Luigi Pirandello
Il fu Mattia Pascal
XVII
Rincarnazione
Arrivai alla stazione in tempo per il
treno delle dodici e dieci per Pisa.
Preso il biglietto, mi rincantucciai in un vagone di seconda classe, con la
visiera del berrettino calcata fin sul naso, non tanto per nascondermi, quanto
per non vedere. Ma vedevo lo stesso, col pensiero: avevo l'incubo di quel
cappellaccio e di quel bastone, lasciati lì, sul parapetto del ponte. Ecco,
forse qualcuno, in quel momento, passando di là, li scorgeva... o forse già
qualche guardia notturna era corsa in questura a dar l'avviso... E io ero ancora
a Roma! Che s'aspettava? Non tiravo più
fiato...
Finalmente il convoglio si
scrollò. Per fortuna ero rimasto solo nello scompartimento. Balzai in piedi,
levai le braccia, trassi un interminabile respiro di sollievo, come se mi fossi
tolto un macigno di sul petto. Ah! tornavo a esser vivo, a esser io, io Mattia
Pascal. Lo avrei gridato forte a tutti, ora: «Io, io, Mattia Pascal! Sono io!
Non sono morto! Eccomi qua!». E non dover più mentire, non dover più temere
d'essere scoperto! Ancora no, veramente: finché non arrivavo a Miragno... Là,
prima, dovevo dichiararmi, farmi riconoscer vivo, rinnestarmi alle mie radici
sepolte... Folle! Come mi ero illuso che potesse vivere un tronco reciso dalle
sue radici? Eppure, eppure, ecco, ricordavo l'altro viaggio, quello da Alenga a
Torino: m'ero stimato felice, allo stesso modo, allora. Folle! La liberazione!
dicevo... M'era parsa quella la liberazione! Sì, con la cappa di piombo della
menzogna addosso! Una cappa di piombo addosso a un'ombra... Ora avrei avuto di
nuovo la moglie addosso, è vero, e quella suocera... Ma non le avevo forse avute
addosso anche da morto? Ora almeno ero vivo, e agguerrito. Ah, ce la saremmo
veduta!
Mi pareva, a ripensarci,
addirittura inverosimile la leggerezza con cui, due anni addietro, m'ero gettato
fuori d'ogni legge, alla ventura. E mi rivedevo nei primi giorni, beato
nell'incoscienza, o piuttosto nella follia, a Torino, e poi man mano nelle altre
città, in pellegrinaggio, muto, solo, chiuso in me, nel sentimento di ciò che mi
pareva allora la mia felicità; ed eccomi in Germania, lungo il Reno, su un
piroscafo: era un sogno? no, c'ero stato davvero! ah, se avessi potuto durar
sempre in quelle condizioni; viaggiare, forestiere della vita... Ma a Milano,
poi... quel povero cucciolotto che volevo comperare da un vecchio cerinajo...
Cominciavo già ad accorgermi... E poi... ah
poi!
Ripiombai col pensiero a Roma;
entrai come un'ombra nella casa abbandonata. Dormivano tutti? Adriana, forse,
no... m'aspetta ancora, aspetta che io rincasi; le avranno detto che sono andato
in cerca di due padrini, per battermi col Bernaldez; non mi sente ancora
rincasare, e teme e piange...
Mi
premetti forte le mani sul volto, sentendomi stringere il cuore
d'angoscia.
- Ma se io per te non potevo
esser vivo, Adriana, - gemetti, - meglio che tu ora mi sappia morto! morte le
labbra che colsero un bacio dalla tua bocca, povera Adriana... Dimentica!
Dimentica!
Ah, che sarebbe avvenuto in
quella casa, nella prossima mattina, quando qualcuno della questura si sarebbe
presentato a dar l'annunzio? A qual ragione, passato il primo sbalordimento,
avrebbero attribuito il mio suicidio? Al duello imminente? Ma no! Sarebbe stato,
per lo meno, molto strano che un uomo, il quale non aveva mai dato prova
d'essere un codardo, si fosse ucciso per paura di un duello... E allora? Perché
non potevo trovar padrini? Futile pretesto! O forse... chi sa! era possibile che
ci fosse sotto, in quella mia strana esistenza, qualche
mistero...
Oh, sì: l'avrebbero senza
dubbio pensato! M'uccidevo così, senz'alcuna ragione apparente, senza averne
prima dimostrato in qualche modo l'intenzione. Sì: qualche stranezza, più d'una,
l'avevo commessa in quegli ultimi giorni: quel pasticcio del furto, prima
sospettato, poi improvvisamente smentito... Oh che forse quei denari non erano
miei? dovevo forse restituirli a qualcuno? m'ero indebitamente appropriato d'una
parte di essi e avevo tentato di farmi credere vittima d'un furto, poi m'ero
pentito, e, in fine, ucciso? Chi sa! Certo ero stato un uomo misteriosissimo:
non un amico, non una lettera, mai, da nessuna
parte...
Quanto avrei fatto meglio a
scrivere qualche cosa in quel bigliettino, oltre il nome, la data e l'indirizzo:
una ragione qualunque del suicidio. Ma in quel momento... E poi, che
ragione?
«Chi sa come e quanto,» pensai,
smaniando, «strilleranno adesso i giornali di questo Adriano Meis misterioso...
Salterà certo fuori quel mio famoso cugino, quel tal Francesco Meis torinese,
ajuto-agente, a dar le sue informazioni alla questura: si faranno ricerche, su
la traccia di queste informazioni, e chi sa che cosa ne verrà fuori. Sì, ma i
danari? l'eredità? Adriana li ha veduti, tutti que' miei biglietti di banca...
Figuriamoci Papiano! Assalto allo stipetto! Ma lo troverà vuoto... E allora,
perduti? in fondo al fiume? Peccato! peccato! Che rabbia non averli rubati tutti
a tempo! La questura sequestrerà i miei abiti, i miei libri... A chi andranno?
Oh! almeno un ricordo alla povera Adriana! Con che occhi guarderà ella, ormai,
quella mia camera deserta?»
Così,
domande, supposizioni, pensieri, sentimenti tumultuavano in me, mentre il treno
rombava nella notte. Non mi davano
requie.
Stimai prudente fermarmi qualche
giorno a Pisa per non stabilire una relazione tra la ricomparsa di Mattia Pascal
a Miragno e la scomparsa di Adriano Meis a Roma, relazione che avrebbe potuto
facilmente saltare a gli occhi, specie se i giornali di Roma avessero troppo
parlato di questo suicidio. Avrei aspettato a Pisa i giornali di Roma, quelli de
la sera e quelli del mattino; poi, se non si fosse fatto troppo chiasso, prima
che a Miragno, mi sarei recato a Oneglia, da mio fratello Roberto, a
sperimentare su lui l'impressione che avrebbe fatto la mia resurrezione. Ma
dovevo assolutamente vietarmi di fare il minimo accenno alla mia permanenza in
Roma, alle avventure, ai casi che m'erano occorsi. Di quei due anni e mesi
d'assenza avrei dato fantastiche notizie, di lontani viaggi... Ah, ora,
ritornando vivo, avrei potuto anch'io prendermi il gusto di dire bugie, tante,
tante, tante, anche della forza di quelle del cavalier Tito Lenzi, e più grosse
ancora!
Mi restavano più di cinquantadue
mila lire. I creditori, sapendomi morto da due anni, s'erano certo contentati
del podere della Stìa col mulino. Venduto l'uno e l'altro, s'erano forse
aggiustati alla meglio: non mi avrebbero più molestato. Avrei pensato io, se
mai, a non farmi più molestare. Con cinquantadue mila lire, a Miragno, via, non
dico grasso, avrei potuto vivere
discretamente.
Lasciato il treno a Pisa,
prima di tutto mi recai a comperare un cappello, della forma e della dimensione
di quelli che Mattia Pascal ai suoi dì soleva portare; subito dopo mi feci
tagliar la chioma di quell'imbecille d'Adriano
Meis.
- Corti, belli corti, eh? - dissi
al barbiere.
M'era già un po'
ricresciuta la barba, e ora, coi capelli corti, ecco che cominciai a riprender
il mio primo aspetto, ma di molto migliorato, più fino, già... ma sì,
ringentilito. L'occhio non era più storto, eh! non era più quello caratteristico
di Mattia Pascal.
Ecco, qualche cosa
d'Adriano Meis mi sarebbe tuttavia rimasta in faccia. Ma somigliavo pur tanto a
Roberto, ora; oh, quanto non avrei mai
supposto.
Il guajo fu, quando - dopo
essermi liberato di tutti quei capellacci - mi rimisi in capo il cappello
comperato poc'anzi: mi sprofondò fin su la nuca! Dovetti rimediare, con l'ajuto
del barbiere, ponendo un giro di carta sotto la
fodera.
Per non entrare così, con le
mani vuote, in un albergo, comperai una valigia: ci avrei messo dentro, per il
momento, l'abito che indossavo e il pastrano. Mi toccava rifornirmi di tutto,
non potendo sperare che, dopo tanto tempo, là a Miragno, mia moglie avesse
conservato qualche mio vestito e la biancheria. Comperai l'abito bell'e fatto,
in un negozio, e me lo lasciai addosso; con la valigia nuova, scesi all'Hotel
Nettuno.
Ero già stato a Pisa quand'ero
Adriano Meis, ed ero sceso allora all'Albergo di Londra. Avevo già ammirato
tutte le meraviglie d'arte della città; ora, stremato di forze per le emozioni
violente, digiuno dalla mattina del giorno avanti, cascavo di fame e di sonno.
Presi qualche cibo, e quindi dormii quasi fino a
sera.
Appena sveglio, però, caddi in
preda a una fosca smania crescente. Quella giornata quasi non avvertita da me,
tra le prime faccende e poi in quel sonno di piombo in cui ero caduto, chi sa
intanto com'era passata lì, in casa Paleari! Rimescolìo, sbalordimento,
curiosità morbosa di estranei, indagini frettolose, sospetti, strampalate
ipotesi, insinuazioni, vane ricerche; e i miei abiti e i miei libri, là,
guardati con quella costernazione che ispirano gli oggetti appartenenti a
qualcuno tragicamente morto.
E io avevo
dormito! E ora, in questa impazienza angosciosa, avrei dovuto aspettare fino
alla mattina del giorno seguente, per saper qualche cosa dai giornali di
Roma.
Frattanto, non potendo correre a
Miragno, o almeno a Oneglia, mi toccava a rimanere in una bella condizione,
dentro una specie di parentesi di due, di tre giorni e fors'anche più: morto di
là, a Miragno, come Mattia Pascal; morto di qua, a Roma, come Adriano
Meis.
Non sapendo che fare, sperando di
distrarmi un po' da tante costernazioni, portai questi due morti a spasso per
Pisa.
Oh, fu una piacevolissima
passeggiata! Adriano Meis, che c'era stato, voleva quasi quasi far da guida e da
cicerone a Mattia Pascal; ma questi oppresso da tante cose che andava rivolgendo
in mente, si scrollava con fosche maniere, scoteva un braccio come per levarsi
di torno quell'ombra esosa, capelluta, in abito lungo, col cappellaccio a larghe
tese e con gli occhiali.
«Va' via! va'!
Tornatene al fiume, affogato!»
Ma
ricordavo che anche Adriano Meis, passeggiando due anni addietro per le vie di
Pisa, s'era sentito importunato, infastidito allo stesso modo dall'ombra,
ugualmente esosa, di Mattia Pascal, e avrebbe voluto con lo stesso gesto
cavarsela dai piedi, ricacciandola nella gora del molino, là, alla Stìa.
Il meglio era non dar confidenza a nessuno dei due. O bianco campanile, tu
potevi pendere da una parte; io, tra quei due, né di qua né di
là.
Come Dio volle, arrivai finalmente a
superare quella nuova interminabile nottata d'ambascia e ad avere in mano i
giornali di Roma.
Non dirò che, alla
lettura, mi tranquillassi: non potevo. La costernazione che mi teneva, fu però
presto ovviata dal vedere che alla notizia del mio suicidio i giornali avevano
dato le proporzioni d'uno dei soliti fatti di cronaca. Dicevano tutti, sù per
giù, la stessa cosa: del cappello, del bastone trovati sul Ponte Margherita, col
laconico bigliettino; ch'ero torinese, uomo alquanto singolare, e che
s'ignoravano le ragioni che mi avevano spinto al triste passo. Uno però avanzava
la supposizione che ci fosse di mezzo una «ragione intima», fondandosi sul
«diverbio con un giovane pittore spagnuolo, in casa di un notissimo personaggio
del mondo clericale».
Un altro diceva
«probabilmente per dissesti finanziarii». Notizie vaghe, insomma, e brevi. Solo
un giornale del mattino, solito di narrar diffusamente i fatti del giorno,
accennava «alla sorpresa e al dolore della famiglia del cavalier Anselmo
Paleari, caposezione al Ministero della pubblica istruzione, ora a riposo,
presso cui il Meis abitava, molto stimato per il suo riserbo e pe' suoi modi
cortesi». - Grazie! - Anche questo giornale, riferendo la sfida corsa col
pittore spagnuolo M. B., lasciava intendere che la ragione del suicidio dovesse
cercarsi in una segreta passione
amorosa.
M'ero ucciso per Pepita
Pantogada, insomma. Ma, alla fine, meglio così. Il nome d'Adriana non era venuto
fuori, né s'era fatto alcun cenno de' miei biglietti di banca. La questura
dunque, avrebbe indagato nascostamente. Ma su quali
tracce?
Potevo partire per Oneglia.
Trovai Roberto in villa, per la
vendemmia. Quel ch'io provassi nel rivedere la mia bella riviera, in cui credevo
di non dover più metter piede, sarà facile intendere. Ma la gioja m'era turbata
dall'ansia d'arrivare, dall'apprensione d'esser riconosciuto per via da qualche
estraneo prima che dai parenti, dall'emozione di punto in punto crescente che mi
cagionava il pensiero di ciò che avrebbero essi provato nel rivedermi vivo, d'un
tratto, innanzi a loro. Mi s'annebbiava la vista, a pensarci, mi s'oscuravano il
cielo e il mare, il sangue mi frizzava per le vene, il cuore mi batteva in
tumulto. E mi pareva di non arrivar mai!
Quando, finalmente, il servo venne ad aprire il cancello della graziosa villa,
recata in dote a Berto dalla moglie, mi sembrò, attraversando il viale, ch'io
tornassi veramente dall'altro mondo.
-
Favorisca, - mi disse il servo, cedendomi il passo su l'entrata della villa. -
Chi debbo annunziare?
Non mi trovai più
in gola la voce per rispondergli. Nascondendo lo sforzo con un sorriso,
balbettai:
- Di'... dite... ditegli
che... sì, c'è... c'è... un suo amico... intimo, che... che viene da lontano...
Così...
Per lo meno quel servo dovette
credermi balbuziente. Depose la mia valigia accanto all'attaccapanni e m'invitò
a entrare nel salotto lì presso.
Fremevo
nell'attesa, ridevo, sbuffavo, mi guardavo attorno, in quel salottino chiaro,
ben messo, arredato di mobili nuovi di lacca verdina. Vidi a un tratto, su la
soglia dell'uscio per cui ero entrato un bel bimbetto, di circa quattr'anni, con
un piccolo annaffiatojo in una mano e un rastrellino nell'altra. Mi guardava con
tanto d'occhi.
Provai una tenerezza
indicibile: doveva essere un mio nipotino, il figlio maggiore di Berto; mi
chinai, gli accennai con la mano di farsi avanti; ma gli feci paura; scappò
via.
Sentii in quel punto schiudere
l'altro uscio del salotto. Mi rizzai, gli occhi mi s'intorbidarono dalla
commozione, una specie di riso convulso mi gorgogliò in
gola.
Roberto era rimasto innanzi a me,
turbato, quasi stordito.
- Con chi...? -
fece.
- Berto! - gli gridai, aprendo le
braccia. - Non mi riconosci?
Diventò
pallidissimo, al suono della mia voce, si passò rapidamente una mano su la
fronte e su gli occhi, vacillò,
balbettando:
- Com'è... com'è...
com'è?
Ma io fui pronto a sorreggerlo,
quantunque egli si traesse indietro, quasi per
paura.
- Son io! Mattia! non aver paura!
Non sono morto... Mi vedi? Toccami! Sono io, Roberto. Non sono mai stato più
vivo d'adesso! Sù, sù, sù...
- Mattia!
Mattia! Mattia! - prese a dire il povero Berto, non credendo ancora agli occhi
suoi. - Ma com'è? Tu? Oh Dio... com'è? Fratello mio! Caro
Mattia!
E m'abbracciò forte, forte,
forte. Mi misi a piangere come un
bambino.
- Com'è? - riprese a domandar
Berto che piangeva anche lui. - Com'è?
com'è?
- Eccomi qua... Vedi? Son
tornato... non dall'altro mondo, no... sono stato sempre in questo mondaccio...
Sù... Ora ti dirò...
Tenendomi forte per
le braccia, col volto pieno di lagrime, Roberto mi guardava ancora
trasecolato:
- Ma come... se
là...?
- Non ero io... Ti dirò. M'hanno
scambiato... lo ero lontano da Miragno e ho saputo, come l'hai saputo forse tu,
da un giornale, il mio suicidio alla
Stìa.
- Non eri dunque tu? -
esclamò Berto. - E che hai fatto?
- Il
morto. Sta' zitto. Ti racconterò tutto. Per ora non posso. Ti dico questo
soltanto, che sono andato di qua e di là, credendomi felice, dapprima, sai?:
poi, per... per tante vicissitudini, mi sono accorto che avevo sbagliato, che
fare il morto non è una bella professione: ed eccomi qua: mi rifaccio vivo
.
- Mattia, l'ho sempre detto io,
Mattia, matto... Matto! matto! matto! - esclamò Berto. - Ah che gioja
m'hai dato! Chi poteva aspettarsela? Mattia vivo... qua! Ma sai che non ci so
credere ancora? Lasciati guardare... Mi sembri un
altro!
- Vedi che mi sono aggiustato
anche l'occhio?
- Ah già, sì... per
questo mi pareva... non so... ti guardavo, ti guardavo... Benone! Sù, andiamo di
là, da mia moglie... Oh! Ma aspetta...
tu...
Si fermò improvvisamente e mi
guardò, sconvolto:
- Tu vuoi tornare a
Miragno?
- Certamente,
stasera.
- Dunque non sai
nulla?
Si coprì il volto con le mani e
gemette:
- Disgraziato! Che hai fatto...
che hai fatto...? Ma non sai che tua
moglie...?
- Morta? - esclamai,
restando.
- No! Peggio! Ha... ha ripreso
marito!
Trasecolai.
-
Marito?
- Sì, Pomino! Ho ricevuto la
partecipazione. Sarà più d'un anno.
-
Pomino? Pomino, marito di... - balbettai; ma subito un riso amaro, come un
rigurgito di bile, mi saltò alla gola, e risi, risi
fragorosamente.
Roberto mi guardava
sbalordito, forse temendo che fossi levato di
cervello.
-
Ridi?
- Ma si! ma sì! ma sì! - gli
gridai, scotendolo per le braccia. - Tanto meglio! Questo è il colmo della mia
fortuna!
- Che dici? - scattò Roberto,
quasi rabbiosamente. - Fortuna? Ma se tu ora vai
lì...
- Subito ci corro,
figùrati!
- Ma non sai dunque che ti
tocca a riprendertela?
- Io?
Come!
- Ma certo! - raffermò Berto,
mentre sbalordito lo guardavo io, ora, a mia volta. - Il secondo matrimonio
s'annulla, e tu sei obbligato a
riprendertela.
Sentii sconvolgermi
tutto.
- Come! Che legge è questa? -
gridai. - Mia moglie si rimarita, ed io.. Ma che? Sta' zitto! Non è
possibile!
- E io ti dico invece che è
proprio così! - sostenne Berto. - Aspetta: c'è di là mio cognato. Te lo
spiegherà meglio lui, che è dottore in legge. Vieni... o meglio, no: attendi un
po' qua: mia moglie è incinta; non vorrei che, per quanto ti conosca poco, le
potesse far male un'impressione troppo forte... Vado a prevenirla... Attendi,
eh?
E mi tenne la mano fin sulla soglia
dell'uscio, come se temesse ancora, che - lasciandomi per un momento - io
potessi sparir di nuovo.
Rimasto solo,
mi misi a fare in quel salottino le volte del leone. «Rimaritata! con Pomino! Ma
sicuro... Anche la stessa moglie. Lui - eh già! - la aveva amata prima. Non gli
sarà parso vero! E anche lei... figuriamoci! Ricca, moglie di Pomino... E mentre
lei qua s'era rimaritata, io là a Roma... E ora devo riprendermela! Ma
possibile?»
Poco dopo, Roberto venne a
chiamarmi tutto esultante. Ero ormai però tanto scombussolato da questa notizia
inattesa, che non potei rispondere alla festa che mi fecero mia cognata e la
madre e il fratello di lei. Berto se n'accorse, e interpellò subito il cognato
su ciò che mi premeva soprattutto di
sapere.
- Ma che legge è questa? -
proruppi ancora una volta. - Scusi! Questa è legge
turca!
Il giovane avvocato sorrise,
rassettandosi le lenti sul naso, con aria di
superiorità.
- Ma pure è così, - mi
rispose. - Roberto ha ragione. Non rammento con precisione l'articolo, ma il
caso è previsto dal codice: il secondo matrimonio diventa nullo, alla ricomparsa
del primo coniuge.
- E io devo
riprendermi, - esclamai irosamente, - una donna che, a saputa di tutti, è stata
per un anno intero in funzione di moglie con un altr'uomo, il
quale...
- Ma per colpa sua, scusi, caro
signor Pascal! - m'interruppe l'avvocatino, sempre
sorridente.
- Per colpa mia? Come? -
feci io. - Quella buona donna sbaglia, prima di tutto, riconoscendomi nel
cadavere d'un disgraziato che s'annega, poi s'affretta a riprender marito, e la
colpa è mia? e io devo riprendermela?
-
Certo, - replicò quegli, - dal momento che lei, signor Pascal, non volle
correggere a tempo, prima cioè del termine prescritto dalla legge per contrarre
un secondo matrimonio, lo sbaglio di sua moglie, sbaglio che poté anche - non
nego - essere in mala fede. Lei lo accettò, quel falso riconoscimento, e se ne
avvalse... Oh, badi: io la lodo di questo: per me ha fatto benissimo. Mi fa
specie, anzi, che lei ritorni a ingarbugliarsi nell'intrico di queste nostre
stupide leggi sociali. Io, ne' panni suoi, non mi sarei fatto più
vivo.
La calma, la saccenteria spavalda
di questo giovanottino laureato di fresco
m'irritarono.
- Ma perché lei non sa che
cosa voglia dire! - gli risposi, scrollando le
spalle.
- Come! - riprese lui. - Si può
dare maggior fortuna, maggior felicità di
questa?
- Sì, la provi! la provi! -
esclamai, voltandomi verso Berto, per piantarlo lì, con la sua
presunzione.
Ma anche da questo lato
trovai spine.
- Oh, a proposito, - mi
domandò mio fratello, - e come hai fatto, in tutto questo tempo,
per...?
E stropicciò il pollice e
l'indice, per significare quattrini.
-
Come ho fatto? - gli risposi. - Storia lunga! Non sono adesso in condizione di
narrartela. Ma ne ho avuti, sai? quattrini, e ne ho ancora: non credere dunque
ch'io ritorni ora a Miragno perché ne sia a
corto!
- Ah, ti ostini a tornarci? -
insistette Berto, - anche dopo queste
notizie?
- Ma si sa che ci torno! -
esclamai. - Ti pare che dopo quello che ho sperimentato e sofferto, voglia fare
ancora il morto? No, caro mio: là, là; voglio le mie carte in regola, voglio
risentirmi vivo, ben vivo, e anche a costo di riprendermi la moglie. Di, un po',
è ancora viva la madre... la vedova Pescatore
?
- Oh, non so, - mi rispose Berto. -
Comprenderai che, dopo il secondo matrimonio... Ma credo di sì, che sia
viva...
- Mi sento meglio! - esclamai. -
Ma non importa! Mi vendicherò! Non son più quello di prima, sai? Soltanto mi
dispiace che sarà una fortuna per quell'imbecille di
Pomino!
Risero tutti. Il servo venne
intanto ad annunziare ch'era in tavola. Dovetti fermarmi a desinare; ma fremevo
di tanta impazienza, che non m'accorsi nemmeno di mangiare; sentii però infine
che avevo divorato. La fiera, in me, s'era rifocillata, per prepararsi
all'imminente assalto.
Berto mi propose
di trattenermi almeno per quella sera in villa: la mattina seguente saremmo
andati insieme a Miragno. Voleva godersi la scena del mio ritorno impreveduto
alla vita, quel mio piombar come un nibbio là sul nido di Pomino. Ma io non
tenevo più alle mosse, e non volli saperne: lo pregai di lasciarmi andar solo, e
quella sera stessa, senz'altro indugio.
Partii col treno delle otto: fra mezz'ora, a Miragno.