IL PATTO D'ACCIAIO

Voluto da Mussolini a significare "l'eterna solidarietà"del fascismo verso il nazismo, il Patto d'Acciaio venne firmato a Berlino il 22 maggio 1939 per la durata di 10 anni. Il trattato di alleanza era composto di sette articoli e sanciva, tra l'altro, la rinuncia della Germania a Sud Tirolo.
In più stabiliva che, qualora una delle due potenze si trovasse impegnata in "complicazioni  belliche", l'altra doveva "porsi immediatamente come alleato al suo fianco e sostenerla con tutte le sue forze militari, per terra, per mare e per aria". Le due parti contraenti si obbligavano, "nel caso d'una guerra condotta insieme, a non concludere armistizio o pace se non di pieno accordo tra loro".
Mussolini sperava con questo patto di prolungare la pace in Europa almeno fino al 1942-43, non essendo preparato né militarmente né economicamente.
Ma Hitler decise in modo autonomo*: Il Duce, nonostante il Patto d'Acciaio, allo scoppio della guerra (1° settembre 1939) dichiarò la "non belligeranza" non rispettando gli accordi fatti. Non solo, violando l'art. 5 della convenzione, l'Italia nel settembre 1943 firmò l'armistizio con gli Alleati e scatenò l'ira di Berlino.
Fonte: da Cento Anni Fatti e misfatti di questo nostro secolo raccontati da Enzo Biagi

   

 * nell'agosto 1939, Russia e Germania stipulano un patto di non aggressione con la clausola segreta che prevede lo smembramento della Polonia. Von Ribbentrop vola a Mosca e firma il patto; scambiano, sorridenti, forti strette di mano. Il 1° settembre 1939 la Polonia è infatti la prima vittima di questa alleanza. Poi verrà il turno dell'Europa.

BRANO TRATTO DAL "DIARIO" DI GALEAZZO CIANO

In questa parte del diario Ciano cerca si scagionarsi dalla colpa di aver firmato un patto che avrebbe trascinato l'Italia alla rovina.
La tragedia italiana ha, per me, avuto inizio nell'agosto 1939, quando, recatomi di mia iniziativa a Salisburgo, mi trovai improvvisamente di fronte alla fredda, cinica determinazione tedesca di scatenare il conflitto. L'alleanza era stata firmata nel maggio. lo l'avevo sempre avversata ed avevo fatto in modo che le persistenti offerte tedesche fossero per lungo tempo rimaste senza seguito. Non vi era - a mio avviso - nessuna ragione per legarci - vita e morte - alla sorte della Germania nazista. Ero stato invece favorevole ad una politica di collaborazione perché, nella nostra posizione geografica, si può e si deve detestare la massa di ottanta milioni di tedeschi, brutalmente piantata nel cuore dell'Europa, ma non si può ignorarla. La decisione di stringere l'alleanza fu presa da Mussolini, all'improvviso, mentre io mi trovavo a Milano con Ribbentrop. Alcuni giornali americani avevano stampato che la metropoli lombarda aveva accolto con ostilità il ministro tedesco e che questa era la prova del diminuito prestigio personale di Mussolini. Inde ira. Per telefono ricevetti l'ordine, il più perentorio, di aderire alle richieste tedesche di alleanza, che da più di un anno avevo lasciato in sospeso e che pensavo di lasciarcele per molto tempo ancora. Così nacque il Patto d'acciaio.
E una decisione che ha avuto influenze tanto sinistre sulla vita e sul domani dell'intero popolo italiano è dovuta, esclusivamente, alla reazione dispettosa di un dittatore contro la prosa, del tutto irresponsabile e senza valore, di alcuni giornalisti stranieri... Una clausola però aveva l'alleanza: quella che per un periodo di tre-quattro anni, né l'Italia né la Germania avrebbero sollevate questioni atte a turbare l'ordine europeo. Invece nell'estate del '39 la Germania avanzò le sue richieste antipolacche, naturalmente a nostra insaputa; anzi Ribbentrop smentì a più riprese al nostro ambasciatore l'intenzione germanica di spingere la polemica fino alle estreme conseguenze. Nonostante queste smentite, rimasi incredulo: volli sincerarmi di persona e l'11 agosto andai a Salisburgo. Fu nella sua residenza che Ribbentrop, mentre attendevamo di sederci a mensa, mi comunicò la decisione di dar fuoco alle polveri, così come avrebbe potuto darmi notizia del più modesto affare di ordinaria amministrazione.
"Ebbene, Ribbentrop", gli chiesi passeggiando nel giardino al suo fianco, "che cosa volete? Il Corridoio o Danzica?" "Ormai non più", e mi sbarrò addosso quei suoi freddi occhi da Museo Grévin: "vogliamo la guerra".
Sentii che la decisione era irrevocabile e vidi, in un secondo, la tragedia che incombeva sull'umanità. Dieci ore durarono quel giorno le conversazioni - non sempre cordiali - col mio collega tedesco, e altrettanto, nei due giorni successivi, quelle che io ebbi con Hitler. I miei argomenti scivolavano sulla loro volontà come l'acqua sul marmo. Niente ormai avrebbe potuto impedire l'esecuzione di un criminoso progetto lungamente meditato, accarezzato, discusso in quelle cupe riunioni che il Fúhrer è solito tenere ogni sera tra i suoi più intimi. La follia del Capo era diventata la religione dei seguaci. Ogni obbiezione restava senza risposta, quando poi non cadeva nello scherno. Hitler arrivò perfino a dirmi che io, uomo del Sud, non potevo capire quanto lui, uomo germanico, avesse bisogno di mettere le mani sul legname delle foreste polacche...        
Segue...   


 Vai alla pagina sulla Guerra Mondiale