Luigi Pirandello
Il fu Mattia Pascal
XV
Io e l'ombra mia
Mi è avvenuto più volte, svegliandomi
nel cuor della notte (la notte, in questo caso, non dimostra veramente d'aver
cuore), mi è avvenuto di provare al bujo, nel silenzio, una strana meraviglia,
uno strano impaccio al ricordo di qualche cosa fatta durante il giorno, alla
luce, senz'abbadarci; e ho domandato allora a me stesso se, a determinar le
nostre azioni, non concorrano anche i colori, la vista delle cose circostanti,
il vario frastuono della vita. Ma sì, senza dubbio; e chi sa quant'altre cose!
Non viviamo noi, secondo il signor Anselmo, in relazione con l'universo? Ora sta
a vedere quante sciocchezze questo maledetto universo ci fa commettere, di cui
poi chiamiamo responsabile la misera coscienza nostra, tirata da forze esterne,
abbagliata da una luce che è fuor di lei. E, all'incontro, quante deliberazioni
prese, quanti disegni architettati, quanti espedienti macchinati durante la
notte non appajono poi vani e non crollano e non sfumano alla luce del giorno?
Com'altro è il giorno, altro la notte, così forse una cosa siamo noi di giorno,
altra di notte: miserabilissima cosa, ahimè, così di notte come di
giorno.
So che, aprendo dopo quaranta
giorni le finestre della mia camera, io non provai alcuna gioja nel riveder la
luce. Il ricordo di ciò che avevo fatto in quei giorni al bujo me la offuscò
orribilmente. Tutte le ragioni e le scuse e le persuasioni che in quel bujo
avevano avuto il loro peso e il loro valore, non ne ebbero più alcuno, appena
spalancate le finestre, o ne ebbero un altro al tutto opposto. E invano quel
povero me che per tanto tempo se n'era stato con le finestre chiuse e aveva
fatto di tutto per alleviarsi la noja smaniosa della prigionia, ora - timido
come un cane bastonato - andava appresso a quell'altro me che aveva aperte le
finestre e si destava alla luce del giorno, accigliato, severo, impetuoso;
invano cercava di stornarlo dai foschi pensieri, inducendolo a compiacersi
piuttosto, dinanzi allo specchio, del buon esito dell'operazione e della barba
ricresciuta e anche del pallore che in qualche modo m'ingentiliva
l'aspetto.
«Imbecille, che hai fatto?
che hai fatto?»
Che avevo fatto? Niente,
siamo giusti! Avevo fatto all'amore. Al bujo - era colpa mia? - non avevo veduto
più ostacoli, e avevo perduto il ritegno che m'ero imposto. Papiano voleva
togliermi Adriana; la signorina Caporale me l'aveva data, me l'aveva fatta
sedere accanto, e s'era buscato un pugno sulla bocca, poverina; io soffrivo, e -
naturalmente - per quelle sofferenze credevo com'ogni altro sciagurato (leggi
uomo) d'aver diritto a un compenso, e - poiché l'avevo allato - me l'ero preso;
lì si facevano gli esperimenti della morte, e Adriana, accanto a me, era la
vita, la vita che aspetta un bacio per schiudersi alla gioja; ora Manuel
Bernaldez aveva baciato al bujo la sua Pepita, e allora
anch'io...
-
Ah!
Mi buttai su la poltrona, con le
mani su la faccia. Mi sentivo fremere le labbra al ricordo di quel bacio.
Adriana! Adriana! Che speranze le avevo acceso in cuore con quel bacio? Mia
sposa, è vero? Aperte le finestre, festa per
tutti!
Rimasi, non so per quanto tempo,
li su quella poltrona, a pensare, ora con gli occhi sbarrati, ora restringendomi
tutto in me, rabbiosamente, come per schermirmi da un fitto spasimo interno.
Vedevo finalmente: vedevo in tutta la sua crudezza la frode della mia illusione:
che cos'era in fondo ciò che m'era sembrata la più grande delle fortune, nella
prima ebbrezza della mia liberazione.
Avevo già sperimentato come la mia libertà, che a principio m'era parsa senza
limiti, ne avesse purtroppo nella scarsezza del mio denaro; poi m'ero anche
accorto ch'essa più propriamente avrebbe potuto chiamarsi solitudine e noja, e
che mi condannava a una terribile pena: quella della compagnia di me stesso; mi
ero allora accostato agli altri; ma il proponimento di guardarmi bene dal
riallacciare, foss'anche debolissimamente, le fila recise, a che era valso?
Ecco: s'erano riallacciate da sé, quelle fila; e la vita, per quanto io, già in
guardia, mi fossi opposto, la vita mi aveva trascinato, con la sua foga
irresistibile: la vita che non era più per me. Ah, ora me n'accorgevo veramente,
ora che non potevo più con vani pretesti, con infingimenti quasi puerili, con
pietose, meschinissime scuse impedirmi di assumer coscienza del mio sentimento
per Adriana, attenuare il valore delle mie intenzioni, delle mie parole, de'
miei atti. Troppe cose, senza parlare, le avevo detto, stringendole la mano,
inducendola a intrecciar con le mie le sue dita; e un bacio, un bacio infine
aveva suggellato il nostro amore. Ora, come risponder coi fatti alla promessa?
Potevo far mia Adriana? Ma nella gora del molino, là alla Stìa, ci
avevano buttato me quelle due buone donne, Romilda e la vedova Pescatore, - non
ci s'eran mica buttate loro! E libera dunque era rimasta lei, mia moglie; non
io, che m'ero acconciato a fare il morto, lusingandomi di poter diventare un
altro uomo, vivere un'altra vita. Un altr'uomo, sì ma a patto di non far nulla.
E che uomo dunque? Un'ombra d'uomo! E che vita? Finché m'ero contentato di star
chiuso in me e di veder vivere gli altri, sì, avevo potuto bene o male salvar
l'illusione ch'io stessi vivendo un'altra vita; ma ora che a questa m'ero
accostato fino a cogliere un bacio da due care labbra, ecco, mi toccava a
ritrarmene inorridito, come se avessi baciato Adriana con le labbra d'un morto,
d'un morto che non poteva rivivere per lei! Labbra mercenarie, sì, avrei potuto
baciarne; ma che sapor di vita in quelle labbra? Oh, se Adriana, conoscendo il
mio strano caso... Lei? No... no... che! neanche a pensarci! Lei, così pura,
così timida... Ma se pur l'amore fosse stato in lei più forte di tutto, più
forte d'ogni riguardo sociale... ah povera Adriana, e come avrei potuto io
chiuderla con me nel vuoto della mia sorte, farla compagna d'un uomo che non
poteva in alcun modo dichiararsi e provarsi vivo? Che fare? che
fare?
Due colpi all'uscio mi fecero
balzar dalla poltrona. Era lei, Adriana
Per quanto con uno sforzo violento cercassi di arrestare in me il tumulto dei
sentimenti, non potei impedire che non le apparissi almeno turbato. Turbata era
anche lei, ma dal pudore, che non le consentiva di mostrarsi lieta, come avrebbe
voluto, di rivedermi finalmente guarito, alla luce, e contento... No? Perché
no?... Alzò appena gli occhi a guardarmi; arrossì; mi porse una
busta:
- Ecco, per
lei...
- Una
lettera?
- Non credo. Sarà la nota del
dottor Ambrosini. Il servo vuol sapere se c'è
risposta.
Le tremava la voce.
Sorrise.
- Subito, - diss'io; ma
un'improvvisa tenerezza mi prese,- comprendendo ch'ella era venuta con la scusa
di quella nota per aver da me una parola che la raffermasse nelle sue speranze;
un'angosciosa, profonda pietà mi vinse, pietà di lei e di me, pietà crudele, che
mi spingeva irresistibilmente a carezzarla, a carezzare in lei il mio dolore, il
quale soltanto in lei, che pur ne era la causa, poteva trovar conforto. E pur
sapendo che mi sarei compromesso ancor più, non seppi resistere: le porsi ambo
le mani. Ella, fiduciosa, ma col volto in fiamme, alzò pian piano sue e le pose
sulle mie. Mi attirai allora la sua testina bionda sul petto e le passai una
mano su i capelli.
- Povera
Adriana!
- Perché? - mi domandò, sotto
la carezza. - Non siamo contenti?
-
Sì...
- E allora perché
povera?
Ebbi in quel momento un impeto
di ribellione, fui tentato di svelarle tutto, di risponderle: «Perché? senti io
ti amo, e non posso, non debbo amarti! Se tu vuoi però...». Ma dàlli! Che poteva
volere quella mite creatura? Mi premetti forte sul petto la sua testina, e
sentii che sarei stato molto più crudele se dalla gioja suprema a cui ella,
ignara, si sentiva in quel punto inalzata dall'amore, io l'avessi fatta
precipitare nell'abisso della disperazione ch'era in
me.
- Perché, - dissi, lasciandola, -
perché so tante cose, per cui lei non può esser
contenta...
Ebbe come uno smarrimento
penosissimo, nel vedersi, cosi d'un tratto, sciolta dalle mie braccia. Si
aspettava forse, dopo quelle carezze, che io le dessi del tu? Mi guardò e,
notando la mia agitazione, domandò
esitante:
- Cose... che sa lei... per
sé, o qui... di casa mia?
Le risposi col
gesto: «Qui, qui» per togliermi la tentazione che di punto in punto mi vinceva,
di parlare, di aprirmi con lei.
L'avessi
fatto! Cagionandole subito quell'unico, forte dolore, gliene avrei risparmiato
altri, e io non mi sarei cacciato in nuovi e più aspri garbugli. Ma troppo
recente era allora la mia triste scoperta, avevo ancor bisogno d'approfondirla
bene, e l'amore e la pietà mi toglievano il coraggio d'infrangere così d'un
tratto le speranze di lei e la mia vita stessa, cioè quell'ombra d'illusione che
di essa, finché tacevo, poteva ancora restarmi. Sentivo poi quanto odiosa
sarebbe stata la dichiarazione che avrei dovuto farle, che io, cioè, avevo
moglie ancora. Sì! sì! Svelandole che non ero Adriano Meis io tornavo ad essere
Mattia Pascal, MORTO E ANCORA AMMOGLIATO! Come si possono dire siffatte
cose? Era il colmo, questo, della persecuzione che una moglie possa esercitare
sul proprio marito: liberarsene lei, riconoscendolo morto nel cadavere d'un
povero annegato, e pesare ancora, dopo la morte. su lui, addosso a lui, così. Io
avrei potuto ribellarmi è vero, dichiararmi vivo, allora... Ma chi, al posto
mio, non si sarebbe regolato come me? Tutti, tutti, come me, in quel punto, nei
panni miei, avrebbero stimato certo una fortuna potersi liberare in un modo così
inatteso, insperato, insperabile, della moglie, della suocera, dei debiti,
d'un'egra e misera esistenza come quella mia. Potevo mai pensare, allora, che
neanche morto mi sarei liberato della moglie? lei, sì, di me, e io no di lei? e
che la vita che m'ero veduta dinanzi libera libera libera, non fosse in fondo
che una illusione, la quale non poteva ridursi in realtà, se non
superficialissimamente, e più schiava che mai, schiava delle finzioni, delle
menzogne che con tanto disgusto m'ero veduto costretto a usare, schiava del
timore d'essere scoperto, pur senza aver commesso alcun
delitto?
Adriana riconobbe che non aveva
in casa, veramente, di che esser contenta; ma ora... E con gli occhi e con un
mesto sorriso mi domandò se mai per me potesse rappresentare un ostacolo ciò che
per lei era cagione di dolore. «No, è vero?» chiedeva quello sguardo e quel
mesto sorriso.
- Oh, ma paghiamo il
dottor Ambrosini! - esclamai, fingendo di ricordarmi improvvisamente della nota
e del servo che attendeva di là. Lacerai la busta e, senza por tempo in mezzo,
sforzandomi d'assumere un tono scherzoso: - Seicento lire! dissi. - Guardi un
po', Adriana: la Natura fa una delle sue solite stramberie; per tanti anni mi
condanna a portare un occhio, diciamo così, disobbediente; io soffro dolori e
prigionia per correggere lo sbaglio di lei, e ora per giunta mi tocca a pagare.
Le sembra giusto?
Adriana sorrise con
pena.
- Forse, - disse, - il dottor
Ambrosini non sarebbe contento se lei gli rispondesse di rivolgersi alla Natura
per il pagamento. Credo che si aspetti anche d'esser ringraziato, perché
l'occhio...
- Le par che stia
bene?
Ella si sforzò a guardarmi, e
disse piano, riabbassando subito gli
occhi:
- Sì... Pare un
altro...
- Io o
l'occhio?
-
Lei.
- Forse con questa
barbaccia...
- No... Perché? Le sta
bene...
Me lo sarei cavato con un dito,
quell'occhio! Che m'importava più d'averlo a
posto?
- Eppure, - dissi, - forse esso,
per conto suo, era più contento prima. Ora mi dà un certo fastidio... Basta.
Passerà!
Mi recai allo stipetto a muro,
in cui tenevo il denaro. Allora Adriana accennò di volersene andare; io stupido,
la trattenni; ma, già, come potevo prevedere? In tutti gl'impicci miei, grandi e
piccini, sono stato, come s'è visto, soccorso sempre dalla fortuna. Ora ecco
com'essa, anche questa volta, mi venne in
ajuto.
Facendo per aprire lo stipetto,
notai che la chiave non girava entro la serratura: spinsi appena appena e,
subito, lo sportellino cedette: era
aperto!
- Come! - esclamai. - Possibile
ch'io l'abbia lasciato così?
Notando il
mio improvviso turbamento, Adriana era diventata pallidissima. La guardai,
e:
- Ma qui... guardi, signorina, qui
qualcuno ha dovuto metter le mani!
C'era
dentro lo stipetto un gran disordine: i miei biglietti di banca erano stati
tratti dalla busta di cuojo, in cui li tenevo custoditi, ed erano lì sul
palchetto sparpagliati. Adriana si nascose il volto con le mani, inorridita. Io
raccolsi febbrilmente quei biglietti e mi diedi a
contarli.
- Possibile? - esclamai, dopo
aver contato, passandomi le mani tremanti su la fronte ghiaccia di
sudore.
Adriana fu per mancare, ma si
sorresse a un tavolinetto lì presso e domandò con una voce che non mi parve più
la sua :
- Hanno
rubato?
- Aspetti... aspetti... Com'è
possibile? - dissi io.
E mi rimisi a
contare, sforzando rabbiosamente le dita e la carta, come se, a furia di
stropicciare, potessero da quei biglietti venir fuori gli altri che
mancavano.
- Quanto? - mi domandò ella,
scontraffatta dall'orrore, dal ribrezzo, appena ebbi finito di
contare.
- Dodici... dodici mila lire...
- balbettai. - Erano sessantacinque... sono cinquantatré! Conti
lei...
Se non avessi fatto a tempo a
sorreggerla, la povera Adriana sarebbe caduta per terra, come sotto una mazzata.
Tuttavia, con uno sforzo supremo, ella poté riaversi ancora una volta, e
singhiozzando, convulsa, cercò di sciogliersi da me che volevo adagiarla su la
poltrona e fece per spingersi verso
l'uscio:
- Chiamo il babbo! chiamo il
babbo!
- No! - le gridai, trattenendola
e costringendola a sedere. - Non si agiti così, per carità! Lei mi fa più
male... Io non voglio, non voglio! Che c'entra lei? Per carità, si calmi. Mi
lasci prima accertare, perché... sì, lo stipetto era aperto, ma io non posso,
non voglio credere ancora a un furto così ingente... Stia buona,
via!
E daccapo, per un ultimo scrupolo,
tornai a contare i biglietti; pur sapendo di certo che tutto il mio denaro stava
lì, in quello stipetto, mi diedi a rovistare da per tutto, anche dove non era in
alcun modo possibile ch'io avessi lasciato una tal somma, tranne che non fossi
stato colto da un momento di pazzia. E per indurmi a quella ricerca che
m'appariva a mano a mano sempre più sciocca e vana, mi sforzavo di credere
inverosimile l'audacia del ladro. Ma Adriana, quasi farneticando, con le mani
sul volto, con la voce rotta dai
singhiozzi:
- E inutile! è inutile! -
gemeva. - Ladro... ladro... anche ladro!... Tutto congegnato avanti... Ho
sentito, nel bujo... m'è nato il sospetto... ma non volli credere ch'egli
potesse arrivare fino a tanto...
Papiano, sì: il ladro non poteva esser altri che lui; lui, per mezzo del
fratello, durante quelle sedute
spiritiche...
- Ma come mai, - gemette
ella, angosciata, - come mai teneva lei tanto denaro, cosi, in
casa?
Mi voltai a guardarla, inebetito.
Che risponderle? Potevo dirle che per forza, nella condizione mia dovevo tener
con me il denaro? potevo dirle che mi era interdetto d'investirlo in qualche
modo, d'affidarlo a qualcuno? che non avrei potuto neanche lasciarlo in deposito
in qualche banca, giacché, se poi per caso fosse sorta qualche difficoltà non
improbabile per ritirarlo, non avrei più avuto modo di far riconoscere il mio
diritto su esso?
E, per non apparire
stupito, fui crudele:
- Potevo mai
supporre? - dissi.
Adriana si coprì di
nuovo il volto con le mani, gemendo,
straziata:
- Dio! Dio!
Dio!
Lo sgomento che avrebbe dovuto
assalire il ladro nel commettere il furto, invase me, invece, al pensiero di ciò
che sarebbe avvenuto. Papiano non poteva certo supporre ch'io incolpassi di quel
furto il pittore spagnuolo o il signor Anselmo, la signorina Caporale o la serva
di casa o lo spirito di Max: doveva esser certo che avrei incolpato lui, lui e
il fratello: eppure, ecco, ci s'era messo, quasi
sfidandomi.
E io? che potevo far io?
Denunziarlo? E come? Ma niente, niente, niente! io non potevo far niente! ancora
una volta, niente! Mi sentii atterrato, annichilito. Era la seconda scoperta, in
quel giorno! Conoscevo il ladro, e non potevo denunziarlo. Che diritto avevo io
alla protezione della legge? Io ero fuori d'ogni legge. Chi ero io? Nessuno! Non
esistevo io, per la legge. E chiunque, ormai, poteva rubarmi; e io,
zitto!
Ma, tutto questo, Papiano non
poteva saperlo. E dunque?
- Come ha
potuto farlo? - dissi quasi tra me. - Da che gli è potuto venire tanto
ardire?
Adriana levò il volto dalle mani
e mi guardò stupita, come per dire: «E non lo
sai?».
- Ah, già! - feci,
comprendendo a un tratto.
- Ma lei lo
denunzierà! - esclamò ella, levandosi in piedi. - Mi lasci, la prego, mi lasci
chiamare il babbo... Lo denunzierà
subito!
Feci in tempo a trattenerla
ancora una volta. Non ci mancava altro, che ora, per giunta, Adriana mi
costringesse a denunziare il furto! Non bastava che mi avessero rubato, come
niente, dodici mila lire? Dovevo anche temere che il furto si conoscesse;
pregare, scongiurare Adriana che non lo gridasse forte, non lo dicesse a
nessuno, per carità? Ma che! Adriana - e ora lo intendo bene - non poteva
assolutamente permettere che io tacessi e obbligassi anche lei al silenzio, non
poteva in verun modo accettare quella che pareva una mia generosità, per tante
ragioni: prima per il suo amore, poi per l'onorabilità della sua casa, e anche
per me e per l'odio ch'ella portava al
cognato.
Ma in quel frangente, la sua
giusta ribellione mi parve proprio di più: esasperato, le
gridai:
- Lei si starà zitta:
gliel'impongo! Non dirà nulla a nessuno, ha capito? Vuole uno
scandalo?
- No! no! - s'affrettò a
protestare, piangendo, la povera Adriana. - Voglio liberar la mia casa
dall'ignominia di quell'uomo!
- Ma egli
negherà! - incalzai io. - E allora, lei, tutti di casa innanzi al giudice... Non
capisce?
- Si, benissimo! - rispose
Adriana con fuoco, tutta vibrante di sdegno. - Neghi, neghi pure! Ma noi, per
conto nostro, abbiamo altro, creda, da dire contro di lui. Lei lo denunzii, non
abbia riguardo, non tema per noi... Ci farà un bene, creda, un gran bene!
Vendicherà la povera sorella mia... Dovrebbe intenderlo, signor Meis, che mi
offenderebbe, se non lo facesse. Io voglio, voglio che lei lo denunzii. Se non
lo fa lei, lo farò io! Come vuole che io rimanga con mio padre sotto quest'onta!
No! no! no! E poi...
Me la strinsi fra
le braccia: non pensai più al denaro rubato, vedendola soffrire così, smaniare,
disperata: e le promisi che avrei fatto com'ella voleva purché si calmasse. No,
che onta? non c'era alcuna onta per lei, né per il suo babbo; io sapevo su chi
ricadeva la colpa di quel furto; Papiano aveva stimato che il mio amore per lei
valesse bene dodicimila lire, e io dovevo dimostrargli di no? Denunziarlo?
Ebbene, sì, l'avrei fatto, non per me, ma per liberar la casa di lei da quel
miserabile: sì, ma a un patto: che ella prima di tutto si calmasse, non
piangesse più così, via! via! e poi, che mi giurasse su quel che aveva di più
caro al mondo, che non avrebbe parlato a nessuno, a nessuno, di quel furto, se
prima io non consultavo un avvocato per tutte le conseguenze che, in tanta
sovreccitazione, né io né lei potevamo
prevedere.
- Me lo giura? Su ciò che ha
di più caro?
Me lo giurò, e con uno
sguardo, tra le lagrime, mi fece intendere su che cosa me lo giurava, che cosa
avesse di più caro.
Povera
Adriana!
Rimasi lì, solo, in mezzo alla
camera, sbalordito, vuoto, annientato, come se tutto il mondo per me si fosse
fatto vano. Quanto tempo passò prima ch'io mi riavessi? E come mi riebbi?
Scemo... scemo!... Come uno scemo, andai a osservare lo sportello dello
stipetto, per vedere se non ci fosse qualche traccia di violenza. No: nessuna
traccia: era stato aperto pulitamente, con un grimaldello, mentr'io custodivo
con tanta cura in tasca la chiave.
-
E non si sente lei, - mi aveva domandato il Paleari alla fine dell'ultima
seduta, - non si sente lei come se le avessero sottratto qualche
cosa?
Dodici mila
lire!
Di nuovo il pensiero della mia
assoluta impotenza, della mia nullità, mi assalì, mi schiacciò. Il caso che
potessero rubarmi e che io fossi costretto a restar zitto e finanche con la
paura che il furto fosse scoperto, come se l'avessi commesso io e non un ladro a
mio danno, non mi s'era davvero affacciato alla
mente.
Dodici mila lire? Ma poche!
poche! Possono rubarmi tutto, levarmi fin la camicia di dosso; e io, zitto! Che
diritto ho io di parlare? La prima cosa che mi domanderebbero, sarebbe questa:
«E voi chi siete? Donde vi era venuto quel denaro?». Ma senza denunziarlo...
vediamo un po'! se questa sera io lo afferro per il collo e gli grido: «Qua
subito il denaro che hai tolto di là, dallo stipetto, pezzo di ladro!». Egli
strilla; nega; può forse dirmi: «Sissignore, eccolo qua, I'ho preso per
isbaglio...»? E allora? Ma c'è il caso che mi dia anche querela per
diffamazione. Zitto, dunque, zitto! M'è sembrata una fortuna l'esser creduto
morto? Ebbene, e sono morto davvero. Morto? Peggio che morto; me l'ha ricordato
il signor Anselmo: i morti non debbono più morire, e io sì: io sono ancora vivo
per la morte e morto per la vita. Che vita infatti può esser più la mia? La noja
di prima, la solitudine, la compagnia di me
stesso?
Mi nascosi il volto con le mani;
caddi a sedere su la poltrona.
Ah, fossi
stato almeno un mascalzone! avrei potuto forse adattarmi a restar così, sospeso
nell'incertezza della sorte, abbandonato al caso, esposto a un rischio continuo,
senza base, senza consistenza. Ma io? Io, no. E che fare, dunque? Andarmene via?
E dove? E Adriana? Ma che potevo fare per lei? Nulla... nulla... Come andarmene
però così, senz'alcuna spiegazione, dopo quanto era accaduto? Ella ne avrebbe
cercato la causa in quel furto; avrebbe detto: «E perché ha voluto salvare il
reo, e punir me innocente?». Ah no, no, povera Adriana! Ma, d'altra parte, non
potendo far nulla come sperare di rendere men trista la mia parte verso di lei?
Per forza dovevo dimostrarmi inconseguente e crudele. L'inconseguenza, la
crudeltà erano della mia stessa sorte, e io per il primo ne soffrivo. Fin
Papiano, il ladro, commettendo il furto, era stato più conseguente e men crudele
di quel che pur troppo avrei dovuto dimostrarmi
io.
Egli voleva Adriana, per non
restituire al suocero la dote della prima moglie: io avevo voluto togliergli
Adriana? e dunque la dote bisognava che la restituissi io, al
Paleari.
Per ladro,
conseguentissimo!
Ladro? Ma neanche
ladro: perché la sottrazione, in fondo, sarebbe stata più apparente che reale:
infatti, conoscendo egli l'onestà di Adriana, non poteva pensare ch'io volessi
farne la mia amante: volevo certo farla mia moglie: ebbene allora avrei riavuto
il mio denaro sotto forma di dote d'Adriana, e per di più avrei avuto una
mogliettina saggia e buona: che cercavo di
più?
Oh, io ero sicuro che, potendo
aspettare, e se Adriana avesse avuto la forza di serbare il segreto, avremmo
veduto Papiano attener la promessa di restituire, anche prima dell'anno di
comporto, la dote della defunta moglie.
Quel denaro, è vero, non poteva più venire a me, perché Adriana non poteva esser
mia: ma sarebbe andato a lei, se ella ora avesse saputo tacere, seguendo il mio
consiglio, e se io mi fossi potuto trattenere ancora per qualche po' di tempo
lì. Molta arte, molta arte avrei dovuto adoperare, e allora Adriana, se non
altro, ci avrebbe forse guadagnato questo: la restituzione della sua
dote.
M'acquietai un po', almeno per
lei, pensando così. Ah, non per me! Per me rimaneva la crudezza della frode
scoperta, quella de la mia illusione, di fronte a cui era nulla il furto delle
dodici mila lire, era anzi un bene, se poteva risolversi in un vantaggio per
Adriana.
Io mi vidi escluso per sempre
dalla vita, senza possibilità di rientrarvi. Con quel lutto nel cuore, con
quell'esperienza fatta, me ne sarei andato via, ora, da quella casa, a cui mi
ero già abituato, in cui avevo trovato un po' di requie, in cui mi ero fatto
quasi il nido; e di nuovo per le strade, senza meta, senza scopo, nel vuoto. La
paura di ricader nei lacci della vita, mi avrebbe fatto tenere più lontano che
mai dagli uomini, solo, solo' affatto solo, diffidente, ombroso; e il supplizio
di Tantalo si sarebbe rinnovato per me.
Uscii di casa, come un matto. Mi ritrovai dopo un pezzo per la via Flaminia,
vicino a Ponte Molle. Che ero andato a far lì? Mi guardai attorno; poi gli occhi
mi s'affisarono su l'ombra del mio corpo, e rimasi un tratto a contemplarla;
infine alzai un piede rabbiosamente su essa. Ma io no, io non potevo
calpestarla, l'ombra mia.
Chi era più
ombra di noi due? io o lei?
Due
ombre!
Là, là per terra; e ciascuno
poteva passarci sopra: schiacciarmi la testa, schiacciarmi il cuore: e io,
zitto; l'ombra, zitta.
L'ombra d'un
morto: ecco la mia vita...
Passò un
carro: rimasi lì fermo, apposta: prima il cavallo, con le quattro zampe, poi le
ruote del carro.
- Là, cosi! forte, sul
collo! Oh, oh, anche tu, cagnolino? Sù, da bravo, si: alza un'anca! alza
un'anca!
Scoppiai a ridere d'un maligno
riso; il cagnolino scappò via, spaventato; il carrettiere si voltò a guardarmi.
Allora mi mossi; e l'ombra, meco, dinanzi. Affrettai il passo per cacciarla
sotto altri carri, Sotto i piedi de' viandanti, voluttuosamente. Una smania mala
mi aveva preso, quasi adunghiandomi il ventre; alla fine non potei più vedermi
davanti quella mia ombra; avrei voluto scuotermela dai piedi. Mi voltai; ma
ecco; la avevo dietro, ora.
«E se mi
metto a correre,» pensai, «mi seguirà!»
Mi stropicciai forte la fronte, per paura che stessi per ammattire, per farmene
una fissazione. Ma si! così era! il simbolo, lo spettro della mia vita era
quell'ombra: ero io, là per terra, esposto alla mercé dei piedi altrui. Ecco
quello che restava di Mattia Pascal, morto alla Stìa: la sua ombra per le
vie di Roma.
Ma aveva un cuore,
quell'ombra, e non poteva amare; aveva denari, quell'ombra, e ciascuno poteva
rubarglieli; aveva una testa, ma per pensare e comprendere ch'era la testa di
un'ombra, e non l'ombra d'una testa. Proprio
cosi!
Allora la sentii come cosa viva, e
sentii dolore per essa, come il cavallo e le ruote del carro e i piedi de'
viandanti ne avessero veramente fatto strazio. E non volli lasciarla più lì,
esposta, per terra. Passò un tram, e vi
montai.
Rientrando in casa...