DYLAN? NO GRAZIE
...peperoncini rossi nel sole cocente
polvere sul viso e sul cappello
io e Maddalena all'occidente
abbiamo aperto i nostri occhi oltre il cancello
ho dato la chitarra al figlio del fornaio
per una pizza ed un fucile
la ricomprerò lungo il sentiero
e suonerò per Maddalena all'imbrunire...
"Avventura a Durango", da Rimini
Mentre
Fabrizio stava rimuginando l'idea di Creuza de ma, si ebbe il primo tour
italiano di Bob Dylan - a parte la casuale esibizione del ’62 al Folkstudio di
Roma, passata inosservata anche perché a quell’epoca, in Italia, il menestrello
di Duluth era del tutto sconosciuto - con tre tappe trionfali all'Area di
Verona, al Palaeur di Roma e allo stadio di San Siro. Durante una conferenza
stampa tenuta a Sirmione, Dylan aveva espresso la speranza di lavorare, in
futuro, con musicisti italiani, e così, per la data milanese, gli si cercò un
ospite di adeguato livello, che si esibisse nel pomeriggio prima di Carlos
Santana, il cui concerto precedeva a sua volta quello del cantautore americano.
Dapprima si
provò con Joan Baez, che era stata in Italia da poco ed era ancora in giro per
l'Europa. Ma la cantante, che nel proprio recital aveva inserito "La
canzone di Marinella" e poi "La donna cannone" di De Gregori, rifiutò
senza fornire troppe spiegazioni. Si disse che fosse ancora irritata perché, in
un precedente spettacolo a due voci in Germania, Dylan aveva ottenuto più
applausi di lei.
Si pensò
allora a un ospite italiano, quasi a realizzare la speranza che Dylan aveva
espresso a Sirmione. David Zard, organizzatore del tour, interpellò allora De
André, al cui editore, a suo tempo, Dylan aveva scritto una lettera per
felicitarsi della sua versione, scritta con Massimo Bubola, di "Romance in
Durango", e dalla cui voce il cantautore del Minnesota era rimasto
particolarmente colpito. Specie dopo che Zard gli aveva fallo ascoltare
"La buona novella", traducendogliene a braccio i testi.
Il potente
promoter, dopo aver ottenuto l'assenso di Dylan, fece balenare a De André l'ipotesi
di un duetto sul palco col grande Bob, e di eventuali collaborazioni
discografiche. Ma Fabrizio rifiutò. Il solito cronista dell'epoca racconta:
"Quando Zard mi raccontò l'accaduto, chiesi a De André perché mai avesse
dato un calcio a una possibilità del genere. Lui rispose, con un pizzico di
sbruffoneria che non gli appartiene, che 'io non faccio il supporter a
nessuno'. Poi mi pare aggiungesse: 'Se mi trovo su un palco vicino a Dylan,
come minimo mi cago addosso'. Più avanti gli ricordai quest'ultima frase, e lui
però la ripudiò: 'Se l'ho detta', sostenne, 'l'ho detta per ridere'".
Tra
l'altro, De André era troppo proteso a realizzare Greuza de ma , che già
nei primi ammiccamenti progettuali si delineava come l'album più ambizioso e
inconsueto della sua carriera. Utilizzare il dialetto genovese era solo uno dei
suoi propositi. Bisognava stanare gli strumenti della tradizione mediterranea,
i suoi ritmi e i suoi suoni. E bisognava puntare a un amalgama perfetto tra
musica e phoné, contenuti e colori, concetti e atmosfere.
Fu Mauro
Pagani a prospettare a De André, al termine della tournée del 1981, l'ipotesi
di un lavoro in comune. Ex violinista della Premiata Forneria Marconi, Pagani
aveva da poco scritto le musiche per lo spettacolo teatrale, e relativo film,
che il regista Gabriele Salvatores aveva tratto dal Sogno di una notte di
mezza estate di Shakespeare. De André lo aveva conosciuto nel '70, ai tempi
della "Buona novella". Pagani non era soltanto un compositore
geniale, poco propenso agli stereotipi della canzonetta di massa, ma un
giramondo che andando a zonzo per il Mediterraneo vi aveva fatto incetta di
modi musicali e di strumenti etnici.
I due si
misero a lavorare febbrilmente, a quattro mani, tanto che quasi la metà dei
brani che ne uscirono non poterono poi trovare ospitalità nel disco.
Litigarono, discussero, provarono, distrussero, ricostruirono. Pagani cercò di
sottolineare le urgenze poetiche di Fabrizio e lo indusse a usare in modo
diverso anche la sua voce; lo persuase a mettere da parte i suoi birignao, a
smettere di baloccarsi con le sue (bellissime) note gravi e a prosciugare il
suo stile d'autore ma anche di interprete, fino a fornire la sua prova canora
più intensa e più viscerale, fino a buttarsi a capofitto nell'emozione totale,
nella desolazione cosmica di un brano da brividi, come "Sidùn".
MA SE GHE
PENSU
"Quella
di un disco cantato nel mio dialetto, anzi nella mia lingua fu una voglia, per
così dire, primordiale, nel senso che aveva le sue radici in quelle mie e della
mia gente. Me la portavo in pancia da anni, forse da quando avevo cominciato a
scrivere canzoni e a tradurre Brassens, molti dei cui personaggi avrebbero
potuto benissimo essere abitanti dei nostri caruggi. Ma non avevo mai trovato
l'incoscienza o la fede, o la chiarezza di idee sufficienti a tradurre
l'intenzione in fatti.
Era una
grossa sfida, che potevo anche illudermi di vincere sul piano della qualità, ma
difficilmente su quello delle classifiche di vendita: fatto di per sé poco
rilevante, ma importante per i discografici, dai quali gli artisti dipendono.
Tenco
diceva sempre che è ora di smetterla di scimmiottare gli inglesi e gli
americani, proprio noi che abbiano un patrimonio popolare ricchissimo, e
sarebbe ora di sfruttare la nostra tradizione come hanno fatto i Beatles e
Dylan con la loro. Io ero d'accordo, ma sapevo anche che, in Italia, bisogna
fare i conti con le nostre abitudini di colonizzati. E che, in un mercato
discografico in cui sono le multinazionali a dettar legge, già era difficile
tener testa alla concorrenza degli stranieri con i nostri dischi in italiano,
figurarsi poi quale poteva essere la sorte di un album scritto in una lingua
così difficile che, a momenti, neanche i liguri la capiscono.
Negli anni
Sessanta avevo conosciuto un poeta genovese, Mario Tortora, che mi aveva fatto
leggere certi suoi racconti in dialetto, pagine di stile naif scritte in una
prosa violenta, tagliata con vigorosi colpi d'accetta. Sperai di trarne qualche
canzone, ci frequentammo per qualche tempo e lui arrivava sempre con una nuova
serie di quei suoi fogli scritti fittamente a macchina, con impetuose
correzioni a mano. Ma i tempi - o io - non erano ancora maturi, e non se ne
fece nulla.
Più avanti
scrissi due musiche per Piero Parodi, un folksinger tuttora molto popolare in
Liguria, le cui prime canzoni, sia pure in modo più scanzonato, avevano qualche
tema in comune con le mie, e che aveva inciso una versione in genovese di
'Bocca di rosa'. Ma i testi di quei due brani non erano miei: uno, una sorta di
lamento sul declino di Genova, era di Vito Elio Petrucci, un regista
radiofonico con baffoni da tricheco, che parlava con voce da orco e scriveva
versi di inattesa delicatezza. L'altro era di Peo Campodonico, un eterno
goliardo diventato assessore, che nelle riunioni di giunta scriveva
filastrocche in rima e testi per la Baistrocchi, fingendo di prendere appunti e
già per questo meritava simpatia. Ma anche quei due esperimenti finirono li,
nel disco che ne realizzò Parodi. Non era ancora il momento di tirar fuori un discorso
organico in lingua genovese, con un album scritto e cantato da me.
Avevo letto
la Storia di Genova di Francesco Donaver, e i testi di autori ignoti o
vecchi annali trovati alla Biblioteca comunale, ascoltando anche i racconti
fattimi da gente della Foce. Scoprii così l'esistenza di personaggi
straordinari come Cicala, un marinaio genovese che era stato rapito dai turchi
ed era diventato, col tempo, gran Visir e serraschiere del Sultano, assumendo
il nome di Sinàn Capudàn Pascià.
A Genova
c'erano studiosi che si davano molto da fare per portare alla luce reperti e
misteri della tradizione ligure: come Edward D.R. Neill, un musicologo
irlandese che sapeva tutto di Bruckner e di Paganini e girava per l'entroterra
registrando canti di contadini antichi come il mondo, per ottenerne dischi
preziosi e invendibili.
Ne ricavai
la convinzione che molte delle canzoni genovesi in auge fossero per lo più
degli strani ibridi, che con la vera tradizione popolare avevano legami assai
blandi. Alcune erano traduzioni di canti piemontesi o lombardi, altre -
soprattutto quelle uscite tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta - erano dei
valzer ma ancor più spesso dei tanghi, il che probabilmente garantiva loro un
ragguardevole mercato tra i liguri trapiantati in Argentina, che vi trovavano
mescolate la lingua della loro patria d'origine e la musica della loro terra
d'adozione.
Negli anni Sessanta un gruppo d'autori e d'interpreti come i
Reverberi, Natalino Otto, Lauzi, Calabrese diedero via a un repertorio di
canzoni in genovese scritte su ritmi brasiliani, probabilmente sfruttando cene
affinità di cadenza e di fonetica tra il nostro dialetto e il portoghese
parlato in Brasile.
Col tempo
mi si rafforzò la convinzione che la via da seguire fosse un'altra, e l'idea
decisiva mi nacque dalla scoperta che la lingua genovese ospita al suo interno
oltre duemila vocaboli di provenienza araba o turca: un retaggio di antichi
traffici mercantili, comune soprattutto alle città di mare dell'area
mediterranea.
Allora, il
genovese è la meno neolatina tra le lingue neolatine, mi dissi. E cominciammo,
con Pagani, a costruire delle trame musicali che rispondessero al progetto di
un album mediterraneo, con suoni, ritmi, strumenti della tradizione islamica,
greca, macedone, occitana. Cominciai a scrivere i testi in un arabo
maccheronico, che poi 'tradussi' in genovese, o meglio nella lingua di una
Genova sorella dell'Islam.
Cercai
anche di esprimermi in modo, finalmente, popolare, il che non ti è concesso con
l'italiano, dove sei schiavo della lingua aulica. In questo senso abbiamo
cercato di tornare all'antico, quando l'idioma non divideva ma avvicinava le
classi: nella repubblica di Genova, prima che la Francia ci regalasse al
Piemonte, aristocratici e plebe parlavano genovese. Poi Chiesa e monarchia
hanno convinto le classi alte che il dialetto era disdicevole e certe parole
scurrili era meglio lasciarle al popolino. A me, invece, sembrava meglio che la
canzone, strumento espressivo così divulgabile, servisse a gettare un ponte tra
le classi, fuori dell'amalgama fittizio dato dallo Stato.
C'era poi
un altro aspetto. Scrivere canzoni in italiano è difficile tecnicamente, perché
le esigenze della metrica ti rendono necessaria una gran quantità di parole
tronche, che in italiano non ci sono, o comunque non abbondano. A questo punto
ti vedi costretto, per garantire la qualità estetica del verso, a cambiare
addirittura il senso di quello che vuoi dire. Invece il genovese è una lingua
agile, è possibile trovare un sinonimo tronco che abbia lo stesso senso della
traccia in prosa che tu hai buttato giù per poi tradurla in versi, visto che
difficilmente le idee ti nascono già organizzate metricamente. È un problema
che abbiamo noi italiani, mentre inglesi e francesi non l'hanno, dato che la
loro lingua è molto più ricca di vocaboli tronchi, e che, scrivendo in
genovese, è stato assai più facile risolvere."