Inverno 1744

Venne Natale, e il pio Sitbar Alì, rispettoso del cristianesimo e dei suoi riti così come lo era stato il Profeta, concesse a Diego Martinez e Peppe Masso di partecipare alla funzione religiosa che si celebrava fuori le mura di Tunisi, poco distante dal più grande dei cinque bagni allora in uso. Lì sorgeva la chiesa di SantíAntonio, accanto alla quale era annesso il cimitero dove riposavano i cristiani, captivi o liberi, a cui era capitato di morire in quella popolosa città corsara. I due presero posto in fondo alla chiesa, accanto a Mickil e Pad, che per líoccasione portavano al collo rudimentali collane di cuoio da cui pendevano piccole croci fatte dello stesso materiale; avevano una forma tutta diversa dalle altre croci viste sino ad allora da Diego e Peppe, ed erano colorate di smalto verde. Fu alla fine della messa, mentre tutti i presenti si abbracciavano per scambiarsi líaugurio di passare il Natale successivo liberi dalle catene, che Diego Martinez passò a Pad un foglio di carta ripiegato in otto con dentro un pezzetto di carboncino da disegno. Quando, tornato a casa, líirlandes aprì il foglio, in alto vi era scritto:

sabir far barco irlandes pìcolo ?

Pad non capì nulla del messaggio, provenendo da una comunità in cui la scrittura non era praticata, eccezion fatta per alcuni chierici di alto lignaggio che scrivevano solo in latino. Così qualche giorno dopo, quando Diego ebbe indietro il foglio dallíirlandes, scoprìcon stupore e delusione che anziché lo schizzo di un carrach di legno e tela catramata Pad vi aveva abbozzato il disegno di un villaggio a picco sul mare, con tanto di chiesetta dal campanile arrotondato e pizzuto come uno scalmo di remo, e pecore che vi pascolavano attorno.

Ci vollero diverse settimane e tanti dialoghi smozzicati e confusi ritagliati nella breve pausa per il pranzo, prima che Diego riuscisse a spiegare ai suoi compagni dai capelli rossi e le braccia robuste come clave quello che voleva da loro. Nel frattempo il veliero di mastro Piet, a metà strada tra un piccolo galeone nordico ed una fleuta olandese, prendeva forma, ed era bello assai.

Lungo quasi venti braccia e largo circa un quarto, aveva le proporzioni giuste per reggere il mare grosso. Era armato di ben dodici cannoni ed aveva bisogno di un equipaggio ridotto a solo una ottantina di marinai, cosa rara per quei tempi.

Come tutte le barche costruite in Barberìa, non aveva nome. Ma alcuni marinai pisani, che avevano da poco perso la libertà ma non la voglia di prendersi beffe di chi li teneva in catene, lo avevano battezzato "Venere De Witte", per via della bella poppa curva dalle linee eleganti e rastremate.

Allíinizio dellíestate, quando lo scafo fu quasi ultimato, Diego venne incaricato dallíolandese di occuparsi del taglio e della cucitura delle vele del vascello. A disposizione mastro Piet gli aveva messo una squadra di un paio di dozzine di altri schiavi cristiani.

Quella scelta delicata era caduta sul trapanese non per caso, ma in quanto Diego era líunico di quel gruppo di captivi che sapesse leggere; in grado, quindi, di capire qualcosa del voluminoso manuale di arte navale stampato a Groninga e messogli a disposizione da Mastro Piet.

Già dopo un paio di giorni di lavoro alla velatura della "Venere De Witte", Diego ottenne di avere tra i suoi lavoranti anche Pad líirlandes, che da quel momento e per tutti i mesi che precedettero il varo del veliero, divenne la sua ombra.

Se il reperimento del legno necessario alla costruzione dello scafo era stato un mezzo incubo per il mastro díascia olandese, ancora più complicato fu trovare le grandi quantità di tela olona per allestire la velatura. Le pezze di tela arrivavano a spizzichi e bocconi da tutti i porti della Barberìa, ma soprattutto da Algeri e Bizark, dove Mastro Piet aveva mandato due suoi incaricati ad esaminare ed eventualmente acquistare il materiale sbarcato dai corsari in quei porti.

Aiutandosi con i disegni forniti dallíolandese e scavando dalla memoria i gesti dei velai osservati a lungo da bambino nei cantieri della città del sale, Diego e la sua squadra riuscirono ad ottenere vele tagliate e cucite con una certa cura, anche se il materiale era di consistenza ed origine delle più imprevedibili.

Il trapanese era riuscito a fatica a ricavare le due vele di bompresso, piccole come erano, dalla stessa partita di tela; le due grandi vele quadre di trinchetto, la coppia di vele quadre di maestro e la vela latina di mezzana, ancora più grandi, rischiavano invece di risultare uníaccozzaglia di scampoli e pezze multicolori degne di un costume da Arlecchino. Fu così che Diego Martinez, dopo averci pensato per qualche giorno, suggerì a Mastro Piet di tingere degli stessi colori le pezze di tela che andavano a formare le singole serie di vele.

Alla fine le due vele di bompresso vennero colorate di giallo zafferano, mentre le due grandi vele di trinchetto risultarono di un bel verde smagliante; rosso porpora vennero invece tinte le ancora più estese vele di maestra, laddove la vela latina di mezzana sfoggiava un intenso azzurro indaco.

La scelta di avere a bordo vele di quattro diversi colori dava un aspetto eccentrico al vascello. Díaltra parte la cosa, come si vedrà più avanti, presentava senza dubbio qualche vantaggio nella esecuzione delle manovre.
 
 

Autunno 1745

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