Luigi Pirandello
Il fu Mattia Pascal
XVIII
Il fu Mattia Pascal
Tra l'ansia e la rabbia (non sapevo che
mi agitasse di più, ma eran forse una cosa sola: ansiosa rabbia, rabbiosa ansia)
non mi curai più se altri mi riconoscesse prima di scendere o appena sceso a
Miragno.
M'ero cacciato in un vagone di
prima classe, per unica precauzione. Era sera; e del resto, l'esperimento fatto
su Berto mi rassicurava: radicata com'era in tutti la certezza della mia trista
morte, ormai di due anni lontana, nessuno avrebbe più potuto pensare ch'io fossi
Mattia Pascal.
Mi provai a sporgere il
capo dal finestrino, sperando che la vista dei noti luoghi mi destasse qualche
altra emozione meno violenta; ma non valse che a farmi crescer l'ansia e la
rabbia. Sotto la luna, intravidi da lontano il clivio della
Stìa.
- Assassine! - fischiai tra
i denti. - Là... Ma ora...
Quante cose,
sbalordito dall'inattesa notizia, mi ero dimenticato di domandare a Roberto! Il
podere, il molino erano stati davvero venduti? o eran tuttora, per comune
accordo dei creditori, sotto un'amministrazione provvisoria? E Malagna era
morto? E zia Scolastica?
Non mi pareva
che fossero passati soltanto due anni e mesi; un'eternità mi pareva, e che -
come erano accaduti a me casi straordinarii - dovessero parimenti esserne
accaduti a Miragno. Eppure niente, forse, vi era accaduto, oltre quel matrimonio
di Romilda con Pomino, normalissimo in sé, e che solo adesso, per la mia
ricomparsa, sarebbe diventato
straordinario.
Dove mi sarei diretto,
appena sceso a Miragno. Dove s'era composto il nido la nuova
coppia?
Troppo umile per Pomino, ricco e
figlio unico la casa in cui io, poveretto, avevo abitato. E poi Pomino, tenero
di cuore, ci si sarebbe trovato certo a disagio, lì, con l'inevitabile ricordo
di me. Forse s'era accasato col padre, nel Palazzo. Figurarsi la vedova
Pescatore, che arie da matrona, adesso! e quel povero cavalier Pomino, Gerolamo
I, delicato, gentile, mansueto, tra le grinfie della megera! Che scene! Né il
padre, certo, né il figlio avevano avuto il coraggio di levarsela dai piedi. E
ora, ecco - ah che rabbia! - li avrei liberati
io...
Sì, là, a casa Pomino, dovevo
indirizzarmi: che se anche non ce li avessi trovati, avrei potuto sapere dalla
portinaja dove andarli a scovare.
Oh
paesello mio addormentato, che scompiglio dimani, alla notizia della mia
resurrezione!
C'era la luna, quella
sera, e però tutti i lampioncini erano spenti, al solito, per le vie quasi
deserte, essendo l'ora della cena pei
più.
Avevo quasi perduto, per la estrema
eccitazione nervosa, la sensibilità delle gambe: andavo, come se non toccassi
terra coi piedi. Non saprei ridire in che animo fossi: ho soltanto l'impressione
come d'una enorme, omerica risata che, nell'orgasmo violento, mi sconvolgeva
tutte le viscere, senza poter scoppiare: se fosse scoppiata, avrebbe fatto
balzar fuori, come denti, i selci della via, e vacillar le
case.
Giunsi in un attimo a casa Pomino;
ma in quella specie di bacheca che è nell'androne non trovai la vecchia
portinaja; fremendo, attendevo da qualche minuto, quando su un battente del
portone scorsi una fascia di lutto stinta e polverosa, inchiodata lì,
evidentemente, da parecchi mesi. Chi era morto? La vedova Pescatore? Il cavalier
Pomino? Uno dei due, certamente. Porse il cavaliere... In questo caso, i miei
due colombi, li avrei trovati sù, senz'altro, insediati nel Palazzo. Non
potei aspettar più oltre: mi lanciai a balzi sù per la scala. Alla seconda
branca, ecco la portinaja.
- Il cavalier
Pomino?
Dallo stupore con cui quella
vecchia tartaruga mi guardò, compresi che proprio il povero cavaliere doveva
esser morto.
- Il figlio! il figlio! -
mi corressi subito, riprendendo a
salire.
Non so che cosa borbottasse tra
sé la vecchia per le scale. A pie' dell'ultima branca dovetti fermarmi: non
tiravo più fiato! guardai la porta; pensai: «Forse cenano ancora, tutti e tre a
tavola... senz'alcun sospetto. Fra pochi istanti, appena avrò bussato a quella
porta, la loro vita sarà sconvolta... Ecco, è in mia mano ancora la sorte che
pende loro sul capo». Salii gli ultimi scalini. Col cordoncino del campanello in
mano, mentre il cuore mi balzava in gola, tesi l'orecchio. Nessun rumore. E in
quel silenzio ascoltai il tin-tin lento del campanello, tirato appena,
pian piano.
Tutto il sangue m'affluì
alla testa, e gli orecchi presero a ronzarmi, come se quel lieve tintinno che
s'era spento nel silenzio, m'avesse invece squillato dentro furiosamente e
intronato.
Poco dopo, riconobbi con un
sussulto, di là dalla porta, la voce della vedova
Pescatore:
- Chi
è?
Non potei, lì per lì, rispondere: mi
strinsi le pugna al petto, come per impedir che il cuore mi balzasse fuori. Poi,
con voce cupa, quasi sillabando, dissi:
- Mattia Pascal.
- Chi?! - strillò la
voce di dentro.
- Mattia Pascal, -
ripetei, incavernando ancor più la voce.
Sentii scappare la vecchia strega, certo atterrita, e subito immaginai che cosa
in quel momento accadeva di là. Sarebbe venuto l'uomo, adesso: Pomino: il
coraggioso!
Ma prima bisognò ch'io
risonassi, come dianzi, pian piano.
Appena Pomino, spalancata di furia la porta, mi vide - erto - col petto in fuori
- innanzi a sé - retrocesse esterrefatto. M'avanzai,
gridando:
- Mattia Pascal! Dall'altro
mondo.
Pomino cadde a sedere per terra,
con un gran tonfo, sulle natiche, le braccia puntate indietro, gli occhi
sbarrati:
- Mattia!
Tu?!
La vedova Pescatore, accorsa col
lume in mano, cacciò uno strillo acutissimo, da partoriente. Io richiusi la
porta con una pedata, e d'un balzo le tolsi il lume, che già le cadeva di
mano.
- Zitta! - le gridai sul muso. -
Mi prendete per un fantasima davvero?
-
Vivo?! - fece lei, allibita, con le mani tra i
capelli.
- Vivo! vivo! vivo! - seguitai
io, con gioja feroce. - Mi riconosceste morto, è vero? affogato
là?
- E di dove vieni? - mi chiese con
terrore.
- Dal molino, strega! - le
urlai. - Tieni qua il lume, guardami bene! Sono io? mi riconosci? o ti sembro
ancora quel disgraziato che s'affogò alla
Stia?
- Non eri
tu?
- Crepa, megera! Io sono qua, vivo!
Sù, alzati tu, bel tomo! Dov'è Romilda?
- Per carità... gemette Pomino, levandosi in fretta. - La piccina... ho paura...
il latte...
Lo afferrai per un braccio,
restando io, ora, a mia volta:
- Che
piccina?
- Mia... mia figlia... balbettò
Pomino.
- Ah che assassinio! - gridò la
Pescatore.
Non potei rispondere ancora
sotto l'impressione di questa nuova
notizia.
- Tua figlia?... - mormorai. -
Una figlia, per giunta?... E questa,
ora...
- Mamma, da Romilda, per
carità... - scongiurò Pomino.
Ma troppo
tardi. Romilda, col busto slacciato, la poppante al seno, tutta in disordine,
come se - alle grida - si fosse levata di letto in fretta e in furia, si fece
innanzi, m'intravide:
- Mattia! - e
cadde tra le braccia di Pomino e della madre, che la trascinarono via,
lasciando, nello scompiglio, la piccina in braccio a me accorso con
loro.
Restai al bujo, là, nella sala
d'ingresso, con quella gracile bimbetta in braccio, che vagiva con la vocina
agra di latte. Costernato, sconvolto, sentivo ancora negli orecchi il grido
della donna ch'era stata mia, e che ora, ecco, era madre di questa bimba non
mia, non mia! mentre la mia, ah, non la aveva amata, lei, allora! E dunque, no,
io ora, no, perdio! non dovevo aver pietà di questa, né di loro. S'era
rimaritata? E io ora... Ma seguitava a vagire quella piccina, a vagire; e
allora... che fare? per quietarla, me l'adagiai sul petto e cominciai a batterle
pian pianino una mano su le spallucce e a dondolarla passeggiando. L'odio mi
sbollì, l'impeto cedette. E a poco a poco la bimba si
tacque.
Pomino chiamò nel bujo con
sgomento:
- Mattia!... La
piccina!...
- Sta' zitto! L'ho qua, -
gli risposi.
- E che fai
?
- Me la mangio... Che faccio!...
L'avete buttata in braccio a me... Ora lasciamela stare! S'è quietata. Dov'è
Romilda?
Accostandomisi, tutto tremante
e sospeso, come una cagna che veda in mano al padrone la sua
cucciola:
- Romilda? Perché? - mi
domandò.
- Perché voglio parlarle! - gli
risposi ruvidamente.
- E svenuta,
sai?
- Svenuta? La faremo
rinvenire.
Pomino mi si parò davanti,
supplichevole:
- Per carità... senti...
ho paura... come mai, tu... vivo!... Dove sei stato?... Ah, Dio... Senti... Non
potresti parlare con me?
- No! - gli
gridai. - Con lei devo parlare. Tu, qua, non rappresenti più
nulla.
- Come!
io?
- Il tuo matrimonio
s'annulla.
- Come... che dici? E la
piccina?
- La piccina... la piccina... -
masticai. - Svergognati! In due anni, marito e moglie, e una figliuola! Zitta,
carina, zitta! Andiamo dalla mamma... Sù, conducimi! Di dove si
prende?
Appena entrai nella camera da
letto con la bimba in braccio, la vedova Pescatore fece per saltarmi addosso,
come una jena.
La respinsi con una
furiosa bracciata:
- Andate là, voi! Qua
c'è vostro genero: se avete da strillare, strillate con lui. Io non vi
conosco!
Mi chinai verso Romilda, che
piangeva disperatamente, e le porsi la
figliuola:
- Sù, tieni... Piangi? Che
piangi? Piangi perché son vivo? Mi volevi morto? Guardami... sù, guardami in
faccia! Vivo o morto?
Ella si provò, tra
le lagrime, ad alzar gli occhi su me, e con voce rotta dai singhiozzi,
balbettò:
- Ma... come... tu? che... che
hai fatto?
Io, che ho fatto? -
sogghignai. - Lo domandi a me, che ho fatto? Tu hai ripreso marito... quello
sciocco là!... tu hai messo al mondo una figliuola, e hai il coraggio di
domandare a me che ho fatto?
E ora? -
gemette Pomino, coprendosi il volto con le
mani.
- Ma tu, tu... dove sei stato? Se
ti sei finto morto e te ne sei scappato... - prese a strillar la Pescatore,
facendosi avanti con le braccia levate.
Glien'afferrai uno, glielo storsi e le
urlai:
- Zitta, vi ripeto! Statevene
zitta, voi, perché, se vi sento fiatare, perdo la pietà che m'ispira codesto
imbecille di vostro genero e quella creaturina là, e faccio valer la legge!
Sapete che dice la legge? Ch'io ora devo riprendermi
Romilda...
- Mia figlia? tu? Tu sei
pazzo! - inveì, imperterrita, colei.
Ma
Pomino, sotto la mia minaccia, le si accostò subito a scongiurarla di tacere, di
calmarsi, per amor di Dio.
La megera
allora lasciò me, e prese a inveire contro di lui, melenso, sciocco, buono a
nulla e che non sapeva far altro che piangere e disperarsi come una
femminuccia...
Scoppiai a ridere, fino
ad averne male ai fianchi.
- Finitela! -
gridai, quando potei frenarmi. - Gliela lascio! la lascio a lui volentieri! Mi
credete sul serio così pazzo da ridiventar vostro genero? Ah, povero Pomino!
Povero amico mio, scusami, sai? se t'ho detto imbecille; ma hai sentito? te l'ha
detto anche lei, tua suocera, e ti posso giurare: che, anche prima, me l'aveva
detto Romilda, nostra moglie... sì, proprio lei, che le parevi imbecille,
stupido, insipido... e non so che altro. E vero, Romilda? di' la verità... Sù,
sù, smetti di piangere, cara: rassèttati: guarda, puoi far male alla tua
piccina, così... Io ora sono vivo - vedi? - e voglio stare allegro...
Allegro! come diceva un certo ubriaco amico mio... Allegro, Pomino! Ti
pare che voglia lasciare una figliuola senza mamma? Ohibò! Ho già un figliuolo
senza babbo... Vedi, Romilda? Abbiamo fatto pari e patta: io ho un figlio, che è
figlio di Malagna, e tu ormai hai una figlia, che è figlia di Pomino. Se Dio
vuole, li mariteremo insieme, un giorno! Ormai quel figliuolo là non ti deve far
più dispetto... Parliamo di cose allegre... Ditemi come tu e tua madre avete
fatto a riconoscermi morto, là, alla
Stìa...
- Ma anch'io! - esclamò
Pomino, esasperato. Ma tutto il paese! Non esse
sole!
- Bravi! bravi! Tanto dunque mi
somigliava?
- La tua stessa statura...
la tua barba... vestito come te, di nero... e poi, scomparso da tanti
giorni...
- E già, me n'ero scappato,
hai sentito? Come se non m'avessero fatto scappar loro... Costei, costei...
Eppure stavo per ritornare, sai? Ma sì, carico d'oro! Quando... che è, che non
è, morto, affogato, putrefatto. .. e riconosciuto, per giunta! Grazie a Dio. mi
sono scialato, due anni; mentre voi, qua: fidanzamento, nozze, luna di miele,
feste, gioje, la figliuola... chi muore giace, eh? e chi vive si dà
pace...
- E ora? come si fa ora? -
ripeté Pomino, gemendo, tra le spine. - Questo dico
io!
Romilda s'alzò per adagiar la bimba
nella cuna.
- Andiamo, andiamo di là, -
diss'io. - La piccina s'è riaddormentata. Discuteremo di
là.
Ci recammo nella sala da pranzo,
dove, sulla tavola ancora apparecchiata, erano i resti della cena. Tutto
tremante, stralunato, scontraffatto nel pallore cadaverico, battendo di continuo
le palpebre su gli occhietti diventati scialbi, forati in mezzo da due punti
neri, acuti di spasimo, Pomino si grattava la fronte e diceva, quasi
vaneggiando:
- Vivo... vivo... Come si
fa? come si fa?
- Non mi seccare! - gli
gridai. - Adesso vedremo, ti dico.
Romilda, indossata la veste da camera, venne a raggiungerci. Io rimasi a
guardarla alla luce, ammirato: era ridivenuta bella come un tempo, anzi più
formosa.
- Fammiti vedere... - le dissi.
- Permetti, Pomino? Non c'è niente di male: sono marito anch'io, anzi prima e
più di te. Non ti vergognare, via, Romilda! Guarda, guarda come si torce Mino!
Ma che ti posso fare se non son morto
davvero?
- Così non è possibile! -
sbuffò Pomino, livido.
- S'inquieta! -
feci, ammiccando, a Romilda. - No, via, calmati, Mino... Ti ho detto che te la
lascio, e mantengo la parola. Solo, aspetta... con
permesso!
Mi accostai a Romilda e le
scoccai un bel bacione su la guancia.
-
Mattia! - gridò Pomino, fremente.
Scoppiai a ridere di nuovo.
- Geloso? di
me? Va' là! Ho il diritto della precedenza. Del resto, sù, Romilda, cancella,
cancella... Guarda, venendo, supponevo (scusami, sai, Romilda), supponevo, caro
Mino, che t'avrei fatto un gran piacere, a liberartene, e ti confesso che questo
pensiero m'affliggeva moltissimo, perché volevo vendicarmi, e vorrei ancora, non
credere, togliendoti adesso Romilda, adesso che vedo che le vuoi bene e che
lei... sì, mi pare un sogno, mi pare quella di tant'anni fa... ricordi, eh,
Romilda?... Non piangere! ti rimetti a piangere? Ah, bei tempi... sì, non
tornano più!... Via, via: voi ora avete una figliuola, e dunque non se ne parli
più! Vi lascio in pace, che diamine!
-
Ma il matrimonio s'annulla? - gridò
Pomino.
- E tu lascialo annullare! - gli
dissi. - Si annullerà pro forma, se mai: non farò valere i miei diritti e
non mi farò neppure riconoscer vivo ufficialmente, se proprio non mi
costringono. Mi basta che tutti mi rivedano e mi risappiano vivo di fatto, per
uscir da questa morte, che è morte vera, credetelo! Già lo vedi: Romilda, qua,
ha potuto divenir tua moglie... il resto non m'importa! Tu hai contratto
pubblicamente il matrimonio; è noto a tutti che lei è, da un anno, tua moglie, e
tale rimarrà. Chi vuoi che si curi più del valor legale del suo primo
matrimonio? Acqua passata... Romilda fu mia moglie: ora, da un anno, è
tua, madre d'una tua bambina. Dopo un mese non se ne parlerà più. Dico bene,
doppia suocera?
La Pescatore, cupa,
aggrondata, approvò col capo. Ma Pomino, nel crescente orgasmo,
domandò:
- E tu rimarrai qua, a
Miragno?
- Sì, e verrò qualche sera a
prendermi in casa tua una tazza di caffè o a bere un bicchier di vino alla
vostra salute.
- Questo, no! - scattò la
Pescatore, balzando in piedi.
- Ma se
scherza!... - osservò Romilda, con gli occhi
bassi.
Io m'ero messo a ridere come
dianzi.
- Vedi, Romilda? - le dissi. -
Hanno paura che riprendiamo a fare all'amore... Sarebbe pur carina! No, no: non
tormentiamo Pomino... Vuol dire che se lui non mi vuole più in casa, mi metterò
a passeggiare giù per la strada, sotto le tue finestre. Va bene? E ti farò tante
belle serenate.
Pomino, pallido,
vibrante, passeggiava per la stanza,
brontolando:
- Non è possibile... non è
possibile...
A un certo punto s'arrestò
e disse:
- Sta di fatto che lei... con
te, qua, vivo, non sarà più mia
moglie...
- E tu fa' conto che io sia
morto! - gli risposi tranquillamente.
Riprese a passeggiare:
- Questo conto
non posso più farlo!
- E tu non lo fare.
Ma, via, credi davvero - soggiunsi, - che vorrò darti fastidio, se Romilda non
vuole? deve dirlo lei... Sù, di', Romilda, chi è più bello? io o
lui?
- Ma io dico di fronte alla legge!
di fronte alla legge! - gridò egli, arrestandosi di
nuovo.
Romilda lo guardava, angustiata e
sospesa.
- In questo caso, - gli feci
osservare, - mi sembra che più di tutti, scusa, dovrei risentirmi io, che vedrò
d'ora innanzi la mia bella quondam metà convivere maritalmente con
te.
- Ma anche lei, - rimbeccò Pomino, -
non essendo più mia moglie...
- Oh,
insomma, - sbuffai, - volevo vendicarmi e non mi vendico; ti lascio la moglie,
ti lascio in pace, e non ti contenti? Sù, Romilda, alzati! andiamocene via, noi
due! Ti propongo un bel viaggetto di nozze... Ci divertiremo! Lascia questo
pedante seccatore. Pretende ch'io vada a buttarmi davvero nella gora del molino,
alla Stìa.
- Non pretendo questo!
- proruppe Pomino al colmo dell'esasperazione. - Ma vattene, almeno! Vattene
via, poiché ti piacque di farti creder morto! Vattene subito, lontano, senza
farti vedere da nessuno. Perché io qua... con te...
vivo...
Mi alzai; gli battei una mano su
la spalla per calmarlo e gli risposi, prima di tutto, ch'ero già stato a
Oneglia, da mio fratello, e che perciò tutti, là, a quest'ora, mi sapevano vivo,
e che domani, inevitabilmente, la notizia sarebbe arrivata a Miragno;
poi:
- Morto di nuovo? Lontano da
Miragno? Tu scherzi, mio caro! - esclamai. - Va' là: fa' il marito in pace,
senza soggezione... Il tuo matrimonio, comunque sia, s'è celebrato. Tutti
approveranno, considerando che c'è di mezzo una creaturina. Ti prometto e giuro
che non verrò mai a importunarti, neanche per una miserrima tazza di caffè,
neanche per godere del dolce, esilarante spettacolo del vostro amore, della
vostra concordia, della vostra felicità edificata su la mia morte... Ingrati!
Scommetto che nessuno, neanche tu, sviscerato amico, nessuno di voi è andato ad
appendere una corona, a lasciare un fiore su la tomba mia, là nel camposanto...
Di', è vero? Rispondi!
- Ti va di
scherzare!... - fece Pomino,
scrollandosi.
- Scherzare? Ma
nient'affatto! Là c'è davvero il cadavere di un uomo, e non si scherza! Ci sei
stato?
- No... non... non ne ho avuto il
coraggio borbottò Pomino.
- Ma di
prendermi la moglie, sì, birbaccione!
-
E tu a me? - diss'egli allora, pronto. - Tu a me non l'avevi tolta, prima, da
vivo?
- Io? - esclamai. - E dàlli! Ma se
non ti volle lei! Lo vuoi dunque ripetuto che le sembravi proprio uno sciocco?
Diglielo tu, Romilda, per favore: vedi, m'accusa di tradimento... Ora, che
c'entra! è tuo marito, e non se ne parla più; ma io non ci ho colpa... Sù, sù.
Ci andrò io domani da quel povero morto, abbandonato là, senza un fiore, senza
una lacrima... Di', c'è almeno una lapide su la
fossa?
- Si, - s'affrettò a rispondermi
Pomino. - A spese del Municipio... Il povero
babbo...
- Mi lesse l'elogio funebre, lo
so! Se quel pover'uomo sentiva... Che c'è scritto su la
lapide?
- Non so... La dettò
Lodoletta.
- Figuriamoci! - sospirai. -
Basta. Lasciamo anche questo discorso. Raccontami, raccontami piuttosto come vi
siete sposati così presto... Ah, come poco mi piangesti, vedovella mia... Forse
niente, eh? di' sù, possibile ch'io non debba sentir la tua voce? Guarda: è già
notte avanzata... appena spunterà il giorno, io andrò via, e sarà come non ci
avessimo mai conosciuto... Approfittiamoci di queste poche ore. Sù,
dimmi...
Romilda si strinse nelle
spalle, guardò Pomino, sorrise nervosamente: poi, riabbassando gli occhi e
guardandosi le mani:
- Che posso dire?
Certo che piansi...
- E non te lo
meritavi! - brontolò la Pescatore.
-
Grazie! Ma infine, via... fu poco, è vero? - ripresi. - Codesti begli occhi, che
pur s'ingannarono così facilmente, non ebbero a sciuparsi molto, di
certo.
- Rimanemmo assai male, - disse,
a mo' di scusa, Romilda. - E se non fosse stato per
lui...
- Bravo Pomino! - esclamai. - Ma
quella canaglia di Malagna, niente?
-
Niente, - rispose, dura, asciutta, la Pescatore. - Tutto fece
lui...
E additò
Pomino.
- Cioè... cioè... - corresse
questi, - il povero babbo... Sai ch'era al Municipio? Bene, fece prima accordare
una pensioncina, data la sciagura... e
poi...
- Poi accondiscese alle
nozze?
- Felicissimo! E ci volle qua,
tutti, con sé... Mah! Da due mesi...
E
prese a narrarmi la malattia e la morte del padre; l'amore di lui per Romilda e
per la nipotina; il compianto che la sua morte aveva raccolto in tutto il paese.
Io domandai allora notizie della zia Scolastica, tanto amica del cavalier
Pomino. La vedova Pescatore, che si ricordava ancora del batuffolo di pasta
appiastratole in faccia dalla terribile vecchia, si agitò sulla sedia. Pomino mi
rispose che non la vedeva più da due anni, ma che era viva; poi, a sua volta, mi
domandò che avevo fatto io, dov'ero stato, ecc. Dissi quel tanto che potevo
senza far nomi né di luoghi né di persone, per dimostrare che non m'ero affatto
spassato in quei due anni. E così, conversando insieme, aspettammo l'alba del
giorno in cui doveva pubblicamente affermarsi la mia
resurrezione.
Eravamo stanchi della
veglia e delle forti emozioni provate; eravamo anche infreddoliti. Per
riscaldarci un po', Romilda volle preparare con le sue mani il caffè. Nel
porgermi la tazza, mi guardò, con su le labbra un lieve, mesto sorriso, quasi
lontano, e disse:
- Tu, al solito, senza
zucchero, è vero?
Che lesse in
quell'attimo negli occhi miei? Abbassò subito lo
sguardo.
In quella livida luce
dell'alba, sentii stringermi la gola da un nodo di pianto inatteso, e guardai
Pomino odiosamente. Ma il caffè mi fumava sotto il naso, inebriandomi del suo
aroma e cominciai a sorbirlo lentamente. Domandai quindi a Pomino il permesso di
lasciare a casa sua la valigia, fino a tanto che non avessi trovato un alloggio:
avrei poi mandato qualcuno a ritirarla.
- Ma sì! ma sì! - mi rispose egli, premuroso. - Anzi non te ne curare: penserò
io a fartela portare...
- Oh, - dissi, -
tanto è vuota, sai?... A proposito, Romilda: avresti ancora, per caso, qualcosa
di mio... abiti, biancheria?
- No,
nulla... - mi rispose, dolente, aprendo le mani. - Capirai... dopo la
disgrazia...
- Chi poteva immaginarselo?
- esclamò Pomino.
Ma giurerei ch'egli,
l'avaro Pomino, aveva al collo un mio antico fazzoletto di
seta.
- Basta. Addio, eh! Buona fortuna!
- diss'io, salutando, con gli occhi fermi su Romilda, che non volle guardarmi.
Ma la mano le tremò, nel ricambiarmi il saluto. - Addio! Addio!
Sceso giù in istrada, mi trovai ancora
una volta sperduto, pur qui, nel mio stesso paesello nativo: solo, senza casa,
senza mèta.
«E ora?» domandai a me
stesso. «Dove vado?»
Mi avviai,
guardando la gente che passava. Ma che! Nessuno mi riconosceva? Eppure ero ormai
tal quale: tutti, vedendomi, avrebbero potuto almeno pensare: «Ma guarda quel
forestiero là, come somiglia al povero Mattia Pascal! Se avesse l'occhio un po'
storto, si direbbe proprio lui». Ma che! Nessuno mi riconosceva, perché nessuno
pensava più a me. Non destavo neppure curiosità, la minima sorpresa... E io che
m'ero immaginato uno scoppio, uno scompiglio, appena mi fossi mostrato per le
vie! Nel disinganno profondo, provai un avvilimento, un dispetto, un'amarezza
che non saprei ridire; e il dispetto e l'avvilimento mi trattenevano dallo
stuzzicar l'attenzione di coloro che io, dal canto mio, riconoscevo bene: sfido!
dopo due anni... Ah, che vuol dir morire! Nessuno, nessuno si ricordava più di
me, come se non fossi mai esistito...
Due volte percorsi da un capo all'altro il paese, senza che nessuno mi fermasse.
Al colmo dell'irritazione, pensai di ritornar da Pomino, per dichiarargli che i
patti non mi convenivano e vendicarmi sopra lui dell'affronto che mi pareva
tutto il paese mi facesse non riconoscendomi più. Ma né Romilda con le buone mi
avrebbe seguito, né io per il momento avrei saputo dove condurla. Dovevo almeno
prima cercarmi una casa. Pensai d'andare al Municipio, all'ufficio dello stato
civile, per farmi subito cancellare dal registro dei morti; ma, via facendo,
mutai pensiero e mi ridussi invece a questa biblioteca di Santa Maria Liberale,
dove trovai al mio posto il reverendo amico don Eligio Pellegrinotto, il quale
non mi riconobbe neanche lui, lì per lì. Don Eligio veramente sostiene che mi
riconobbe subito e che soltanto aspettò ch'io pronunziassi il mio nome per
buttarmi le braccia al collo, parendogli impossibile che fossi io, e non potendo
abbracciar subito uno che gli pareva Mattia Pascal. Sarà pure così! Le
prime feste me le ebbi da lui, calorosissime; poi egli volle per forza
ricondurmi seco in paese per cancellarmi dall'animo la cattiva impressione che
la dimenticanza dei miei concittadini mi aveva
fatto.
Ma io ora, per ripicco, non
voglio descrivere quel che seguì alla farmacia del Brìsigo prima, poi al
Caffè dell'Unione, quando don Eligio, ancor tutto esultante, mi presentò
redivivo. Si sparse in un baleno la notizia, e tutti accorsero a vedermi e a
tempestarmi di domande. Volevano sapere da me chi fosse allora colui che s'era
annegato alla Stìa, come se non mi avessero riconosciuto loro: tutti, a
uno a uno. E dunque ero io, proprio io: donde tornavo? dall'altro mondo! che
avevo fatto? il morto! Presi il partito di non rimuovermi da queste due risposte
e lasciar tutti stizziti nell'orgasmo della curiosità, che durò parecchi e
parecchi giorni. Né più fortunato degli altri fu l'amico Lodoletta che venne a
«intervistarmi» per il Foglietto. Invano, per commuovermi, per tirarmi a
parlare mi portò una copia del suo giornale di due anni avanti, con la mia
necrologia. Gli dissi che la sapevo a memoria, perché all'Inferno il
Foglietto era molto diffuso.
-
Eh, altro! Grazie caro! Anche della lapide... Andrò a vederla,
sai?
Rinunzio a trascrivere il suo nuovo
pezzo forte della domenica seguente che recava a grosse lettere il
titolo: MATTIA PASCAL È VIVO!
Tra i
pochi che non vollero farsi vedere, oltre ai miei creditori, fu Batta Malagna,
che pure - mi dissero - aveva due anni avanti mostrato una gran pena per il mio
barbaro suicidio. Ci credo. Tanta pena allora, sapendomi sparito per sempre,
quanto dispiacere adesso, sapendomi ritornato alla vita. Vedo il perché di
quella e di questo.
E Oliva? L'ho
incontrata per via, qualche domenica, all'uscita della messa, col suo bambino di
cinque anni per mano, florido e bello come lei: - mio figlio! Ella mi ha
guardato con occhi affettuosi e ridenti, che m'han detto in un baleno tante
cose...
Basta. Io ora vivo in pace,
insieme con la mia vecchia zia Scolastica, che mi ha voluto offrir ricetto in
casa sua. La mia bislacca avventura m'ha rialzato d'un tratto nella stima di
lei. Dormo nello stesso letto in cui morì la povera mamma mia, e passo gran
parte del giorno qua, in biblioteca, in compagnia di don Eligio, che è ancora
ben lontano dal dare assetto e ordine ai vecchi libri
polverosi.
Ho messo circa sei mesi a
scrivere questa mia strana storia, ajutato da lui. Di quanto è scritto qui egli
serberà il segreto, come se l'avesse saputo sotto il sigillo della
confessione.
Abbiamo discusso a lungo
insieme su i casi miei, e spesso io gli ho dichiarato di non saper vedere che
frutto se ne possa cavare.
- Intanto,
questo, - egli mi dice: - che fuori della legge e fuori di quelle particolarità,
liete o tristi che sieno, per cui noi siamo noi, caro signor Pascal, non è
possibile vivere.
Ma io gli faccio
osservare che non sono affatto rientrato né nella legge, né nelle mie
particolarità. Mia moglie è moglie di Pomino, e io non saprei proprio dire ch'io
mi sia.
Nel cimitero di Miragno, su la
fossa di quel povero ignoto che s'uccise alla Stìa, c'è ancora la lapide
dettata da Lodoletta:
COLPITO DA AVVERSI FATI |
Io vi ho portato la corona di
fiori promessa e ogni tanto mi reco a vedermi morto e sepolto là. Qualche
curioso mi segue da lontano; poi, al ritorno, s'accompagna con me, sorride, e -
considerando la mia condizione - mi
domanda:
- Ma voi, insomma, si può
sapere chi siete?
Mi stringo nelle
spalle, socchiudo gli occhi e gli
rispondo:
- Eh, caro mio... Io sono il
fu Mattia Pascal.