LA PARABOLA DEL FIGLIOL PRODIGO

di Enzo Bianchi

 

Cari fratelli, care sorelle, queste sono occasioni in cui le parole che siamo soliti pronunciare acquistano un'eloquenza particolare. E se questa sera inizio questa lectio divina con le parole "cari fratelli, care sorelle", queste parole rinviano alla verità mia e vostra, perché più che mai questa sera mediteremo sul nostro essere fratelli e sorelle, tutti, perché tutti abbiamo un unico Padre, Dio.
Noi vogliamo proprio, questa sera, conoscere il volto di questo Padre, perché - voi sapete - non basta dire che Dio è Padre per conoscerlo veramente, perché, avendo tutti noi fatto un'esperienza di paternità umana, rischiamo di proiettare su Dio quello che per noi è stato il padre. E innanzitutto non è detto che noi abbiamo un'esperienza felice e buona della paternità; e poi comunque la paternità di Dio - ed è quello che cercherò di farvi vedere questa sera - è diversa dalla paternità umana. Credo ci sia stato un errore che pesa ancora purtroppo sul volto di Dio, quello di averlo invocato tante volte Padre tenendo conto della paternità umana, quando invece Dio noi lo possiamo chiamare Padre non come fan tutti gli uomini, che sempre hanno chiamato gli dei padri, ma noi lo chiamiamo Padre perché Gesù Cristo ci ha rivelato la sua paternità. Voi tutti sapete che nell'Antico Testamento si esita a chiamare Dio Padre; e più volte superficiali commentatori ci hanno detto che questo era dovuto al fatto che gli Ebrei avevano un Dio che non aveva i tratti di tenerezza e di bontà che ci ha rivelato il Nuovo Testamento. Mentre invece l'Antico Testamento diffida a chiamare Dio Padre, perché tutti i popoli vicini, dell'Egitto, della Mesopotamia, di Canaan, tutti chiamavano gli dei "padre"; perché la paternità è la prima esperienza che facciamo. Ognuno di noi nasce e da un padre e da una madre e chiamare Dio "padre" lo hanno fatto tutti gli uomini, anche quelliche non beneficiavano di una rivelazione. No!… Noi chiamiamo Dio Padre, noi cristiani, perché quella paternità ce l'ha descritta Gesù e perché eventualmente è la paternità di Dio che dovrebbe ispirare e plasmare la paternità umana, esattamente il contrario di quello che a lungo si è fatto.
Cerchiamo allora di capire bene questa parabola, che i Padri della Chiesa, e tra loro San Basilio, chiamavano "il Vangelo nel Vangelo". San Basilio dice, in quell'ammonizione a un giovane: "Vuoi conoscere Dio? Vuoi una pagina delle Sante Scritture in cui tu abbia in sintesi tutta la buona notizia? Leggi questa pagina di Luca, la pagina in cui c'è questa narrazione della paternità di Dio e del suo amore misericordioso". Ma Gesù (e dev'essere assolutamente evidenziato), quando pronuncia questa parabola non consegna solo delle parole perché i discepoli, le folle che l'ascoltavano ricevessero un'immagine della paternità di Dio, ma Gesù in quel momento sta addirittura narrando, raccontando, spiegando la paternità di Dio con il suo atteggiamento, con il suo comportamento. Purtroppo la Liturgia, quando sceglie un brano del Vangelo, lo deve delimitare; in questo caso però noi dobbiamo ricordarci di come inizia questo capitolo 15 di Luca, perché, senza il contesto, noi non capiamo neanche bene la parabola. Quando tornerete a casa, prendete il Vangelo di Luca al capitolo 15, leggetelo dal primo versetto. Inizia così questo capitolo: "Si avvicinavano a Gesù peccatori e pubblici peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano: "Costui accoglie i peccatori, mangia con loro". Allora Gesù disse loro questa parabola…". Vedete come sono importanti questi versetti iniziali. Questa parabola è un tentativo da parte di Gesù di spiegare quello che lui stava facendo, perché lui accoglieva coloro che avevano dei peccati manifesti, peccati che tutti conoscevano, tutti vedevano, per il loro mestiere. Ed è in questa maniera che davvero Gesù racconta il Padre. Il Vangelo di Giovanni conclude il Prologo ribadendo: "Dio nessuno l'ha mai visto". Ma Gesù ce ne ha fatto l'esegesi. Permettetemi questa parola come suona nel Vangelo: Ma Gesù exeghèsato (verbo greco, N.d.R.), ce ne ha fatto l'esegesi, ce ne ha fatto il racconto, ce ne ha fatto la spiegazione. Gesù stava spiegando chi è Dio e lo spiegava col suo comportamento; e siccome il suo comportamento non era capito dagli uomini devoti e religiosi, allora disse loro questa parabola.
Cerchiamo di entrare in questo testo che è davvero una buona notizia per noi. Gesù non lasciava che delle persone dichiarate maledette, dichiarate peccatori da evitarsi fossero esclusi. I peccatori, le prostitute, che non potevano essere commensali con gli uomini religiosi e giusti, sono accolti da Gesù. Accolti con apertura, accolti con premura, accolti con simpatia. Avete sentito la parola dura: "I farisei e gli scribi mormoravano: "Costui accoglie pubblicani e peccatori e mangia con loro"". Questo però era l'atteggiamento abituale di Gesù, era l'atteggiamento mostrato fin dall'inizio della sua apparizione a Israele. Credo che avrete qualche volta notato come i Vangeli si aprano dicendo che il primo gesto pubblico, visibile che Gesù ha fatto è stato di mettersi in una fila di peccatori e andare da Giovanni il Battista per chiedere l'immersione, il battesimo per la remissione dei peccati. Il primo gesto… Se fossimo in altri contesti religiosi, con ogni probabilità il primo gesto del protagonista dovrebbe esser qualcosa di clamoroso, che stupisce. Certo, noi, con la nostra mentalità, avremmo voluto che la prima cosa fatta da Gesù fosse perlomeno una predica.
No! La prima cosa è mettersi in una fila di peccatori, solidale con loro, andare a chiedere un segno per la remissione dei peccati. Lui, che era senza peccato, si è messo dalla nostra parte. Questa, guardate, non era solo la scelta iniziale di Gesù, è stata la scelta abituale, che contrastava con il suo essere Rabbì, con il suo essere profeta, secondo i religiosi, gli osservanti, i giusti. Le persone religiose disprezzano Gesù: lo chiamano mangione e beone, amico dei pubblicani e delle prostitute.
Lo si legge in Luca pochi capitoli prima, al capitolo 7,34. E al capitolo 5,29 è sempre Luca che dice: ma Gesù più volte prendeva l'iniziativa, andava a cercare costoro, alloggiava da loro. Di fronte a queste mormorazioni Gesù è sicuro della sua conoscenza del volto di Dio. Vedete… quando Gesù s'è messo in quella fila di peccatori per ricevere il battesimo, il Padre dal cielo gli ha detto: "Ma così tu sei veramente mio Figlio! Quanto mi fai gioia! Quanto mi fai godere!" E' questo che gli ha detto il Padre dal cielo: "Tu sei il mio Figlio amato! Quanta gioia mi dai, perché stai dalla parte dei peccatori!". Vedete… la sensibilità umana di Gesù, questo suo voler avvicinare peccatori, pubblicani, prostitute, questa sensibilità, questa passione è dovuta alla sua conoscenza del cuore di Dio, del cuore del Padre. Ma di fronte alle mormorazioni, Gesù deve difendersi. "Allora disse loro una parabola". Poi in realtà ne dice addirittura tre, tre similitudini in una sola. Non le abbiamo lette. Ve le cito. La prima cosa che dice Gesù è la parabola della pecora perduta. Dice: c'è un pastore che abbandona tutto il gregge, per andare dietro a una pecora sola, fino a quando la ritrova e si rallegra per la festa. E attenzione… qualche volta, magari, se avete sentito predicare su questa parabola, chi la predica dice: le ha messe nell'ovile e poi è andato a cercare l'altra. No! No! No! Leggete il testo: le lascia nel deserto e va a cercare l'altra. Poi dà una seconda parabola: c'è una donna, che ha perso una moneta e si dà tanto da fare, spazza la casa, finché la trova. E Gesù dice: in cielo, cioè in Dio, c'è l'uguale atteggiamento verso chi è perduto; e c'è grande gioia, quando qualcuno che era smarrito ritorna. Ma poi, ecco la terza similitudine, la terza parabola, "il Vangelo del Vangelo".
La prima parabola che Gesù ha dato metteva l'attenzione sul pastore: il pastore ha perso una pecora, è andato a trovarla, se la carica in spalla, la porta a casa, fa festa. E la parabola è conclusa, è felicemente conclusa. La seconda: una donna ha perso una moneta, si dà da fare, spazza la casa, la trova; quando l'ha trovata chiama le amiche e fa festa e la parabola è conclusa. Ma questa terza parabola che avete ascoltato… non c'è semplicemente un pastore e una pecora, una donna e una moneta; c'è un uomo e due figli. E la parabola, soprattutto, non è conclusa. E' l'unica parabola del Vangelo che non è conclusa; non c'è conclusione, e lo vedremo. Perché? Non c'è conclusione perché qui non basta semplicemente l'azione del pastore o della donna, e non basta l'azione del padre, perché il padre ha due figli, che sono liberi di fronte a lui. E la conclusione della parabola dipende dal padre e dai due figli.
Iniziamo a capire questa parabola.
"Un uomo aveva due figli". Ecco il protagonista. E' un padre, colui che dà unità alle due scene della parabola, la scena che riguarda il figlio minore e la scena che riguarda il primogenito, il figlio maggiore. E non c'è una madre. Perché non c'è una madre? Mah, molti dicono perché allora le donne contavano poco, altri dicono perché si voleva incentrare tutta l'attenzione sul padre. Io credo (e le scienze del linguaggio ci aiutano in questo) che la mancanza di questa madre, questo non detto, questo non scritto, abbia in realtà un significato, un messaggio. Di fatto il testo, così come si presenta a noi nella sua costruzione retorica contiene un vuoto, la madre non c'è. Ci si interroga: era morta? E' intrigante questo silenzio su di lei. Certamente questa mancanza, questo silenzio su di lei vuol semplicemente dirci che la vita di questa famiglia non era una vita ideale, una vita a un certo punto interrotta nella sua bellezza, nella sua pace da questo figlio minore. No… era una vita di tante famiglie reali, solcate da ferite, solcate da dolore, solcate da assenze. Ebbene, all'interno di questa vita familiare, il figlio minore, a un certo punto della sua crescita, vuole ritagliarsi la sua parte di vita e reclama la sua parte di eredità, per disporne liberamente. Va dal padre e gli dice: "dammi ciò che mi spetta del patrimonio". Attenzione… Ciò che chiede il figlio è ingiurioso, perché è una richiesta come se il padre fosse morto. L'eredità, allora come adesso, va divisa alla morte del padre. Ancora adesso il diritto assicura che il padre non è affatto obbligato a dare l'eredità al figlio prima di morire. E tanto più in quei tempi, in cui l'autorità paterna e l'asse ereditario era qualcosa di molto più sacro di oggi. Il figlio, dicendo al padre "dammi adesso ciò che mi spetta", è come se gli dicesse: papà, non posso aspettare che tu muoia. Anticipa ciò che deve succedere e che succeda in modo irrevocabile, senza che io debba qualcosa a te. E il padre, a quel punto, di fronte a questa richiesta del figlio, che chiede la sua parte di patrimonio, il padre acconsente. Il padre acconsente…Ma il testo - permettetemi di dire - ci comincia a indicare qualcosa di più profondo di una divisione del patrimonio. Purtroppo la traduzione italica del Vangelo, per ragioni di comprensione, non è molto fedele al testo originale. Mi permetto di segnalarvela. Il figlio chiede il patrimonio, in greco ousìa. Ma il testo dice che il padre divise tra i due figli tòn biòn, e voi avete capito "tòn biòn", divise la vita. Bìos è la vita. E' una parola che tutti conoscete, perché dà origine a tante parole italiane. Vedete l'importanza di questa annotazione. Il figlio chiede dei beni, le sostanze; il padre, in realtà, tra i due figli divideva la vita, aveva fatto il dono della vita. E quindi, quel che è messo in evidenza è che il figlio rifiuta la paternità, non accetta, in sostanza, che il padre sia in vita. Questo giovane, a un certo punto, ha sentito il legame con suo padre come una schiavitù, un limite alla propria libertà; la casa in cui era vissuto l'ha sentita come una prigione: occorre andar via presto, conoscere l'indipendenza, l'autonomia. Permettetemi di dire: chi non ha provato in sé, ad un certo punto della sua crescita, questo bisogno? Chi non ha sognato nella giovinezza questa libertà, soprattutto quando non percepiva più il dono, ma invece del dono sentiva un'imposizione, una schiavitù? Comunque, che lo riconosciamo o no, questo è il nostro vissuto con Dio. Questo è il nostro vissuto con Dio, la nostra storia con Dio. Ognuno di voi pensi a se stesso. Noi magari abbiamo conosciuto da piccoli Dio come colui che ci ha formato nel segreto, ci ha tessuto nell'utero di nostra madre, colui che ci proteggeva e ci custodiva. Ma poi, a un certo punto della nostra crescita abbiamo sentito Dio come una presenza esigente, una volontà che urtava con la nostra, una presenza che ci poneva davanti un limite. Un limite! Non foss'altro, ricordandoci che ciascuno di noi non è solo, ciascuno di noi ha altri accanto a lui, ciascuno di noi non può né tutto, né subito. Chi di noi, a un certo punto, non ha sentito questa pulsione dentro: "tutto e subito!"? E' allora che, tentati da ciò che contraddice la volontà di Dio, abbiamo sentito Dio come un limite, abbiamo sentito il legame con lui come una prigione, l'ascoltare la sua parola come un'oppressione. Ecco il peccato, ecco il nostro bisogno di allontanamento. In qualche maniera abbiamo sentito il bisogno di ucciderlo, perché volevamo dimenticarlo, fare a meno di lui. Quanti giovani vivono questo! Quanti! Pensate quanti conservano con la fede un legame con Dio e poi, come arriva l'adolescenza, non riescono più a vedere il volto di Dio come un volto di tenerezza, non riescono più a sentire la volontà di Dio, quella paternità come un dono. E si allontanano, si allontanano dalla vita cristiana, si allontanano da questa relazione con Dio e poi vivono senza Dio. Certo, il peccato in noi è entrato in questa forma; e noi magari, non tutti (ma non pensate che dicendo "non tutti", la parabola poi non riguardi questi… aspettate la seconda parte)… e poi non tutti ce ne andiamo senza traguardo, ci basta andare lontano, lontano dal padre, come questo figlio. Siamo come Adamo ed Eva assaliti dal dubbio pensiamo che il comando di Dio, il limite che Lui ha posto in qualche misura era una maniera da parte di Dio di sentirsi geloso di noi. Poco a poco noi deformiamo il volto di Dio; finiamo soprattutto per vederlo padre-padrone. Ma all'interno di questo processo non pensate che ci sia soltanto il giovane, il ragazzo. Perché l'immagine di un Dio padre-padrone è vero che ci viene spontanea dentro, se noi non riusciamo a capire il dono della legge; ma ci sono tanti devoti e religiosi che contribuiscono a darci questa immagine del padre-padrone. Pensate che a volte, con buona intenzione, i nostri genitori, oppure anche uomini di Chiesa, ci hanno detto da piccolo - e credevano di fare il bene e non sapevano di dire una bestemmia, la bestemmia più grande: "se tu sei buono, Dio ti ama, ma se non sei buono, Dio non ti ama più". Guardate, questa è la bestemmia più grande del cristianesimo. Sarebbe già una bestemmia gravissima dire: se tu sei cattivo, Dio ti castiga. Ma uno può dire: beh, nel giudizio finale vedremo. Ma dire "se tu sei cattivo, Dio non ti ama più", questa è la contraddizione più grande nei confronti del nostro Dio. E io credo che il giovane che se n'è andato è anche stato assalito da questo dubbio… Ha detto: "sì, sì, è vero… Il padre è amore, mi ama se sono buono: ma se sono cattivo non mi ama più". E così, fuggendo da Dio, quel figlio se n'è andato lontano, e anche noi ce ne andiamo lontano e imbocchiamo un cammino di morte. Le nostre sostanze, i doni che Dio ci ha fatto vengono sperperati, appare la sofferenza, la degradazione, la solitudine, perdiamo tutto quel che abbiamo. Ma poco a poco perdiamo anche quel che siamo. Quella fuga intrapresa si mostra soltanto sterile, illusoria, menzognera. Ma siccome siamo noi stessi ad aver scelto quella strada e non vogliamo subito riconoscere la nostra responsabilità, allora diciamo a Dio: "ma non poteva fermare la nostra fuga?" Piuttosto di pigliare la responsabilità che ce ne siamo andati, finiamo di rimproverare e dire: "ma se lui sapeva che andavamo verso la morte, perché non ci ha fermato?". Magari qualcuno di voi, leggendo 'sta parabola dice: "ma perché il padre della parabola non ha costretto il figlio a restare a casa? Perché gli ha dato il patrimonio?". Ma qui c'è l'immagine del nostro Dio, vedete. Il nostro Dio ha creato un uomo che può negarlo, che può dirgli di no, che può contraddirlo, che può addirittura desiderare la sua morte. Questa è la grandezza del Dio dei cristiani: ci ha amati a tal punto che ci lascia partire da lui nella nostra libertà. Io vorrei vedere se, incontrando uno di voi, gli dicesse: "Guarda, adesso tu fai un figlio, genera un figlio. E vedrai che questo figlio, una volta che l'hai generato, ti dirà: "Tu non sei mio padre, tu non esisti", ti sputerà addosso e desidererà di vederti morire". Pensate che quell'uomo generi quel figlio? Dio lo ha generato e siamo noi. Siamo noi… La grandezza del nostro Dio è che ha creato degli uomini che possono essere atei, cioè fare senza di lui. Non ha creato dei burattini il nostro Dio, non ci costringe neanche a credere in lui o ad accettarlo ad ogni costo. Uno dei grandi profeti di questo nostro secolo, Nietzsche, cantava, chiedeva la morte di Dio, dicendo che sarebbe stata finalmente la liberazione per gli uomini. E' stato possibile anche questo. Il nostro Dio, vedete, non ha rivalità con gli uomini; ha voluto l'uomo come partner in alleanza e ha voluto un uomo come figlio, vero figlio, un uomo che, crescendo, può dirgli sì e può dirgli no, può accoglierlo o rifiutarlo.
Ma il figlio partito da casa, dopo aver sperperato tutti i soldi, cominciò a trovarsi nel bisogno, a sentirsi privato di molte cose: fame, penuria, comunanza con i porci, animali i più impuri per gli Ebrei. E poi qui c'è una delicatezza del testo che gli adulti, con ogni probabilità, non capiscono.
L'avete sentito questo versetto strano, in cui dice: "Avrebbe voluto sfamarsi con le carrube che mangiavano i porci, ma nessuno gliene dava". Gli adulti, siccome non sono tanto attenti, lasciano correre questa frase. Quando io un giorno la spiegai ai bambini, un bambino mi disse: "Ma se le mangiavano i porci, non poteva mangiarle anche lui?" Ma è molto importante questa frase. Questo ragazzo non poteva vivere solo sfamandosi, nello stesso modo con cui i porci si sfamano. Noi uomini non ci basta mangiare come le bestie. Innanzitutto per crescere abbiamo bisogno per lungo tempo che qualcuno ce ne dia. Il grande mistero della paternità e della maternità… Una volta nati, abbiamo bisogno di genitori, i quali ci diano da mangiare e ci procurino da mangiare lavorando, per dieci, quindici anni, oggi, forse, fin troppo. Ma soprattutto abbiamo bisogno che qualcuno ci dia da mangiare. Le donne lo sanno: il bambino che cerca la mammella non cerca solo il latte, prima o poi cerca il volto della madre. E permettetemi di parafrasare: un bambino cresce non solo per il latte della madre, ma per ogni parola che esce dalla sua bocca. 'Sto ragazzo sente il bisogno della comunità, di qualcuno che gratuitamente lo ami, gli dica: "Ecco, ti do da mangiare!" Soprattutto all'interno della coscienza antropologica che Gesù aveva, che forse magari qualcuno di noi purtroppo oggi ha perso, Gesù, nel dire 'sta parabola, sapeva che la cosa più semplice, più elementare per dire a una persona "ti voglio bene", è fargli da mangiare, guardate. E' fargli da mangiare… Quando uno fa da mangiare a un altro, è come dirgli "io voglio che tu viva e per questo ti faccio da mangiare e te ne faccio bene". Ecco perché questo figlio vorrebbe non solo mangiare le carrube, ma qualcuno che gliele dia. Ma non c'è. Il bisogno, la sofferenza, attenzione, non sono buoni maestri; anche questa è una di quelle cantilene che girano nella comunità cristiana e che sono in realtà chimere che non hanno nessun senso. La sofferenza non è vero che è buona maestra; può anche esser cattiva maestra. La sofferenza, il bisogno sono solo la condizione in cui l'uomo è invitato a interrogarsi, l'uomo è invitato a pensare.
E questo figlio, trovandosi in quella situazione, cominciò a pensare. Il testo greco dice: eis autòn deèito. Cominciò a pensare, cominciò a pensare in se stesso. Non date a questa frase nessun valore di conversione. So che questa parabola, purtroppo, viene spiegata così; ma chi la spiega così non ha letto né i Padri della Chiesa, né è fedele al testo. Stare male produce interrogativi, domande. Il figlio, in quella condizione, inizia un processo in cui legge come fallimento ciò che ha fatto. Questo è un itinerario psicologico lungo, un processo psicologico faticoso, carico di sofferenza, perché si tratta di riconoscere il proprio fallimento, la caduta, l'errore fatto. Noi arriviamo a capire che ciò che abbiamo è male soltanto quando ciò che abbiamo fatto fa male a noi stessi, ricordatevelo. Ci vuole molto tempo, tanto tempo per capire questo. Normalmente i nostri peccati, che sono frutto di seduzione, ci piacciono, sono belli, piacevoli, li amiamo, vorremmo farli ancora. Solo alla lunga, quando scopriamo e facciamo l'esperienza che sono del male fatto a noi stessi, allora cominciamo a pentirci, ma non prima. I Padri della Chiesa dicevano: "Volete sapere che cos'è la perseveranza? Guardate come uno è perseverante nei peccati. Di lì capite che cos'è la perseveranza." Nessuno è perseverante quanto i peccatori e i viziosi, questa è la verità. Nel bene siamo tutti poco perseveranti. Questa è la verità. Insomma il figlio perduto comincia a pensare e la prima cosa che gli viene in mente è il contrario della sua situazione. Pensa allo star bene e dice: "a casa mia ci sono i servi, i salariati che mangiano sempre, hanno cibo e io sono qui che muoio di fame e deperisco". Questo ragazzo non è affatto né pentito e neanche ancora in processo di convertirsi. Come ciascuno di noi dopo il peccato e dopo aver raccolto il frutto del peccato, che è sempre male e sofferenza, sente un sordo senso di colpa che lo abita, sente una colpevolezza oscura. Non è riconoscimento del male fatto agli altri e all'altro, male fatto al fratello e al padre qui della parabola. E' disagio. Il peccato commesso lo ha deluso. E questo processo di rientrare in sé potrebbe continuare o arrestarsi. Molti, in quella situazione (basta che diamo uno sguardo attorno), in quella situazione di bisogno e di dolore sarebbero andati fino in fondo, sarebbero forse passati alla droga, fino al disfacimento totale. Ve l'ho detto, il dolore non è una situazione buona. Nel dolore uno può diventare più buono, ma molti, nel dolore e nella sofferenza si incattiviscono e diventano più cattivi. Molti nel dolore capiscono un cammino di conversione, altri, proprio nel dolore, imboccano una strada di dissoluzione senza arresto. E allora il figlio non convertito, non convertito, ma pensando di stare bene (è l'unica cosa che gli interessa), fa un meccanismo che poi lui metterà in movimento. Dice: "Andrò da mio padre. Gli dirò: Padre ho peccato contro il cielo e contro di te. Non sono degno di esser chiamato tuo figlio" Attenzione qui: "Fammi uno dei tuoi salariati". Questo figlio vuol tornare per stare bene mangiando e offre al padre un baratto: io ti chiedo perdono, ma tu fai di me un salariato. "Avvenga questo scambio deciso, pensato da me". Vedete, non è convertito; soprattutto, questo figlio ha in mente la nozione della giustizia retributiva. E quando uno ha in mente la giustizia retributiva dice: "beh, io ho fatto il male… prenderò la mia retribuzione e sarà finire tra i servi. E io comando al padre e gli dico: Ecco, fammi uno dei tuoi servi, salariati".
Ma la parabola dice che, essendo ancora lontano, il padre lo vide, si commosse nelle viscere, gli corre incontro, gli si getta al collo e continuava a baciarlo, dice il testo. Vedete, il figlio è ancora lontano, soprattutto lontano dal cuore del padre, lontano dal pensare, dal conoscere la vera paternità. Vuole agire secondo una logica da schiavo, dettando lui le condizioni al padre. Ma di fronte al figlio, ecco il padre che lo attendeva da quando era partito. Ed è qui, come dice San Basilio, come dice Crisostomo, è qui l'Evangelo del Vangelo: questo figlio a un certo punto non riesce neanche a dir nulla, il padre gli va incontro, lo abbraccia e continuava a baciarlo. Questo figlio comincia a capire che il padre non solo l'ha sempre aspettato, ma che il padre lo amava quando lui era cattivo. Ecco la rivelazione della paternità di Dio cristiana: Dio ci ama anche quando noi siamo cattivi. Questo è l'apice della rivelazione. Dio non ci ama solo se siamo buoni, Dio ci ama sempre, ci ama anche quando siamo cattivi. Questo padre vede il figlio da lontano, perché lo aspettava, come se percepisse la sagoma all'orizzonte, colpito da compassione, da tenerezza in un sussulto uterino tipica della tenerezza materna. va incontro al figlio e lo bacia a lungo. Non gli chiede spiegazioni. Io penso ai nostri padri… Pensate bene cosa sarebbe avvenuto a casa vostra…
Il padre, avvisato che arriva il figlio (…lui non se ne sarebbe sicuramente accorto), avvisato che il figlio arriva, avrebbe detto: "beh, vediamo". Sarebbe andato in una stanza: "portatemelo qui, dia spiegazioni, poi vedremo…" E poi, come sarebbe entrato il figlio, gli avrebbe detto: "E allora, figlio, cos'hai da dirmi? Cosa sono stati tutti questi anni senza dir nulla? Non potevi scriverci una lettera? Darci tue notizie?" No! Il padre si avvicina, gli corre incontro, lo ama e continua a baciarlo. Io non ho parole da dire su questo testo, le lascio dire all'apostolo Paolo. E quando a casa avrete tempo, andate a leggervi il capitolo 5 della Lettera ai Romani. Paolo dice: "…mentre eravamo peccatori, Cristo è morto per noi empi". Mentre eravamo nemici Dio ci ha riconciliato con lui, in una simultaneità da parte nostra peccato-odio, simultaneamente Dio ci amava, mentre noi eravamo nemici, mentre noi eravamo peccatori. D'altronde è quello che Gesù farà sulla croce: proprio mentre lo stanno crocifiggendo da persecutori, lui dice: "Padre, perdona loro, non sanno quel che fanno". E il padre bacia a lungo il figlio che era perduto e che ora rinasce, risorge in quell'abbraccio. Vedete, quel figlio si converte in quel momento: il padre lo ha amato mentre lui era cattivo; il padre lo ha aspettato, la casa paterna era sempre aperta. L'abbraccio è avvenuto prima che lui parlasse, prima che lui si spiegasse col padre, prima che lui dicesse quella filastrocca che aveva preparato per carpirne il perdono. Questo eccesso di amore converte il figlio. Esclama San Basilio: "il figlio, vedendo che il padre lo aveva amato mentre lui era cattivo, lascia cadere tutti i suoi calcoli e si converte". Permettetemi di dire in termini nostri attuali: il figlio lascia cadere quella immagine fantasma del padre e ritrova la verità, la realtà del padre, la paternità autentica. Allora in quell'abbraccio, che con un imperfetto Luca dice "non finiva più", il figlio gli dice, ma diventa allora una confessione: "padre, ho peccato contro il cielo e contro te. Non sono degno di esser chiamato tuo figlio". Ma non gi dice più "trattami, fammi come uno dei tuoi salariati". Questa parola voi non la ritrovate più. Il padre non ha fatto rimproveri, non ha recriminato il passato del figlio, e il figlio, convertito in quell'abbraccio di misericordia e tenerezza, non dice più quelle parole che aveva preparato, un comando: "Fammi uno dei tuoi salariati". Quelle parole di scambio non sono più dette. D'altronde tutto l'Antico Testamento ha sempre detto che noi non ci convertiamo da soli, che è Dio che ci converte. Vi ricordate le preghiere di Geremia? "Convertimi, Signore, e io mi convertirò". Oppure per tutto Israele: "Facci tornare, Signore, a te, e noi ritorneremo". Il padre, con il suo amore preveniente, ha convertito il figlio. E allora c'è la conversione in quell'abbraccio. Ecco, vedete, è importante capire che Dio ci ama, anche quando siamo cattivi. E' importante questo. Gesù lo dirà in termini più teologici nel quarto Vangelo: "Non siete voi che amate Dio, ma è Dio che ama voi". E Gesù ha molto più parlato del Dio che ci ama che non del fatto che noi dobbiamo amare Dio. Perché può amare Dio colui che ha conosciuto il vero volto di Dio, colui che ha tolto la maschera del Dio perverso, il fantasma del padre-padrone.
Ed ecco allora che il padre dà avvio alla festa: quella casa diventa luogo del perdono e della festa. E, notate, il figlio voleva dire al padre "fammi uno schiavo, fammi un salariato"; e i salariati non avevano vestiti belli. E il padre prima cosa dice? "Portate il vestito più bello". Seconda cosa: i servi non potevano portare l'anello. E il padre dice: "Portate l'anello al figlio". Ancora: i servi non potevano portare le calzature, andavano scalzi. "Portate le calzature e uccidete il vitello più bello e si faccia festa". E il padre dice: "Presto! E' urgente la gioia!". La parabola poteva terminare qui. E sarebbe stata una parabola che finiva bene. Era conclusa, come quella della pecora e quella della dracma. E Gesù, vedete, che è anche un creatore di parabole a livello letterario, non era soltanto uno che conosceva la Parola di Dio, era anche uno che sapeva creare dei modi per esprimerla, fa continuare questa parabola. E appare il figlio maggiore, colui che era restato sempre a casa, che aveva servito il padre per tanti anni; di fronte al fratello che torna, sentendo la festa, le danze, diventa geloso, va in collera: "Ma com'è possibile?". Oh, suo fratello se n'è andato, ha dilapidato il patrimonio, non ha fatto avere sue notizie, lui è restato a casa, ha ubbidito al padre, ha lavorato, ha portato avanti con anni e con fatica la cascina… e adesso l'altro arriva e gli si fa festa? Questa gioia non gli appartiene e non vuole entrare. E non vuole entrare! Ed ecco la parabola che continua dicendo che il padre di nuovo esce. Era uscito per il figlio perduto, esce per questo figlio. Non lo chiama a sé; avrebbe potuto dire ai servi: "Dite che entri in casa, dite che partecipi alla festa!". No! Esce, esce un'altra volta per incontrare l'altro figlio e, attenzione, "e lo prega insistentemente", termine che in Luca indica sempre la preghiera del cristiano fatta a Dio. E' il padre che prega il figlio. Ma il figlio restato a casa recrimina, vanta una fedeltà: "Da tanti anni io ti servo". Mette davanti al padre la sua giustizia: "Non ho mai trasgredito un tuo comando". E attenzione, cosa ci dice a questo punto Gesù? Che questo, che era stato sempre a casa, aveva vissuto a casa come un salariato, come un mercenario. Esattamente il suo rapporto col padre era il rapporto di chi aveva anche lui sentito il padre-padrone, come quello che se n'era andato via. Lui era restato ma per paura, non aveva mai conosciuto il volto vero di suo padre. Recrimina, dice: "Non mi hai mai dato un capretto", c'è del risentimento. E fa poi un'accusa precisa verso il padre. Anche qui la spiegazione la lascio al Nuovo Testamento, a un parola di Gesù. Nel capitolo 8, versetto 35 del Vangelo di Giovanni Gesù dice: "chi è schiavo non resta sempre nella casa del padre, solo chi è figlio rimane sempre". Cioè chi si sente schiavo, chi fa le cose senza libertà e senza amore sta a casa, ma sta a casa come un mercenario, come un salariato, non come un figlio. Sta a casa, ma non si sente a casa sua, si sente in prigione, senza libertà e senza amore. La parabola ci svela che questo figlio in realtà era mai stato nella casa paterna, non aveva mai conosciuto il padre, era stato a casa vivendo da schiavo. Non è diverso da chi se n'è andato, proprio diverso in nulla. Anzi verrebbe da dire che quello che se n'è andato almeno ha osato; questo ha fatto semplicemente il minchione, neanche capace di osare un'avventura. E il padre allora, che è uscito, gli dice: "Figlio, figlio, figlio mio, tutto quello che è mio è tuo". Notate, queste son le parole di Gesù nella preghiera al Padre, prima della Passione, in Giovanni 17: "Padre tutto ciò che è tuo è mio e tutto ciò che è mio è tuo". Il padre gli dice: "Ma tra noi c'era comunione… eri sempre con me. Potevi pigliarti il capretto quando volevi, senza chiedermi il permesso, perché ciò che è mio è tuo". E poi il padre avrebbe potuto dirgli: "Tu dici di non aver mai trasgredito uno dei miei comandi, ma ora che ti chiedo di entrare sei tu il disobbediente". Ma il fratello continua a recriminare e notate, notate il linguaggio: "Ora che questo tuo figlio che ha divorato gli averi con prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso". Avete presente in casa quando i vostri genitori litigano tra loro a causa vostra? Allora, il padre normalmente dice alla madre: "Tuo figlio". Non dice più "nostro figlio". E la madre non dice "nostro figlio", "tuo figlio". Il fratello fa esattamente così, dice al padre "questo tuo figlio", mentre avrebbe dovuto dire "questo mio fratello". E il padre gli dice: "bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è risuscitato, era perduto ed è stato ritrovato".
E la parabola finisce qui. O meglio non finisce. Ci lascia veramente in una situazione di grande incertezza: il padre è ancora che là che sta pregando il figlio che entri? Il figlio maggiore è entrato? La festa è celebrata o la festa è celebrata o la festa, in realtà, è ancora in forse? Quando Gesù ha detto questa parabola, l'ha detta proprio per quegli scribi e farisei che mormoravano, che sono quel figlio, che sono mai usciti e che si credono di vantare qualcosa, mentre in realtà mai conosciuto il volto del padre, come i peccatori che sono fuori. Ma quando Luca l'ha rimessa nel Vangelo, l'ha rimessa per la Chiesa, per noi. E noi dobbiamo avere il coraggio di dirci: noi siamo il figlio che è perduto, che è tornato? E a che punto del suo itinerario siamo? E se noi possiamo dire: no, noi siamo mai andati via di Chiesa, siam sempre stati accanto al Signore, la domanda scivola sola: ma allora, sei il secondo figlio, che è sempre stato a casa, ma servi il Signore, non per amore, ma per pigliar la paga, come un salariato, in vista del premio eventualmente! E allora sei uguale come quello che è andato via. Guardate, questa è una parabola da cui non si sfugge. Porry Curr, il più grande filosofo cristiano attualmente vivente e filosofo dell'interpretazione, lui dice: questa è una parabola non solo aperta, ma nel conflitto delle interpretazioni ci fa entrare e non ci lascia più andar via senza che noi ci mettiamo all'interno di questa parabola e ci identifichiamo o col figlio primo che se n'è andato o con quello che è sempre restato. Forse la cosa migliore da dire è che ognuno di noi nella sua vita oscilla e qualche volta assume il figlio che se ne va nella ribellione al padre, e qualche volta sta a casa, ma come un salariato che non conosce il volto di Dio.
Gesù ci interpella stasera, ma ci dice soprattutto e lo dice a voi giovani, perché è nella vostra età che si decidono alcune immagini fondamentali che resteranno tutta la vita: che immagine hai di Dio? L'immagine di un padre-padrone? Il fantasma? l'immagine di un Dio perverso? Hai l'immagine di un Dio padre giusto, ma della giustizia retributiva, il quale perdona, ma anche castiga? O hai l'immagine di un Padre che ama, di tenerezza infinita, di misericordia indicibile, senza condizioni e che perdona sempre? Questa parabola ci chiede a ognuno di noi che volto di Dio noi abbiamo dentro di noi . E il volto di Dio è quello che ci accompagnerà fino alla fine, fino alla morte. A ciascuno di noi la risposta nel suo cuore, una risposta che possiamo soltanto dare conoscendo l'amore di Dio, la misericordia di Dio. Se la conosciamo, saremo anche capaci di pentirci; se non conosciamo l'amore di Dio e la misericordia di Dio, non siamo neanche capaci pentirci, di convertirci e di tornare a lui.
Un grande Santo, canonizzato recentemente, Silvano del Monte Athos, in una lettera a un giovane russo, il quale gli diceva che a causa della sua vita dissoluta e cattiva pensava di andare all'inferno, Silvano gli scrive: "Amico, io sono un monaco e tu sei in carcere per la vita dissoluta e i peccati fatti. La differenza tra me e te e che tu sei un pubblicano, con peccati pubblici, io sono un monaco con peccati nascosti. Ma di fronte a Dio siamo tutti peccatori nello stesso modo. E solo Dio giudicherà chi noi è più degno della sua misericordia. Io ti dico soltanto che se un giorno andrai all'inferno, tu troverai nel cuore dell'inferno Cristo con le braccia aperte, pronto a portarti al Padre. Basterà che tu accetti il suo volto di amore e di misericordia".
Io auguro a ciascuno di voi giovani, perché nessuno di noi è sicuro nella vita dove finirà, se lontano dal Signore o vicino, ma ovunque siate, foste anche in zone infernali, non dimenticatevi di questa parabola. In quelle zone infernali c'è Cristo con le braccia parte: basterà che pigliate il suo abbraccio benedicente e lui vi porterà al Padre. E il Padre continuerà a baciarvi e intonerà la festa per voi e per tutti gli altri suoi figli che tornano a lui.