E' la sindrome da futuro corto
di ILVO DIAMANTI
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Non bisogna mai attribuire troppi significati ai sondaggi
istantanei, fatti oggi per domani. Per ovvie cautele di metodo.
Servono a raccogliere umori ed emozioni restando nel vivo dei
problemi. Non per approfondire. Per scendere sotto la superficie.
Tuttavia, le risposte raccolte dal Cirm offrono molti spunti
coerenti con quanto emerge da altre ricerche, con altre riflessioni.
E, soprattutto, con quanto si coglie nella vita quotidiana,
nell'osservazione diretta. Nei dialoghi delle persone. Che
raccontano un sentimento di incertezza e disorientamento. Nulla di
drammatico. Nessuna rottura visibile. Ma mille segnali, più o meno
piccoli. E una nube spessa. Che ci disturba. Rende difficile
guardarci attorno. Andare lontano con lo sguardo e con la mente.
Nell'ultimo mese le persone sembrano avere scoperto che il mondo è
tra noi. Che non ci sono confini e barriere, a frenarne la presenza
incombente. E reagiscono "chiudendosi". Senza panico,
senza esasperazioni. Ma si chiudono.
Più chiuso appare l'orizzonte dei progetti individuali e familiari.
Il lavoro, ma soprattutto le prospettive del reddito e del
risparmio: il futuro diventa corto. Più chiuso, depresso, è lo
stile dei consumi attraverso cui ci si dichiara e presenta. Chiuso
è il contesto delle relazioni, la rete dei legami sociali, la mappa
dei nostri luoghi di riferimento. Si tende, cioè, a
"chiudersi" (appunto) a casa nostra, in mezzo ai nostri
familiari. Al più nella cerchia degli amici più fidati. Ci si
chiude. O almeno, così si vorrebbe fare. Alla ricerca di sicurezza.
E ci si ferma di più. Abituati a muoversi, a viaggiare, a passare i
confini senza neppure vederli, senza percepire distanze né
differenze, da un paese all'altro, per lavoro, vacanza, avventura...
Abituati a una mobilità crescente gli italiani cominciano a
scoprire le virtù della staticità. Della lentezza. Della terra.
Intesa come base su quale viaggiare. A piedi, in bici, in auto.
Magari in treno. Senza però staccare i piedi. O le gomme. Per paura
di volare. Per paura. Le distanze diventano, così, un problema. Un
limite.
Infine, gli altri. Ci fanno più paura di ieri. Soprattutto quelli
che vengono da fuori, gli immigrati: oggi appaiono più diversi e
lontani da noi, rispetto a qualche tempo addietro (anche se sembrano
preoccupare soprattutto coloro che li temevano già prima). Ma, in
generale, ci preoccupano le concentrazioni. Le grandi città, i
grandi edifici. Le metropoli immense. Che generano insicurezza. E
oggi paura. Si vorrebbe uscirne. Fuggire. In luoghi, località
minori. Dove la gente si conosce. L'estraneo è identificato subito.
Tentazioni, più che intenzioni vere e fondate. Tanto che quasi
tutte le persone interrogate dal Cirm, realisticamente, ammettono
che non cambieranno residenza. (Non è facile trovare casa, oggi;
figuriamoci cambiarla). Segni che danno l'idea di un cambiamento di
clima sociale. Che, in effetti, era già nell'aria. Solo che prima
esistevano confini e soggetti definiti, precisi, su cui si poteva
concentrare la nostra esigenza di spiegazione, di senso.
I cosiddetti "microcriminali", soprattutto. I responsabili
di tanti "piccoli" reati che, per questo, perché
investono il nostro "piccolo" mondo privato, producono
"grande" risentimento. Grande paura. E grande rabbia. Ora
i piccoli criminali comuni sembrano scomparsi. Affondati anch'essi
in un'incertezza più ampia. Perché la tragedia americana, la
guerra annunciata, annullano i confini, ci pongono, tutti, di fronte
a rischi che non possiamo controllare. Che non possiamo eludere. Metà
degli intervistati confessano che non esiste alcun luogo in cui si
sentano sicuri.
E' un'incertezza che non possiamo depistare, ingannare, rivolgendola
in altre direzioni. Certo, la "congiuntura" complica le
cose. Accentua l'inquietudine. Ispessisce la tela del pessimismo.
Cambierà lo scenario internazionale. Passeranno anche i venti di
guerra. E assieme a loro anche i sentimenti delle persone si
"normalizzeranno". Forse. Ma è inutile pensare che tutto
tornerà come prima. Sarà una normalità nuova. Diversa. Non solo
perché difficilmente l'instabilità geopolitica si arresterà.
Anche perché, soprattutto perché il nostro mondo era già cambiato
prima. E ciò che è avvenuto ha contribuito solo a renderlo più
evidente.
Tuttavia, le risposte date dalle persone intervistate in questa
occasione, forniscono anche spiragli. Indicazioni. Ci dicono, in
particolare, di una improvvisa voglia di comunicare. Di parlare con
gli altri. I familiari, gli amici. I compagni di lavoro. Si
registra, inoltre, una diffusa domanda di informazione. C'è bisogno
di rassicurazione, si dirà. Di dare spiegazione alle nostre paure.
Per fugarle. O almeno esorcizzarle. Ma non è così. Non solo,
almeno. E' domanda di comunità, di relazioni, di istituzioni. In
una società dove la tela della comunità, delle relazioni, delle
istituzioni appare, da tempo, sempre più logora.
(La Repubblica - 27 settembre 2001) |
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Una
ricerca sulle attività e le associazioni "non profit":
oltre cinque milioni le persone impegnate
Cinque ore alla settimana ecco l'Italia dei volontari
di MARTA MANDO'
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Gli italiani propensi all'altruismo? Sembrerebbe di sì. Sono
infatti oltre cinque milioni le persone (per l'esattezza 5.397.000)
che nel 1997 si sono impegnate in prima persona in attività di
volontariato sociale e civile. Questo il dato emerso dal sesto
rapporto sul mondo dell'associazionismo sociale fatto dall'Iref,
l'Istituto di ricerca delle Acli, e presentato questa mattina a Roma
con il patrocinio del Cnel.
Gli italiani, dunque, sono persone di cuore, capaci di prodigarsi
gratuitamente per cinque ore e mezzo a settimana; se lo stesso tempo
fosse regolarmente retribuito ci vorrebbero in un anno circa 750
mila lavoratori a tempo pieno. Di fatto il 12 per cento della
popolazione adulta svolge attività di volontariato, un dato nella
media con i paesi europei anche se un po' inferiore a quello degli
anni Ottanta, quando si aveva una stima del 15 per cento.
La ricerca, condotta in collaborazione con l'Eurisko, ha anche
riportato per la prima volta i dati sulle donazioni in denaro o in
beni che noi italiani facciamo a favore di organizzazioni non profit.
Una solidarietà che coinvolge il 46 per cento degli italiani, oltre
20 milioni di persone che nell'arco di un anno hanno fatto regali in
favore di enti a sostegno dei più bisognosi. "Di fatto quasi
tutta la popolazione italiana fa offerte e donazioni", ha
spiegato il sociologo Ilvo Diamanti,
"perché è un atto di che si compie a nome di tutta la
famiglia". Per un ammontare, per il 1996, di oltre due miliardi
di lire circa, 100 mila lire a testa, se si escludono i grandi
donatori.
Il mondo dell'associazionismo è invece in calo: coinvolge oltre 15
milioni di italiani (il 35 per cento) ma la spinta associativa
mostra segni di declino, soprattutto per quanto riguarda il numero
degli iscritti ai partiti (meno 1,2 per cento nel 1997 rispetto al
1994), dei sindacati (meno due per cento) e delle associazioni di
categoria e professionali (meno 1,3 per cento). In aumento invece le
adesioni alle associazioni di carattere sociale e civico.
"Il terzo settore", ha commentato il presidente del Cnel
Giuseppe De Rita, "si colloca a metà tra il verticalismo del
potere politico e la molecolarizzazione, tra l'azione lontana dello
Stato e la difesa dello spazio del singolo, ma è di fatto
riconosciuto come una realtà rigenerante del tessuto logoro della
società civile". Basti pensare alle sue doti
"taumaturgiche" in tema di lotta contro le differenze
sociali e razziali, di tutela dei diritti civili, dell'ambiente, dei
consumatori e così via. La ricerca ha anche evidenziato quanto, a
fronte del calo della partecipazione, sia in crescita la fedeltà
degli associati, si vada verso una maggiore professionalità
dell'associato e si vadano consolidando vere e proprie aziende a
carattere associativo.
Un ultimo dato mostra che anche per il fenomeno dell'associazionismo
e del volontariato è connotato da divisioni e contraddizioni.
Un'Italia divisa in due: nel Nord Ovest e nei centri urbani la
partecipazione sociale è più forte, nel Sud e le isole la trama
civile e politica è più debole e ancorata a vecchi schemi sociali.
Infine, una interessante "differenza sessuale": tutto al
femminile il volontariato, tutto al maschile l'associazionismo.
(La Repubblica - 7 luglio 1998) |
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