua franca, avrebbero capito il motivo di tanta ilarità da parte del Pascià Guardiano: lo stato pietoso di Diego e dei due tonnaroti aveva fatto ritenere al comandante del bagnio che quei tre poveracci sarebbero rimasti invenduti e riportati da lui come beylik da vessare e perfino seviziare.

I tre dormirono in una camerata separata da quello dei beylik, anche perché gli aguzzini non volevano che quel piccolo lotto di schiavi in loro consegna perdesse ulteriormente valore. Líindomani mattina, di buonora, i siciliani vennero condotti dentro le mura di Tunisi, dove furono fatti sfilare seminudi nelle vie prospicienti il mercato. Il rituale si ripetè per altri due giorni, accompagnato dai lazzi dei mocciosi che seguivano schiavi, sorveglianti e banditori, e dagli umilianti palpamenti dei potenziali acquirenti. Alcuni di questi osservavano con attenzione le palme delle mani di Diego e dei tonnaroti, cercando di leggere nellíintrico delle linee la lunghezza della vita dei tre cristiani offerti in vendita; altri, invece, ficcavano loro le dita in bocca per vedere la robustezza dei denti, molto utili nel caso di un lucroso noleggio degli schiavi ai comandanti di galere a corto di rematori.

Il quarto giorno Diego Martinez e i due tonnaroti vennero fatti salire sul palco di legno posto nel mezzo del Souk el-Berka, líantico mercato degli schiavi, poco distante dalla Grande Moschea dellíUlivo, per dare inizio allíasta che avrebbe deciso il loro destino.

Le facce tumefatte dei tre malcapitati non attirarono molti acquirenti, per cui fu facile a Sitbar Alì, pio sposo di Rachele Sala, tornarsene a casa con Diego Martinez, Diego il pacecoto e Peppe Masso, acquistati tutti assieme per pochi zecchini dopo che il funzionario del Bey, che per consuetudine aveva la precedenza nell'acquisto di tutti gli schiavi messi allíasta, aveva mostrato il suo prevedibile disinteresse per quel lotto malconcio di cristiani dai visi gonfi e le gengive tumefatte.

A casa di Sitbar i tre trovarono la padrona assieme al medico Sala suo cugino, che li fece lavare e mettere a riposo per un giorno nelle stanze della servitù, dopo aver applicato sulle loro palpebre olio di mandorle dolci.

Mentre Diego Martinez, il pacecoto e Peppe prendevano confidenza con i nuovi spazi in cui la cattività li aveva confinati, Sitbar, la moglie Rachele e Samuele discussero sul futuro impiego dei servi appena acquistati. Fu facile per medico convincere Sitbar ad impiegare Martinez in una botteguccia dove lavorare il corallo, assistito da Diego da Paceco. Per Peppe, invece, líimpiego cui fu destinato fu piuttosto inusuale nella sua sconciastra peculiarità.

Il giorno dopo i tre furono condotti da Samuele Sala vestiti dei panni che i cristiani in cattività erano tenuti ad indossare: camicie dalle ampie maniche, senza polsini o colletti, braghe larghe alla turchesca e un copricapo di colore rosso. A parte il ferro applicato alla caviglia dal fabbro del bagnio, i due Diego e Peppe non trascinavano catene.

Dopo averli salutati, Samuele Sala constatò con soddisfazione che le palpebre e le gengive dei tre erano guarite dall'effetto tossico dell'eufòrbia. Quindi l'anziano medico cominciò a parlare, a bassa voce:

- Sentitemi bene. Voi, Martinez, con l'aiuto di Diego il pacecoto, comincerete stamattina a lavorare il corallo in una botteguccia non distante da qui, di proprietà del marito di mia cugina Rachele, il ricco e pio Sitbar Ali' vostro padrone. In bottega gli attrezzi ci sono già. Per il corallo, dovete pensarci voi a trovarlo.

- Dove, in mare? - chiesero i due captivi, all'unìsono.

- No, sui muri, - rispose serio il medico. Poi, guardando Martinez, precisò: - Se gli affari andranno bene, potrete avere dei denari da tenere per voi e magari ricomprarvi la vostra libertà. Se andranno male, vi aspetta il remo, perché Sitbar ci tiene a far fruttare bene i suoi soldi. Più di questo non sono riuscito ad ottenere.

- E per Peppe Masso cosa avete pensato? -chiese il trapanese aggiustandosi in testa il copricapo di feltro rosso.

Andrà in una fattoria dalle parti del fertile Ras at Tib. E' una landa fresca e ben coltivata. Dalla cima del promontorio, nelle giornate terse d'inverno, talvolta il vostro amico potrà scorgere la sagoma di Monte San Giuliano e della costa di Siquilliyyah.
- Lavorerà la terra?

- In un certo senso. Di sicuro seminerà, - rispose il vecchio sorridendo.

Tornati nella loro stanza, i tre non ebbero molto tempo per scambiarsi le loro impressioni. Rompendo un silenzio lunghissimo, Peppe Masso, pronunciando le parole molto lentamente, com'era sua abitudine, chiese a Martinez:

- CosaÖ faranno di miaÖ mastro Diego? Dicitimillo vuiÖ chi sapìte léggiriÖ e scrìviri. Cu la mia 'gnoranzaÖ la cunfusioniÖ 'ntesta è forti.

Dal tono della domanda, Diego capi' che doveva inventarsi una risposta che desse non solo a Peppe, ma anche all'altro pacecoto quel filo di speranza senza la quale la disperazione e forse anche la perdita di senno avrebbero preso il sopravvento. Decise di mettere da parte la sua abituale tendenza alla seriosità e attinse spudoratamente alla fantasiosa teologia popolare di cui si nutrivano i marinai e pescatori della sua città:

- Il nostro futuro è scritto in un libro che non riesco a leggere bene con la luce del giorno, - disse Martinez. Poi proseguì:- Di notte, invece, le pagine mi diventano più chiare e la scrittura più netta. Una cosa è certa: entro tre anni, o con i nostri piedi o dentro una bara, noi usciremo da Tunisi. E senza catene ai piedi. Da quando siamo stati presi dai turchi, ogni notte sogno la Madonna di Trapani. E' bella, bianca come la neve, e mi sorride con quel suo sorriso curioso che conoscete. Sorride sempre, la Madonna di Trapani, e non è sempre che si capisce il perché, - aggiunse Diego, a corto d'ispirazione. Poi, ripensando alla sognante e strampalata teologia di cui il Cuoco Miccione aveva dato sfoggio durante la sua lunga vita di credente folligno e mattacchione, prosegui': - La Madonna, che perfino i turchi di Barberìa hanno in gran rispetto, mi ha chiesto con insistenza che ogni giorno, all'alba e al tramonto, le recitiamo tre Ave Maria. Poi, e questo è successo proprio questa notte, si è presentata con un santo con la barba ed un bastone.

- Santu Patri? - chiese Diego il pacecoto.

- No, un santo ancora più potente, con rispetto parlando. Un santo navigatore e viaggiatore che ci potrà essere di grande aiuto: pensate che ha la forza di fare spirare i venti nelle direzioni chieste da chi lo invoca. Si chiama San Nicola, e nel sogno mi ha ricordato che da Tunisi a Trapani ci sono solo ottanta miglia, e che con un poco di libeccio è un gioco da piccirilli tornarsene a casa. Mi ha guardato con un sorriso un po' antipatico, quasi di sfida, e mi ha assicurato che se entro tre anni non ci ingegniamo a tornare nelle terre dei cristiani, lui andrà a riferire a tutti i santi del cielo quanto scimuniti siamo. La Madonna di Trapani, come sempre, sorrideva ed annuiva. Prima che mi svegliassi la Madonna mi ha raccomandato di nuovo di non scordarmi le tre Ave Maria, all'alba e al tramonto.

- Il sogno era curiusu, chi era curiusu. Ma voi che gli avìte risponnuto?- chiese ancora il pacecoto.

- Con i santi non si parla. Si ascolta, ed al massimo poi si scrive cosa hanno detto, magari per riferirlo ai credenti.

- A propositu, di chi religgioni è la nostra patruna? E' una gran bedda fimmina, che è una gran bedda fimmina. Sapìti perchì vi lu dico? Ieri mi taliava strana, chi mi taliava strana. Turca non pò esseri, chi li turche sono riservate assai.

- Le turche sono riservate in strada; in casa invece la cosa cambia, e di tanto. Quanto alla nostra patruna, deve essere ebrea di nascita, se è vero che è cugina del medico Sala. Per potersi sposare con il nostro patruni, di certo prima si converti' al cristianesimo e poi si fece turca. Cosi' vuole la legge dettata dall'Alcorano. La patruna ti guardava in maniera strana perché tu, come tutti noi, avevi la faccia gonfia come una minchia marina, - spiegò Martinez irritato. - In ogni caso ? aggiunse, - stai molto attento con le femmine dei musulmani. Se un servo cristiano viene trovato a giacere con loro, prima di ammazzarlo i turchi lo fanno pentire di essere nato. I roghi dell'Inquisizione, orribili e puzzolenti per quanto siano, diventano acqua frisca rispetto a come i turchi bruciano vivi i cristiani che sgarrano.

- ComuÖ fanno?

- Legano il disgraziato al palo, poi gli mettono attorno tante piccole fascine a cui danno fuoco tutte assieme. Con calma, senza prescia. Così anziché bruciato, il cristiano viene arrostito vivo, a fuoco lento.

- Si capisci chi hannu tempu di pérdiri, chi hannu tempu da pérdiri,- commentò Diego il pacecoto.

- Perciò, mi raccomando, occhio a donna Rachele, che se non stiamo attenti a come ci muoviamo, qua finiamo arrostiti come sgombri marinati, - disse Martinez volgendo lo sguardo al giovane pacecoto e sottolineando le ultime parole con l'indice appoggiato sotto l'occhio destro, gesto che invitava ad uníattenzione vigile e lesta .

Il giorno dopo i due Diego furono accompagnati di buonora nel Souk degli Orafi, poco distante dalla Grande Moschea. Era lì che sorgeva la botteguccia in cui Giosuè Sala aveva lavorato argento e coralli sino alla fine dei suoi giorni. Lasciato in eredità a Rachele, quel bugigàttolo buio e polveroso, pieno di attrezzi consunti dall'uso e di lavori lasciati a metà, aspettava nell'arrivo dei due cristiani l'occasione di tornare in attività.

Sorvegliati a vista da un anziano schiavo di origine corsa, sdentato e male in arnese, i siciliani furono legati con lunghe catene ai banchi da lavoro e cominciarono a darsi da fare con dei rametti di corallo da sgrossare. Poi, seguendo le istruzioni di Diego Martinez, il pacecoto si mise a levigare e forare cilindretti di corallo per farne una filza da preghiera; il nipote di Mastro Tore, invece, trovato tra gli utensili del vecchio Giosuè un bulino, cominciò a incidere il prezioso materiale alla maniera dei trapanesi. Ispirandosi ai lavori lasciati in sospeso ed ai modelli su carta presenti in bottega, Martinez sbozzò dal corallo forme di pesciolini, stelle a cinque e sei punte e mani di Fatima che ornò delle fini incisioni geometriche e floreali tipiche dellíarte magrebina.

Alla fine della giornata, ricondotti a casa di Sitbar Alì, i due mostrarono con orgoglio ai loro padroni diversi ninnoli che il giorno dopo sarebbero stati venduti con profitto da un commerciante amico di famiglia.

Ben diverso era stato invece il modo in cui Peppe Masso aveva passato la giornata. Fatto accomodare in una stanza fresca e tranquilla, per líintera mattinata si era rimpinzato di dolci al miele e sesamo e biscotti farciti di fichi e datteri che gli erano stati forniti su un vassoio di rame da una serva dal sorriso ammiccante. Poi, nella tarda mattinata, era giunta Rachele, che aveva salutato brevemente il tonnaroto in un siciliano quasi incomprensibile ed aveva cominciato ad osservarlo con divertito interesse, ammirandone il vigore delle membra. La moglie di Sitbar Alì era accompagnata da una serva anziana ed aveva il viso scoperto. Si presentava come una donna bene in carne di una trentina díanni, con grandi occhi color nocciola ed un sorriso accattivante di bambina curiosa. La pelle, bianchissima, suggeriva che aveva trascorso gran parte della vita totalmente al riparo dal sole, lusso che solo donne molto ricche potevano allora permettersi.
 
 



Per un poí Rachele stette a guardare Peppe che mangiava, quindi gli fece portare dalla serva una brocca con dellíacqua fresca per stemperare il dolce eccessivo e stucchevole di quella inaspettata colazione e lasciò lo schiavo senza dire una parola. Il mistero di quellíinaspettato trattamento a Peppe glielo spiegò il dottor Sala:

- Tra poco vi condurranno, come vi ho già detto, a Ras at Tib, quello che voi chiamate Capo Bon. Lì un conoscente berbero del vostro ricco e pio padrone, Sitbar Alì, ha una fattoria con giardini di aranci e mandarini. Vi starete alcune settimane e sarete ben nutrito.

- A fariÖcosa? ? chiese Peppe.

- Ad accoppiarvi con delle giovani donne che vivono nella fattoria. Hanno la pelle colore dellíebano e, credetemi, alcune di loro sono bellissime. State attento, però, a non svuotarvi troppo. Non sempre datteri e latte di cammella aiutano a rimettere in sesto persone troppo debilitate.

- YòÖ haiuÖa viviriÖ comu un toruÖ in una stadda ? ? chiese il tonnaroto dopo una lunga pausa di silenzio.

- No, vivrete in un harem; solo un poí più alla buona di quello dove giace il Bey di Tunisi o il Pascià degli Ozman. Di meglio non sono riuscito ad ottenere per voi. Avreste forse preferito essere incatenato a un remo di galera ?

- Vi lu dicuÖ dopu chi tornuÖ da Capo Bon, - rispose più confuso che persuaso il tonnaroto.
 






Peppe giunse alla fattoria di Mustafà Ayd al tramonto del giorno successivo. Nellíultima parte del viaggio, avvicinandosi a Capo Bon, ebbe modo di vedere orti ben coltivati e frutteti di agrumi e melograni circondati da alte palme piantate per frangere i venti impetuosi che spesso spirano nella regione. Appena arrivato nella proprietà del ricco berbero, il tonnaroto venne lavato e profumato da giovani donne dalla pelle nera; quindi rifocillato ancora con datteri, mandorle, sesamo e pistacchi. Poi venne condotto in uníampia camerata cosparsa di materassi e cuscini di cotone grezzo e lasciato in compagnia di due donne poco più che ventenni, seminude e un poí spaventate dallíarrivo dello straniero.

Quando la pesante porta di quel rustico harem si chiuse dietro le sue spalle, Peppe cercò di capire il da farsi. Stanco del viaggio e confuso dagli incredibili cambiamenti che si erano verificati nella sua vita nel giro di pochi giorni, al cristiano non rimase che recitare a bassa voce le sue tre Ave Maria e sdraiarsi sul primo giaciglio che vide, confidando nel fatto che già era trascorso diverso tempo dal crepuscolo e che dalle finestrelle della camerata non filtrava più luce. Le due ragazze che si trovavano nella stanza, rapite qualche tempo prima da un villaggio al di là del confuso confine di sabbia tra il Maghreb e líAfrica nera, tenendosi per mano un poí per infondersi coraggio, si erano pure disposte a dormire, quando la porta si aprì ed irruppe una giovane mulatta con una torcia accesa in mano. Era slanciata e robusta e oltre che per un sorriso che scopriva denti candidi e ben curati, si faceva notare per degli splendidi occhi di un blu indaco, risultato di un accoppiamento ben riuscito tra uníafricana ed un europeo. La ragazza guardò Peppe con interesse, e sorridendo lo salutò:

-Bon dgiorno, signor!

-E bbonaÖ sira, - rispose Peppe, con la voce impastata dal sonno.

-Nombre de mi Kahina. Y nombre de ti?

-NombreÖde miÖPeppi.

-Di que paise star? Star francìs, nabolitàn, esbagniòl, toscàn, moskovìt, danés, suedés ? ? chiese la ragazza, più che altro per il piacere di pronunciare il nome di quelle nazionalità dai suoni per lei così particolari.

-Mi starÖ deÖSicilia.

-Star bono akì?

-Non tanto.

-Dispiacer mucho per mi, - rispose la ragazza, che si destreggiava

bene nella lingua franca dei porti di mare. Poi aggiunse: - Ora fazir amòr, foki-foki. Bisogna fazir accussì, ? spiegò, introducendo il mignolo destro tra il pollice e líindice della mano sinistra posti ad anello e facendoli scorrere avanti e indietro, per sottolineare in maniera inequivocabile di cosa stava parlando.

Poi aiutò Peppe a togliersi camicia e brache e quindi, rivoltosi alle due africane in un dialetto incomprensibile, le invitò con un sorriso per nulla malizioso ad avvicinarsi al cristiano. Dopo che le due giovani si furono accostate al tonnaroto, la mulatta spense la torcia e si accoccolò su dei cuscini poco distanti, aspettando che la vicinanza di quei corpi seminudi sortisse líeffetto desiderato.

Quella notte il tonnaroto dormì bene, essendosi Kahina limitata a pretendere solo un amplesso e avendolo lasciato in pace dopo quella prima, timida eiaculazione coatta. La mattina dopo, di buonora, Peppe venne svegliato e condotto ad un pozzo scavato nella corte della fattoria, dove gli fu chiesto di lavarsi per bene per togliersi di dosso il sudore e gli umori di quellíinaspettato incontro notturno con le schiave nere. Quindi fece colazione a pane e olive e bevve anche latte di capra addolcito con miele, sotto lo sguardo sorridente e perfino affettuoso di Kahina, che per la sua giovane età dimostrava di saper gestire con discreto giudizio le curiose pratiche riproduttive della fattoria.

Per due settimane Peppe Masso fu fatto incontrare con tre diverse donne al giorno: una al mattino, líaltra nel tardo pomeriggio e la terza prima di addormentarsi, stanco ma non troppo, tra i cuscini di quello strano harem.

A volte, tra un giacere e líaltro, riuscì a scambiare qualche parola con Kahina, da cui apprese che in quella fattoria era da più di tre lustri che si allevavano mulatti, e che i suoi fratelli, tutti alti e robusti come lei, erano imbarcati nelle galere, molto apprezzati per la non comune resistenza alla fatica e alle malattie.

Via via che i giorni passavano, il tonnaroto non mancò di riflettere

sulla sua condizione di procreatore di esseri destinati alla schiavitù, così come i buoi che vedeva nei campi vicini alla fattoria venivano al mondo per essere aggiogati allíaratro. Arrivò perfino a chiedersi se vivevano meglio loro, macellati dopo anni di lavoro, o i maiali che, qualche decina di miglia più a nord, nelle terre dei cristiani, venivano fatti nascere al solo scopo di farli finire sotto il coltello del beccaio. Così, come di giorno rimuginava spesso sulla vita degli animali dei campi, di sera, prima di addormentarsi, pensava quasi sempre al mare ed ai suoi esseri, le cui esistenze avrebbe voluto imitare. Allora nella mente gli si formavano immagini di pesci per lo più grandi ed argentei, che migravano lungo rotte misteriose per raggiungere luoghi freschi e lontani dove andare a sgravarsi delle uova o del lattùme che inturgidivano i loro ventri. A volte, nelle immagini che scorrevano nella mente del tonnaroto, così come nella realtà, i pesci finivano arpionati oppure ammagliati nelle reti; oppure, più spesso, erano divorati dai loro simili. Ma prima che ciò avvenisse, se mai succedeva, quelle creature libere e silenziose avevano avuto modo di viaggiare in spazi pressoché infiniti, seguendo le spinte delle correnti o le rotte suggerite dalle diverse temperature di quellíimmenso mondo fatto di riflessi verdi e blu.

Un mattino, già più di una settimana dopo il suo arrivo alla fattoria di Capo Bon, Peppe chiese alla mulatta:

-Ove star patruni?

-Patruni in Ifriqiya, - rispose Kahina con il suo sorriso di sempre.

-IfriqiyaÖ akì, - protestò Peppe, un poí confuso.

-Akì Maghreb. Patruni in Ifriqiya. In Ifriqiya a far provista de merkantzia, merkantzia por ti.

La mercanzia cui si riferiva la mulatta giunse alla fattoria di lì a pochi giorni, quando arrivò una piccola carovana preceduta dal cammello di Mustafà Ayd e chiusa da un gruppo di una trentina di giovani donne dalla pelle scurissima legate a due a due per le caviglie. Erano sfibrate dalla lunga marcia a piedi, che le aveva portate dai villaggi dellíaltipiano del Djiado, nel lontano Niger, dove erano state rapite, alle rive del Mediterraneo.

Il ritorno nella fattoria di Mustafà, settantenne segaligno dallo sguardo rapace, coincise con un repentino peggioramento della vita di Peppe, tolto dalle cure della giudiziosa Kahina e consegnato ai ritmi disumani del padrone, che pretendeva dallo schiavo incontri con quasi una dozzina di donne al giorno. Ammirato dalla robustezza un poí belluina di Peppe Masso, il fattore, complice líetà, ne aveva sovrastimato le possibilità di accoppiamento, confondendo un tonnaroto con un torello nel pieno delle sue forze. Sembrava che la sua mente, un poí annebbiata dai lunghi viaggi attraverso la spazialità violenta del deserto, confondesse gli ardori insoddisfatti da lui sperimentati in gioventù con un improbabile, irrefrenabile desiderio che a suo parere avrebbe dovuto accendersi nel povero cristiano al momento in cui questi veniva messo in contatto con la decina e passa di giovani donne che era tenuto ad ingravidare.

Nascosto dietro un foro praticato su un muro dello stanzone che fungeva da harem, Mustafà Ayd si accarezzava la barba sudaticcia mentre osservava gli approcci sempre più incerti tra Peppe e le ragazze del Niger che gli venivano messe a giacere al fianco.

Col passare degli anni e il progredire di una precoce demenza senile, il beduino si era convinto che negli uomini fosse insita, sempre ed in ogni occasione, un'insopprimibile voglia di accoppiamento. Opinione rafforzata, nel caso suo, dalla irresistibile capacità di seduzione che le donne dellíAfrica nera, condotte a decine in catene a Ras at Tib, credeva avessero.

Alla giudiziosa Kahina, che cercava di farlo ragionare e di moderare le crescenti attese sui frutti del suo allevamento di mulatti da galera, Mustafà si lisciava la barba e, con sguardo folligno, rispondeva sempre allo stesso modo:

- Lo dice la tradizione, lo dicono gli anziani di senno: "il maschio è violento e la donna è perversa; quando giacciono assieme, succede come il fuoco accanto allíesca". E se così non fosse, tu non saresti mai nata, e non saresti qui ad annoiarmi con le tue ciance, che sia maledetto il giorno in cui quello schiavo brèttone ingravidò la donna che ti partorì!

Pochi giorni dopo il ritorno di Mustafà, Peppe divenne preda di una stanchezza che le cure di Kahina non riuscirono ad alleviare. Perfino líidea di Mustafà Ayd di aggiungere alla dieta del cristiano purea di fave condita con burro di latte di cammella e pasta di peperoncino non sortì alcun effetto. Il tonnaroto riusciva a malapena a tenersi in piedi, e fu solo grazie ad un'improvvisata lettiga trasportata da robusti braccianti che Peppe poté trascorrere poche ore di pace in riva al mare, insieme ad alcune donne ingravidate dal cristiano che lo aveva preceduto nella fattoria. Parlò un poí anche con Kahina, che gli si accoccolò accanto ad ascoltarlo e a dirgli brevemente dei suoi progetti.

Ragazza sveglia e curiosa, non aveva alcuna voglia di fare per tutta la vita líallevatrice di mulatti. E poi la veloce, inquietante senescenza del proprio padrone la preoccupava non poco. Da un momento allíaltro temeva che Mustafà Ayd facesse qualche violento, crudele gesto inconsulto di cui lei sentiva ne avrebbe fatto per prima le spese. Voleva andare via Kahina, magari al di là di quel mare che stava ammirando assieme allíennesimo cristiano condotto a Capo Bon a pagare il pegno per la propria prestanza fisica.

Dopo quel cristiano con cui stava cercando di imbastire quella bozza di dialogo, altri ancora sarebbero venuti, per poi essere allontanati magri e svuotati come acciughe dopo la stagione degli amori. E tutto questo perché Mustafà Ayd potesse continuare a fornire di mulatti i remi delle galeotte di Tunisi.

Mentre il sole stava tramontando, la ragazza si avvicinò ancora un po' a Peppe e gli chiese a bassa voce, guardandolo fisso con i grandi occhi colore dellíindaco:

-Mi tenir piacer conoscir pais de ti. Andar syeme syeme?
- Cuando? ? chiese Peppe, prima che una violenta sferzata data da un sorvegliante lo colpisse alla nuca, facendogli volare via mezzo dito di pelle e provocando lo scorrere di un rivolo di sangue lungo la schiena.

Non andò meglio a Kahina che, avvicinatasi a tergere il sangue dalla nuca del tonnaroto, si prese da un altro sorvegliante appena accorso una violenta pedata che la scagliò sulla sabbia a piangere lacrime di rabbia. Passò del tempo prima che Peppe avesse la forza di alzarsi e fare alcuni passi incerti verso il bagnasciuga. La spuma salina abbandonata dalla marea ebbe appena il tempo di lambire i piedi del siciliano: dopo pochi passi líuomo si ritrovò svenuto, con la parte inferiore del corpo sulla sabbia e la faccia a mollo nellíacqua salata. Solo la prontezza di riflessi della ragazza evitò che il cristiano affogasse in un dito di acqua di mare.

La mattina dopo Peppe, assicurato al basto di un mulo con la precarietà con cui si rizza un sacco mezzo vuoto, venne riaccompagnato a Tunisi da un paio di uomini di fiducia dellíallevatore berbero. Con loro viaggiavano altri muli carichi di datteri, melograni, limoni e verdure appena colte, assieme ad una certa quantità di avorio grezzo, a compensare il pio Sitbar Alì per lo stato di forte debilitazione con cui gli veniva reso lo schiavo da poco acquistato.

A Tunisi Peppe Masso apprese che nemmeno i suoi compagni stavano vivendo giorni tranquilli.
 
 

Capitolo 7

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