Luigi Pirandello
Il turno
Giovane d'oro, sì sì, giovane d'oro, Pepè
Alletto! - il Ravì si sarebbe guardato bene dal negarlo; ma, quanto a
concedergli la mano di Stellina, no via: non voleva se ne parlasse neanche per
ischerzo.
-
Ragioniamo!
Gli sarebbe piaciuto maritar
la figlia col consenso popolare, come diceva; e andava in giro per la città,
fermando amici e conoscenti per averne un parere. Tutti però, sentendo il nome
del marito che intendeva dare alla figliuola, strabiliavano,
strasecolavano:
- Don Diego
Alcozèr?
Il Ravì frenava a stento un moto
di stizza, si provava a sorridere e ripeteva, protendendo le
mani:
- Aspettate...
Ragioniamo!
Ma che ragionare! Alcuni
finanche gli domandavano se lo dicesse proprio sul
serio:
- Don Diego
Alcozèr?
E sbruffavano una
risata.
Da costoro il Ravì si allontanava
indignato, dicendo:
- Scusate tanto,
credevo che foste persone
ragionevoli.
Perché lui, veramente, ci
ragionava su quel partito, ci ragionava con la più profonda convinzione che
fosse una fortuna per la figliuola. E s'era intestato di persuaderne anche gli
altri, quelli almeno che gli permettevano di sfogare l'esasperazione crescente
di giorno in giorno.
- Avete voluto la
libertà, santo Dio! il re che regna e non governa, la leva per tutti, un
esercito formidabile, ponti e strade, ferrovie, telegrafo, illuminazione: cose
belle, bellissime, che piacciono anche a me: ma si pagano, signori miei! E le
conseguenze quali sono? Due, nel caso mio. Numero uno: ho lavorato come un
arcibue, tutta la vita, onestamente per mia disgrazia e non son riuscito
a mettere da parte tanto da poter per ora maritare la figlia secondo il suo
piacere, che sarebbe anche il mio. Numero due: giovanotti, non ce n'è: intendo
dire di quelli che a un padre previdente possano assicurare, sposando, il
benessere della figliuola: prima che si facciano una posizione, Dio sa quel che
ci vuole; quando se la son fatta, pretendono la dote e fanno bene; senza
posizione, in coscienza, quale padre affiderebbe loro la figlia? Dunque? Dunque
bisogna sposare un vecchio, vi dico, se il vecchio è ricco. Di giovani poi,
volendo, alla morte del vecchio, ce n'è quanti se ne
vuole.
Che c'era da ridere? Parlava da
senno, lui! Perché:
-
Ragioniamo...
Se don Diego Alcozèr avesse
avuto cinquanta o sessant'anni, no: dieci, quindici anni di sacrifizio sarebbero
stati troppi per la figliuola; ed egli non avrebbe mai accettato quel partito.
Ma ne aveva, a buon conto, settantadue, don Diego! E non c'era dunque da temer
pericoli di nessuna sorta. Più che matrimonio, in fondo, sarebbe quasi una pura
e semplice adozione. Stellina entrerebbe come una figliuola in casa di don
Diego: né più né meno. Invece di stare in casa del padre, starebbe in
quell'altra casa, con più comodi, da padrona assoluta: casa d'un galantuomo alla
fin fine: nessuno osava metterlo in dubbio, questo. Dunque, che sacrifizio?
Aspettare qua o là. Con questa differenza, che aspettare qua, in casa del padre,
sarebbe tempo perduto, non potendo egli far nulla per la figliuola; mentre,
aspettando là, tre, quattr'anni...
- Mi
spiego? - domandava a questo punto il Ravì, abbagliato lui stesso dalle sue
ragioni e sempre più convinto.
Don Diego
Alcozèr aveva già preso quattro mogli? E che per questo? Tanto meglio, anzi!
Stellina non sarebbe così sciocca da farsi (e squadrava le corna) sotterrare dal
vecchio, come le altre quattro: col tempo e con la mano di Dio avrebbe lei,
invece, composto in pace il corpo del marito benefattore, e allora, ecco, allora
sì il giovanotto! Bella, ricca, allevata come una principessina, sarebbe stata
un vero panin di zucchero; e i giovanotti, così, a sciame, come le mosche,
attorno a lei.
Gli pareva impossibile che
la gente non si capacitasse di questo suo ragionamento: era caparbietà,
cocciutaggine, arrestarsi a considerar soltanto il sacrifizio momentaneo di
quelle nozze col vecchio. Come se oltre quello scoglio, oltre quella secca, non
ci fosse il mare libero e la buona ventura! Lì, lì, bisognava
guardare!
Se egli fosse stato ricco, se
avesse potuto far da sé la felicità della figliuola - bella forza! si sa, non
l'avrebbe data in moglie a quel vecchiaccio. Stellina certo, per il momento, non
poteva apprezzare la fortuna che egli le procacciava: questo era naturale e in
certo qual modo scusabile! Di lì a pochi anni però - ne era sicuro - ella lo
avrebbe lodato, ringraziato e benedetto. Non sperava, né desiderava nulla per
sé, da quel matrimonio; lo voleva unicamente per lei, e stimava dover suo di
padre, dover suo di vecchio provato e sperimentato nel mondo, tener duro e
costringere la figliuola inesperta a ubbidire. Lo amareggiava invece
profondamente la disapprovazione di uomini d'esperienza come
lui.
- In nome del Padre, del Figliuolo e
dello Spirito Santo, - si lamentava intanto, in casa, la moglie del Ravì, la
si-donna Rosa, accennando il segno della croce con un gesto che le era abituale
e che ripeteva ogni qual volta si sentiva infastidita e urtata nella gravezza
della sua gialla carne inerte: - Lasciatelo fare. Ciò che fa Marcantonio, per
me, è ben fatto, - diceva ai parenti che sottovoce le facevan notare la
mostruosità di quel progetto di nozze.
-
Peccato mortale, si-donna Rosa! - s'affannava a ripeterle Carmela Mèndola,
portavoce del vicinato, parlando quasi con la strozza, per non gridare, e
dandosi pugni rintronanti sul petto ossuto: - Se lo lasci dire, in coscienza:
peccato mortale, che grida vendetta davanti a Dio
!
E, tutta scalmanata, si scioglieva e si
rannodava sotto il mento le cocche del gran fazzoletto rosso di lana che teneva
in capo.
La si-donna Rosa stringeva le
labbra, sporgeva il mento, chiudeva gli occhi e soffiava per il naso un lungo
sospiro.
Don Diego Alcozèr già si
faceva vedere per la città in compagnia del futuro
suocero.
Marcantonio Ravì, bonaccione,
grasso e grosso, col volto sanguigno tutto raso e un palmo di giogaja sotto il
mento, con le gambe che parevan tozze sotto il pancione e che nel camminare
andavano in qua e in là faticosamente, sembrava fatto apposta per compensar don
Diego fino fino, piccoletto, che gli arrancava accanto con lesti brevi passetti
da pernice, tenendo il cappello in mano o sul pomo del bastoncino, come se si
compiacesse di mostrar quell'unica e sola ciocca di capelli, ben cresciuta e
bagnata in un'acqua d'incerta tinta (quasi color di rosa), la quale, rigirata,
distribuita chi sa con quanto studio, gli nascondeva il cranio alla
meglio.
Niente baffi, don Diego, e neppur
ciglia: nessun pelo; gli occhietti calvi scialbi acquosi. Gli abiti suoi più
recenti contavano per lo meno vent'anni; non per avarizia del padrone, ma
perché, ben guardati sempre dalle grinze e dalla polvere, non si sciupavano mai,
parevano anzi incignati allora
allora.
Così, ahimè, s'era ridotto uno
dei più irresistibili conquistatori di dame in crinolino del tempo di Ferdinando
II re delle Due Sicilie: cavaliere compitissimo, spadaccino, ballerino. Né i
suoi meriti si restringevano solo qui, nel campo, com'egli diceva, di Venere e
di Marte: don Diego parlava il latino speditamente, sapeva a memoria Catullo e
la maggior parte delle odi di Orazio:
Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi finem dî dederint...
Ah, Orazio; da lui, suo prediletto poeta,
don Diego aveva desunto le norme epicuree. Aveva goduto tutta la vita e voleva
fino all'ultimo godere; odiava perciò la solitudine, nella quale si sentiva
spesso turbato da paurosi fantasmi, e amava la gioventù, di cui cercava la
compagnia, sopportandone filosoficamente gli scherzi e le
beffe.
Ecco: batteva il pomo d'argento
del bastoncino d'ebano sul tavolinetto innanzi al Caffè del Falcone, mentre il
Ravì si lasciava cader su la seggiola che scricchiolava, e sbuffando e
buttandosi su la nuca il cappellaccio a larghe tese, si asciugava il sudore
dalla faccia paonazza.
- A me, al solito,
- diceva l'Alcozèr al cameriere, -
un'orzata.
E accompagnava la ordinazione
con una risatina fredda, superflua, accennando di stropicciarsi le manine
gracili e tremule: - Eh eh...
Seduti al
Caffè, ripigliavano il discorso del matrimonio, interrotto di tanto in tanto dai
saluti che don Marcantonio distribuiva a voce alta e con larghi gesti a
gl'innumerevoli suoi conoscenti:
-
Baciamo le mani! La grazia vostra! Servo
umilissimo!
Don Diego non era ancora
potuto entrare in casa della promessa sposa. Stellina minacciava di graffiargli
la faccia, di cavargli tutti e due gli occhi, se egli si fosse arrischiato di
presentarsi a lei. Il Ravì, s'intende, non parlava a don Diego di queste minacce
della figliuola; diceva soltanto che bisognava avere un po' di pazienza, perché
le ragazze, oh Dio, si sa...
- Bene bene;
quando dici tu, o meglio, quando Stellina permetterà... intra paucos
dies, spero, cupio quidem, - rispondeva don Diego, tranquillo e
sorridente. - Intanto, guarda, per oggi le porterai questo
qui.
E traeva dalla tasca un astuccetto
di velluto.
Oggi un braccialetto, jeri un
orologino con la catenina d'oro e di perle, e prima un anellino con perle e
brillanti e una spilla di smeraldi o un pajo di orecchini... L'Alcozèr non
spendeva nulla; non per avarizia: aveva tante gioje delle defunte mogli: che
doveva farsene? Le mandava alla nuova fidanzata, ripulite dall'orefice, chiuse
in astuccetti nuovi.
Marcantonio Ravì
profondeva lodi, esclamazioni ammirative,
ringraziamenti.
- Ma voi così, don Diego
mio, ci confondete...
- Non ti
confondere, asino! Ho esperienza del mondo e so che i regali ci
vogliono.
Don Marcantonio si cacciava in
tasca il dono e sbuffava dalla stizza per la caparbia ostinazione della
figliuola, che, pur di non cedere, si contentava di star chiusa in una camera,
assediata, rifiutando anche il cibo.
La
madre stava di guardia presso l'uscio di quella camera, come una sentinella.
Venivano i parenti, la Mèndola o qualche altra vicina a tentare ancora di
metterla sù contro il marito, ma ella tornava col solito gesto ad accennare il
segno della croce.
- In nome del Padre,
del Figliuolo e dello Spirito Santo! Non mi mettete altra legna sul fuoco: me ne
manca forse, donna Carmela mia? Vedete in quale inferno mi
trovo?
- Zia Carmela! - chiamava
Stellina, dietro l'uscio.
- Figlia mia
bella, che vuoi?
- Dica a sua figlia Tina
che si affacci alla finestra: voglio farle vedere una
cosa.
- Sì, cuore mio bello! Or ora
glielo dico. Coraggio, cuore mio! Pìgliati quest'involtino: te lo faccio passare
di sotto l'uscio. Mangia, che ti
piacerà.
- Tante grazie, zia
Carmela!
- Niente, figliuola cara. E
tieni duro, tieni duro! non ci vuol
altro...
La si-donna Rosa lasciava dire e
lasciava fare. E ogni giorno, appena il marito rincasava, gli rivolgeva la
solita domanda:
- Debbo? - E con la mano
faceva il gesto di mandar la chiave per aprire
l'uscio.
- No! - le gridava egli. - Stia
lì, lì, brutta ingrata! cuor di macigno! Come se non lo facessi per lei, per il
suo bene! Tieni: un altro regalo, un braccialetto... faglielo
vedere!
La si-donna Rosa si alzava,
chiudeva gli occhi, sospirava e, con l'astuccetto in mano, entrava nella camera
della figliuola.
Stellina se ne stava
presso il letto, accoccolata per terra, sul tappetino, come una cagnetta
ringhiosa. Strappava di mano alla madre il regalo e lo scaraventava a
terra.
- Grazie tante, non lo
voglio!
La madre allora perdeva la
pazienza anche lei.
- Sedici onze di
braccialetto, asinaccia! Non sei neanche degna di guardarla tanta grazia di
Dio!
Stellina, appena uscita la madre,
stropicciava il gomito del braccio sinistro sulla palma della mano destra e
diceva a denti stretti:
- Rodetevi!
Rodetevi!
Poi si ricomponeva la veste su
le gambe, si alzava da sedere, gironzava un po' per la camera e, finalmente,
eccola lì, presso il cassettone a guardar sottecchi il regalo raccattato dalla
madre. La curiosità era più forte della repulsione per il vecchio
donatore.
Si guardava nello specchietto a
bilico, si rialzava i capelli dietro la nuca e sorrideva alla propria immagine:
il visetto fresco e leggiadro apriva in quello specchio due occhi azzurri
limpidi e gaj. Con quel sorriso, pareva sussurrasse a se stessa: «Birichina!». E
le veniva la tentazione di aprire quegli astucci, di provarsi... via, almeno gli
orecchini... per un minuto, gli
orecchini.
- No, questo è l'anello...
M'andrà certo troppo largo... No, preciso! oh guarda... par fatto apposta per il
mio dito...
E si ammirava la manina
bianca inanellata, avvicinandola, allontanandola, piegandola or di qua or di là.
E poi gli orecchi con gli orecchini, e poi i polsi coi braccialetti, e poi sul
seno la lunga catena d'oro dell'orologino; e, così parata, andava a farsi un
profondo inchino allo specchio
dell'armadio:
- A rivederla, signora
Alcozèr!
E una gran risata.
- Ecco... va bene: io non ho fretta,
Marcantonio mio, - diceva, il giorno dopo, don Diego al Ravì, nel Caffè del
Falcone: - Però, ecco... non per me, ma per il vicinato: sotto le finestre di
casa tua (tu forse hai il sonno greve e non senti), quasi ogni notte si fanno
serenate: chitarre e mandolini, eh eh... Lo so: giovanotti allegri... Che
bellezza, la gioventù! Sai chi sono? I fratelli Salvo coi cugini Garofalo e Pepè
Alletto: chitarre e mandolini.
- Vi
giuro, don Diego mio, che non ne so nulla parola di galantuomo! Dite davvero?
Serenate? Lasciate fare a me. Or ora vi fo vedere io,
se...
- Dove
vai?
- In cerca di codesti signorini che
mi avete nominati.
- Sei matto? Siedi
qua! Vuoi compromettermi?
- Voi non
c'entrate!
- Come non c'entro, asino? Ci
guastiamo, bada. Senza tante furie. Soglio far le cose con calma, io. Son
giovanotti, e cantano: gioventù vuol dire allegria... Sa cantare anche Stellina,
m'hai detto? Bene; il canto mi piace. Dicevo soltanto per il vicinato che sta a
sentire ogni notte, e... capirai, le male lingue... Tu dovresti consigliare a
codesti giovanotti un po' di pazienza, mi spiego? perché hai la puella
già sposa. Ma con buona maniera, con
calma.
- Lasciate fare a
me.
- Senza compromettermi,
oh!
La sera di quello stesso giorno,
Marcantonio Ravì imbattendosi per via in Pepè Alletto, se lo chiamò in disparte
e gli disse:
- Caro don Pepè, vi prego
con buona maniera di lasciare in pace mia figlia; se no, faccio come quel tale;
lo vedete questo bastone? Ve lo rompo in resta la prima volta che vi vedo
ripassare col naso in aria sotto le finestre di casa
mia.
Pepè Alletto lo guardò prima
stordito, come se non avesse compreso; poi si tirò un passo
indietro:
Ah sì? E se io vi
dicessi...
- Che siete cognato di Ciro
Coppa, bau bau? - compì la frase il
Ravì.
- No! - negò, acceso di sdegno, il
giovanotto. - Se vi dicessi che a me personalmente bastoni su la testa non ne ha
mai rotti nessuno?
Il Ravì si mise a
ridere.
- O non lo vedete che scherzo?
Ditemi voi stesso, don Pepè mio, in quali termini vi debbo pregare. Che volete
da mia figlia? Se non siamo bestie, proviamoci a ragionare. Voi siete nobile, ma
siete scarso, caro don Pepè. Anch'io sono un pover'uomo abbruciato di danari.
Povertà non è vergogna. Sapete che vi voglio bene: venite qua,
ragioniamo.
Gli passò una mano sotto il
braccio e si avviò con lui, seguitando:
-
Quanto a ballare, lo so, ballate come se non aveste fatto mai altro in vita
vostra. Anche con gli speroni ai piedi, m'hanno detto. E sonare, sonate il
pianoforte come un angelo... Ma, caro mio don Pepè, qui non si tratta di
ballare, mi spiego? Ballare è un conto; mangiare, un altro. Senza mangiare, non
si balla e non si suona. Debbo aprirvi gli occhi proprio io? Lasciatemi
combinare in pace questo benedetto matrimonio, e ajutatemi anzi, diàscane1! Il
vecchio è ricco, ha settantadue anni e ha preso quattro mogli... Gli diamo
ancora tre anni di vita? L'avvenire poi è nelle mani di Dio. Dite un po': quale
può essere l'ambizione d'un onesto padre di famiglia? La felicità della propria
figliuola, ne convenite? Oh: chi è scarso è schiavo: schiavitù e felicità
possono andar d'accordo? No. Ergo, prima base: denari. La libertà sta di casa
con la ricchezza; e quando Stellina sarà ricca, non sarà poi libera di fare ciò
che le parrà e piacerà? Dunque... che dicevamo? Ah, don Diego... Ricco, don Pepè
mio! Ricchezze ne ha tante, che potrebbe lastricare di pezzi di dodici tarì
tutta Girgenti, beato lui! Don Pepè, accettatemi qualcosina qua al
Caffè...
L'Alletto pareva caduto dalle
nuvole: non sapendo che pensare di quel discorso, guardava negli occhi il Ravì
sorridendo.
Per dir la verità non aveva
mai aspirato seriamente alla mano di Stellina; né questa, per altro, aveva mai
dato motivo a lui di farsi qualche illusione, più che non ne avesse dato a
tant'altri giovanotti che le gironzavano attorno. La ragazza, sì, gli piaceva;
ma sapeva pur troppo di non essere in condizione di prender moglie, e neanche ci
pensava. Viveva con la madre settantenne, che, nella sua ingenua amorevolezza,
si ostinava a trattarlo ancora come quand'aveva dieci anni. Povera santa
vecchina! Bisognava aver pazienza con lei; anche per compensarla di tutto quello
che le era toccato di soffrire col padre, il quale in pochi anni aveva dato
fondo a tutto il patrimonio; e n'era poi morto di crepacuore. Dalla rovina si
era soltanto salvata, per miracolo, la vecchia casa, in cui abitava con la
madre.
Donna Bettina, nobile di nascita,
non voleva assolutamente permettere che egli, Pepè, entrasse in qualche impiego,
che forse il cognato, Ciro Coppa, con le sue aderenze avrebbe potuto
procurargli. Ma di questo, Pepè, in fondo, non s'affliggeva molto. Lavorare non
era il suo forte. Ogni mattina tre ore, per lo meno, davanti allo specchio:
abitudine! Che poteva farci? Il bagno, le unghie lunghe da coltivare, poi
pettinarsi, raffilarsi la barba, spazzolarsi. E quando alla fine, sul far della
sera, usciva di casa, pareva un milordino. La vecchia casa, al Ràbato, custodiva
intanto gelosamente il segreto miserevole dei sacrifizii ostinati e delle più
dure privazioni.
Ah, se invece di nascere
in quella triste cittaduzza moribonda, fosse nato o cresciuto in una città viva,
più grande, chi sa! chi sa! la passione che aveva per la musica gli avrebbe
forse aperto un avvenire. Una forza ignota nell'anima se la sentiva: la forza
che lo tirava in certi momenti alla vecchia spinetta scordata della madre e gli
moveva le dita su la tastiera a improvvisare a orecchio minuetti e rondò. Certe
sere, mentre contemplava dal viale solitario, all'uscita del paese, il grandioso
spettacolo della campagna sottostante e del mare là in fondo rischiarato dalla
luna, si sentiva preso da certi sogni, angosciato da certe malinconie. In quella
campagna, una città scomparsa, Agrigento, città fastosa, ricca di marmi,
splendida, e molle d'ozii sapienti. Ora vi crescevano gli alberi, intorno ai due
tempii antichi, soli superstiti; e il loro fruscìo misterioso si fondeva col
borbogliare continuo del mare in distanza e con un tremolìo sonoro incessante,
che pareva derivasse dal lume blando della luna nella quiete abbandonata, ed era
il canto dei grilli, in mezzo al quale sonava di tanto in tanto il chiù
lamentoso, remoto, d'un assiolo.
Ma di
questi suoi strani momenti Pepè si vergognava, quasi, con se stesso, temendo che
i suoi amici se n'accorgessero. Che baja, allora! No, via; neanche a pensarci:
lì, nella vita gretta, meschina, monotona, di tutti i giorni, lì era la realtà,
a cui bisognava adattarsi.
Che gli diceva
intanto il Ravì? che voleva da lui? Evidentemente quel buon uomo sospettava che
tra lui e la figlia ci fosse qualche intesa, per la quale ella non volesse
acconsentire al matrimonio con l'Alcozèr. Ebbene, perché non lasciarlo in
quell'inganno? Promise d'usar prudenza e di farne usare agli amici Salvo e
Garofalo, e n'ebbe in ricambio l'invito alle prossime nozze, a nome anche
dell'Alcozèr, che:
- Non è cattivo, in
fondo, poveraccio! - concluse don Marcantonio. - Che volete farci? ha la manìa
delle mogli: non può farne a meno. Ma questa, se Dio vuole, sarà l'ultima! Gli
diamo, sì e no, tre anni di vita? Gliel'ho detto avanti: «Caro don Diego, siamo
della vita e della morte; carte in regola!» E lui, bisogna dir la verità:
subito! non m'ha nemmeno lasciato finire. Cosicché, mi spiego? su questo punto,
siamo a cavallo. Non dico per me, dico per mia figlia, beninteso! Poi
Stellina... ci penserà lei... Debolezze, don Pepè: dicono che don Diego riprende
moglie perché, stando solo, ha paura degli spiriti... Già! Credo che di notte
gli appaja la Morte con l'ali. E se lo porti via presto, don Pepè! Le darei una
mano io per caricarselo meglio su le spalle... Ma già, non pesa venti chili...
Ai vostri comandi, e baciamo le mani. Mosca però, don Pepè: mi raccomando.
Circa due mesi dopo si celebrarono in
casa Ravì le nozze tanto combattute.
Don
Diego indossò per la quinta volta la lunga napoleona memore di quattro sponsali;
non per avarizia, ma perché veramente era ancor nuova, sebbene di taglio antico,
custodita per tanti anni con la canfora e col pepe nella cassapanca di noce
stretta e lunga come una bara. Giù per il cortile le grosse papere non lo
riconobbero in quell'insolito arnese, e coi lunghi colli protesi lo inseguirono
fino al portone strillando come
indemoniate.
«Eh eh, le anime delle
defunte mogli!» pensò don Diego, arricciando il naso; e, correndo, se le
cacciava dietro con le mani. - Sciò!
sciò!
Marcantonio Ravì aveva largheggiato
molto negli inviti, volendo, almeno in apparenza, il consenso popolare. Nessuno
gli levava dal capo che la disapprovazione di tutti gli amici e conoscenti non
fosse per invidia della fortuna che toccava alla figlia. E aveva preparato un
lauto trattamento a maggior dispetto degli
invidiosi.
Don Diego fu molto
complimentato. Ma non era vecchio per nulla, e accolse con la sua solita
risatina fredda tutti quei
complimenti.
Per Stellina, parata di
bianco e di zagare, nella pompa della festa, la commiserazione sorgeva
spontanea, di nascosto, dopo le congratulazioni che ciascuno degli invitati le
porgeva per convenienza, ma senza troppa effusione, per timore non dovessero
sfrenar in lei qualche scoppio di
pianto.
Presto il Ravì cominciò a notare
un certo impaccio nella sala. L'aspetto di Stellina raggelava la festa. Invano
ceròò di promuovere comunque un po' di brio, incitando ora questo ora quello. Di
tutti i convitati solo a Pepè Alletto, venuto coi tre fratelli Salvo (Mauro,
Totò e Gasparino), riuscì alla fine a comunicare un po' di
fuoco.
- Don Pepè, spetta a voi! Mi
raccomando.
Pepè sentì in questa
raccomandazione la conferma di quel curioso discorso tenutogli tempo addietro.
Sorrise, guardò la mesta sposina che gli parve più bella nello splendido candore
dell'abito nuziale, e «Perché no?» disse tra sé. Si mise al pianoforte, sonò,
cantò, poi spinse gli altri a ballare e finalmente riuscì a ravvivare il
festino. Tutti gliene furono grati, e più di tutti don Marcantonio. Stordito
nell'allegria da lui stesso promossa, egli ora guardava don Diego, il vecchio
sposo, come per compassione; e gli altri, come per dire: «Compatitelo,
poveretto; il vero sposo poi, qua, sarò
io».
E nel chiudersi della festa, di cui
fu l'anima, anzi l'eroe, tutti i convitati lo ammirarono tanto e tanto lo
lodarono sia per il ballare, sia per come comandava le danze e come sonava il
pianoforte, che a un certo punto, irresistibilmente, gli scappò
detto:
- So anche il
francese...
Se non che la tempesta, fin
lì stornata, scoppiò a un tratto, inaspettatamente. Don Diego, per mostrarsi
galante, volle porgere un bicchierino di rosolio alla sposa. Poverino: fu una
cattiva ispirazione: le mani gli tremavano, anche per l'emozione: e così gliene
versò qualche gocciolina su la veste, poco poco... Se le donne che le sedevano
accanto avessero fatto le viste di non accorgersene, Stellina avrebbe forse
saputo contenersi ancora; ma quelle invece, no: tutte premurose le si chinarono
attorno coi fazzoletti a pulire, e allora, Stellina, si sa, ruppe in singhiozzi,
cadde in una violenta convulsione di
nervi.
Tutti accorsero a lei. Si
gridava:
- Largo! Largo!
Slacciatela!
Due giovanotti la
sollevarono su la seggiola e la portarono in un'altra stanza. Don Diego rimase
avvilito, col bicchierino in mano, più tremante che mai: buttava il resto sul
tappeto, adesso! invano don Marcantonio si sbracciava a rimetter l'ordine, a
tranquillar gl'invitati, ripetendo: - L'emozione, si sa! l'emozione! -. Nessuno
gli dava retta, tutti erano addolorati della sorte della povera Stellina, i cui
pianti e, più penose dei pianti, le risa convulse, giungevano attraverso gli
usci chiusi.
Pepè Alletto, pallido,
mortificato, s'era lasciato cadere su una seggiola e, con gli occhi socchiusi,
si faceva vento col fazzoletto. Due lagrime, che non erano di vino, gli rigarono
il volto fino ai baffi immelanconiti.
-
Che hai, Pepè? - gli domandò Mauro Salvo, vedendolo in
quell'atteggiamento.
Pepè levò il capo e,
aprendo forzatamente le labbra a un sorriso vano, rispose con voce
malferma:
- Niente... mi sento... non
so...
- Hai
bevuto?
- Mi ha fatto tanta pena, - disse
Pepè, non degnando di rispondere a quella domanda
volgare.
- Hai ragione, sì, - riprese
l'amico. - Anche a me, ma andiamo intanto: t'accompagnerò a casa. Vedi? Già se
ne vanno tutti...
Volle prenderlo sotto
braccio; Pepè si ritrasse, risentito:
-
Ma no, lasciami, grazie! mi reggo
benissimo.
- L'emozione! Scusate tanto...
Grazie dell'onore... L'emozione!... Buona sera, e grazie... Scusate... - diceva
a questo e a quello il Ravì, distribuendo saluti, strette di mano e inchini
nella saletta.
Gl'invitati andarono via
in silenzio, giù per la scala, come tanti cani bastonati. Era già sonata la
mezzanotte; i lampionaj avevano spento i fanali, e la via lunga, deserta, era a
mala pena rischiarata dalla luna che pareva corresse dietro un leggero velario
di nuvole.
- Chi sa che tragedia
stanotte! - sospirò a voce un po' alta, appena fuori della porta, Luca Borrani,
uno degli invitati.
Pepè Alletto, nel
passargli accanto col Salvo, colse a volo la sconveniente allusione, e gli gridò
sul muso:
-
Porco!
Il Borrani, botta e
risposta:
- Va' là, pulcinella! - E uno
spintone.
L'Alletto alzò allora il
bastone e giù, su la testa del Borrani; quindi, all'improvviso, uno schiaffo. Ne
nacque un parapiglia, un trambusto indiavolato: braccia e bastoni per aria,
schiamazzo, strilli di donne, lumi e gente a tutte le finestre delle case
vicine, abbajar di cani, e tutte quelle nuvolette che correvano nel
cielo.
- Che è stato? che è
stato?
Giù per la via la folla agitata si
allontanava confusamente, vociando. E la gente accorsa coi lumi alle finestre
rimase a lungo incuriosita a spiare e a far supposizioni e commenti, finché la
folla non si perdette nel bujo, in lontananza.
Nossignore, bestia! T'insegno io come si
fa in questi casi. Làsciati servire da
me.
Ciro Coppa, tozzo, il petto e le
spalle poderosi, enormi, per cui pareva anche più basso di statura, il collo
taurino, il volto bruno e fiero, contornato da una corta barba riccia, folta e
nerissima, la fronte resa ampia dalla calvizie incipiente, gli occhi grandi,
neri, pieni di fuoco, passeggiava per il suo studio d'avvocato con una mano in
tasca, nell'altra un frustino che batteva nervosamente su gli stivali da caccia.
Le bocche di due grosse pistole apparivano luccicanti su le ànche, oltre la
giacca.
Pepè Alletto era venuto da lui
per consiglio. Aveva ricevuto la mattina stessa una lettera del Borrani. Questi
non intendeva sfidarlo per l'insulto e lo schiaffo a tradimento della sera
avanti, perché - diceva - alla cavalleria suol ricorrere chi ha paura, e lui non
voleva nascondersi dietro le finte e le parate, tenendo per burla una sciabola
in mano: lo metteva pertanto in guardia: lo avrebbe preso a calci, ovunque lo
avesse incontrato, foss'anche in
chiesa.
Pepè Alletto avrebbe voluto che
il Coppa si recasse dal Borrani per fargli ritirare, con le buone o con le
cattive, questa lettera. Non che avesse paura; non aveva paura di nessuno, lui:
ma, ecco, a farla a pugni, come i ragazzacci di strada, si sa! per la sua
complessione... così mingherlino... avrebbe avuto la peggio: di fronte a lui, il
Borrani era un colosso. E poi, quando mai s'era inteso? calci, pugni, tra
gentiluomini...
- Làsciati servire da me!
- ribatté il Coppa, fermandosi in mezzo allo scrittojo e indicando col frustino
al cognato la scrivania. - Lì c'è carta, penna e calamajo. Siedi e scrivi. Con
una botta di penna te lo riduco io a
ragione.
- Debbo dunque rispondere? -
arrischiò timidamente Pepè.
Ciro batté
forte il frustino su la scrivania.
- Ti
dico siedi e scrivi, babbeo! Ti detto io la
risposta.
Pepè si alzò perplesso, come
tenuto tra due, e andò a sedere sul seggiolone di cuojo davanti alla scrivania,
su cui appoggiò i gomiti, prendendosi la testa tra le mani e sospirando. Poi
disse:
- Scusa... permetti? Vorrei,
ecco... vorrei farti notare che la...
-
Che cosa?
- La mia posizione è
alquanto... non saprei... delicata. Perché io, jersera, per dir la verità... per
tante ragioni... forse, ecco... non ero bene in me. Non vorrei ora
compromettere...
- Che compromettere! -
esclamò il Coppa, spazientito. - L'insulto, l'hai raccolto? Sì: tanto è vero,
che gli hai appoggiato uno schiaffo.
- E
basta! - osservò Pepè. - Lui doveva sfidarmi: non l'ha fatto;
dunque...
- Dunque lo farai tu! -
concluse Ciro, aprendo le braccia.
- Io?
E perché? - replicò, stupito, Pepè.
-
Perché sei un cretino! perché non capisci nulla! - gli urlò il cognato. - Siedi
e scrivi! Adesso vedrai.
Pepè alzò le
spalle, imbalordito; poi domandò con aria
desolata:
- Che debbo mettere in capo
alla lettera?
- Niente, né sciò né passa
là! - rispose Ciro rimettendosi a passeggiare, concentrato in sé, e stirandosi
con due dita i peli della moschetta. - Comincia così: La vostra lettera... -
la vostra lettera... - è degna d'una persona virgola... - la vostra
lettera è degna d'una persona... che star dovrebbe... scrivi!...
coatta... co-at-ta, tutt'una
parola.
- Lo
so!
- ...che star dovrebbe coatta nei
bagni e nelle galere virgola... anziché... an...ziché, con una sola
c, libera e sciolta... tra il consorzio della gente civile punto
ammirativo. Hai scritto?
- Gente
civile! scritto.
- A capo. Ma se
voi siete... ma se voi siete un mascalzone virgola... io sono un gentiluomo
punto e virgola e non mi lascerò... trascinare da voi ad altro scandalo
punto e seguitando. E poiché ho avuto la disgrazia... così! la
disgrazia di sporcarmi la mano sul vostro viso virgola spetta a me...
spetta a me per riguardo alla mia persona e al mio nome... hai scritto?...
di rialzarvi dal fango virgola in cui vorreste appiattarvi punto e
seguitando. Vi uso perciò la generosità... ge-ne-ro-si-tà... d'inviarvi due
miei rappresentanti... col più ampio mandato virgola... i quali vi
restituiranno la sozza lettera virgola... che con vigliacco ardire
m'avete spedita stamani. Punto. Hai scritto? Adesso firmala: G. nob.
Alletto, nient'altro. Hai firmato?
Rileggimela.
Pepè rilesse la lettera,
ingegnandosi di dare alle parole la sonora sprezzante espressione del
cognato.
- Benissimo! - approvò questi. -
Scritta come Dio comanda. Una busta, e scrivi l'indirizzo. Penserò io a
fargliela recapitare insieme con la sua lettera. Non darti pensiero dei padrini:
te li trovo subito io. Via i Salvo, via i Garofalo! buffoncelli, che non fanno
al caso nostro. Tu va' sù da tua sorella Filomena che, poverina, da due giorni
sta peggio del solito. Se il medico non me la guarisce subito, finirà che lo
bastono. Basta. Io debbo recarmi al Tribunale; poi giù di corsa in campagna, a
tirar gli orecchi a quel boja del gabellotto. Terre morte, perdio, che non ci si
ripiglia il giogàtico... Che hai? che corno hai? Paura?... Mi guardi come uno
stupido...
Pepè si scosse, sorpreso da
quell'uscita improvvisa, e sbuffò,
seccato:
- Nient'affatto! Paura?... La
testa, Ciro! mi sento la testa... non so come, da
jersera...
- Di' ch'eri ubriaco, figlio
mio; ci farai miglior figura! - osservò Ciro con aria di sdegnosa
commiserazione. - Va', va' sù da Filomena. Io torno stasera, diglielo. Tu
intanto sta' sù ad aspettare i due amici. Occhio vivo, e senza
paura!
Tolse da un cassetto della
scrivania alcune carte e se n'andò, col cappello a cencio buttato su un orecchio
e il frustino in mano, al Tribunale.
Pepè trovò la sorella che si aggirava
come un'ombra per le stanze quasi al bujo. Pareva già vecchia a trentaquattro
anni: un male, che ancora i medici non riuscivano a precisare, la consumava da
parecchi mesi; ma di questo ella non si lagnava, considerandolo come una lieve
giunta ai tanti danni della sua vita. Non si lagnava veramente di nulla, neanche
di non poter vedere la madre, già da anni in rottura mortale col genero. Avrebbe
avuto tanta consolazione anche dalla sola vista di lei! Ma donna Bettina aveva
giurato di non rimetter piede mai più in casa del Coppa; ed ella, per la gelosia
feroce del marito, non che uscire di casa, non poteva neppure sporgere un po' il
naso fuor della finestra. Non glien'importava più; non si crucciava più nemmeno
in cuore della sorte tristissima che le era toccata, nascendo. L'amarezza d'una
totale remissione le si leggeva ormai negli occhi silenziosi, costantemente
assorti in una pena ignota, indefinita.
-
Filomè, come ti senti?
Ella alzò le
spalle e aprì un po' le braccia, in risposta. Pepè sbuffò per il naso; poi
riprese:
- Non si potrebbe aprire un
tantino la finestra?
- No! - gridò subito
Filomena. - Se, Dio liberi, venisse a
saperlo!
- Non c'è, è andato al
Tribunale; poi andrà in campagna; tornerà
stasera...
- Pepè, per piacere, lascia
star chiuso. Lo sa Dio quanto desidererei prendere una boccata d'aria. Ma ormai
sono arrivata, Pepè; lo sento, ne ho poco di questa prigionia. Ringraziamo Dio
in cielo e in terra!
- Non dire
bestialità! - esclamò Pepè, commosso.
-
Mi dispiace solo - riprese con la stessa voce stanca la sorella - per i figli
miei, povere anime innocenti... Ma per me sarà la liberazione... e anche per
lui, per Ciro. Non lo dico per male, bada! Voi Ciro non lo conoscete: ne vedete
solo i difetti... questa sua gelosia feroce, per esempio... Ma mi vuol bene,
sai, a suo modo: lo dimostra così! Non doveva prender moglie, ecco tutto: era
nato per un'altra vita... che so! per far
l'esploratore...
- Già - approvò Pepè, -
tra le bestie feroci...
- No no, -
corresse amorevolmente Filomena. - Voglio dire, per una vita di rischi, e
libera... Tu lo vedi, è eccessivo in tutto, e in un piccolo paese, tra la
meschinità della vita di tutti i giorni, con le sue esuberanze pare anche
ridicolo talvolta... Tutti i torti vuole aggiustarli lui... E una povera donna
come me, qui rinchiusa, deve vivere per forza in continua
apprensione...
Pepè approvava col capo, e
quella sua approvazione era insieme segno di compianto per la sorella; guardava
nella penombra la ricca mobilia della stanza, e tra sé diceva: «T'ha fatto
ricca; ma che n'ha goduto?».
A questo
punto entròò la servetta ad annurziargli che qualcuno lo attendeva giù nello
studio. Pensò che fossero i padrini (così presto?), e s'affrettò a discendere;
trovò invece nello studio don Marcantonio Ravì tutt'ansante e
scalmanato.
- Don Pepè mio, che avete
fatto? Non me ne so dar pace!
- Il mio
dovere, - rispose Pepè, breve, serio e
compunto.
- Ma com'è nata codesta lite
maledetta? E ora che avverrà?
- Nulla...
non so... Ma state pur sicuro che la signorina... cioè, la
signo...
- Dite signorina, dite
signorina, don Pepè! Ah, se sapeste... Ho l'inferno in casa. Urli, strilli,
convulsioni... Si ricusa assolutamente di seguire il marito! E jersera m'è
rimasta in casa, capite? signorinissima! Oggi la stessa storia. Non vuol neanche
vederlo! Don Diego se ne sta dietro l'uscio a sentire, e n'ha sentite...
pensateci voi! Io... io per me non so più dove battere la testa... Ci voleva per
giunta quest'altro guajo qui... il vostro duello! Dovete per forza fare il
duello?
- E` necessario, - rispose Pepè,
accigliato - siamo uomini... Le cose, del resto, sono arrivate a tal punto,
che...
- Ma nient'affatto! - lo
interruppe don Marcantonio. - Che uomini e uomini... chi ve l'ha messo in capo?
Siete stato tanto buono voi, jersera, don Pepè mio... E ora, in compenso, vi
tocca fare il duello?
- E` necessario, -
ripeté l'Alletto con aria grave e pur malinconica. - Credete, peraltro, che me
n'importi? Non m'importa più di nulla, ormai. Possono anche ammazzarmi: ci avrei
anzi piacere.
- Un corno! - gli gridò,
quasi con le lagrime a gli occhi, il Ravì. - Importa a chi vi vuol bene...
Scusate se ve lo dico, siete un minchione! Credete che tutto sia finito per voi?
Date tempo al tempo, non vi precipitate... lasciate fare il duello a chi ci
prova gusto, a chi ve l'ha messo in capo... Dite la verità, è stato vostro
cognato? Lui, è vero? L'ho immaginato
subito!
Non poté continuare. Entravano
nello studio Gerlando D'Ambrosio e Nocio Tucciarello, i due padrini scelti da
Ciro: il D'Ambrosio alto, biondo, con le spalle in capo, miope, il mento e la
guancia sinistra deturpati da una lunga cicatrice; l'altro, tozzo, barbuto,
panciuto, dall'andatura stentatamente
bravesca.
- Pepè, a gli ordini tuoi!
Benedicite, grosso Marcantonio! - salutò il
D'Ambrosio.
Nocio Tucciarello non disse
nulla; contrasse soltanto una guancia come per fare un mezzo sorriso e chinò
appena il capo.
- Accomodatevi,
accomodatevi, - propose Pepè, premuroso, con gli occhi ora all'uno ora
all'altro.
- Tante grazie, - parlò il
Tucciarello, rifacendo con la guancia la smorfia di prima e alzando lentamente
una mano in segno negativo. - Noi, caro don Pepè, col permesso del nostro caro
si-don Marcantonio, avremmo da dirvi una
parolina.
- Debbo andarmene? - chiese
angustiato il Ravì a l'Alletto. E, volgendosi ai due sopravvenuti: - So tutto,
signori miei; anzi, ero venuto...
Il
Tucciarello lo interruppe, posandogli leggermente una mano sul
petto.
- Non c'è bisogno che aggiungiate
altro. Caro don Pepè, l'affare è combinato secondo il nostro desiderio. L'amico,
appena ci ha veduti, ha cambiato avviso. Gnorsì. Ci ha detto che intendeva di
far le cose per benino. «E anche noi!» gli abbiamo risposto, naturalmente.
Insomma, poche parole; un solo, brevissimo abboccamento coi due padrini
avversarii e tutto combinato: arma, la sciabola; finché i medici non dicono
basta. Siamo intesi? Domattina, alle sette in punto, io e Gerlando saremo alla
porta di casa vostra: la carrozza, per non dar sospetto, ci attenderà col medico
alla punta della Passeggiata, fuori del paese, donde scenderemo a Bonamorone. Mi
spiego?
- Sta bene, sta bene, -
s'affrettò a rispondere Pepè, con la vista intorbidata dall'interna agitazione,
affermando ripetutamente col capo. - Alle sette, sta
bene.
- Ma che diavolo dite, don Pepè! -
scattò sù don Marcantonio. - Vi portano al macello, e sta bene? Signori miei,
scherzate o dove avete il cervello? Metter di fronte così due giovanotti a cui
il sangue bolle nelle vene? Io son padre di famiglia, santo e santissimo
diavolone!
- Piano col diavolo, don
Marcanto'! - disse allora Nocio Tucciarello pacatamente, un po' accigliato, con
un lento gesto della mano. - Quando in un affar d'onore c'è di mezzo il signor
me, nessuno, neanche il figlio di Domineddio, deve più metterci becco. Se voi
avete da darmi comandi, sono a vostra
disposizione.
- E che c'entra questo,
Signore Iddio? - esclamò il Ravì . - Io parlo a fin di bene; che c'entrano i
comandi? sono il vostro servo umilissimo, don Nociarello mio! Dico per il come
si chiama... il duello! Se ne potrebbe fare a meno... Pensate alle conseguenze,
signori miei! In fin dei conti, don Pepè ha dato di porco e ha ricevuto di
pulcinella, è vero? ha dato una bastonata e ha ricevuto uno spintone; dunque,
pari e patta, e affar finito. Ora il duello
perché?
- Domandatelo all'illustrissimo
avvocato Coppa! - rispose il Tucciarello con la stessa aria spocchiosa. - Noi
abbiamo servito lui e don Pepè qui presente, che si merita questo e altro.
Domattina alle sette, dunque, e baciamo le
mani.
I due padrini andarono via, seguiti
da don Marcantonio, cui premeva di far intendere al Tucciarello, umilmente, il
suo pensiero.
Pepè rimase a riflettere nello studio,
passeggiando.
«Vediamo, vediamo...»
diceva a se stesso, per chiamare a raccolta le proprie forze e persuadere i
nervi agitati a calmarsi. Ma nel cervello, chi sa perché, gli s'accendevano
guizzi di pensieri alieni; contraeva tutto il volto. - Per una sciocchezza! -
esclamòò alla fine, esasperato, alzando un
braccio.
Subito, sorpreso dalla sua
stessa voce, si guardòò attorno, per timore che qualcuno avesse potuto sentirlo,
e fece un rapido mulinello col
bastone.
Non aveva paura,
lui.
Era vero però che si trovava in quel
frangente - col rischio anche di lasciarci la pelle... (eh sì, tutto era
possibile!) - per una sciocchezza. Poteva bene far le viste di non avere inteso
quelle parole del Borrani. Che glien'importava, in fondo? che c'entrava lui? Ci
s'era messo quasi per ridere, in quell'avventura, non perché avesse preso sul
serio il discorso del Ravì, quella mezza promessa sottintesa, senz'alcun valore.
Sì, ma intanto, ecco: ridendone, scherzando, egli era adesso sul punto di
battersi per quella donna. E qualche diritto, ora, sul serio cominciava ad
acquistarlo su lei... Perbacco, rischiava la vita! Non aveva mai tenuto in mano
una sciabola; non sapeva nulla, proprio nulla, di scherma. Si vide addosso il
Borrani, alto robusto e impetuoso, con l'arma in pugno, terribile; sentì
mancarsi il fiato, e scappò via dallo studio, all'aria aperta, smanioso di veder
gente.
Per istrada però, quasi avesse gli
occhi abbagliati, non riuscì a distinguer nulla: una gran confusione, come se la
gente e le case tremolassero tutte nel sole. Le orecchie gli ronzavano. S'avviò
in fretta, istintivamente, verso casa. Entrando per Porta Mazzara nel sobborgo
Ràbato, subitamente gli venne al pensiero la madre, e s'intenerì fino alle
lagrime.
- Povera
mamma!
La trovò, al solito, in giro per
le ampie camere con un piumino spennato in una mano, un rosario nell'altra:
labbreggiava avemarie e spolverava, accostandosi ora a questo ora a quel vecchio
mobile d'antica foggia, come per andargli a confidare quelle sue
preghiere.
Della pulizia di casa donna
Bettina s'era fatta quasi una fissazione; tanto che, sentendo sonare il
campanello della porta, non mancava mai di gridare, anche dalla stanza più
intima e remota:
- Nettatevi le
scarpe!
Ma, ripulendo di continuo
l'antica mobilia, come attendendo alle più umili faccende domestiche, serbava
sempre un contegno dignitoso, come se non sapesse quel che faceva. Teneva
annodata sul capo un'enorme treccia finta, ma di capelli suoi, già da molto
tempo caduti, color nocciuola, in stridente contrasto con quei pochi argentei
che le erano rimasti intorno alla fronte. Reggeva questa treccia un pizzo nero,
annodato sotto il mento. La palma e il dorso delle mani piccole e bianche,
inanellate, erano protetti da un pajo di guanti senza dita; le spalle da uno
scialletto di seta nera, ormai inverdito. Celare a gli altri e sopportare con la
massima dignità la miseria, come ogni altra sventura della vita, era studio
costante di donna Bettina, la quale, per esempio, a non pochi sacrifizii s'era
costretta perché un pajo d'occhiali legati in oro, le accavalciasse il bel naso
aristocratico.
Nel volto, se non più nel
corpo, serbava ancora la traccia dell'antica bellezza, che tante e tante fiamme
aveva destate nella gioventù mascolina dei suoi tempi. Di lei s'era invaghito
anche, perdutamente, ma con poca fortuna, don Diego Alcozèr. Era allora anche
ricca, oltre che di nobile casato e così bella! Maritata giovanissima a don
Gerlando Alletto, in trent'anni di matrimonio, ne vide però d'ogni colore. Ma
tutto ormai ella aveva perdonato al marito defunto, tranne una cosa sola, di cui
pareva non si potesse dar pace; che egli cioè la avesse sempre chiamata, per
mero capriccio, Sabettona.
-
Scempiaggine! - soleva dire. - Perché io sono sempre stata così: bassina e fina
fina.
Vedendo entrare il figlio, non
interruppe la preghiera né si distolse d'accostarsi alla grande mensola verso la
quale era avviata. Solo quando ebbe passato il piumino sul piano di marmo di
quel mobile, si volse a Pepè e fe' cenno di domandargli, con una mossettina del
capo, e socchiudendo un po' gli occhi, che cosa
avesse.
- Nulla, - le rispose
Pepè.
Ed ella gli sorrise, senza smettere
di pregare e di compire il giro della casa col piumino spennacchiato in
mano.
Pepè la seguì con gli occhi,
frenando a stento la commozione che lo spingeva ad accorrere verso la madre e a
stringersela forte forte al petto.
«Se io
venissi a mancarle!» pensò.
Ah, egli
sapeva bene che colpo sarebbe stato per la sua santa vecchietta! Sentì rimorso
del fastidio che aveva fin allora provato di certe esigenze amorose della madre,
la quale voleva perfino che si coricasse ancora, come da ragazzo, nella stessa
camera con lei.
«Sì, sì, sempre con te,
mammuccia mia!» diss'egli a se stesso. E sentendo di non poter più dominarsi,
andò a chiudersi in una camera.
Parecchie
volte la madre, a tavola, vedendo che Pepè non mangiava e stava invece a
guardarla insistentemente, gli domandò:
-
Che hai?
- Nulla... nulla... - le rispose
sempre, con tenerezza, Pepè.
Allora donna
Bettina alzò un dito della mano a metà inguantata, e lo minacciò
sorridendo:
- Io lo so! - gli disse. -
S'è maritata, è vero?... con quel vecchiaccio
stolido...
Pepè arrossì, poi scosse
malinconicamente il capo:
- No, - le
rispose, - non ci pensavo affatto...
-
Bene, bene... - approvò la madre. - Non ci pensare... Non era per te... Poi la
troverai, quella che sarà per te. Per ora non vorrai lasciar sola questa tua
vecchia mamma, non è vero?
Pepè non seppe
trattenersi più: angosciato, prese una mano della madre e se la strinse forte su
le labbra:
- No, no, - le mormorò sopra,
carezzandola con l'alito e baciandola, - mai, mai, mamma
mia!
Si alzò di tavola. Disse che voleva
tornar da Filomena per vedere se stesse meglio, e uscì di casa. Donna Bettina,
sentendo nominar la figlia, si turbò. Non voleva saper più nulla di lei. Quando
s'era guastata col genero, appunto per causa di lei, per il supplizio ch'egli le
infliggeva, le aveva ingiunto di lasciare i figli e di venirsene a casa sua.
Naturalmente Filomena s'era rifiutata, e allora ella le aveva detto che, finché
stava col marito, sarebbe stata come morta per lei. Scurita in viso, seguì con
gli occhi il figlio, senza domandargli
nulla.
Ciro tornò tardi dalla
campagna.
- Son venuti i padrini? -
domandò per prima cosa a Pepè, e volle sapere le condizioni del duello. - La
sciabola? Avrei preferito la pistola o la spada. Basta. Rimani a cena con
noi.
Dopo cena, sapendo che Pepè non era
buono neanche a maneggiare un temperino, lo fece ridiscendere con lui nello
studio per insegnargli un colpo sicuro.
-
Sono un po' fuori d'esercizio; ma, all'occorrenza... Tieni! - raffibbiò,
togliendo da un angolo due frustini e porgendone uno a Pepè. - Fa' conto che
siano sciabole.
Su la scrivania ardeva il
lume, che rischiarava a mala pena lo stanzone. Nella casa, tutt'intorno,
silenzio di tomba.
Pepè era al colmo
dell'avvilimento: quel frustino in mano e la saccenteria spavalda del cognato
che l'atteggiava in guardia dandogli colpetti sulle gambe, gli parevano uno
scherzo fuor di luogo. Ciro intanto gridava, spazientito, senz'intendere che col
suo gridare lo imbalordiva peggio. Si dispose anche lui in guardia di fronte a
Pepè e cominciò a insegnargli il colpo infallibile. Dàlli e dàlli, alla fine si
riscaldò sul serio, s'imbestialì e, gridando: - Mi rammento dei tempi antichi! -
si slanciò in un assalto furibondo contro il povero cognato che, riparandosi la
testa con le braccia, si chinò sotto la furia delle fischianti frustinate,
gridando ajuto e misericordia.
Accorse
col lume in mano la sorella:
- Ajuto!
Ajuto! S'ammazzano! Ciro! Pepè!
- Zitta,
bestia! Zitta! - le urlò ansante e raggiante il marito, lasciando Pepè che
guaiva. - Non vedi che stiamo scherzando?
Il Ravì attendeva impaziente da circa due
ore, appoggiato alla ringhiera di ferro del viale all'uscita del paese, con gli
occhi a un punto noto dell'ampia, verde, vallosa campagna che s'apre a piè del
colle, su cui pare che Girgenti sia sdrajata. Di tanto in tanto sbuffava e
moveva qualche passo o dava uno scrollo poderoso alla ringhiera, tenendo sempre
gli occhi fissi laggiù, alla macchia fosca dei cipressi del camposanto, a
Bonamorone. E borbottava:
- Giusto là,
sicarii! Uccellacci di malaugurio!
A
quell'ora la Passeggiata era deserta. Un soldato a una finestra del grigio
casermone dirimpetto lustrava uno stivale, fischiando a distesa. Per lo stradone
polveroso sotto la Passeggiata passavan carri carichi di brocche d'acqua, tirati
da stanchi asinelli, a cui gli acquajoli non risparmiavano il peso del loro
corpo, dopo la penosa salita dalla sorgente d'acqua potabile laggiù, presso il
camposanto. Don Marcantonio si curvava su la ringhiera, e li chiamava
dall'alto:
- Di', di': hai visto due
carrozze stamane, per tempo,
laggiù?
Nessuno aveva visto
nulla.
«Che siano andati altrove?» si
domandava tra le smanie il Ravì. «O che sieno tornati sù da un'altra parte? Non
è possibile! Questa è la via più corta. Devono tornar di qua! di
qua!»
E batteva le manacce su la
ringhiera arrugginita.
- Ti possa seccar
la lingua! - gridò alla fine al soldato che non smetteva più di fischiare dalla
finestra del casermone.
Don Marcantonio
aveva rimorso di quel duello, come se davvero fosse avvenuto per causa sua, per
quel discorso cioè, che egli aveva tenuto a l'Alletto poco prima delle nozze
della figlia. Non aveva difatti quel povero giovanotto preso le parti di
Stellina, come se questa fosse stata veramente sua promessa
sposa?
Egli non voleva ammettere, neppur
dopo l'esito sciagurato della festa nuziale e le scene violente della figlia,
che il suo primo ragionamento zoppicasse più d'un poco. Credeva piuttosto che il
diavolo si fosse divertito a cacciar la coda nella festa, suggerendo prima a don
Diego di offrire quel maledetto bicchierino alla sposa, aizzando poi l'Alletto e
il Borrani l'uno contro l'altro.
«Per
farmi disperare!»pensava il Ravì. «Ma io non debbo dargliela
vinta!»
In paese si faceva un gran
ciarlare di quello sposalizio terminato in una baruffa: il suo nome e quello di
don Diego correvan su la bocca di tutti; si ripeteva tra le risa la frase
ridicola scappata al povero Pepè: So anche il francese; quelle poche
gocce versate da don Diego su la veste della sposa eran già diventate una mezza
bottiglia, e le cose più strambe e più buffe si narravano di quella serata ormai
famosa.
Il giorno avanti a quella stessa
mattina don Marcantonio s'era visto guardare con derisione dalla gente. Gli
avevan tolto il saluto. Ebbene, tanto onore e
piacere!
- Riderà meglio, chi riderà
l'ultimo! Datemi due, tre anni di tempo, e vedremo chi aveva
ragione.
Intanto lui era là: sissignori,
ad aspettare con ansia e con legittima impazienza l'esito di quel duello.
Giocava a carte scoperte. Sissignori, Pepè Alletto, caro giovanotto, buono,
rispettoso, gli premeva, e sarebbe stato a suo tempo il marito di Stellina,
divenuta ricca, la più ricca del paese, e tutti e due allora sarebbero stati
felici a dispetto degli invidiosi, e questa felicità l'avrebbero dovuta a lui. -
Ma perché ancora non tornavano le
carrozze?
Don Marcantonio non seppe
frenar più oltre la smania e s'avviò per discendere lungo lo stradone sotto la
Passeggiata. Appena arrivato presso il casermone scorse una vettura in fondo,
che si avanzava a passo, polverosa.
-
Eccola lì! - esclamò; e il cuore gli balzò in
gola.
Si mise a correre faticosamente,
ajutando col moto delle braccia, le gambe tozze sotto il
pancione.
C'è dentro il ferito; certo: va
così piano... Chi sarà? chi sarà?
La
raggiunse:
- Chi c'è? - gridò, trafelato,
col cappellaccio in mano, al
vetturino.
Gerlando D'Ambrosio sporse il
capo dalla vettura ad ammiccare dietro le lenti fortissime da miope, con faccia
scura.
- Ah povero don Pepè! - esclamò il
Ravì, percotendosi la fronte con la palma della mano e guardando dentro la
vettura.
Pepè Alletto, pallidissimo, con
la giacca su le spalle, la camicia aperta sul petto fasciato, gli volse uno
sguardo smarrito.
- Non c'è posto! Via,
avanti! - impose al vetturino Nocio Tucciarello con voce
stizzosa.
- Dottore, mi dica... -
scongiurò don Marcantonio.
- Avanti! -
gridò il Tucciarello al vetturino.
- Ecce
homo! Gesù tra i giudei! Birbanti Birbanti! - si mise allora a gridare don
Marcantonio con le braccia levate, restando in mezzo allo stradone, ansimante,
con le lagrime agli occhi, e le gambe che gli tremavano dalla corsa e dalla
commozione.