Luigi Pirandello
Il fu Mattia Pascal
IX
Un po' di nebbia
Del primo
inverno, se rigido, piovoso, nebbioso, quasi non m'ero accorto tra gli svaghi
de' viaggi e nell'ebbrezza della nuova libertà. Ora questo secondo mi
sorprendeva già un po' stanco, come ho detto, del vagabondaggio e deliberato a
impormi un freno. E mi accorgevo che... sì, c'era un po' di nebbia, c'era; e
faceva freddo; m'accorgevo che per quanto il mio animo si opponesse a prender
qualità dal colore del tempo, pur ne
soffriva.
«Ma sta' a vedere,» mi
rampognavo, «che non debba più far nuvolo perché tu possa ora godere serenamente
della tua libertà!»
M'ero spassato
abbastanza, correndo di qua e di là: Adriano Meis aveva avuto in quell'anno la
sua giovinezza spensierata; ora bisognava che diventasse uomo, si raccogliesse
in sé, si formasse un abito di vita quieto e modesto. Oh, gli sarebbe stato
facile, libero com'era e senz'obblighi di
sorta!
Così mi pareva; e mi misi a
pensare in quale città mi sarebbe convenuto di fissar dimora, giacché come un
uccello senza nido non potevo più oltre rimanere, se proprio dovevo compormi una
regolare esistenza. Ma dove? in una grande città o in una piccola? Non sapevo
risolvermi.
Chiudevo gli occhi e col
pensiero volavo a quelle città che avevo già visitate; dall'una all'altra,
indugiandomi in ciascuna fino a rivedere con precisione quella tal via, quella
tal piazza, quel tal luogo, insomma, di cui serbavo più viva memoria; e
dicevo:
«Ecco, io vi sono stato! Ora,
quanta vita mi sfugge, che séguita ad agitarsi qua e là variamente. Eppure, in
quanti luoghi ho detto: - Qua vorrei aver casa! Come ci vivrei volentieri! -. E
ho invidiato gli abitanti che, quietamente, con le loro abitudini e le loro
consuete occupazioni, potevano dimorarvi, senza conoscere quel senso penoso di
precarietà che tien sospeso l'animo di chi
viaggia.»
Questo senso penoso di
precarietà mi teneva ancora e non mi faceva amare il letto su cui mi ponevo a
dormire, i varii oggetti che mi stavano
intorno.
Ogni oggetto in noi suol
trasformarsi secondo le immagini ch'esso evoca e aggruppa, per cosi dire,
attorno a sé. Certo un oggetto può piacere anche per se stesso, per la diversità
delle sensazioni gradevoli che ci suscita in una percezione armoniosa; ma ben
più spesso il piacere che un oggetto ci procura non si trova nell'oggetto per se
medesimo. La fantasia lo abbellisce cingendolo e quasi irraggiandolo d'immagini
care. Né noi lo percepiamo più qual esso è, ma così, quasi animato dalle
immagini che suscita in noi o che le nostre abitudini vi associano.
Nell'oggetto, insomma, noi amiamo quel che vi mettiamo di noi, l'accordo,
l'armonia che stabiliamo tra esso e noi, l'anima che esso acquista per noi
soltanto e che è formata dai nostri
ricordi.
Or come poteva avvenire per me
tutto questo in una camera d'albergo ?
Ma una casa, una casa mia, tutta mia, avrei potuto più averla? I miei denari
erano pochini... Ma una casettina modesta, di poche stanze? Piano: bisognava
vedere, considerar bene prima, tante cose. Certo, libero, liberissimo, io potevo
essere soltanto così, con la valigia in mano: oggi qua, domani là. Fermo in un
luogo, proprietario d'una casa, eh, allora : registri e tasse subito! E non mi
avrebbero iscritto all'anagrafe? Ma sicuramente! E come? con un nome falso? E
allora, chi sa?, forse indagini segrete intorno a me da parte della polizia...
Insomma, impicci, imbrogli!... No, via: prevedevo di non poter più avere una
casa mia, oggetti miei. Ma mi sarei allogato a pensione in qualche famiglia, in
una camera mobiliata. Dovevo affliggermi per così
poco?
L'inverno, L'inverno m'ispirava
queste riflessioni malinconiche, La prossima festa di Natale che fa desiderare
il tepore d'un cantuccio caro, il raccoglimento, l'intimità della
casa.
Non avevo certo da rimpiangere
quella di casa mia. L'altra, più antica, della casa paterna, l'unica ch'io
potessi ricordare con rimpianto, era già distrutta da un pezzo, e non da quel
mio nuovo stato. Sicché dunque dovevo contentarmi, pensando che davvero non
sarei stato più lieto, se avessi passato a Miragno, tra mia moglie e mia suocera
- (rabbrividivo!) - quella festa di
Natale.
Per ridere, per distrarmi,
m'immaginavo intanto, con un buon panettone sotto il braccio, innanzi alla porta
di casa mia.
«- Permesso? Stanno ancora
qua le signore Romilda Pescatore, vedova Pascal, e Marianna Dondi, vedova
Pescatore?»
«- Sissignore. Ma chi è
lei?»
«- Io sarei il defunto marito
della signora Pascal, quel povero galantuomo morto l'altr'anno, annegato. Ecco,
vengo lesto lesto dall'altro mondo per passare le feste in famiglia, con licenza
dei superiori. Me ne riparto subito!»
Rivedendomi cosi all'improvviso, sarebbe morta dallo spavento la vedova
Pescatore? Che! Lei? Figuriamoci! Avrebbe fatto rimorire me, dopo due
giorni.
La mia fortuna - dovevo
convincermene - la mia fortuna consisteva appunto in questo: nell'essermi
liberato della moglie, della suocera, dei debiti, delle afflizioni umilianti
della mia prima vita. Ora, ero libero del tutto. Non mi bastava? Eh via, avevo
ancora tutta una vita innanzi a me. Per il momento... chi sa quanti erano soli
com'ero io!
«Si, ma questi tali,»
m'induceva a riflettere il cattivo tempo, quella nebbia maledetta, «o son
forestieri e hanno altrove una casa, a cui un giorno o l'altro potranno far
ritorno, o se non hanno casa come te, potranno averla domani, e intanto avran
quella ospitale di qualche amico. Tu invece, a volerla dire, sarai sempre e
dovunque un forestiere: ecco la differenza. Forestiere della vita, Adriano
Meis.»
Mi scrollavo, seccato,
esclamando:
- E va bene! Meno impicci.
Non ho amici? Potrò averne...
Già nella
trattoria che frequentavo in quei giorni, un signore, mio vicino di tavola,
s'era mostrato inchinevole a far amicizia con me. Poteva avere da quarant'anni :
calvo sì e no, bruno, con occhiali d'oro, che non gli si reggevano bene sul
naso, forse per il peso de la catenella pur d'oro. Ah, per questo un ometto
tanto carino! Figurarsi che, quando si levava da sedere e si poneva il cappello
in capo, pareva subito un altro: un ragazzino pareva. Il difetto era nelle
gambe, così piccole, che non gli arrivavano neanche a terra, se stava seduto:
egli non si alzava propriamente da sedere, ma scendeva piuttosto dalla sedia.
Cercava di rimediare a questo difetto, portando i tacchi alti. Che c'è di male?
Sì, facevan troppo rumore quei tacchi; ma gli rendevano intanto così
graziosamente imperiosi i passettini da
pernice.
Era molto bravo poi, ingegnoso
- forse un pochino bisbetico e volubile - ma con vedute sue, originali; ed era
anche cavaliere.
Mi aveva dato il suo
biglietto da visita: - Cavalier Tito
Lenzi.
A proposito di questo
biglietto da visita, per poco non mi feci anche un motivo d'infelicità della
cattiva figura che mi pareva d'aver fatta, non potendo ricambiarglielo. Non
avevo ancora biglietti da visita: provavo un certo ritegno a farmeli stampare
col mio nuovo nome. Miserie! Non si può forse fare a meno de' biglietti da
visita? Si dà a voce il proprio nome, e
via.
Così feci; ma, perdir la verità, il
mio vero nome... basta!
Che bei discorsi
sapeva fare il cavalier Tito Lenzi! Anche il latino sapeva; citava come niente
Cicerone.
- La coscienza? Ma la
coscienza non serve, caro signore! La coscienza, come guida, non può bastare.
Basterebbe forse, ma se essa fosse castello e non piazza, per così dire; se noi
cioè potessimo riuscire a concepirci isolatamente, ed essa non fosse per sua
natura aperta agli altri. Nella coscienza, secondo me, insomma, esiste una
relazione essenziale... sicuro, essenziale, tra me che penso e gli altri esseri
che io penso. E dunque non è un assoluto che basti a se stesso, mi spiego?
Quando i sentimenti, le inclinazioni, i gusti di questi altri che io penso o che
lei pensa non si riflettono in me o in lei, noi non possiamo essere né paghi, né
tranquilli, né lieti; tanto vero che tutti lottiamo perché i nostri sentimenti,
i nostri pensieri, le nostre inclinazioni, i nostri gusti si riflettano nella
coscienza degli altri. E se questo non avviene, perché... diciamo cosi, l'aria
del momento non si presta a trasportare e a far fiorire, caro signore, i
germi... i germi della sua idea nella mente altrui, lei non può dire che la sua
coscienza le basta. A che le basta? Le basta per viver solo? per isterilire
nell'ombra? Eh via! Eh via! Senta; io odio la retorica, vecchia bugiarda
fanfarona, civetta con gli occhiali. La retorica, sicuro, ha foggiato questa
bella frase con tanto di petto in fuori: «Ho la mia coscienza e mi
basta». Già! Cicerone prima aveva detto: Mea mihi conscientia pluris est
quam hominum sermo. Cicerone però, diciamo la verità, eloquenza, eloquenza,
ma... Dio ne scampi e liberi, caro signore! Nojoso più d'un principiante di
violino!
Me lo sarei baciato. Se non
che, questo mio caro ometto non volle perseverare negli arguti e concettosi
discorsi, di cui ho voluto dare un saggio; cominciò a entrare in confidenza; e
allora io, che già credevo facile e bene avviata la nostra amicizia, provai
subito un certo impaccio, sentii dentro me quasi una forza che mi obbligava a
scostarmi, a ritrarmi. Finché parlò lui e la conversazione s'aggirò su argomenti
vaghi, tutto andò bene; ma ora il cavalier Tito Lenzi voleva che parlassi
io.
- Lei non è di Milano, è
vero?
-
No...
- Di
passaggio?
-
Sì...
- Bella città Milano,
eh?
- Bella,
già...
Parevo un pappagallo ammaestrato.
E più le sue domande mi stringevano, e io con le mie risposte m'allontanavo. E
ben presto fui in America. Ma come l'ometto mio seppe ch'ero nato in Argentina,
balzò dalla sedia e venne a stringermi calorosamente la
mano:
- Ah, mi felicito con lei, caro
signore! La invidio! Ah, l'America... Ci sono
stato.
C'era stato?
Scappa!
- In questo caso, - m'affrettai
a dirgli, - debbo io piuttosto felicitarmi con lei che c'è stato, perché io
posso quasi quasi dire di non esserci stato, tuttoché nativo di là; ma ne venni
via di pochi mesi; sicché dunque i miei piedi non han proprio toccato il suolo
americano, ecco!
- Che peccato! -
esclamò dolente il cavalier Tito Lenzi. - Ma lei ci avrà parenti, laggiù,
m'immagino!
- No,
nessuno...
- Ah, dunque, è venuto in
Italia con tutta la famiglia, e vi si è stabilito? Dove ha preso
stanza?
Mi strinsi ne le
spalle:
- Mah! - sospirai, tra le spine,
- un po' qua, un po' là... Non ho famiglia e... e
giro.
- Che piacere! Beato lei! Gira...
Non ha proprio nessuno?
-
Nessuno...
- Che piacere! beato lei! la
invidio!
- Lei dunque ha famiglia? -
volli domandargli, a mia volta, per deviare da me il
discorso.
- E no, purtroppo! - sospirò
egli allora, accigliandosi. - Son solo e sono stato sempre
solo!
- E dunque, come
me!...
- Ma io mi annojo, caro signore!
m'annojo! - scattò l'ometto. - Per me, la solitudine... eh si, infine, mi sono
stancato. Ho tanti amici; ma, creda pure, non è una bella cosa, a una certa età,
andare a casa e non trovar nessuno. Mah! C'è chi comprende e chi non comprende,
caro signore. Sta molto peggio chi comprende, perché alla fine si ritrova senza
energia e senza volontà. Chi comprende, infatti, dice: «Io non devo far questo,
non devo far quest'altro, per non commettere questa o quella bestialità».
Benissimo! Ma a un certo punto s'accorge che la vita è tutta una bestialità, e
allora dica un po' lei che cosa significa il non averne commessa nessuna:
significa per lo meno non aver vissuto, caro
signore.
- Ma lei, - mi provai a
confortarlo, - lei è ancora in tempo,
fortunatamente...
- Di commettere
bestialità? Ma ne ho già commesse tante, creda pure! - rispose con un gesto e un
sorriso fatuo. - Ho viaggiato, ho girato come lei e... avventure, avventure...
anche molto curiose e piccanti... si, via, me ne son capitate. Guardi, per
esempio, a Vienna, una sera...
Cascai
dalle nuvole. Come! Avventure amorose, lui? Tre, quattro, cinque, in Austria, in
Francia, in Italia... anche in Russia? E che avventure! Una più ardita
dell'altra... Ecco qua, per dare un altro saggio, un brano di dialogo tra lui e
una donna maritata:
LUI: - Eh, a pensarci, lo
so, cara signora... Tradire il marito, Dio mio! La fedeltà, l'onestà, la
dignità... tre grosse, sante parole, con tanto d'accento su l'a. E poi:
l'onore! altra parola enorme... Ma, in pratica, credete, è un'altra cosa, cara
signora: cosa di pochissimo momento! Domandate alle vostre amiche che ci si sono
avventurate.
LA DONNA MARITATA: - Sì; e
tutte quante han provato poi un grande
disinganno!
LUI: - Ma sfido ma si
capisce! Perché impedite, trattenute da quelle parolacce, hanno messo un anno,
sei mesi, troppo tempo a risolversi. E il disinganno diviene appunto dalla
sproporzione tra l'entità del fatto e il troppo pensiero che se ne son date.
Bisogna risolversi subito, cara signora! Lo penso, lo faccio. È cosi
semplice!
Bastava guardarlo, bastava
considerare un poco quella sua minuscola ridicola personcina, per accorgersi
ch'egli mentiva, senza bisogno d'altre
prove.
Allo stupore seguì in me un
profondo avvilimento di vergogna per lui, che non si rendeva conto del
miserabile effetto che dovevano naturalmente produrre quelle sue panzane, e
anche per me che vedevo mentire con tanta disinvoltura e tanto gusto lui, lui
che non ne avrebbe avuto alcun bisogno; mentre io, che non potevo farne a meno,
io ci stentavo e ci soffrivo fino a sentirmi, ogni volta, torcer l'anima
dentro.
Avvilimento e stizza. Mi veniva
d'afferrargli un braccio e di gridargli:
«Ma scusi, cavaliere, perché? perché?»
Se però erano ragionevoli e naturali in me l'avvilimento e la stizza, mi
accorsi, riflettendoci bene, che sarebbe stata per lo meno sciocca quella
domanda. Infatti, se il caro ometto imbizzarriva cosi a farmi credere a quelle
sue avventure, la ragione era appunto nel non aver egli alcun bisogno di
mentire; mentre io... io vi ero obbligato dalla necessità. Ciò che per lui,
insomma, poteva essere uno spasso e quasi l'esercizio d'un diritto, era per me,
all'incontro, obbligo increscioso,
condanna.
E che seguiva da questa
riflessione? Ahimè, che io, condannato inevitabilmente a mentire dalla mia
condizione, non avrei potuto avere mai più un amico, un vero amico. E dunque, né
casa, né amici... Amicizia vuol dire confidenza; e come avrei potuto io
confidare a qualcuno il segreto di quella mia vita senza nome e senza passato,
sorta come un fungo dal suicidio di Mattia Pascal? Io potevo aver solamente
relazioni superficiali, permettermi solo co' miei simili un breve scambio di
parole aliene.
Ebbene, erano
gl'inconvenienti della mia fortuna. Pazienza! Mi sarei scoraggiato per
questo?
«Vivrò con me e di me, come ho
vissuto finora!»
Sì; ma ecco: per dir la
verità, temevo che della mia compagnia non mi sarei tenuto né contento né pago.
E poi, toccandomi la faccia e scoprendomela sbarbata, passandomi una mano su
quei capelli lunghi o rassettandomi gli occhiali sul naso, provavo una strana
impressione: mi pareva quasi di non esser più io, di non toccare me
stesso.
Siamo giusti, io mi ero conciato
a quel modo per gli altri, non per me. Dovevo ora star con me, così mascherato?
E se tutto ciò che avevo finto e immaginato di Adriano Meis non doveva servire
per gli altri, per chi doveva servire? per me? Ma io, se mai, potevo crederci
solo a patto che ci credessero gli
altri.
Ora, se questo Adriano Meis non
aveva il coraggio di dir bugie, di cacciarsi in mezzo alla vita, e si appartava
e rientrava in albergo, stanco di vedersi solo, in quelle tristi giornate
d'inverno, per le vie di Milano, e si chiudeva nella compagnia del morto Mattia
Pascal, prevedevo che i fatti miei, eh, avrebbero cominciato a camminar male;
che insomma non mi s'apparecchiava un divertimento, e che la mia bella fortuna,
allora...
Ma la verità forse era questa:
che nella mia libertà sconfinata, mi riusciva difficile cominciare a vivere in
qualche modo. Sul punto di prendere una risoluzione, mi sentivo come trattenuto,
mi pareva di vedere tanti impedimenti e ombre e
ostacoli.
Ed ecco, mi cacciavo, di
nuovo, fuori, per le strade, osservavo tutto, mi fermavo a ogni nonnulla,
riflettevo a lungo su le minime cose; stanco, entravo in un caffè, leggevo
qualche giornale, guardavo la gente che entrava e usciva; alla fine, uscivo
anch'io. Ma la vita, a considerarla così, da spettatore estraneo, mi pareva ora
senza costrutto e senza scopo; mi sentivo sperduto tra quel rimescolìo di gente.
E intanto il frastuono, il fermento continuo della città
m'intronavano.
«Oh perché gli uomini,»
domandavo a me stesso, smaniosamente, «si affannano così a rendere man mano più
complicato il congegno della loro vita? Perché tutto questo stordimento di
macchine? E che farà l'uomo quando le macchine faranno tutto? Si accorgerà
allora che il così detto progresso non ha nulla a che fare con la felicità? Di
tutte le invenzioni, con cui la scienza crede onestamente d'arricchire l'umanità
(e la impoverisce, perché costano tanto care), che gioja in fondo proviamo noi,
anche ammirandole?»
In un tram
elettrico, il giorno avanti, m'ero imbattuto in un pover'uomo, di quelli che non
possono fare a meno di comunicare a gli altri tutto ciò che passa loro per la
mente.
- Che bella invenzione! - mi
aveva detto. - Con due soldini, in pochi minuti, mi giro mezza
Milano.
Vedeva soltanto i due soldini
della corsa, quel pover'uomo, e non pensava che il suo stipendiuccio se n'andava
tutto quanto e non gli bastava per vivere intronato di quella vita fragorosa,
col tram elettrico, con la luce elettrica, ecc.,
ecc.
Eppure la scienza, pensavo, ha
l'illusione di render più facile e più comoda l'esistenza! Ma, anche ammettendo
che la renda veramente più facile, con tutte le sue macchine così difficili e
complicate, domando io: «E qual peggior servizio a chi sia condannato a una
briga vana, che rendergliela facile e quasi
meccanica?».
Rientravo in
albergo.
Là, in un corridojo, sospesa
nel vano d'una finestra, c'era una gabbia con un canarino. Non potendo con gli
altri e non sapendo che fare, mi mettevo a conversar con lui, col canarino: gli
rifacevo il verso con le labbra, ed esso veramente credeva che qualcuno gli
parlasse e ascoltava e forse coglieva in quel mio pispissìo care notizie di
nidi, di foglie, di libertà... Si agitava nella gabbia, si voltava, saltava,
guardava di traverso, scotendo la testina, poi mi rispondeva, chiedeva,
ascoltava ancora. Povero uccellino! lui sì m'inteneriva, mentre io non sapevo
che cosa gli avessi detto...
Ebbene, a
pensarci non avviene anche a noi uomini qualcosa di simile? Non crediamo anche
noi che la natura ci parli? e non ci sembra di cogliere un senso nelle sue voci
misteriose, una risposta, secondo i nostri desiderii, alle affannose domande che
le rivolgiamo? E intanto la natura, nella sua infinita grandezza, non ha forse
il più lontano sentore di noi e della nostra vana
illusione.
Ma vedete un po' a quali
conclusioni uno scherzo suggerito dall'ozio può condurre un uomo condannato a
star solo con se stesso! Mi veniva quasi di prendermi a schiaffi. Ero io dunque
sul punto di diventare sul serio un
filosofo?
No, no, via, non era logica la
mia condotta. Così, non avrei potuto più oltre durarla. Bisognava ch'io vincessi
ogni ritegno, prendessi a ogni costo una
risoluzione.
Io, insomma, dovevo vivere,
vivere, vivere.