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Interventi
di Daniele Checchi, Eugenio Somaini, Alessandro Cavalli
a cura di Agnese Bertello
I
dati OCSE ci dicono che l'italia è il paese che ha il più alto numero di
insegnanti e dunque il più basso rapporto docente/insegnante. I loro stipendi
incidono per il 95% sulla spesa pubblica per l'Istruzione, lasciando ben poco
per edilizia, investimenti, attrezzature. I risultati sul rendimento dei nostri
studenti non sembrano giustificare queste differenze. Allora perché?
Eugenio
Somaini
Sei anni fa ho scritto un libro dal titolo "Scuola e mercato" in
cui affrontavo il problema della quantità degli insegnanti; in quel libro mi
basavo prevalentemente sulla letteratura americana. L'opinione prevalente negli
Stati Uniti era che la numerosità degli insegnanti, il rapporto tra studenti
e docenti, o con indici più sofisticati, il rapporto tra studenti e ore
d'insegnamento, non influisse significativamente sulla qualità del processo
formativo. Più significativa, sulla qualità dell'insegnamento, era la
qualità della formazione degli insegnanti, le motivazioni e gli incentivi. Ci
furono però studi successivi che cercarono di smontare questa tesi. Tutte
queste considerazioni avevano evidentemente anche un peso dal punto di vista
finanziario e delle strategie generali finanziarie di uno stato: si tendeva a
dire che non importava quanto si spendeva, ma come. Il problema non era il
numero degli insegnanti, ma la qualità del loro lavoro.
Quando scrissi quel libro, caldeggiavo una maggiore autonomia e
responsabilizzazione decisionale, all'interno delle scuole, un processo che può
garantire una maggiore presa in carico del risultato del proprio operare da
parte dei dirigenti scolastici e poi degli insegnanti. Ero convinto già allora,
e lo sono ancora di più oggi, che anche questa soluzione non è priva di rischi
e questi processi devono essere affiancati da sistemi di valorizzazione, di
controllo, abbastanza stringenti.
Un argomento collegato al tema centrale di oggi, cioè il numerosità degli
insegnanti, è il rapporto tra l'uguaglianza e l'istruzione: infatti, una
parte significativa dell'aumento del personale scolastico è dovuta all'esigenza
di fare fronte a situazioni di difficoltà, alla necessità di avere insegnanti
dedicati a studenti con problemi sociali, relazionali, psicologici o fisici. In
questi casi, il rapporto diretto, personale è fondamentale, e richiede che il
rapporto numerico tra i destinatari dei servizio e gli insegnanti sia stretto.
Si potrebbe dire che, da questo punto di vista, gli insegnanti non sono troppi,
perché il loro numero è in ragione di specifici problemi e la loro presenza
è un fattore posto a limitare le disuguaglianze di opportunità.
Negli ultimi decenni è enormemente cresciuto il peso del capitale umano nella
formazione e nella distribuzione della ricchezza ed è evidente che l'istruzione
è uno degli elementi che concorrono a formare il capitale umano. Il capitale
umano è diventato certamente più importante del capitale finanziario nel
determinare le possibilità di successo di un individuo nella società e anche
nella formazione di ricchezza.
Il sistema dell'uguaglianza è oggi la risultante del peso del capitale umano,
nella formazione del quale gioca un ruolo importante anche se non esclusivo
l'istruzione, e del fatto che gli accessi all'istruzione si sono allargati
sensibilmente, per quanto non in modo pienamente soddisfacente.
Se guardiamo alle persone che oggi siedono ai vertici delle grandi aziende,
quasi nessuna di loro discende da un'élite riconosciuta; sono per lo più
persone che vengono da una famiglia di classe media, con un buon livello di
cultura, con sufficienti motivazioni e con doti personali di un certo tipo;
possiamo dire che si è sensibilmente ridotto il meccanismo di trasmissione
ereditaria dei posti di potere, assistiamo a un certo rimescolamento sociale.
Se il capitale umano è così decisivo, e se l'istruzione è così importante
nella formazione di capitale umano, allora diventa importante studiare un punto
di vista degli effetti che ha sulla formazione delle ineguaglianze il processo
dell'istruzione. Nell'istruzione si manifestano quegli stessi fattori di
discriminazione che per un altro verso essa stessa dovrebbe contrastare.
Innanzitutto, va ricordato che ci sono due fondamentali concetti legati
all'uguaglianza: uguaglianza dei risultati e uguaglianza delle opportunità.
Quest'ultima si domanda in quali condizioni si trovano i soggetti all'inizio del
loro percorso. Cosa implica questa uguaglianza iniziale di opportunità e che
contributo dà la scuola per realizzarla? Un filosofo americano, Micheal Walzer,
dice che "l'uguaglianza delle opportunità è un'idea molto più
radicale dell'uguaglianza dei risultati, se si porta la sua logica alle sue
estreme conseguenze dovremmo essere pronti ad allontanare i bambini dalle loro
famiglie, perché è la fonte principale della disuguaglianza".
L'uguaglianza è un valore fondamentale ma va preso con cautela, se lo si prende
alla lettera può portare a risultati paradossali, d'altra parte se si rinuncia
a prenderlo alla lettera non è ben chiaro che cosa sia, allora l'uguaglianza.
Faccio queste riflessioni, per rendere conto della complessità del problema.
Ovviamente le "gare", per usare la metafora sportiva che comunemente
si applica alla vita, sono tante, ma comunemente si pensa che la gara sia quella
che inizia alla fine della scuola, la gara principale è il raggiungimento di
una posizione sociale, professionale, economico. Ma anche la scuola può
essere vista come una gara.
Per potenziare il sistema e avere una minore ineguaglianza, una più equa varietà
di possibilità, di occasioni, continuando con questa metafora, si possono
immaginare due strategie. La prima vede la scuola come un'unica gara, con un
unico sistema di premi. Un'altra strategia è aumentare il numero delle gare.
Certamente alcune gare saranno più prestigiose di altre, ma se si cerca di
valorizzare il prestigio di una serie di gare, quanto più diverse tra loro, si
aumentano le occasioni vincenti. Questo significa che per uno studente anche
l'ottenimento di un diploma professionale deve essere un traguardo da ambire, un
risultato prezioso. Finché immagineremo come l'unico risultato
"buono" l'aver conseguito la laurea, faremo dei perdenti di chi non
raggiunge quell'obiettivo.
Ciò che mi preoccupa di alcuni discorsi ugualitari è proprio l'enfasi posta
sull'istruzione superiore in senso canonico.
Vengo al punto significativo: anticipare la scelta del percorso formativo in un
contesto come questo certamente molto pericolo e può creare molti danni,
inducendo la maggior parte degli studenti ad abbandonare la scuola. La Germania
è uno dei paesi in cui la separazione del percorso formativo avviene molto
presto, ma ha un sistema di scuole tecniche superiori molto avanzate.
Daniele
Checchi
Gli insegnanti sono troppi? Sì, nella misura in cui vale il criterio
comparativo degli altri paesi. Secondo i dati del 2000, in Italia, nelle
elementari, ci sono 11 alunni per insegnanti, contro una media dell'area OCSE di
17,7, ci sono paesi come la Gran Bretagna dove ci sono 20 alunni per
insegnanti. Del tutto simile, la situazione della scuola media: in italia ci
sono 10 alunni per insegnante contro una media OCSE di 15. Alle superiori 10,2
contro una media di 13,9. A livello universitario la situazione si inverte:
ci sono invece 22 studenti per docente contro la media europea di 14,7.
Se dovessi guardare solo questa tabella ne concluderei che effettivamente un
taglio del 30% degli insegnanti italiani ci porterebbe nella media dei paesi
europei. Tuttavia se vogliamo porre la questione correttamente, dobbiamo
soprattutto domandarci se una minor presenza di insegnanti, o una minore
numerosità delle classi o un più basso rapporto alunni per insegnanti sia
davvero rilevante per la carriera degli alunni.
Se si considera il risultato scolastico di alunni di cui si conoscano dati come
gli alunni per classe e per i quali quindi è possibile considerare l'effetto
della composizione delle classi sulle performance, ebbene risulta che solo in
due paesi su 17 vi è un effetto di miglioramento sulla base del fatto che sono
in classi meno numerose. Se non c'è nessun impatto sulla performance degli
studenti e se di fatto gli insegnanti costano, c'è una doppia ragione per
procedere a tagli.
Negli anni Quaranta, la media italiana era di 30 alunni per insegnanti, ma si va
dai 13 alunni per classe in Umbria del 1968 ai 40 della Sardegna nel dopo
guerra. In Italia, soprattutto nel dopo guerra c'era un'enorme variabilità
degli standard educativi offerti alla popolazione italiana. Questa variabilità
si è progressivamente ridotta nel tempo: la media è 15, e la variabilità
è +1/-1.
Il dato alunni per insegnanti ha un effetto quasi insignificante sulla carriera
delle persone: vivere in Umbria o in Sardegna, apparentemente, non fa nessuna
differenza, dal punto di vista della capacità di affermazione sul mercato del
lavoro, ha invece un impatto molto forte sulla scolarità acquisita dagli
individui, perché ritarda l'abbandono scolastico, e quindi ha un impatto
indiretto sul reddito delle persone.
Quando noi introduciamo come variabili esplicative non solo le risorse che il
sistema scolastico ha messo a sua disposizione, ma anche l'istruzione dei suoi
genitori, troviamo che questa ha un impatto molto più forte delle risorse
scolastiche godute. Per darvi una misura: due alunni per insegnante in meno (che
corrisponde a un miglioramento del 10% nella qualità delle risorse) equivalgono
a mezzo anno di istruzione dei genitori, vale a dire che se io riuscissi a
mandare la media dei genitori a scuola un anno in più, questo sarebbe
equivalente a ridurre di 4 alunni per insegnante dal punto di vista dell'impatto
che questo ha sulle carriere scolastiche della popolazione. Un innalzamento
della carriera scolastica dei genitori ha un impatto molto più forte che
qualunque ulteriore miglioramento degli standard scolastici.
Servono o non servono più insegnanti? Servirebbero degli insegnanti che fossero
più incisivi della realtà famigliare. La domanda a questo punto sarà: con
quali strumenti possiamo migliorare l'incidenza degli insegnanti o con quali
strumenti possiamo ridurre l'impatto dei fattori famigliari senza ricorrere allo
scambio delle culle? C'è un filone di letteratura che sostiene che una
maggiore autonomia nella capacità di decisione dei contenuti formativi può
aiutare in questo senso. Ho provato a domandarmi in che modo una maggiore
autonomia nella decisione dei programmi possa servire a questo scopo. Gli
economisti ragionano come se per generare capitale umano bastasse buttare in una
scatola nera insegnanti, edifici, biblioteche. L'output di questa operazione
sarebbero anni di scuola incorporati nelle persone. Che cosa si può
introdurrein questa scatola nera che arrivi a incidere più della famiglia?
Sicuramente una cultura di tipo nozionistico
tende a favorire la persistenza dei risultati scolastici nei figli a partire da
quelle dei genitori. Se chiedo ai bimbi la conoscenza di informazioni, dalle
date alle capitali, la trasmissione di queste nozioni è facilitato da una
cultura famigliare che rafforza questo tipo di formazione. Quando concedo alle
scuole di sperimentare una maggior libertà nella definizione dei programmi, io
mi aspetto che ciò allenti il peso formativo delle famiglie. Se invece non
c'entra la cultura di tipo nozionistico, ma c'entra l'autostima e l'autogratificazione
dell'io, da questo punto di vista non so valutare se un maggior decentramento
possa produrre degli effetti di minor dipendenza dal livello di conoscenze della
famiglia.
Quanto più mi convinco che l'autonomia scolastica favorisce la maggior
uguaglianza delle opportunità, tanto più mi si pone il problema del come
reagiscono le famiglie di fronte a una scuola che possiede una maggiore capacità
di differenziarsi.
Immaginiamoci un sistema scolastico a base totalmente decentrata, la scuola
decide i programmi che vuole seguire, il problema sarà, allora, sulla base di
quali criteri le famiglie scelgono di mandare i figli da una parte o dall'altra.
Le famiglie per poter effettuare delle scelte coscienti hanno bisogno di
avere informazioni sugli esiti del tipo di processo informativo che viene
offerto, perché altrimenti sceglieranno sulla base di luoghi comuni e criteri
che non tendono a migliorare l'efficienza formativa del sistema. L'unico
modo per acquisire informazioni adeguate sul successo formativo è quello di
monitorare gli studenti successivamente. Se si vuole decentrare, occorre avere
un monitoraggio continuo. Voglio sapere gli alunni che hanno frequentato quella
scuola dove vanno a finire.
In America questo sistema di monitoraggio non c'è e cercano di sopperirvi con
valutazioni orizzontali, in cui gli studenti che vogliono accedere all'Università
si sottopongono al set score. Nel momento in cui i risultati del set
score vengono pubblicizzati, i genitori otterranno informazioni di tipo
comparativo tra le scuole. Questo però crea un effetto laterale non molto
desiderabile: le scuole sono scelte per l'autoselezione dell'ambiente
scolastico che offrono. In parte perché c'è la reputazione che in quella
scuola venga offerta una buona qualità formativa, in parte perché l'ambiente
si è autoselezionato.
Da questo punto di vista sorgono perplessità sull'eccesso di decentramento: può
rivelarsi estremamente nocivo dal punto di vista delle disparità che
contribuirebbe a creare. Nel momento in cui fornisco alle scuole maggiore
autonomia decisionale devo anche introdurre libertà nei sistemi di
incentivazione. Non posso fare l'una senza l'altra cosa. Le scuole devono essere
libere di scegliere il sistema di incentivazione della miglior performance. Le
scuole che perdono studenti devono essere chiuse, in Nuova Zelanda, hanno fatto
un esperimento spinto in questo senso, ma hanno visto che le scuole che chiudono
sono quelle nelle zone più disagiate. Un servizio essenziale viene a mancare
nelle aree in cui è più importante che rimanga.
Dall'indagine PISA, risulta che gli studenti italiani hanno una performance
inferiore di quella di quasi tutti gli studenti europei; lo stesso si può dire
della capacità matematica o scientifica; tuttavia la dispersione di questi
esiti in Italia è più bassa che in quella degli altri paesi. Il vantaggio di
un sistema decentrato è la maggior capacità di adattamento, quello di un
sistema centralizzato è che essendo fortemente centralizzato tiene compressa la
varianza degli esiti.
Alessandro
Cavalli
I dati che ha portato Checchi devono fare riflettere e richiedono una
spiegazione. Dobbiamo chiederci come mai nella scuola elementare e media noi
abbiamo un rapporto docente/alunni radicalmente diverso dalla media degli altri
paesi, tanto più quando sappiamo che in termini di risultati questa differenza
non si coglie.
Voglio portare qualche elemento.
L'Italia è un paese dove c'è una quota elevata di popolazione che vive in aree
montane, con comunità mediamente più piccole; la politica scolastica è
stata di mantenere la scuola primaria diffusa sul territorio, si sono venute
a creare classi con pochi alunni. Si può discutere se valga la pena di
mantenere questa capillarità o no.
Se analizziamo le ore di insegnamento, vediamo che da noi gli studenti stanno
di più a scuola che negli altri paesi europei. Ciò produce degli effetti
positivi sulle performance? Credo di no, ho anzi il sospetto contrario, che
l'allungamento degli orari abbia effetti dannosi. Dovremmo chiederci allora se
è meglio prolungare l'orario con il dopo scuola o incrementare attività
extrascolastiche di tipo educativo, ricreativo.
Credo, però, che nonostante queste spiegazioni, il fatto che in Italia ci sono
più insegnanti che nella media europea rimanga.
Io avanzo un'ipotesi di spiegazione. Noi abbiamo nello stesso tempo carenza e
eccedenza di laureati. Carenza in confronto agli altri paesi, ma eccedenza
rispetto al mercato del lavoro. In certe fasi della storia del nostro paese
la presenza di un nucleo consistente di laureati disoccupati è stata percepita
come una minaccia al consenso, alla stabilità del nostro sistema ed è
stata adottata la strategia di assorbirli nell'amministrazione pubblica e in
particolare nella scuola. È singolare che dalla metà degli anni Sessanta in
poi noi vediamo che la curva degli alunni decresce, perché diminuisce
drasticamente il numero dei nati, mentre quella che misura gli insegnanti
cresce. La scuola migliora, ma non è soltanto per far migliorare la scuola
che c'è stato questo singolare fenomeno che non riscontriamo negli altri
paesi. Dopo il 1966 il numero degli insegnanti si riduce e probabilmente nel
lungo periodo ci avvicineremo agli standard degli altri paesi.
Un altro dato importante che non abbiamo ancora citato è il costo della
spesa pubblica per l'istruzione per alunno a cui si aggiunge la spesa delle
famiglie. La spesa per la scolarizzazione di un figlio fino ai 15 anni è in
Italia il più alto d'Europa. Il grande numero degli insegnanti fa sì che
abbiamo una spesa procapite piuttosto elevata.
Io ho la sensazione che ci siano dei forti squilibri nel modo con i quali questa
spesa è distribuita. Il 95% della spesa pubblica per l'istruzione è in
retribuzione del personale e soltanto il 5% per tutto il resto, per esempio
per l'edilizia scolastica che nel nostro paese è a livelli spesso drammatici.
Nessun paese europeo spende la stessa cifra per le retribuzioni, riducendo
ovviamente gli investimenti.
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