Luigi Pirandello
Il fu Mattia Pascal
XVI
Il ritratto di Minerva
Già prima che mi fosse aperta la porta,
indovinai che qualcosa di grave doveva essere accaduto in casa: sentivo gridare
Papiano e il Paleari. Mi venne incontro, tutta sconvolta, la
Caporale:
- E dunque vero? Dodici mila
lire?
M'arrestai, ansante, smarrito.
Scipione Papiano, l'epilettico, attraversò in quel momento la saletta
d'ingresso, scalzo, con le scarpe in mano, pallidissimo, senza giacca; mentre il
fratello strillava di là:
- E ora
denunzii! denunzii!
Subito una fiera
stizza m'assalì contro Adriana che, non ostante il divieto, non ostante il
giuramento, aveva parlato.
- Chi l'ha
detto? - gridai alla Caporale. - Non è vero niente: ho ritrovato il
denaro!
La Caporale mi guardò
stupita:
- Il denaro? Ritrovato?
Davvero? Ah, Dio sia lodato! - esclamò, levando le braccia; e corse, seguìta da
me, ad annunziare esultante nel salotto da pranzo, dove Papiano e il Paleari
gridavano e Adriana piangeva: - Ritrovato! ritrovato! Ecco il signor Meis! Ha
ritrovato il denaro!
-
Come!
-
Ritrovato?
-
Possibile?
Restarono trasecolati tutti e
tre; ma Adriana e il padre, col volto in fiamme; Papiano, all'incontro, terreo,
scontraffatto.
Lo fissai per un istante.
Dovevo essere più pallido di lui, e vibravo tutto. Egli abbassò gli occhi, come
atterrito, e si lasciò cader dalle mani la giacca del fratello. Gli andai
innanzi, quasi a petto, e gli tesi la
mano.
- Mi scusi tanto; lei, e tutti...
mi scusino, - dissi.
- No! - gridò
Adriana, indignata; ma subito si premé il fazzoletto su la
bocca.
Papiano la guardò, e non ardì di
porgermi la mano. Allora io ripetei:
-
Mi scusi... - e protesi ancor più la mano, per sentire la sua, come tremava.
Pareva la mano d'un morto, e anche gli occhi, torbidi e quasi spenti, parevano
d'un morto.
- Sono proprio dolente, -
soggiunsi, - dello scompiglio, del grave dispiacere che, senza volerlo, ho
cagionato.
- Ma no... cioè, sì...
veramente, - balbettò il Paleari, - ecco, era una cosa che... sì, non poteva
essere, perbacco! Felicissimo, signor Meis, sono proprio felicissimo che lei
abbia ritrovato codesto denaro,
perché...
Papiano sbuffò, si passò ambo
le mani su la fronte sudata e sul capo e, voltandoci le spalle, si pose a
guardare verso il terrazzino.
- Ho fatto
come quel tale... - ripresi, forzandomi a sorridere. - Cercavo l'asino e c'ero
sopra. Avevo le dodici mila lire qua, nel portafogli, con
me.
Ma Adriana, a questo punto, non poté
più reggere:
- Ma se lei, - disse, - ha
guardato, me presente, da per tutto, anche nel portafogli; se lì, nello
stipetto...
- Sì, signorina, - la
interruppi, con fredda e severa fermezza. - Ma ho cercato male, evidentemente,
dal punto che le ho ritrovate... Chiedo anzi scusa a lei in special modo, che
per la mia storditaggine, ha dovuto soffrire più degli altri. Ma spero
che...
- No! no! no! - gridò Adriana,
rompendo in singhiozzi e uscendo precipitosamente dalla stanza, seguita dalla
Caporale.
- Non capisco... - fece il
Paleari, stordito.
Papiano si voltò,
irosamente:
- Io me ne vado lo stesso,
oggi... Pare che, ormai, non ci sia più bisogno di...
di...
S'interruppe, come se si sentisse
mancare il fiato; volle volgersi a me, ma non gli bastò l'animo di guardarmi in
faccia:
- Io... io non ho potuto, creda,
neanche dire di no... quando mi hanno... qua, preso in mezzo... Mi son
precipitato su mio fratello che... nella sua incoscienza... malato com'è...
irresponsabile, cioè, credo... chi sa! si poteva immaginare, che... L'ho
trascinato qua... Una scena selvaggia! Mi son veduto costretto a spogliarlo... a
frugargli addosso... da per tutto... negli abiti, fin nelle scarpe... E lui...
ah!
Il pianto, a questo punto, gli fece
impeto alla gola; gli occhi gli si gonfiarono di lagrime; e, come strozzato
dall'angoscia, aggiunse:
- Così hanno
veduto che... Ma già, se lei... Dopo questo, io me ne
vado!
- Ma no! Nient'affatto! - diss'io
allora, - Per causa mia? Lei deve rimanere qua! Me n'andrò io
piuttosto!
- Che dice mai, signor Meis?
- esclamò dolente, il Paleari.
Anche
Papiano, impedito dal pianto che pur voleva soffocare, negò con la mano; poi
disse:
- Dovevo... dovevo andarmene;
anzi, tutto questo è accaduto perché io... così, innocentemente... annunziai che
volevo andarmene, per via di mio fratello che non si può più tenere in casa...
Il marchese, anzi, mi ha dato... - l'ho qua - una lettera per il direttore di
una casa di salute a Napoli, dove devo recarmi anche per altri documenti che gli
bisognano... E mia cognata allora, che ha per lei... meritatamente, tanto...
tanto riguardo... è saltata sù a dire che nessuno doveva muoversi di casa... che
tutti dovevamo rimanere qua... perché lei... non so... aveva scoperto... A me,
questo! al proprio cognato!... l'ha detto proprio a me... forse perché io,
miserabile ma onorato, debbo ancora restituire qua, a mio
suocero...
- Ma che vai pensando,
adesso! - esclamò, interrompendolo, il
Paleari.
- No! - raffermò fieramente
Papiano. - Io ci penso! ci penso bene, non dubitate! E se me ne vado... Povero,
povero, povero Scipione!
Non riuscendo
più a frenarsi, scoppiò in dirotto
pianto.
- Ebbene, - fece il Paleari,
intontito e commosso. - E che c'entra più
adesso?
- Povero fratello mio! - seguitò
Papiano, con tale schianto di sincerità, che anch'io mi sentii quasi agitare le
viscere della misericordia.
Intesi in
quello schianto il rimorso, ch'egli doveva provare in quel momento per il
fratello, di cui si era servito, a cui avrebbe addossato la colpa del furto, se
io lo avessi denunziato, e a cui poc'anzi aveva fatto patir l'affronto di quella
perquisizione.
Nessuno meglio di lui
sapeva ch'io non potevo, aver ritrovato il danaro ch'egli mi aveva rubato.
Quella mia inattesa dichiarazione, che lo salvava proprio nel punto in cui,
vedendosi perduto, egli accusava il fratello o almeno lasciava intendere -
secondo il disegno che doveva aver prima stabilito - che soltanto questi poteva
essere l'autore del furto, lo aveva addirittura schiacciato. Ora piangeva per un
bisogno irrefrenabile di dare uno sfogo all'animo così tremendamente percosso, e
fors'anche perché sentiva che non poteva stare, se non così, piangente, di
fronte a me. Con quel pianto egli mi si prostrava, mi s'inginocchiava quasi ai
piedi, ma a patto ch'io mantenessi la mia affermazione, d'aver cioè ritrovato il
denaro: che se io mi fossi approfittato di vederlo ora avvilito per tirarmi
indietro, mi si sarebbe levato contro, furibondo. Egli - era già inteso - non
sapeva e non doveva saper nulla di quel furto, e io, con quella mia
affermazione, non salvavo che suo fratello, il quale, in fin de' conti, ov'io
l'avessi denunziato, non avrebbe avuto forse a patir nulla, data la sua
infermità; dal canto suo, ecco, egli s'impegnava, come già aveva lasciato
intravedere, a restituir la dote al Paleari.
Tutto questo mi parve di comprendere da
quel suo pianto. Esortato dal signor Anselmo e anche da me, alla fine egli si
quietò; disse che sarebbe ritornato presto da Napoli, appena chiuso il fratello
nella casa di salute, liquidate le sue competenze in un certo negozio che
ultimamente aveva avviato colà in società con un suo amico, e fatte le
ricerche dei documenti che bisognavano al
marchese.
- Anzi, a proposito, -
conchiuse, rivolgendosi a me. - Chi ci pensava più? Il signor marchese mi aveva
detto che, se non le dispiace, oggi... insieme con mio suocero e con
Adriana...
- Ah, bravo, sì! - esclamò il
signor Anselmo, senza lasciarlo finire. - Andremo tutti... benissimo! Mi pare
che ci sia ragione di stare allegri, ora, perbacco! Che ne dice, signor
Adriano?
- Per me... - feci io, aprendo
le braccia.
- E allora, verso le
quattro... Va bene? - propose Papiano, asciugandosi definitivamente gli
occhi.
Mi ritirai in camera. Il mio
pensiero corse subito ad Adriana, che se n'era scappata singhiozzando, dopo
quella mia smentita. E se ora fosse venuta a domandarmi una spiegazione? Certo
non poteva credere neanche lei, ch'io avessi davvero ritrovato il denaro. Che
doveva ella dunque supporre? Ch'io, negando a quel modo il furto, avevo voluto
punirla del mancato giuramento. Ma perché? Evidentemente perché dall'avvocato, a
cui le avevo detto di voler ricorrere per consiglio prima di denunziare il
furto, avevo saputo che anche lei e tutti di casa sarebbero stati chiamati
responsabili di esso. Ebbene, e non mi aveva ella detto che volentieri avrebbe
affrontato lo scandalo? Sì: ma io - era chiaro - io non avevo voluto: avevo
preferito di sacrificar così dodici mila lire... E dunque, doveva ella credere
che fosse generosità da parte mia, sacrifizio per amor di lei? Ecco a quale
altra menzogna mi costringeva la mia condizione: stomachevole menzogna, che mi
faceva bello di una squisita, delicatissima prova d'amore, attribuendomi una
generosità tanto più grande, quanto meno da lei richiesta e
desiderata.
Ma no! Ma no! Ma no! Che
andavo fantasticando? A ben altre conclusioni dovevo arrivare, seguendo la
logica di quella mia menzogna necessaria e inevitabile. Che generosità! che
sacrifizio! che prova d'amore! Avrei potuto forse lusingare più oltre quella
povera fanciulla? Dovevo soffocarla, soffocarla, la mia passione; non rivolgere
più ad Adriana né uno sguardo né una parola d'amore. E allora? Come avrebbe
potuto ella mettere d'accordo quella mia apparente generosità col contegno che
d'ora innanzi dovevo impormi di fronte a lei. Io ero dunque tratto per forza a
profittar di quel furto ch'ella aveva svelato contro la mia volontà e che io
avevo smentito, per troncare ogni relazione con lei. Ma che logica era questa?
delle due l'una: o io avevo patito il furto, e allora per qual ragione,
conoscendo il ladro, non lo denunziavo, e ritraevo invece da lei il mio amore,
come se anch'ella ne fosse colpevole? o io avevo realmente ritrovato il denaro,
e allora perché non seguitavo ad amarla?
Sentii soffocarmi dalla nausea, dall'ira, dall'odio per me stesso. Avessi almeno
potuto dirle che non era generosità la mia; che io non potevo, in alcun modo,
denunziare il furto... Ma dovevo pur dargliene una ragione... Eran forse denari
rubati, i miei? Ella avrebbe potuto supporre anche questo... O dovevo dirle
ch'ero un perseguitato, un fuggiasco compromesso, che doveva viver nell'ombra e
non poteva legare alla sua sorte quella d'una donna? Altre menzogne alla povera
fanciulla... Ma, d'altra parte, la verità ch'ora appariva a me stesso
incredibile, una favola assurda, un sogno insensato, Ia verità potevo io
dirgliela? Per non mentire anche adesso, dovevo confessarle d'aver mentito
sempre? Ecco a che m'avrebbe condotto la rivelazione del mio stato. E a che pro?
Non sarebbe stata né una scusa per me, né un rimedio per
lei.
Tuttavia, sdegnato, esasperato
com'ero in quel momento, avrei forse confessato tutto ad Adriana, se lei, invece
di mandare la Caporale, fosse entrata di persona in camera mia a spiegarmi
perché era venuta meno al giurarnento.
La ragione m'era già nota: Papiano stesso me l'aveva detta. La Caporale
soggiunse che Adriana era inconsolabile.
- E perché? - domandai, con forzata
indifferenza.
- Perché non crede, - mi
rispose, - che lei abbia davvero ritrovato il
danaro.
Mi nacque lì per lì l'idea (che
s'accordava, del resto, con le condizioni dell'animo mio, con la nausea che
provavo di me stesso) l'idea di far perdere ad Adriana ogni stima di me, perché
non mi amasse più dimostrandomele falso, duro, volubile, interessato... Mi sarei
punito così del male che le avevo fatto. Sul momento, sì, le avrei cagionato
altro male, ma a fin di bene, per
guarirla.
- Non crede? Come no? - dissi,
con un tristo riso, alla Caporale. - Dodici mila lire, signorina... e che son
rena? crede ella che sarei così tranquillo, se davvero me le avessero
rubate?
- Ma Adriana mi ha detto... - si
provò ad aggiungere quella.
-
Sciocchezze! sciocchezze! - troncai io. - E vero, guardi... sospettai per un
momento... Ma dissi pure alla signorina Adriana che non credevo possibile il
furto... E difatti, via! Che ragione, del resto, avrei io a dire che ho
ritrovato il denaro, se non l'avessi davvero
ritrovato?
La signorina Caporale si
strinse ne le spalle.
- Forse Adriana
crede che lei possa avere qualche ragione
per...
- Ma no! ma no! - m'affrettai a
interromperla. - Si tratta, ripeto, di dodici mila lire, signorina. Fossero
state trenta, quaranta lire, eh via!... Non ho di queste idee generose, creda
pure... Che diamine! ci vorrebbe un
eroe...
Quando la signorina Caporale
andò via, per riferire ad Adriana le mie parole, mi torsi le mani, me le
addentai. Dovevo regolarmi proprio così? Approfittarmi di quel furto, come se
con quel denaro rubato volessi pagarla, compensarla delle speranze deluse? Ah,
era vile questo mio modo d'agire! Avrebbe certo gridato di rabbia, ella, di là,
e mi avrebbe disprezzato... senza comprendere che il suo dolore era anche il
mio. Ebbene, cosi doveva essere! Ella doveva odiarmi, disprezzarmi, com'io mi
odiavo e mi disprezzavo. E anzi per inferocire di più contro me stesso, per far
crescere il suo disprezzo, mi sarei mostrato ora tenerissimo verso Papiano,
verso il suo nemico, come per compensarlo a gli occhi di lei del sospetto
concepito a suo carico. Sì, sì, e avrei stordito così anche il mio ladro, sì,
fino a far credere a tutti ch'io fossi pazzo... E ancora più, ancora più: non
dovevamo or ora andare in casa del marchese Giglio? ebbene, mi sarei messo, quel
giorno stesso, a far la corte alla signorina
Pantogada.
- Mi disprezzerai ancor più,
cosi, Adriana! gemetti, rovesciandomi sul letto. - Che altro, che altro posso
fare per te?
Poco dopo le quattro, venne
a picchiare all'uscio della mia camera il signor
Anselmo.
- Eccomi, - gli dissi, e mi
recai addosso il pastrano. - Son pronto.
- Viene cosi? - mi domandò il Paleari, guardandomi
meravigliato.
- Perché? - feci
io.
Ma mi accorsi subito che avevo
ancora in capo il berrettino da viaggio, che solevo portare per casa. Me lo
cacciai in tasca e tolsi dall'attaccapanni il cappello, mentre il signor Anselmo
rideva, rideva come se lui...
- Dove va,
signor Anselmo?
- Ma guardi un po' come
stavo per andare anch'io - rispose tra le risa, additandomi le pantofole ai
piedi. - Vada, vada di là; c'è
Adriana...
- Viene anche lei? -
domandai.
- Non voleva venire, - disse,
avviandosi per la sua camera, il Paleari. - Ma l'ho persuasa. Vada: è nel
salotto da pranzo, già pronta...
Con che
sguardo duro, di rampogna, m'accolse in quella stanza la signorina Caporale!
Ella, che aveva tanto sofferto per amore e che s'era sentita tante volte
confortare dalla dolce fanciulla ignara, ora che Adriana sapeva, ora che Adriana
era ferita, voleva confortarla lei a sua volta, grata, premurosa; e si ribellava
contro di me, perché le pareva ingiusto ch'io facessi soffrire una così buona e
bella creatura. Lei, sì, lei non era bella e non era buona, e dunque se gli
uomini con lei si mostravano cattivi, almeno un'ombra di scusa potevano averla.
Ma perché far soffrire cosi Adriana?
Questo mi disse il suo sguardo, e m'invitò a guardar colei ch'io facevo
soffrire.
Com'era pallida! Le si vedeva
ancora negli occhi che aveva pianto. Chi sa che sforzo, nell'angoscia, le era
costato il doversi abbigliare per uscire con me...
Non ostante l'animo con cui mi recai a
quella visita, la figura e la casa del marchese Giglio d'Auletta mi destarono
una certa curiosità.
Sapevo che egli
stava a Roma perché, ormai, per la restaurazione del Regno delle Due Sicilie non
vedeva altro espediente se non nella lotta per il trionfo del potere temporale:
restituita Roma al Pontefice, l'unità d'Italia si sarebbe sfasciata, e allora...
chi sa! Non voleva arrischiar profezie, il marchese. Per il momento, il suo
cómpito era ben definito: lotta senza quartiere, là, nel campo clericale. E la
sua casa era frequentata dai più intransigenti prelati della Curia, dai paladini
più fervidi del partito nero.
Quel
giorno, però, nel vasto salone splendidamente arredato non trovammo nessuno.
Cioè, no. C'era, nel mezzo, un cavalletto, che reggeva una tela a metà
abbozzata, la quale voleva essere il ritratto di Minerva, della cagnetta
di Pepita, tutta nera, sdrajata su una poltrona tutta bianca, la testa allungata
su le due zampine davanti.
- Opera del
pittore Bernaldez, - ci annunziò gravemente Papiano, come se facesse una
presentazione, che da parte nostra richiedesse un profondissimo
inchino.
Entrarono dapprima Pepita
Pantogada e la governante, signora
Candida.
Avevo veduto l'una e l'altra
nella semioscurità della mia camera: ora, alla luce, la signorina Pantogada mi
parve un'altra; non in tutto veramente, ma nel naso... Possibile che avesse quel
naso in casa mia? Me l'ero figurata con un nasetto all'insù, ardito, e invece
aquilino lo aveva, e robusto. Ma era pur bella così: bruna, sfavillante negli
occhi, coi capelli lucidi, nerissimi e ondulati; le labbra fine taglienti,
accese. L'abito scuro, punteggiato di bianco, le stava dipinto sul corpo svelto
e formoso. La mite bellezza bionda d'Adriana, accanto a lei,
impallidiva.
E finalmente potei
spiegarmi che cosa avesse in capo la signora Candida! Una magnifica parrucca
fulva, riccioluta, e - su la parrucca - un ampio fazzoletto di seta cilestrina,
anzi uno scialle, annodato artisticamente sotto il mento. Quanto vivace la
cornice, tanto squallida la faccina magra e floscia, tuttoché imbiaccata,
lisciata, imbellettata.
Minerva,
intanto, la vecchia cagnetta, co' suoi sforzati rochi abbajamenti, non lasciava
fare i convenevoli. La povera bestiola però non abbajava a noi; abbajava al
cavalletto, abbajava alla poltrona bianca, che dovevano esser per lei arnesi di
tortura: protesta e sfogo d'anima esasperata. Quel maledetto ordegno dalle tre
lunghe zampe avrebbe voluto farlo fuggire dal salone; ma poiché esso rimaneva
lì, immobile e minaccioso, si ritraeva lei, abbajando, e poi gli saltava contro,
digrignando i denti, e tornava a ritrarsi,
furibonda.
Piccola, tozza, grassa su le
quattro zampine troppo esili, Minerva era veramente sgraziata; gli occhi
già appannati dalla vecchiaja e i peli della testa incanutiti; sul dorso poi,
presso l'attaccatura della coda, era tutta spelata per l'abitudine di grattarsi
furiosamente sotto gli scaffali, alle traverse delle seggiole, dovunque e
comunque le venisse fatto. Ne sapevo qualche
cosa.
Pepita tutt'a un tratto la afferrò
pel collo e la gettò in braccio alla signora Candida,
gridandole:
-
Cito!
Entrò, in quella, di furia
don Ignazio Giglio d'Auletta. Curvo, quasi spezzato in due, corse alla sua
poltrona presso la finestra, e - appena seduto - ponendosi il bastone tra le
gambe, trasse un profondo respiro e sorrise alla sua stanchezza mortale. Il
volto estenuato, solcato tutto di rughe verticali, raso, era d'un pallore
cadaverico, ma gli occhi, all'incontro, eran vivacissimi, ardenti, quasi
giovanili. Gli s'allungavano in guisa strana su le gote, su le tempie, certe
grosse ciocche di capelli, che parevan lingue di cenere
bagnata.
Ci accolse con molta
cordialità, parlando con spiccato accento napoletano; pregò quindi il suo
segretario di seguitare a mostrarmi i ricordi di cui era pieno il salone e che
attestavano la sua fedeltà alla dinastia dei Borboni. Quando fummo innanzi a un
quadretto coperto da un mantino verde, su cui era ricamata in oro questa
leggenda: «Non nascondo; riparo; alzami e leggi» egli pregò Papiano di
staccar dalla parete il quadretto e di recarglielo. C'era sotto, riparata dal
vetro e incorniciata, una lettera di Pietro Ulloa che, nel settembre del 1860,
cioè agli ultimi aneliti del regno, invitava il marchese Giglio d'Auletta a far
parte del Ministero che non si poté poi costituire: accanto c'era la minuta
della lettera d'accettazione del marchese: fiera lettera che bollava tutti
coloro che s'erano rifiutati di assumere la responsabilità del potere in quel
momento di supremo pericolo e d'angoscioso scompiglio, di fronte al nemico, al
filibustiere Garibaldi già quasi alle porte di
Napoli.
Leggendo ad alta voce questo
documento, il vecchio s'accese e si commosse tanto, che, sebbene ciò ch'ei
leggeva fosse affatto contrario al mio sentimento, pure mi destò ammirazione.
Era stato anch'egli, dal canto suo, un eroe. N'ebbi un'altra prova, quando egli
stesso mi volle narrar la storia di un certo giglio di legno dorato, ch'era pur
lì, nel salone. La mattina del 5 settembre 1860 il Re usciva dalla Reggia di
Napoli in un legnetto scoperto insieme con la Regina e due gentiluomini di
corte: arrivato il legnetto in via di Chiaja dovette fermarsi per un intoppo di
carri e di vetture innanzi a una farmacia che aveva su l'insegna i gigli d'oro.
Una scala, appoggiata all'insegna, impediva il transito. Alcuni operaj, saliti
su quella scala, staccavano dall'insegna i gigli. Il Re se n'accorse e additò
con la mano alla Regina quell'atto di vile prudenza del farmacista, che pure in
altri tempi aveva sollecitato l'onore di fregiar la sua bottega di quel simbolo
regale. Egli, il marchese d'Auletta, si trovava in quel momento a passare di là:
indignato, furente, s'era precipitato entro la farmacia, aveva afferrato per il
bavero della giacca quel vile, gli aveva mostrato il Re ll fuori, gli aveva poi
sputato in faccia e, brandendo uno di quei gigli staccati, s'era messo a gridare
tra la ressa: «Viva il Re!».
Questo
giglio di legno gli ricordava ora, lì nel salotto, quella triste mattina di
settembre, e una delle ultime passeggiate del suo Sovrano per le vie di Napoli;
ed egli se ne gloriava quasi quanto della chiave d'oro di gentiluomo di
camera e dell'insegna di cavaliere di San Gennaro e di tant'altre onorificenze
che facevano bella mostra di sé nel salone, sotto i due grandi ritratti a olio
di Ferdinando e di Francesco II.
Poco
dopo, per attuare il mio tristo disegno, io lasciai il marchese col Paleari e
Papiano, e m'accostai a Pepita.
M'accorsi subito ch'ella era molto nervosa e impaziente. Volle per prima cosa
saper l'ora da me.
- Quattro e
meccio? Bene! bene!
Che fossero
però le quattro e meccio non aveva certamente dovuto farle piacere: lo
argomentai da quel «Bene! bene!» a denti stretti e dal volubile e quasi
aggressivo discorso in cui subito dopo si lanciò contro l'Italia e più contro
Roma così gonfia di sé per il suo passato. Mi disse, tra l'altro, che anche
loro, in Ispagna, avevano tambien un Colosseo come il nostro, della
stessa antichità; ma non se ne curavano né punto né
poco:
- Piedra
muerta!
Valeva senza fine di più,
per loro, una Plaza de toros. Sì, e per lei segnatamente, più di tutti i
capolavori dell'arte antica, quel ritratto di Minerva del pittore Manuel
Bernaldez che tardava a venire. L'impazienza di Pepita non proveniva da altro,
ed era già al colmo. Fremeva, parlando; si passava rapidissimamente, di tratto
in tratto, un dito sul naso; si mordeva il labbro; apriva e chiudeva le mani, e
gli occhi le andavano sempre lì,
all'uscio.
Finalmente il Bernaldez fu
annunziato dal cameriere, e si presentò accaldato, sudato, come se avesse corso.
Subito Pepita gli voltò le spalle e si sforzò d'assumere un contegno freddo e
indifferente; ma quando egli, dopo aver salutato il marchese, si avvicinò a noi,
o meglio a lei e, parlandole nella sua lingua, chiese scusa del ritardo, ella
non seppe contenersi più e gli rispose con vertiginosa
rapidità:
- Prima de tuto lei parli
taliano, porqué aquí siamo a Roma, dove ci sono aquesti segnori che no
comprendono lo espagnolo, e no me par bona crianza che lei parli con migo
espagnolo. Poi le digo che me ne importa niente del su' retardo e che podeva
pasarse de la escusa.
Quegli,
mortificatissimo, sorrise nervosamente e s'inchinò; poi le chiese se poteva
riprendere il ritratto, essendoci ancora un po' di
luce.
- Ma comodo! - gli rispose lei con
la stessa aria e lo stesso tono. - Lei puede pintar senza de mi o tambien
borrar lo pintado, come glie par.
Manuel Bernaldez tornò a inchinarsi e si rivolse alla signora Candida che teneva
ancora in braccio la cagnetta.
Ricominciò allora per Minerva il supplizio. Ma a un supplizio ben più crudele fu
sottoposto il suo carnefice: Pepita, per punirlo del ritardo, prese a sfoggiar
con me tanta civetteria, che mi parve anche troppa per lo scopo a cui tendevo.
Volgendo di sfuggita qualche sguardo ad Adriana, m'accorgevo di quant'ella
soffrisse. Il supplizio non era dunque soltanto per il Bernaldez e per
Minerva; era anche per lei e per me. Mi sentivo il volto in fiamme, come
se man mano mi ubriacasse il dispetto che sapevo di cagionare a quel povero
giovane, il quale tuttavia non m'ispirava pietà: pietà, lì dentro, m'ispirava
soltanto Adriana; e, poiché io dovevo farla soffrire, non m'importava che
soffrisse anche lui della stessa pena: anzi quanto più lui ne soffriva, tanto
meno mi pareva che dovesse soffrirne Adriana. A poco a poco, la violenza che
ciascuno di noi faceva a se stesso crebbe e si tese fino a tal punto, che per
forza doveva in qualche modo scoppiare.
Ne diede il pretesto Minerva. Non tenuta quel giorno in soggezione dallo
sguardo della padroncina, essa, appena il pittore staccava gli occhi da lei per
rivolgerli alla tela, zitta zitta, si levava dalla positura voluta, cacciava le
zampine e il musetto nell'insenatura tra la spalliera e il piano della poltrona,
come se volesse ficcarsi e nascondersi lì, e presentava al pittore il di dietro,
bello scoperto, come un o, scotendo quasi a dileggio la coda ritta. Già
parecchie volte la signora Candida la aveva rimessa a posto. Aspettando, il
Bernaldez sbuffava, coglieva a volo qualche mia parola rivolta a Pepita e la
commentava borbottando sotto sotto fra sé. Più d'una volta, essendomene accorto,
fui sul punto d'intimargli: «Parli forte!». Ma egli alla fine non ne poté più, e
gridò a Pepita:
- Prego: faccia almeno
star ferma la bestia!
- Vestia,
vestia, vestia... - scattò Pepita, agitando le mani per aria, eccitatissima.
- Sarà vestia, ma non glie se
dice!
- Chi sa che capisce, poverina...
- mi venne da osservare a mo' di scusa, rivolto al
Bernaldez.
La frase poteva veramente
prestarsi a una doppia interpretazione; me ne accorsi dopo averla proferita. Io
volevo dire: «Chi sa che cosa immagina che le si faccia». Ma il Bernaldez prese
in altro senso le mie parole, e con estrema violenza, figgendomi gli occhi negli
occhi, rimbeccò:
- Ciò che dimostra di
non capir lei!
Sotto lo sguardo fermo e
provocante di lui, nell'eccitazione in cui mi trovavo anch'io, non potei fare a
meno di rispondergli:
- Ma io capisco,
signor mio, che lei sarà magari un gran
pittore...
- Che cos'è? - domandò il
marchese, notando il nostro fare
aggressivo.
Il Bernaldez, perdendo ogni
dominio su se stesso s'alzò e venne a piantarmisi di
faccia:
- Un gran pittore...
Finisca!
- Un gran pittore, ecco... ma
di poco garbo, mi pare; e fa paura alle cagnette, - gli dissi io allora,
risoluto e sprezzante.
- Sta bene, -
fece lui. - Vedremo se alle cagnette
soltanto!
E si
ritirò.
Pepita improvvisamente ruppe in
un pianto strano, convulso, e cadde svenuta tra le braccia della signora Candida
e di Papiano.
Nella confusione
sopravvenuta, mentr'io con gli altri mi facevo a guardar la Pantogada adagiata
sul canapè, mi sentii afferrar per un braccio e mi vidi sopra di nuovo il
Bernaldez, ch'era tornato indietro. Feci in tempo a ghermirgli la mano levata su
me e lo respinsi con forza, ma egli mi si lanciò contro ancora una volta e mi
sfiorò appena il viso con la mano. Io mi avventai, furibondo; ma Papiano e il
Paleari accorsero a trattenermi, mentre il Bernaldez si ritraeva
gridandomi:
- Se l'abbia per dato! Ai
suoi ordini!... Qua conoscono il mio
indirizzo!
Il marchese s'era levato a
metà dalla poltrona, tutto fremente, e gridava contro l'aggressore; io mi
dibattevo intanto fra il Paleari e Papiano, che mi impedivano di correre a
raggiungere colui. Tentò di calmarmi anche il marchese, dicendomi che, da
gentiluomo, io dovevo mandar due amici per dare una buona lezione a quel
villano, che aveva osato di mostrar così poco rispetto per la sua
casa.
Fremente in tutto il corpo, senza
più fiato gli chiesi appena scusa per lo spiacevole incidente e scappai via,
seguito dal Paleari e da Papiano. Adriana rimase presso la svenuta, ch'era stata
condotta di là.
Mi toccava ora a pregare
il mio ladro che mi facesse da testimonio: lui e il Paleari: a chi altri avrei
potuto rivolgermi?
- Io? - esclamò,
candido e stupito, il signor Anselmo. - Ma che! Nossignore! Dice sul serio? - (e
sorrideva). - Non m'intendo di tali faccende, io, signor Meis... Via, via,
ragazzate, sciocchezze, scusi...
- Lei
lo farà per me, - gli gridai energicamente, non potendo entrare in quel momento
in discussione con lui. - Andrà con suo genero a trovare quel signore,
e...
- Ma io non vado! Ma che dice! -
m'interruppe. - Mi domandi qualunque altro servizio: son pronto a servirla; ma
questo, no: non è per me, prima di tutto; e poi, via, glie l'ho detto:
ragazzate! Non bisogna dare importanza... Che
c'entra...
- Questo, no! questo, no! -
interloquì Papiano vedendomi smaniare. - C'entra benissimo! Il signor Meis ha
tutto il diritto d'esigere una soddisfazione; direi anzi che è in obbligo,
sicuro! deve, deve...
- Andrà dunque lei
con un suo amico, - dissi, non aspettandomi anche da lui un
rifiuto.
Ma Papiano apri le braccia
addoloratissimo.
- Si figuri con che
cuore vorrei farlo!
- E non lo fa? - gli
gridai forte, in mezzo alla strada.
-
Piano, signor Meis, - pregò egli, umile. - Guardi... Senta: mi consideri...
consideri la mia infelicissima condizione di subalterno... di miserabile
segretario del marchese... servo, servo,
servo...
- Che ci ha da vedere? Il
marchese stesso... ha sentito?
-
Sissignore! Ma domani? Quel clericale... di fronte al partito... col segretario
che s'impiccia in questioni cavalleresche... Ah, santo Dio, lei non sa che
miserie! E poi, quella fraschetta, ha veduto? è innamorata, come una gatta, del
pittore, di quel farabutto... Domani fanno la pace, e allora io, scusi, come mi
trovo? Ci vado di mezzo! Abbia pazienza, signor Meis, mi consideri... E proprio
così.
- Mi vogliono dunque lasciar solo
in questo frangente? - proruppi ancora una volta, esasperato. - Io non conosco
nessuno, qua a Roma!
-...Ma c'è il
rimedio! C'è il rimedio! - s'affrettò a consigliarmi Papiano. - Glielo volevo
dir subito... Tanto io, quanto mio suocero, creda, ci troveremmo imbrogliati;
siamo disadatti... Lei ha ragione, lei freme, lo vedo: il sangue non è acqua.
Ebbene, si rivolga subito a due ufficiali del regio esercito: non possono
negarsi di rappresentare un gentiluomo come lei in una partita d'onore. Lei si
presenta, espone loro il caso... Non è la prima volta che càpita loro di rendere
questo servizio a un forestiere.
Eravamo
arrivati al portone di casa; dissi a Papiano: - Sta bene! - e lo piantai lì, col
suocero, avviandomi solo, fosco, senza
direzione.
Mi s'era ancora una volta
riaffacciato il pensiero schiacciante della mia assoluta impotenza. Potevo fare
un duello nella condizione mia? Non volevo ancora capirlo ch'io non potevo far
più nulla? Due ufficiali? Sì, Ma avrebbero voluto prima sapere, e con
fondamento, ch'io mi fossi. Ah, pure in faccia potevano sputarmi,
schiaffeggiarmi, bastonarmi: dovevo pregare che picchiassero sodo, sì, quanto
volevano, ma senza gridare, senza far troppo rumore... Due ufficiali! E se per
poco avessi loro scoperto il mio vero stato, ma prima di tutto non m'avrebbero
creduto, chi sa che avrebbero sospettato; e poi sarebbe stato inutile, come per
Adriana: pur credendomi, m'avrebbero consigliato di rifarmi prima vivo, giacché
un morto, via, non si trova nelle debite condizioni di fronte al codice
cavalleresco...
E dunque dovevo
soffrirmi in pace l'affronto, come già il furto? Insultato, quasi
schiaffeggiato, sfidato, andarmene via come un vile, sparir così, nel bujo
dell'intollerabile sorte che mi attendeva, spregevole, odioso a me
stesso?
No, no! E come avrei potuto più
vivere? come sopportar la mia vita? No, no, basta! basta! Mi fermai. Mi vidi
vacillar tutto all'intorno; sentii mancarmi le gambe al sorgere improvviso d'un
sentimento oscuro, che mi comunicò un brivido dal capo alle
piante.
«Ma almeno prima, prima...»
dissi tra me, vaneggiando, «almeno prima tentare... perché no? se mi venisse
fatto... Almeno tentare... per non rimaner di fronte a me stesso così vile... Se
mi venisse fatto... avrei meno schifo di me... Tanto, non ho più nulla da
perdere... Perché non tentare?»
Ero a
due passi dal Caffè Aragno. «Là, là, allo sbaraglio!» E, nel cieco orgasmo che
mi spronava, entrai.
Nella prima sala,
attorno a un tavolino, c'erano cinque o sei ufficiali d'artiglieria e, come uno
d'essi, vedendomi arrestar lì presso torbido, esitante, si voltò a guardarmi, io
gli accennai un saluto, e con voce rotta
dall'affanno:
- Prego... scusi... - gli
dissi. - Potrei dirle una parola?
Era un
giovanottino senza baffi, che doveva essere uscito quell'anno stesso
dall'Accademia, tenente. Si alzò subito e mi s'appressò, con molta
cortesia.
- Dica pure,
signore...
- Ecco, mi presento da me:
Adriano Meis. Sono forestiere, e non conosco nessuno... Ho avuto una... una
lite, sì... Avrei bisogno di due padrini... Non saprei a chi rivolgermi... Se
lei con un suo compagno volesse...
Sorpreso, perplesso, quegli stette un po' a squadrarmi, poi si voltò verso i
compagni, chiamò:
-
Grigliotti!
Questi, ch'era un tenente
anziano, con un pajo di baffoni all'insù, la caramella incastrata per forza in
un occhio, lisciato, impomatato, si levò, seguitando a parlare coi compagni
(pronunziava l'erre alla francese) e ci s'avvicinò, facendomi un lieve,
compassato inchino. Vedendolo alzare, fui sul punto di dire al tenentino:
«Quello, no, per carità! quello, no!». Ma certo nessun altro del crocchio, come
riconobbi poi, poteva esser più designato di colui alla bisogna. Aveva su la
punta delle dita tutti gli articoli del codice
cavalleresco.
Non potrei qui riferire
per filo e per segno tutto ciò che egli si compiacque di dirmi intorno al mio
caso, tutto ciò che pretendeva da me... dovevo telegrafare, non so come, non so
a chi, esporre, determinare, andare dal colonnello ça va sans dire...
come aveva fatto lui, quando non era ancora sotto le armi, e gli era capitato a
Pavia lo stesso mio caso... Perché, in materia cavalleresca... e giù, giù,
articoli e precedenti e controversie e giurì d'onore e che so
io.
Avevo cominciato a sentirmi tra le
spine fin dal primo vederlo: figurarsi ora, sentendolo sproloquiare così! A un
certo punto, non ne potei più: tutto il sangue m'era montato alla testa:
proruppi:
- Ma sissignore! ma lo so! Sta
bene... lei dice bene; ma come vuole ch'io telegrafi, adesso? Io son solo! Io
voglio battermi, ecco! battermi subito, domani stesso, se è possibile... senza
tante storie! Che vuole ch'io ne sappia? Io mi son rivolto a loro con la
speranza che non ci fosse bisogno di tante formalità, di tante inezie, di tante
sciocchezze, mi scusi!
Dopo questa
sfuriata, la conversazione diventò quasi diverbio e terminò improvvisamente con
uno scoppio di risa sguajate di tutti quegli ufficiali. Scappai via, fuori di
me, avvampato in volto, come se mi avessero preso a scudisciate. Mi recai le
mani alla testa, quasi per arrestar la ragione che mi fuggiva; e, inseguito da
quelle risa, m'allontanai di furia, per cacciarmi, per nascondermi in qualche
posto... Dove? A casa? Ne provai orrore. E andai, andai all'impazzata; poi, man
mano rallentai il passo e alla fine, arrangolato, mi fermai, come se non potessi
più trascinar l'anima, frustata da quel dileggio, fremebonda e piena d'una
plumbea tetraggine angosciosa. Rimasi un pezzo attonito; poi mi mossi di nuovo,
senza più pensare, alleggerito d'un tratto, in modo strano, d'ogni ambascia,
quasi istupidito; e ripresi a vagare, non so per quanto tempo, fermandomi qua e
là a guardar nelle vetrine delle botteghe, che man mano si serravano, e mi
pareva che si serrassero per me, per sempre; e che le vie a poco a poco si
spopolassero, perché io restassi solo, nella notte, errabondo, tra case tacite,
buje, con tutte le porte, tutte le finestre serrate, serrate per me, per sempre:
tutta la vita si rinserrava, si spegneva, ammutoliva con quella notte; e io già
la vedevo come da lontano, come se essa non avesse più senso né scopo per me. Ed
ecco, alla fine, senza volerlo, quasi guidato dal sentimento oscuro che mi aveva
invaso tutto, maturandomisi dentro man mano, mi ritrovai sul Ponte Margherita,
appoggiato al parapetto, a guardare con occhi sbarrati il fiume nero nella
notte.
«Là?»
Un brivido mi colse, di sgomento,
che fece d'un subito insorgere con impeto rabbioso tutte le mie vitali energie
armate di un sentimento d'odio feroce contro coloro che, da lontano,
m'obbligavano a finire, come avevan voluto, là, nel molino della Stìa.
Esse Romilda e la madre, mi avevan gettato in questi frangenti: ah, io non avrei
mai pensato di simulare un suicidio per liberarmi di loro. Ed ecco, ora, dopo
essermi aggirato due anni, come un'ombra, in quella illusione di vita oltre la
morte, mi vedevo costretto, forzato, trascinato pei capelli a eseguire su me la
loro condanna. Mi avevano ucciso davvero! Ed esse esse sole si erano liberate di
me...
Un fremito di ribellione mi
scosse. E non potevo io vendicarmi di loro, invece d'uccidermi? Chi stavo io per
uccidere? Un morto... nessuno...
Restai,
come abbagliato da una strana luce improvvisa. Vendicarmi! Dunque, ritornar lì,
a Miragno? uscire da quella menzogna che mi soffocava divenuta ormai
insostenibile; ritornar vivo per loro castigo, col mio vero nome, nelle mie vere
condizioni, con le mie vere e proprie infelicità? Ma le presenti? Potevo
scuotermele di dosso, così, come un fardello esoso che si possa gettar via? No,
no, no! Sentivo di non poterlo fare. E smaniavo lì, sul ponte ancora incerto
della mia sorte.
Frattanto, ecco, nella
tasca del mio pastrano palpavo, stringevo con le dita irrequiete qualcosa che
non riuscivo a capir che fosse. Alla fine, con uno scatto di rabbia, la trassi
fuori. Era il mio berrettino da viaggio, quello che, uscendo di casa per far
visita al marchese Giglio, m'ero cacciato in tasca, senza badarci. Feci per
gittarlo al fiume, ma - sul punto - un'idea mi balenò; una riflessione, fatta
durante il viaggio da Alenga a Torino, mi tornò chiara alla
memoria.
«Qua,» dissi, quasi
inconsciamente, tra me, «su questo parapetto... il cappello... il bastone... Sì!
Com'esse là, nella gora del molino, Mattia Pascal; io, qua, ora, Adriano Meis...
Una volta per uno! Ritorno vivo; mi
vendicherò!»
Un sussulto di gioja, anzi
un impeto di pazzia m'investì, mi sollevò. Ma sì! ma sì! Io non dovevo uccider
me, un morto, io dovevo uccidere quella folle, assurda finzione che m'aveva
torturato, straziato due anni, quell'Adriano Meis, condannato a essere un vile,
un bugiardo, un miserabile; quell'Adriano Meis dovevo uccidere, che essendo,
com'era, un nome falso, avrebbe dovuto aver pure di stoppa il cervello, di
cartapesta il cuore, di gomma le vene, nelle quali un po' d'acqua tinta avrebbe
dovuto scorrere, invece di sangue: allora sì! Via, dunque, giù, giù, tristo
fantoccio odioso! Annegato, là, come Mattia Pascal Una volta per uno!
Quell'ombra di vita, sorta da una menzogna macabra, si sarebbe chiusa
degnamente, così, con una menzogna macabra! E riparavo tutto! Che altra
soddisfazione avrei potuto dare ad Adriana per il male che le avevo fatto? Ma
l'affronto di quel farabutto dovevo tenermelo? Mi aveva investito a tradimento,
il vigliacco! Oh, io ero ben sicuro di non aver paura di lui. Non io, non io, ma
Adriano Meis aveva ricevuto l'insulto. Ed ora, ecco, Adriano Meis
s'uccideva.
Non c'era altra via di
scampo per me!
Un tremore, intanto, mi
aveva preso, come se io dovessi veramente uccidere qualcuno. Ma il cervello mi
s'era d'un tratto snebbiato, il cuore alleggerito, e godevo d'una quasi ilare
lucidità di spirito.
Mi guardai attorno.
Sospettai che di là, sul Lungotevere, ci potesse essere qualcuno, qualche
guardia, che - vedendomi da un pezzo sul ponte - si fosse fermata a spiarmi.
Volli accertarmene: andai, guardai prima nella Piazza della Libertà, poi per il
Lungotevere dei Mellini. Nessuno! Tornai allora indietro; ma, prima di rifarmi
sul ponte, mi fermai tra gli alberi, sotto un fanale: strappai un foglietto dal
taccuino e vi scrissi col lapis: Adriano Meis. Che altro? Nulla.
L'indirizzo e la data. Bastava così. Era tutto lì, Adriano Meis, in quel
cappello, in quel bastone. Avrei lasciato tutto, là, a casa, abiti, libri... Il
denaro, dopo il furto, l'avevo con me.
Ritornai sul ponte, cheto, chinato. Mi tremavano le gambe, e il cuore mi
tempestava in petto. Scelsi il posto meno illuminato dai fanali, e subito mi
tolsi il cappello, infissi nel nastro il biglietto ripiegato, poi lo posai sul
parapetto, col bastone accanto; mi cacciai in capo il provvidenziale berrettino
da viaggio che m'aveva salvato, e via, cercando l'ombra, come un ladro, senza
volgermi addietro.