SECONDIGLIANO E LA SUA STORIA

 

IL NOME

 

Il nome “ ebbe molte varianti nel tempo: Secondillanum, Secondigliani, Secondigliani, Secondiliano e Secundigliano. Secondo alcuni deriva dalla famiglia “Secondili” che vi aveva fissato la sua dimora; secondo altri deriva dai colli “Secondili” che circondano la città di Napoli da nord – est a nord – ovest; oppure dalla sua collocazione al “secundo miglio” (Secundum – milia) della via atellana, importante arteria campana, sorta nel periodo osco-etrusco-sannita e che congiungeva Capua con Atella e Napoli passando per Capodichino-Secondigliano..

 

LE ORIGINI

 

Il primo nucleo dell’insediamento rurale di Secondigliano, che diventerà più tardi Casale Regio di Secondigliano, risalirebbe all’età imperiale, ma non se ne ha documentazione scritta né archeologica.

Il primo borgo rurale sorse in corrispondenza del secondo miglio della via Atellana, L’attuale Corso Secondigliano, denominato un tempo Corso Umberto, corrisponderebbe al tracciato iniziale di questa strada.

La prima citazione documentale di Secondigliano risale al 19 ottobre 1113, sul finire dell’era ducale di Napoli e del suo entroterra, sotto l’imperatore Alessio (VII indizione).

In questa carta viene citata l’affitto di un fondo posto in “villa Secondillani”.

In un diploma di Carlo d’Angiò vi è notizia di un sito denominato ”Secondilianum”. In altri due diplomi di Carlo II chiamasi Secondillanum; ma non se ne trova notizia tra i Casali di Napoli sotto l’imperatore Federico II.

Nel 1542, esattamente il 29 agosto, nella santa visita dell’arcivescovo viene citato il Casale Secondigliani, mentre in quella del 3 – 6 – 1612 si nomina Secundigliani. In un volume del 1640 la denominazione è Secondilliano e Secondigliano.

Nel periodo della denominazione normanna, sveva, angioina ed aragonese Secondigliano, pur essendo Casale non aveva né le caratteristiche architettoniche, né la configurazione urbanistica, né la struttura amministrativa, politica sociale ed economica di un vero e proprio Casale Regio, che assumerà solo tra la fine del 1500 e gli inizi del 1600 in età vicereale dopo l’apertura della strada di Capodichino (1585) che renderà Secondigliano accessibile alla pianura oltre che dall'entroterra a nord di Napoli. Fino ad allora tutto il colle era quasi inaccessibile perché ricoperto da fitta vegetazione. La città di Napoli, attraverso i tempi, si è sviluppata nei limiti delle mura, fuori si estendeva la zona rurale, divisa poi in Casali. Il Summonte nella storia della città e del Regno di Napoli, parla di 37 Casali, latinamente detti “Vichi o Paghi”, che formano un corpo con la città, godendo anch’essi di alcuni privilegi o immunità civili. Essi erano situati in quattro regioni: lato dal mare, nell’entroterra, tra Capodichino e Capodimonte e sul monte di Posillipo.

 

Essi erano: Fraola, Casalnuovo, Casoria, San Pietro a Patierno, Frattamaggiore, Arzano, Casavatore, Grumo, Casandrino, Melito, Marano, Mongano, Panecuocolo, Secondigliano, Chiaiano, Calvizzano, Polveca, Piscinola, Marianella, Miano, Antignano, Arenella, Vommaro, Torricchio, Chianura, San Strato, Ancarano, Villa di Posillipo. Secondo il Capasso, oltre a questi, ve ne erano altri che si trovavano nel distretto che formava il territorio plagiense, il quale era situato oltre il Sebeto. Alcuni erano: Quarto e Ponticelli.  In un cedolare di epoca angioina i Casali erano 43 ai quali vanno aggiunti: Calbizzanum, Mugnanum, Malitum. Il Casale di Secondigliano era di circa 2800 moggia e confinava a est con Arzano, a ovest con Melito, Piscinola e Napoli, a sud con Casavatore e San Pietro a Patierno.

La sua economia era basata sull’agricoltura ed era regolata da rapporti feudali. In età medioevale, quando era solo un villaggio, apparteneva ad ordini monastici o a famiglie nobili che lo concedevano in fitto a famiglie notabili che a loro volta lo subaffittavano a contadini che lo coltivavano. Era diviso in varie “masserie” tra loro slegate. Le trasformazioni dei villaggi in Casali trovò impulso nell’istituzione della tassa del focatico (tassa di famiglia, imposta sul foco, cioè sul nucleo familiare) in periodo aragonese è confermata da Ferdinando il Cattolico nel 1505. La popolazione dei villaggi aumentò notevolmente e amministrativamente e diventarono Casali.

Nel corso del 1600 Secondigliano, come gli altri Casali di Napoli, si trasformò in Universitas, un istituzione amministrativa dotata di grande autonomia e privilegi e governata da rappresentanza e assemblee popolari. Lo spazio denominato ancora oggi” Miezo o’ Casale” era lo spazio destinato alle assemblee del Parlamento popolare, oltre che al mercato agroalimentare il Casale riforniva la città di grano, verdure, frutta, vino. Secondigliano, situata in una zona fertilissima, a 105 m. di altitudine, produceva buona frutta, grano, fave, piselli, fragole, orzo, gelso, lino, vino, anche se di mediocre qualità. La strada che da Napoli portava a Melito era tutto un filare di gelsi che permettevano la produzione di un’ottima seta, la migliore durante il Regno di Napoli. Anche la produzione del lino era fiorente. Le donne in casa lavoravano i tessuti e gli uomini si dedicavano al commercio. Dalla macellazione delle carni di maiale si ricavava il rinominato” salame di Secondigliano.”

L’aria salubre favoriva la longevità. Molto numerosi erano a Secondigliano, nell’antichità, i centenari.   

La vita, però non doveva essere tranquilla. Lo storico Galanti affermava, alla fine del 1700, che la zona faceva ancora paura. Gli uomini portavano con sé lo schioppo e il coltello; anche quando andavano in chiesa ad ascoltare la messa. Prima che aprissero la strada per Capodichino, nel 1585, la zona era inaccessibile e pericolosa da percorrere per la presenza di ladri e briganti.

Agli inizi dell’Ottocento, la feudalità venne abolita e le Università feudali, quali erano casali, vennero trasformati in comuni autonomi.

Nel 1925 Secondigliano fu annesso al Comune di Napoli e diventò una sezione municipale, perdendo così quell’autonomia che aveva gelosamente conservato per centinaia di anni e acquistando i caratteri, sempre più negativo di periferia urbana. Fino agli anni “50” conservò, però, la sua autonomia storica, le sue tradizioni e la prerogativa di zona salubre. Le balie vi portavano i bambini ed era meta di gite e scampagnate per le numerose e rinomate trattorie. E’ stata l’edilizia selvaggia degli anni “60” che ha portato un vero e proprio stravolgimento: Secondigliano è stata individuata come zona di edilizia popolare, dove confinare i ceti più bassi. Sono sorti rioni come il Berlingieri e Via Cassano, l’INA casa, il Don Guanella, mentre altri rioni a edilizia privata hanno distrutto le rimanenti aree verdi: il Rione Kennedy, il rione Divina Provvidenza, l’agglomerato intorno al Corso Italia e a Via De Pinedo. Dopo l’entrata in vigore della legge 167/62 è sorto nell’area nord – ovest il grande quartiere Scampia che ha dato alla zona il nome di “Ghetto del cemento nudo”.

E le vele sono diventate il simbolo del degrado e del malessere delle periferie. Dalla fine degli anni “80” Secondigliano ha avuto il carcere. L’amministrazione ha comunque avviato in parte realizzato un piano di ricostruzione e di riqualificazione urbanistica. La zona dei “Censi” è stata ristrutturata o ricostruita per ripararae ai danni del terremoto. Di fronte al cimitero ora sorge il nuovo “Rione dei fiori” che accoglie le strutture amministrative e sanitarie e anche un piccolo parco verde attrezzato. E’ stato anche approvato un progetto di riqualificazione delle vele che prevede l’abbattimento di alcune di esse e la ristrutturazione con destinazione a usi diversi delle altre. La speranza è che, in questo modo, le vele si trasformino da simbolo del degrado e dal malessere della periferia a simbolo del riscatto e della rinascita.

 

FUTURO

 

E’ stato presentato un progetto urbanistico per ridisegnare la zona del quadrivio di Secondigliano devastata dalla voragine del gennaio 1996.

Sull’area dissestata sorgerà una piazza e le limitrofe abitazioni degradate verranno abbattute e sostituite con edifici nuovi.

Per il nostro quartiere , inoltre, è prevista una variante al piano regolatore che vede trasformato il corso in un “boulevard”. I marciapiedi saranno allargati e al centro della strada circolerà il tram che unirà la periferia nord con Piazza Municipio.

La variante prevede anche l’insediamento di un Ateneo nella zona della 167, con il fine di attirare quel ceto medio, oggi assente, individuato come volano di riqualificazione.

 

CAPODICHINO E L’ENTROTERRA NAPOLETANO

 

Capodichino apparteneva al Casale di Secondigliano; le prime notizie risalgono all’anno”877” negli atti della traslazione del corpo del vescovo di Napoli

Santo Attanasio, da Montecassino alla città partenopea.

Nelle antiche carte è segnato con il nome di “Clivum” di “Caput de Chio” “ de Chiu e Clivu.” Inoltre, in un documento che porta la data del 16 ottobre 1342 è citata la Regina Sancia, moglie di Roberto d’Angiò che dona al Monastero del “Corpo di Cristo”, oggi “Santa Chiara”, un pezzo di terra situato in un luogo detto “Capo de Chio”. Altre notizie risalgono al periodo della dominazione spagnola in cui il Vicerè “Don Pedro Giron operò delle trasformazioni alla bella strada di Capodichino.

La zona ci viene descritta come ricca di vegetazione, ma anche pericolosa perché

“covo di briganti”.

Sulle alture di Capodichino è ubicata anche al “Grotta degli Sportiglioni”, così chiamata anticamente per la presenza al suo interno di numerosi pipistrelli. Questo lugubre animale notturno è chiamato dai napoletani “sportiglione”, parola che deriva dal latino ”vespertilia”, trasformatosi nel “400” in “vespertilione” e in seguito in “sportiglione”.

Al tempo della dominazione borbonica in occasione di una visita della Regina Maria Carolina d’Austria, moglie di Ferdinando IV di Borbone, furono apportate modifiche e fu riaccomodata la strada che dal luogo “Ottocalli” giungeva fino alla chiesetta dedicata a San Michele e fondata nell’anno 1615.

Anticamente, però, nella zona sorgeva una “MASSERIA”, una delle tante che erano sparse nell’entroterra napoletano.

Essa era detta “Starza”, misurava 72 moggia e fu di proprietà del vescovo Sant’Attanasio che la donò al Collegio degli Ebdomadari della Cattedrale.

Questi la diedero in affitto a diverse persone e dai documenti ritrovati si deduce che la “Masseria” si trovava nella zona di Capodichino, fuori le “Gabelle” sulla strada che conduce a Casoria e a Frattamaggiore ed era dotata di una Cappella dedicata a San Michele Arcangelo. Anche in questi documenti si fa riferimento ai numerosi alberi, alle viti latine, agli olmi piantati dagli Ebdomadari. Infatti esiste una descrizione dettagliata della Masseria” che aveva la struttura tipica della casa rurale campana.

 

LA CASA RURALE A CORTE

 

La casa rurale a corte è un’abitazione composta da più edifici raccolti attorno ad uno spazio chiuso e scoperto distribuiti su di un’area geografica che va dalla Pianura Padana, dal Veneto, dalla Puglia, fino al Sannio.

La casa poderale è legata ai contratti a mezzadria di età medievale ricollegabile al nuovo processo di colonizzazione della campagna dopo l’anno mille ed alle autonomie comunali. L’influsso della cultura architettonica urbana sulla casa rustica si è manifestato principalmente nel campo delle tecniche costruttive e delle soluzioni tipologiche formali, infatti, è nel borgo che nascono la scala esterna, il portico, la

loggia, cioè tutta quella volumetria architettonica che si aggiunge al nucleo originario

della torre formando il complesso architettonico delle case rurali.

Infatti, la casa a corte campana è composta da un nucleo principale, disposto su due piani e si articola attorno ad un’aia centrale con dei corpi di fabbrica più bassi, destinati alla lavorazione e al deposito degli attrezzi agricoli.

Vi è di solito una scala esterna che collega la corte con il loggiato posto al piano superiore dell’abitazione spesso poggiante su mensale in piperno o posto su grandi archi in muratura di tufo. Il loggiato fa da disimpegno, perché da esso si accede alle varie camere da letto, che raramente sono intercomunicanti mentre al piano terra è ubicata la cucina e i principali servizi.

L’edificio si presenta all’esterno privo di apertura sui tre lati e segnato da poche finestre e da un grande portale con androne a volta sul quarto lato, spesso coincidente con la parete principale del nucleo abitativo. Tale tipo di architettura rurale lo troviamo sparso in modo isolato nel territorio dei villaggi di Secondigliano, Capodichino, Lanciasino sotto forma di “MASSERIA". In questo diploma di Re Ruggiero si legge che in quest'ultimo villaggio si trovava una chiesa dedicata a San Gennaro e sempre nel territorio di Capodichino sorgeva un piccolo villaggio detto “San Cesareno” nelle vicinanze di Mianella, oggi denominato “Cupa Cesarea”.

 

AGGREGAZIONI DELLE CORTI IN VILLAGGI

 

Il fenomeno delle aggregazioni delle corti in villaggi sia in Campania che altrove è di origine medievale. Infatti, fu il bisogno di sicurezza, la necessità di fuggire la malaria, l’opportunità di essere vicini ad un luogo di mercato, ad una chiesa, ad un monastero, ad un castello o ad un’arteria stradale e principale che prese fine, una volta crollato il possente organismo dello Stato romano, all’originaria dispersione della popolazione agfricola, determinando da luogo a luogo diversa distibuzione degli insediamenti e dando origine a quella lenta e complicata trasformazione che trae origine proprio da secoli oscuri del Medioevo.

 

PRODUZIONE DELLA SETA, DELLA CANAPA E DEL LINO

 

Il Casale di Secondigliano con le numerose masserie sparse sul suo territorio aveva un’economia agricola e solo nel XIX secolo si cominciò a sviluppare l’industria e il commercio della seta. Nell’archivio storico diocesano di Napoli, fondo Ebdomadari fascio N°629 del 1805 vi è la conta degli alberi esistenti nella Masseria di Capodichino e risultano essere ben 196.

La seta prodotta dai Casali di Napoli era ottima e ricercata, i secondiglianesi erano

molto laboriosi e hanno sempre avuto innato il senso del commercio, molti di essi hanno girato il mondo piazzando tele e stoffe sui mercati internazionali. La stessa signora Maria Marseglia, madre del Venerabile “Padre Gaetano Errico” era tessitrice di felpe e nel casale si produceva anche la canapa e il lino. I tessitori dei drappi di seta facevano spesso la “vigliata” cioè tessevano alcune ore prima del sorgere del sole e spesso, anche nei giorni festivi. 

 

CAPODICHINO, PUNTO STRATEGICO DAL VICEREGNO SPAGNOLO

AL MURAT

 

Nel 1528, al tempo del governo del Vicerè di Spagna Filippo di Chalons, principe d’Orange, Napoli fu cinta d’assedio e il Maresciallo di Francia, Visconte Odette de Foix (Odetto) di Lautrec si accampò con le sue truppe sul colle di Capodichino.

Questi, forte dell’appoggio della flotta di Filippo Doria, nipote del Visconte che era sbarcato a Sorrento, pose l’assedio alla città, ma dopo un accordo di Genova con la parte imperiale il blocco fu tolto.

Prima che ciò accadesse, il Lautrec, di fronte all’ostilità dei locali, mise in atto con i suoi fedelissimi compagni di ventura una guerra batteriologica “ante litteram” e fece inquinare le acque destinate all’approvvigionamento idrico dei cittadini, ma mal gliene colse; infatti, una terribile epidemia di peste scoppiò a Napoli e si accanì contro i francesi, lo stesso Lautrec ne fu colpito. Egli morì il 17 agosto 1528 e, il suo corpo e quello del suo luogotenente Pietro Navarro furono sepolti nella storica chiesa di Santa Maria La Nova nelle splendide tombe fatte eseguire da A. Caccavello.

Morto il Visconte Odette de Foix di Lautrec che era stato l’animatore della spedizione, l’esercito che assediava Napoli, nell’agosto 1528, ripiegò su Aversa, finché decimato dalle continue sortite del nemico decise di rinunciare all’impresa.

In ricordo di quel condottiero la zona, più o meno corrispondente all’attuale cimitero di Santa Maria del Pianto, fu denominata “dello Trecco” e, ancora oggi c’è una strada che è chiamata Cupa Lautrec.

 

CAMPO DI MARTE

 

Gioacchino Murat nel 1808 divenuto re di Napoli continuò l’opera di riforma di Giuseppe Buonaparte, durante il suo regno avviò una serie di lavori, tra i quali si ricorda la strada di Posillipo e il Campo di Marte. Un vasto terreno di 900 moggia fu destinato a campo militare, furono abbattuti alberi, sradicati viti, demolite case e tutto ridotto a pianura. In questo vasto terreno si esercitavano disposti in duplice fila (Diciottomila ) 18.000 fanti, 2000 cavalli e le corrispondenti artiglierie.

 

CAPODICHINO E LE ESECUZIONI CAPITALI

 

Nei primi anni del 18° secolo nell’attuale Piazza Capodichino si effettuavano esecuzioni capitali, come risulta dai registri dell’Archivio della Chiesa Parrocchiale dei Santi Cosma e Damiano.

Le condanne venivano eseguite per ordine del Commissario di Campagna e avvenivano al quadrivio propriamente detto di “Campo de Chio”.

Infatti abbiamo notizie di alcuni condannati a morte per gravi delitti i cui corpi sono sepolti nel sottosuolo della Parrocchia centrale di Secondigliano.

A tal proposito citiamo un tale Agnellus Margarita, giustiziato il 14 agosto 1714 al quadrivio di Capodichino dopo aver ricevuto il conforto dei sacramenti.

 

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