Luigi Pirandello

Il turno

CAPITOLO IX

      Pepè Alletto s'era preso un gran colpo a bandoliera, da la spalla sinistra giù giù fino al fianco destro: sessantaquattro punti di cucitura, uno dopo l'altro, sul vivo della ferita. E durante l'operazione era svenuto due volte.
      Ma il Tucciarello e il D'Ambrosio non erano imbronciti per l'esito doloroso del duello; bensì per il contegno del loro primo di fronte all'avversario. Non che Pepè avesse fatto propriamente una cattiva figura; ma, appena impugnata la sciabola, Cristo santo! - pensava il Tucciarello, morsicchiandosi con le labbra la punta della barba, - appena impugnata la sciabola, era diventato più pallido di una carogna; per poco le braccia non gli eran cascate su la persona, come se la sciabola fosse stata di bronzo massiccio. Parare? sfalsare? Niente! Lì come un pupazzo da teatrino... E allora, si sa, zic-zac, al primo scontro, pàffete! Meno male, che non se l'era presa in testa. Il Borrani lo avrebbe spaccato in due, come un mellone.
      Ciro Coppa aveva già saputo dai padrini dell'avversario, tornati sù prima in paese, l'esito del duello, e aveva fatto preparare un letto per accogliere il ferito. Non poteva certo mandarlo, in quello stato, in casa della madre, sua suocera, vecchia di settant'anni.
      Ora, aspettando, andava a gran passi per lo studio, e intanto borbottava ingiurie e imprecazioni contro le donne, impiccio degli uomini. Auff! Già, una prima scena con la moglie malata: grida, pianti, escandescenze, deliquio - e perché? Perché un coniglio aveva voluto far la parte del leone. Imbecille!
      - La carrozza! la carrozza! - venne ad annunziargli la serva, di corsa.
      - Non entra nessuno! - gridò il Coppa, immaginando subito che, dietro il ferito, una folla di curiosi stésse per irrompere in casa sua. - Soltanto il medico e il malato!
      E via, dietro la serva.
      Pepè fu portato, su una seggiola, dalla vettura al letto. Ciro scappò sù avanti, a chiuder sotto chiave la moglie.
      - Voglio vederlo! Per carità, Ciro, lasciamelo vedere! - scongiurava piangendo Filomena, e spingeva l'uscio con le mani e coi ginocchi.
      Ma già Ciro era corso alla camera del ferito per dargli a suo modo il ben tornato:
      - Sei il più gran minchione che esista su la faccia della terra! - Zitto, avvocato, zitto! Ha la febbre... - lo ammonì il medico. - Non entra nessuno! - gridò il Coppa sotto il naso al medico, per tutta risposta, nell'esaltazione del momento. E ripeté: - Non entra nessuno! Vo a mettermi io stesso di guardia davanti alla porta... Guaj a chi entra!
      E via di nuovo, di corsa.
      - Pepè! Pepè! Lasciatemelo vedere! Voglio vederlo! Per carità! - seguitava a pregare la moglie.
      Ciro si fermò di botto, aprì l'uscio e, con gli occhi fuori dell'orbita:
      - Cristo, Madonna, Padreterno, che vuoi? Te li faccio scendere tutti dal Paradiso! Non puoi vederlo, t'ho detto! Lo spogliano, è nudo! Non entra nessuno!
      E davvero per quel giorno non fece entrare né anche i più intimi amici del cognato. Solo qualcuno, appena, nei giorni successivi. Ma già, tanto non c'era più pericolo che i visitatori potessero veder Filomena. La poveretta, al colpo inatteso, s'era dovuta mettere a letto per un subito aggravamento del male.
      Furon così ammessi alla vista del ferito anche Marcantonio Ravì e l'Alcozèr, venuti insieme, questi tutto sorridente e cerimonioso, quegli intozzato, su di sé, per la bile che gli fermentava in corpo come in una fornace.
      - Don Pepè! don Pepè mio!
      E gli volle per forza baciare una mano, rompendo in lagrime, come se Pepè fosse lì, moribondo.
      La ferita invece non era di rischio, per quanto lunga e dolorosa. Pepè si lagnò coi due visitatori solo dell'immobilità a cui era costretto, e intanto con gli occhi in quelli di don Marcantonio cercava di legger notizie di Stellina.
      Il Ravì gli parlò dell'interessamento di tutta la sua famiglia per lui; e don Diego confermò col capo le espressioni del suocero. Ah sì? dunque pure Stellina aveva saputo del duello? Pepè ne provò una vivissima gioja, turbata solo dal curioso sorriso con cui don Diego accompagnava quel suo tentennar del capo quasi a ogni parola del Ravì.
      - Tornate, tornate a vedermi, - disse alla fine Pepè. - Ne avrò per molto tempo, ha detto il medico. Non potete neanche immaginare il piacere che mi farete...
      - Piacere? voi? e io? - proruppe don Marcantonio. - La vita mia vi darei, don Pepè! Lo sa Dio ciò che ho sofferto nel sapervi... Basta! qui non posso parlare. Vi saluto. Ritorno domani... se però mi lasciano entrare. Sapete che, il giorno del duello, vostro cognato mi lasciò fuori la porta? Lasciar fuori me, che avrei voluto portarvi in braccio a casa mia per curarvi come un figliuolo! Basta. A rivederci, don Pepè.
      Il Ravì tornò infatti, solo, non il domani, ma alcuni giorni dopo, e si trattenne a lungo a conversare con Pepè; gli disse che ogni giorno mandava la moglie da donna Bettina a darle notizia di lui, a confortarla, a tenerle compagnia, perché la poverina si struggeva dalla rabbia e dal dolore di non poter venire a vedere il figliuolo; gli parlò poi della bella casa dell'Alcozèr, del modo con cui questi trattava la moglie che finalmente si era arresa, delle visite che egli faceva a Stellina giornalmente per raccomandarle prudenza e pazienza:
      - Perché, capite, don Pepè mio? Il vecchio, da un canto, ha coscienza di sé, dall'altro però, voi lo sapete, ama la compagnia, cosicché... mi spiego? gente in casa, giovanotti... Ora questo, se da una parte mi fa piacere, perché così Stellina ha un certo svago e non sta sola sola, dall'altra ho paura che dia cagione alle male lingue di sparlare. Sapete com'è il nostro paese... Ci vanno i vostri amici: i fratelli Salvo coi cugini Garofalo, buoni ragazzi allegri, lo so... e quanto a Stellina, non perché figlia mia, ma voi la conoscete: un angioletto! Tuttavia, vi par giusto metter la paglia accanto al fuoco? Basta, io, per me, non c'entro più: ora deve pensarci il marito, il quale esperienza dovrebbe averne, non vi pare? Ma, del resto, sapete come si dice? Ne sa più un pazzo in casa propria, che cento savii in quella degli altri.
      «E Stellina? Stellina?» avrebbe voluto domandar Pepè. «Ride, canta, scherza coi Salvo, coi Garofalo, mentr'io sono qua inchiodato a letto per lei?»

CAPITOLO X

      Quante spine da quel giorno ebbe il letto per il povero Pepè!
      - Mi dica, dottore, quando potrò alzarmi? Non ne posso più!
      Ma il medico non gli dava retta: si tratteneva da lui pochi minuti, costernato di ben altro: del grave rischio che correva in quel momento la signora Filomena. E il Coppa che non se ne voleva dar per inteso, pretendendo dal medico la guarigione della moglie, come se, avendo sofferto e speso tanto per lei, si credesse in diritto di non perderla! Da una settimana non chiudeva occhio, non prendeva se non qualche raro cibo, lì accanto al letto, forzato dalla stessa moglie, da cui non distraeva lo sguardo un solo minuto. Credeva veramente di lottare così contro la morte, e non gli pareva possibile che questa gli portasse via la moglie da sotto gli occhi mentre egli teneva lì ferma, vigile, agguerrita in difesa di lei la propria volontà. Non ascoltava nessuno, per non allentare d'un attimo quella tensione violenta di tutte le forze del suo essere, a guardia dell'inferma. E se il medico gli diceva qualche cosa:
      - Non so nulla, - gli rispondeva invariabilmente.
      - Fate voi: il responsabile siete voi. Io sto qua. Non mi lamento di nulla.
      Ma alla fine il medico chiese un consulto e, avuta dai colleghi l'assicurazione d'aver fatto quant'era possibile per l'inferma, volle declinare ogni responsabilità. La signora Filomena era spacciata.
      Ciro Coppa scacciò via il medico svillaneggiandolo; poi, sembrandogli che lì, in quella casa, dove la scienza di fronte alla morte si era data per vinta, la difesa della moglie fosse già compromessa, tratto dall'armadio un abito della moglie:
      - Tieni, subito, vèstiti, - le disse. - Ti guarisco io! Andiamo in campagna: aria aperta, passeggiate... Lo insegnerò io a questi ciarlatani impostori come si salvano i malati! Vuoi che t'ajuti a vestirti? Per carità, Filomena, non avvilirti! non farmi questo tradimento! Tu mi vuoi bene... Io...
      Un nodo di pianto gli strozzò improvvisamente in gola la voce. La moglie aveva chiuso gli occhi con lenta pena alla disperata esortazione di lui: due lagrime le sgorgarono dalle pàlpebre e le rigarono il volto. Gli fe' cenno d'accostarsi al letto. Ciro accorse angosciato, vibrante dallo sforzo con cui soffocava la violenta commozione. E allora la moribonda gli passò un braccio intorno al collo e con la mano malferma gli carezzò i capelli.
      - Fammi una grazia, - gli mormorò: - Un confessore...
      Ciro, chino sul seno di lei, ruppe in un pianto furibondo, come se il cordoglio, mordendolo, l'avesse arrabbiato.
      - Non hai più fiducia in me, Filomena? - ruggì tra i singhiozzi irrompenti. Poi, levandosi scontraffatto, terribile: - E che peccati puoi aver tu su la coscienza, da confidare sotto il suggello della confessione?
      - Peccati, e chi non ne ha, Ciro? - sospirò la moribonda.
      Egli uscì dalla camera con le mani afferrate ai capelli. Ordinò alla serva di chiamare un prete.
      - Vecchio! Vecchio! - le gridò; e scappò via di casa per non assistere a quella confessione.
      Per circa due ore, alla Passeggiata, andò in sù e in giù sotto gli alberi, scervellandosi a immaginare i peccati, che la moglie in quel momento confessava al prete.
      Che peccati?... che peccati? Peccati di pensiero, certo... peccati d'intenzione... Chi aveva mai veduto sua moglie?... Cose antiche? peccati antichi!...
      E passeggiava con le mani avvinghiate alle reni, il volto contratto dalla gelosia e gli occhi che schizzavano fiamme.
      Nella notte, Filomena morì. Pepè volle a ogni costo alzarsi per vedere un'ultima volta e baciare in fronte la sorella. Ciro si era chiuso nella camera dei figliuoli mandati dalla nonna, e buttato su un lettuccio, mordeva e stracciava i guanciali per non urlare.
      Il giorno dopo ordinò che si apparecchiasse la tavola, e mandò a riprendere i figliuoli dalla nonna. La vecchia serva lo guardò negli occhi, temendo che fosse impazzito.
      - La tavola! - le gridò Ciro di nuovo. - E apparecchia anche il posto per la tua signora.
      Volle che tutti, Pepè e i due figliuoli, sedessero con lui a desinare.
      - Qua comando io! - gridava, battendo i pugni su la tavola, e brum! bicchieri, posate, ballavano. - Qua comando io! Pensate che dispiacere avrebbe Filomena, se sapesse che per causa sua oggi i suoi figliuoli restano digiuni! Mangiamo!
      Fece prima la porzione alla moglie, come al solito. Poi volle dare il buon esempio, mangiando lui per primo; ma, appena portatosi alle labbra il cucchiajo, sbruffava, si cacciava in bocca il tovagliolo e, addentandolo, gridava con voce soffocata:
      - Filomena! Filomena!
      Però, appena i figliuoli sbalorditi si mettevano a strillar con lui: brum! altri pugni su la tavola.
      - Zitti, perdio! Qua comando io! Mangiate! Non fate dispiacere, ragazzi, a vostra madre! Ella è qua, qua che ci assiste... qua che ci vede tutti... qua che soffre, se non vi vede mangiare per una giornata, ragazzi miei... Mangiate! mangiate!

CAPITOLO XI

      Del bruno per la sorella e del pallore lasciatogli dalla lunga convalescenza Pepè trasse partito per apparire più «interessante» agli occhi di Stellina, come se avesse vestito il bruno per lei andata a nozze con un altro.
      Si recòò in casa dell'Alcozèèr in via di Porta Mazzara la prima sera che gli fu concesso andar fuori. Salendo la scala, si sentiva battere così forte il cuore che, a ogni cinque o sei scalini, doveva fermarsi a riprender fiato. Pervenuto al penultimo pianerottolo, fu crudelmente ferito dalla voce di Stellina che cantava una romanza, accompagnata a pianoforte da Mauro Salvo: senza dubbio.
      - Canta, canta, ingrata!
      S'appoggiò al muro e si strinse forte gli occhi con una mano.
      Scoppiarono applausi, e tra questi una lunga risata argentina. Pepè si scosse, salì gli ultimi scalini, tirò il cordoncino del campanello.
      - Pepè! - gridò sorpreso Gasparino Salvo, venuto ad aprir la porta, e subito si recò giubilante a dar l'annunzio nel salottino. - Pepè! Pepè Alletto! E` venuto Pepè!
      Fifo e Mommino Garofalo e Totò Salvo accorsero nella saletta. Don Diego che pisolava sul divano, svegliato dal battìo di mani e dalle voci, si alzò in piedi, intontito, guardando Mauro Salvo, che era rimasto a sedere su la poltrona e Stellina che, con un ginocchio appoggiato a lo sgabello del pianoforte e una mano su la tastiera, mirava assorta la fiamma della candela presso il leggìo.
      Pepè entrò fra l'accoglienza rumorosa degli amici, pallido, impacciato, e tese con gli occhi bassi la mano a Stellina, che gli porse la sua, inerte e fredda, mentre don Diego, inchinandosi e gestendo largamente con le braccia, gli diceva:
      - Evviva! evviva! Eccovi qua, tra noi, finalmente! Guarito del tutto? Rallegramenti. Sedete qua, accanto a me.
      Solo Mauro Salvo non disse nulla a Pepè. Dalla poltrona, in cui rimase seduto, lo guardò con freddezza attraverso le pàlpebre che gli ricadevano per infermità su gli occhi globulenti, e a cui il naso rincagnato in sù pareva comandasse con ostinata fierezza di rialzarsi.
      Pepè fermò un istante gli occhi su lui, poi li volse a Stellina, e domandò:
      - Son venuto a disturbare?
      Don Diego gli diede su la voce:
      - Ma che dite, caro don Pepè! Tanto onore e tanto piacere. Vi abbiamo aspettato sera per sera, parlando di voi. E` vero, signori miei?
      Tutti, tranne Mauro Salvo e Stellina, confermarono.
      - Anzi, - riprese don Diego, - ci siamo tanto afflitti della disgrazia che vi è toccata.
      - Povera signora Filomena! - esclamò Fifo Garofalo, rialzandosi la lente sul naso.
      Seguì al ricordo della morta un istante di silenzio, durante il quale Pepè tentennò leggermente il capo.
      - Contribuì pure, - poi disse, - ad affrettarne la fine, lo spavento che si prese per me, poverina.
      - Lo spavento, scusa, se lo prese, - interloquì ruvidamente Mauro Salvo con gli occhi bassi e il naso ritto, - perché, se è vero quel che si dice tuo cognato la chiuse a chiave in una camera e non permise che entrasse a vederti, cosicché s'immaginò che fossi a dir poco in fin di vita; se ti avesse invece veduto con quella feritina...
      - Feritina? - interruppe, stupito, Mommino Garofalo. - Quanti punti, Pepè?
      - Sessantaquattro, - rispose Pepè, modestamente.
      - Sì, - riprese Mauro, guardando in giro, attraverso le pàlpebre cadenti, i radunati, - ma certo né ferita mortale né da spaventare.
      - Certo, certo... - approvò Pepè per troncare il discorso. - Intanto, vedete! Salendo, ho sentito che la signora Stellina cantava una romanza... Son dunque, veramente, venuto a disturbare.
      - Ancora? V'abbiamo detto di no, caro don Pepè!
      E don Diego spiegò a l'Alletto in qual modo si passavan le serate in casa sua, intercalando qua e là riflessioni su la vitaccia sciocca e la vecchiaja maledetta. Sic vivitur, sic vivitur... La compagnia per lui era più necessaria del pane; ma, compagnia di giovanotti, beninteso! Dei vecchiacci come lui non sapeva che farsene. Però, guardare e sentire, sentire e guardare... non gli restava altro, ahimè. Ma si contentava.
      Parlando, don Diego aveva su le labbra quel sorrisetto ambiguo che già Pepè aveva notato durante la visita che egli, insieme con don Marcantonio, gli aveva fatta. Ma questa volta il sorrisetto pareva che fosse piuttosto per Mauro Salvo, a cui gli occhi di don Diego si rivolgevano di frequente. A torto, però, Pepè se ne turbava. Quel sorrisetto aveva un significato assai più recondito di quel che la sua gelosia gli attribuiva. Don Diego, sì, fin dal primo momento s'era accorto che il Salvo si era innamorato di Stellina; ma di questo amore, per il suo segreto disegno, non che temere, s'era rallegrato. Mauro era brutto di faccia e ruvido di modi: Stellina non gli avrebbe mai dato retta. Invece il vecchio temeva di lui, di Pepè, protetto dal suocero e forte adesso del prestigio di quel duello fatto per la moglie. E tuttavia con vera impazienza egli aveva aspettato l'intervento di lui, perché Stellina da quella sera in poi si sarebbe trovata tra i due fuochi: i due rivali si sarebbero fatta la guardia a vicenda, e lui avrebbe ora potuto riposar tranquillo e sicuro; l'espediente per godersi senza pericolo la compagnia di quegli altri giovanotti allegri e spensierati si riduceva ad effetto. Ed ecco perché il vecchio sorrideva a quel modo.
      La conversazione a poco a poco s'animò, e vi prese parte anche Stellina, la quale, però, di tratto in tratto, volgeva un rapido sguardo inquieto al balcone, dove Mauro Salvo, mentre gli altri parlavano, si era recato, riaccostando pian piano dietro di sé le imposte. Ora egli se ne stava lì, con le spalle al salotto, i gomiti appoggiati su la ringhiera di ferro, la testa tra le mani, a guardar la campagna nera nella notte.
      Don Diego, prima ancora di Stellina, s'era accorto della scomparsa di lui dal salotto; e a un certo punto volle richiamarlo:
      - E venite qua, santo Dio! Vi pigliate un malanno, così al fresco.
      - Mi fa tanto male il capo, - si scusò Mauro, cupamente, rientrando e richiudendo le imposte.
      Don Diego, mostrando negli occhietti calvi il sogghigno delle labbra non mosse, lo osservò un tratto; poi gli disse con amorevolezza:
      - Eh sì, vi si vede in faccia, poverino. Coraggio! Non vi avvilite!

CAPITOLO XII

      In una di quelle serate si concertòò per la prossima domenica una gita ai Tempii: convegno, alle sette del mattino.
      Con l'ajuto dei Garofalo e degli altri due Salvo, don Diego aveva indotto Pepèè a far parte della comitiva, non ostante il lutto recente; e allora Mauro s'era scusato di non poter venire.
      Mancòò infatti egli solo all'appuntamento. Don Diego sentìì mancarsi un braccio e, con la scusa che il tempo non gli pareva abbastanza bello, avrebbe voluto mandare a monte o rimandar la gita. Il cielo veramente non era sereno; s'aspettavano ancora le prime piogge autunnali. Ma i giovani amici e Stellina dichiararono che la mattinata, per una gita, non poteva esser migliore; cosicchéé don Diego alla fine dovette arrendersi.
      Stellina si mostrava contenta; scherzava con Fifo Garofalo che s'era portato il mantello e dichiarava di sentir freddo. Pepèè la vedeva ridere e sorrideva, come se fosse uno specchio innanzi a lei.
      Ma pervenuti alla punta della Passeggiata, eccovi Mauro Salvo appoggiato coi gomiti su un pilastro della ringhiera e le mani sotto il mento. Prima a scoprirlo fu Stellina, che, stringendo fra i denti il labbro e mettendosi un dito su la bocca, tolse di mano a Pepè il bastone, e accorse lieve, in punta di piedi, finché, allungando il braccio armato, poté pian piano spinger la tesa del cappello di Mauro. Questi si voltò di scatto, irosamente; ma si trovò davanti Stellina che lo minacciava seria seria con lo stesso bastone, tra le risa degli altri.
      Così anche lui si unì alla comitiva. Ridevano tutti e Stellina pareva la più gaja. Don Diego guardava i sei giovanetti e la moglie e si beava della loro allegria, arrancando dietro, per lo stradone in declivio.
      - Piano, ragazzi, piano... - ammoniva di tanto in tanto, pensando alla via lunga e agli anni che portava addosso; alzava poi gli occhi al cielo e storceva la bocca.
      Il cielo, dalla parte di levante, si faceva sempre più cupo: laggiù, in fondo in fondo, su le livide alture della Crocca, la foschìa s'addensava minacciosa; forse già vi pioveva. Da presso s'era levato un venticello fresco, che pareva esortasse gli alberi esausti a far buon animo, ché tra poco avrebbero avuto la pioggia tanto attesa. E dalle campagne arsicce, irte di stoppie, a destra e a sinistra dello stradone scosceso, venivan gli strilli giojosi delle calandre, che forse si annunziavano anch'esse la prossima acqua, e le risate di qualche gazza.
      Quando la comitiva fu presso l'antica chiesetta normanna di San Nicola, cinta di pini marittimi e di cipressi, a cavaliere su una svolta dello stradone, don Diego, avendo avvertito qualche goccia sul dorso della mano, consigliò:
      - Signori miei, rimaniamo qua. Non mi par prudente avventurarci con questo cielo fino ai Tempii. Date ascolto a me, che non son vecchio per nulla.
      - Ma che! ma che! - gridarono tutti a coro. - Nuvola che passa! Non pioverà!
      - Signori miei, questa la piango! - ribatté don Diego. - Ma del resto, sia fatto il volere della gioventù: coraggio e avanti, figliuoli!
      Dopo San Nicola lo stradone, più ripido, li agevolò nella corsa allegra, sotto la minaccia della pioggia. E in breve furono al cospetto del magnifico tempio della Concordia, integro ancora, aereo sul ciglione e aperto col maestoso peristilio di qua alla vista del bosco di mandorli e d'ulivi, detto in memoria dell'antica città che sorgeva pur lì, bosco della Civita; di là alla vista del piano di San Gregorio, solcato dall'Acragas, e poi del mare sconfinato, in fondo, d'un aspro azzurro. Il bosco stormiva agitato sotto le gravi nubi lente, pregne d'acqua, e vibravano in alto le punte dei colossali cipressi sorgenti in mezzo ai mandorli e agli olivi come un vigile drappello a guardia del Tempio antico.
      Le grida festose della comitiva risonarono stranamente, nell'austero silenzio tra le colonne immani. Stellina, rimasta sospesa alla gradinata per cui si ascende all'alto zoccolo, quasi interamente distrutta dalla parte del prònao, chiamò ajuto. Subito Mauro Salvo accorse e se la tirò per le mani.
      Fifo Garofalo, intinto d'archeologia, con la tovaglia da tavola su le spalle e il cappello a cencio assettato sossopra sul capo:
      - Venite, o profani! - tuonò, saltando su un pietrone nel mezzo del tempio. - Turba irriverente, vieni! No, aspettate... - (scese dal pietrone). - La signora Stellina faccia da nume; alzi le braccia... così. Adorate, o profani, la Dea Concordia! Io, sacerdote celebrante, dico ad alta voce: - Facciamo libazioni e preghiamo... Ma no, aspettate! aspettate!
      Tutti, tranne Stellina, atteggiata da nume, s'eran precipitati su la cesta delle vivande portata dalla serva.
      - Tu, Pepè, - aggiunse Fifo, gridando, - tu, ministro subalterno, chiedi prima a gli astanti: Chi son coloro che compongono questa assemblea?
      - Affamati! - risposero tutti a coro, compreso il nume, Stellina.
      - No, no! Bisogna rispondere ad altissima voce: Uomini dabbene! E se non lo dite forte, nessuno ci crede. Sù, sù, offrite un biscottino senza macchia alla si-donna Concordia...
      - E accendete un fiammifero! - aggiunse Pepè guardando il cielo che d'improvviso s'era incavernato, come se fosse piombata la sera.
      - Questa, santissimo Dio, la piango! - gemette addossato a una colonna don Diego Alcozèr.
      - Assalto alla cesta, e si salvi chi può, senz'ombra di educazione! - esclamò Gasparino Salvo, dando l'esempio.
      Si lanciaron tutti, tranne don Diego, su la cesta, e ciascuno ghermì quel che gli venne prima sotto mano; mentre già grosse gocce di pioggia crepitavano come se grandinasse.
      - Ripariamoci in qualche casina! - scongiurò don Diego. - Via, via, presto, corriamo!
      Scapparono a precipizio dal Tempio: la pioggia d'un tratto infittì, si rovesciò scrosciando con straordinaria violenza, come se si fossero spalancate le cateratte del cielo.
      - Misericordia di Dio! - gridò don Diego restringendosi tutto nella persona, sotto la furia dell'acqua.
      Stellina e i sei giovani ridevano. Andarono alla casina più prossima, ma il cancello di ferro davanti al cortile era chiuso. Pedate al cancello e grida d'ajuto. Non era pioggia: era diluvio.
      Fifo Garofalo si tolse il mantello e col concorso degli altri lo resse a mo' di baldacchino su Stellina e don Diego. Giù acqua, giù acqua, giù acqua. Presto il mantello fu zuppo.
      - A San Nicola! - gridò Mauro Salvo, trascinando per una mano Stellina e pigliando la corsa.
      - A San Nicola: c'è il tettuccio! - approvarono gli altri, seguendoli.
      E via sù per la salita, ch'era divenuta un torrente.
      Sotto il tettuccio don Diego, fradicio come gli altri, cominciò a tremare, disajutato.
      - Qua si piglia un malanno! Maledetto il momento che mi son persuaso a uscire di casa... Certo, la piango!... Tutto zuppo... Non sentite che aria?
      La furia dell'acqua scemò d'un tratto: per un momento parve che raggiornasse.
      - Ma che! piove... guardate...
      I fili di pioggia cadevano si più esili e radi, ma continui. Tuttavia, per sottrarsi, così zuppi com'erano, alla corrente d'aria sotto il tettuccio, decisero di rimettersi in via per cercare miglior riparo più sù.
      - E` inutile, don Diego! - osservò Fifo Garofalo, dopo aver bussato al cancello di un'altra cascina. - Oggi è domenica; a quest'ora i contadini sono a messa in città. Piuttosto, facciamoci coraggio, e in cammino! Già piove meno; speriamo che spiova presto del tutto.
      - In cammino; in cammino! - approvò il povero don Diego. - Ma vedrete che arrivo morto.
      La paura spronava l'ansimante vecchiaja, e don Diego andava in testa alla comitiva. La pioggia poco dopo infittì di nuovo.
      - Qua la mano! Lasciatevi portar da noi, - gli dissero Totò Salvo e Fifo Garofalo.
      - Muojo! muojo! - gemeva a tratti don Diego trascinato in sù dai due giovani che nitrivano come cavalli, springando, dimenando la testa allegramente sotto la pioggia furiosa e tra le risa di quelli che venivan dietro.
      Giunsero in città senza fiato, con gli abiti appiccicati al corpo. Don Diego volle cacciarsi subito a letto, coi denti che già gli battevano; tutto tremante, in istato da far veramente paura e pietà.
      - Un medico... un medico... son morto! Voglio qua subito Marcantonio...
      Fifo Garofalo corse per il medico; Pepè Alletto, pregato da Stellina, per don Marcantonio. Gli altri andarono via afflitti e mortificati.

CAPITOLO XIII

      Oh santo figliuolo! donde venite con questo tempo da lupi? - gridò il Ravì nel vedersi davanti Pepè fradicio di pioggia da capo a piedi e tutto inzaccherato.
      Pepè gli narrò in breve l'avventura e manifestò infine il suo rimorso per il malanno sopravvenuto a don Diego.
      - Lasciate fare a Dio! - gli rispose don Marcantonio, infilandosi in fretta il soprabito. - Muore? Se non fosse carne battezzata, direi che ci ho piacere. Ah ci ha provato gusto lui a farsela coi giovanotti? Ben gli stia! Don Pepè, non dico per voi: voi non c'entrate. Questa è la mano di Dio. Rosa, il paracqua... Andiamo, don Pepè.
      Trovarono don Diego in preda al delirio, con un febbrone da cavallo, e Stellina che piangeva, spaventata dalle parole sconnesse del marito, che la scambiava or per una or per l'altra delle precedenti mogli, domandandole conto e ragione dei torti che queste gli avevano fatto.
      - Sei l'anima di Luzza, tu? Ti scongiuro in nome di Dio, dimmi che cosa vuoi!
      Il delirio durò a lungo; poi gli spiriti abbandonarono don Diego, che giacque sotto la febbre incalzante.
      Stellina, Pepè e don Marcantonio vegliarono l'infermo tutta la notte. Nel silenzio profondo il petto di don Diego cominciò a crosciare.
      - Questa è polmonite, com'è vero Dio! - osservò don Marcantonio.
      E tutti e tre si guardarono negli occhi al fioco lume della lampa.
      La polmonite infatti si dichiarò la mattina del giorno appresso, e il medico disse don Diego in pericolo di vita.
      Di fronte alla morte quasi in attesa lì, presso il letto su cui l'esile corpicciuolo di don Diego giaceva seppellito sotto le coperte, con la lunga ciocca dei capelli come una serpe sul guanciale, accanto al cranio lucido infiammato, i tre veglianti provarono quasi un segreto rimorso, che veniva loro dai pensieri e dalle promesse, che nascevano da quella morte. Più acuto lo sentì Pepè; meno di tutti, Stellina. E quando a don Marcantonio, nel silenzio, sfuggì dalle labbra, guardando la figlia e l'amico: - Ci siamo già, figliuoli miei... - tutti e tre sospirarono e chinarono il capo, come in attesa, non della liberazione, ma d'una vera sciagura.
      E per tutto il corso della malattia, non risparmiarono cure a don Diego aggrappato a un filo di vita, come a uno sterpo all'orlo d'un precipizio; lo assistettero a gara, premurosi e intenti. E come se la loro coscienza provasse veramente sollievo e letizia nel prodigar quelle cure, ciascuno voleva prenderne tutto il carico per sé, esonerandone gli altri; e così tra loro, cerimonie e preghiere insistenti di prender qualche cibo e un po' di sonno.
      Meno di tutti si risparmiava Pepè: ma la forza per cui resisteva così gagliardamente al sonno, al digiuno, non gli veniva dalla volontà; egli non poteva realmente né dormire né prender cibo, tanto il pensiero e il sentimento della propria felicità imminente lo sostentavano; era già arrivato, era alla vigilia della sua fortuna, quasi sostenuto dagli sguardi, dalle parole di Stellina nella piena certezza che ella lo amava, dopo quei giorni di stretta intimità, e che anche lei si sentiva arrivata alla soglia d'una vita nuova, felice.
      Don Marcantonio però li teneva d'occhio.
      «Pigliano fuoco!» diceva tra sé, storcendo la bocca.
      Finché una sera, passando per il corridojo, gli parve di sorprendere come il suono d'un bacio nel salottino al bujo, e si mise a tossire. Più tardi, si chiamò Pepè in disparte e gli disse sotto voce:
      - Don Pepè mio, per carità, prudenza! Siate uomo... come Dio vuole, pare che ci siamo arrivati...
      Pepè finse di non capire, e gli domandò con aria ingenua:
      - Perché?
      - Per nulla, - riprese don Marcantonio. - Ma, vi ripeto, prudenza. Abbiate riguardo, santissimo Dio, che il marito è ancora lì. Quest'animale è capace di risuscitare: par che abbia sette anime come i gatti. E allora che figura ci faccio io? Niente, don Pepè... Quattro e quattr'otto: o usate prudenza o vi caccio fuori senz'altro. Non ammetto bestialità.

CAPITOLO XIV

      Quantunque don Diego fosse già entrato in convalescenza, Pepè Alletto usciva, una sera, raggiante di felicità dalla casa di lui, allorché, pervenuto all'imboccatura del Ràbato oltre via Mazzara, si trovò davanti Mauro Salvo che gli faceva la posta in compagnia dei fratelli e dei cugini Garofalo.
      Senza bisogno di molta perspicacia, Pepè si era accorto anche lui dell'innamoramento di Mauro Salvo, fin dalla prima volta che aveva riveduto Stellina in casa del marito. Stellina stessa gliel'aveva poi confermato, ridendone. Nessun pericolo dunque da questa parte. Ma Pepè conosceva bene il Salvo e lo sapeva capace d'ogni violenza. Cosicché, non per paura, ma per non dar luogo a qualche altra scenata compromettente, si era finora comportato in modo da non offrirgli il minimo pretesto. Si sentiva inoltre protetto dalla benevolenza dei fratelli di lui, Totò e Gasparino, e dei cugini Garofalo, che disapprovavano l'agire di Mauro, non foss'altro perché faceva loro correre il rischio d'aver chiusa la porta di casa Alcozèr, dove, in compagnia di Stellina e pigliando a godersi il vecchio marito, si passavano serate deliziose.
      Ma la porta, ultimamente, per la malattia di don Diego, era rimasta chiusa per loro; e ora essi perciò si erano accordati con Mauro, se non nella gelosia che questi sentiva, almeno nell'invidia per Pepè, a cui la porta seguitava ad aprirsi. Pepè aveva già notato questo cambiamento nell'animo degli amici, e più d'una volta aveva cercato di schivarli. Ma ora, ecco, essi, con Mauro alla testa, gli venivano incontro.
      Mauro gli disse bruscamente, fermandolo:
      - Vieni con me. Ho da parlarti.
      - Perché? - gli domandò l'Alletto, provandosi a sorridergli. - Non puoi parlarmi qua?
      - C'è troppa gente, - gli rispose asciutto il Salvo. Cammina.
      Pepè sporse il labbro e si strinse nelle spalle, per significare che non intendeva che cosa si potesse voler da lui con quell'aria rissosa, di mistero, e disse:
      - Io credo... non so... di farmi gli affari miei, senza disturbar nessuno.
      Ma il Salvo lo interruppe a voce alta, con violenza:
      - Gli affari tuoi? Quali, morto di fame?
      - Oh! - esclamò Pepè. - Bada come parli...
      - Morto di fame, sì; - raffibbiò Mauro, parandoglisi di fronte minaccioso. - E non rispondere, o ti do tanti cazzotti da farti impazzire.
      Pepè alzò gli occhi al cielo, con la bocca aperta, come per dire: «Mi scappa la pazienza!» - poi sbuffò:
      - Senti, caro mio: non ho piacere né voglia di attaccar lite con nessuno, io.
      - Sta bene! - s'affrettò a concluder Mauro. - E allora, giacché vuoi far la pecora, bada a questo soltanto: di non metter più piede, d'ora in poi, in casa di don Diego Alcozèr.
      - Come! Perché? Chi può proibirmelo?
      - Te lo proibisco io!
      - Tu? E perché?
      - Perché così mi piace! Non ci vado io, e non devi andarci neanche tu. Né tu, né nessuno, hai capito?
      - Questa è bella! E se il Ravì mi conduce con sé?
      - Arrivi al portone, e dietro front! Se no, alle corte: domani sera io sarò li: se ti vedo entrare, guaj a te! Non ti dico altro. E ora vattene a casa.
      - Buona sera, - scappò detto a Pepè nell'intontimento prodottogli dalla perentoria intimazione.

CAPITOLO XV

      Sentendo il campanello della porta, donna Bettina non mancòò neppur quella sera di gridare:
      - Nettatevi le scarpe!
      - Me le son nettate, - rispose Pepè, rientrando, - sui calzoni di certa gente che non vuol farsi gli affari suoi.
      La madre si spaventò:
      - Un'altra lite?
      - No... ma quasi! - s'affrettò a rassicurarla Pepè. - Ci è mancato poco, non ne facessi un'altra delle mie.
      - Pepè, figlio mio, ancora bestialità? - gemette donna Bettina, pronunziando con tono amorevole questa domanda, che soleva spesso rivolgere al figliuolo. Pareva invecchiata di dieci anni, dopo la morte di Filomena. Non aveva voluto mostrar con lagrime il suo cordoglio, ma era evidente ch'esso ancora, in silenzio, le divorava il cuore.
      Pepè, scotendo le pugna in aria, gridò:
      - Li concio per le feste! Un duello già l'ho fatto! Ah, ma la vedremo... la vedremo...
      E si mise ad andare in sù e in giù per la stanza, come un leoncello in gabbia. Donna Bettina lo guardava a bocca aperta come istupidita; poi gli domandò, congiungendo le mani:
      - Per carità, dimmi che t'è accaduto, Pepè! Mi fai morire.
      - Nulla, - le rispose il figlio. - Certi amici miei... Si cena o non si cena stasera?
      - Pepè, - lo ammonì la madre, - t'avverto che una certa età io ce l'ho e non posso più prendermi tanti dispiaceri... non posso più... non posso più... Tu sarai la causa della mia morte... tu solo, sai? tu solo...
      - Va bene... basta, mammà, non ne parliamo più! - sbuffò Pepè, e si mise a cenare di buon appetito come se il suo corpo volesse compensarsi della vergogna per l'affronto patito.
      «Lasciatelo morire, e la vedremo!» pensava, intanto, alludendo tra séé e séé a don Diego.
      Rimandava così mentalmente l'incontro col Salvo alla morte dell'Alcozèr, per non fermare il pensiero al giorno seguente, in cui, secondo la minaccia, avrebbe trovato il rivale davanti alla porta di don Diego. Guardando all'avvenire, sentiva quanto più forte fosse la sua posizione di fronte a quella del Salvo; ma tuttavia questo sentimento non riusciva a confortarlo del tutto per la prova del domani.
      Durante la notte non chiuse occhio, pensando a ciò che avrebbe potuto rispondere, lì per lì, al rivale.
      Contemporaneamente, nel lettuccio accanto, donna Bettina, che non aveva più, proprio, la testa a segno, faceva un sogno assai strano. Le pareva di vedersi comparir don Diego sorridente e cerimonioso; le s'inchinava con una mano sul cuore, le s'inginocchiava ai piedi, poi le prendeva una mano e gliela baciava, sospirando: «Oh, Bettina, in grazia dell'antico amore!». Allora ella scoppiava a ridere, e don Diego, ferito da quel riso, le proponeva questa tarda ammenda: avrebbe ceduto la moglie, troppo giovine per lui, a Pepè, a patto che donna Bettina lo accettasse per marito: «Unione di due vecchi che pensano alla pace, unione di due giovani che ardono d'amore...».
      A questo punto ella si svegliò, e sorprese Pepè che, messo quasi a sedere sul letto, con le spalle appoggiate al guanciale rialzato su la testata della lettiera, diceva a denti stretti, con un braccio levato:
      - E io t'ammazzo!
      - Pepè, - chiamò ella. - Che dici? che hai?
      - Nulla... penso!
      - Di notte tempo? Dimmi che hai...
      - Non ho sonno, e penso, - rispose Pepè infastidito. - Dormi... dormi...
      Donna Bettina tacque per un momento e rimise la testa sul guanciale; poi domandò piano, insinuante, con un certo imbarazzo, sperando di provocare una confidenza da parte del figliuolo:
      - A che pensi?
      Pepè non rispose. Soltanto, dopo un pezzo, scotendo il capo, emise nel silenzio della camera questo sospiro:
      - Morto di fame...
      - Perdona a tuo padre, Pepè, che si perdette per le sue follie, - concluse donna Bettina, sospirando a sua volta.
      E pian piano, di lì a poco, la vecchietta addolorata si rimise a dormire.

CAPITOLO XVI

      Di non andar quel giorno in casa Alcozèr, Pepè non volle metterlo neanche in deliberazione: sarebbe stato lo stesso che cedere al Salvo ogni diritto su Stellina, non solo, ma anche la prova più lampante d'una paura che egli non voleva riconoscere in sé. Approssimandosi l'ora della visita consueta, si recò pertanto dal Ravì per accompagnarsi con lui: certo il Salvo non avrebbe avuto la tracotanza di aggredirlo vedendolo in compagnia del padre di Stellina.
      Ma né don Marcantonio né la moglie erano in casa.
      - Sono dalla figlia, fin da mezzogiorno, - gli annunziò la serva. - Chi sa che sarà avvenuto, signorino mio! Con lei posso parlare... Quella povera creatura è sacrificata!
      Di nuovo su la strada, Pepè cominciò a riflettere: «Andarci? Conviene? Che dirà la gente se ci azzuffiamo proprio sotto le finestre della casa di lei? Io non sarei sicuro di me; ho usato prudenza jeri; ma, questa sera, se lo vedo, finisce male, parola d'onore! Del resto, loro sono in cinque; che meraviglia dunque se io mi accompagno con un altro?».
      E, così pensando, s'avviava a malincuore alla casa del Coppa. Temeva purtroppo che questi non lo costringesse a fare un secondo duello; perciò, la notte scorsa, aveva scartato subito il partito di recarsi da lui, che pur gli pareva scorta più sicura, che non il Ravì.
      Ciro, dopo la morte della moglie, non era più uscito di casa. Ai numerosi clienti che venivano a sollecitarlo, rispondeva misteriosamente:
      - Mi corre prima l'obbligo, signori, di riparare ben altri torti. Mi duole di non potervi servire.
      E i pretesi torti eran quelli della moglie defunta verso l'educazione dei due figliuoli. Invasato dall'idea di farne due uomini forti, li addestrava alla scuola degli antichi romani: li costringeva a correr nudi per circa mezz'era ogni mattina attorno alla profonda vasca del giardino, e quindi a buttarsi nell'acqua diaccia.
      - O morti, o nuotatori!
      Poi comandava loro:
      - Asciugatevi al sole!
      E, se era nuvolo:
      - Il sole non c'è. Mi dispiace. Asciugatevi all'ombra.
      Niente più scuola: meglio bestie forti, che dotti tisici.
      - Lasciatevi coltivare da me.
      Pepè lo trovò che addestrava alla lotta i due ragazzi, lì nello studio.
      - Gioverebbe anche a te un po' di questo esercizio! - gli disse Ciro. - Hai una faccia da morto, che fa schifo a guardarla. Qua! Fammi tastare il braccio... piegalo.
      Gli tastò il bicipite, poi lo guardò in faccia, come nauseato, e gli domandò:
      - Perché non t'ammazzi?
      - Ti ringrazio dell'accoglienza, - gli rispose con un risolino Pepè. - Fai anche ridere i ragazzi. Del resto, hai ragione. Vorrei essere anch'io come te, capace di tenere a posto una mezza dozzina d'accattabrighe. Il coraggio, si... va bene; ma da solo, senza la forza, non basta.
      - Difetto dell'educazione! - gli gridò Ciro, dominato dall'idea fissa del momento.
      - Ah, certo... l'educazione influisce molto...
      - Molto? E` tutto!
      - Hai ragione, sì... Ma di' pure che c'è molta gente nel nostro paese, che non vuol farsi gli affari suoi.
      - Te n'hanno fatta qualche altra? - saltò a domandargli Ciro con piglio derisorio. - Ma se puzzi di carogna, lontane un miglio!
      - Nient'affatto ! - negò Pepè, risentito. - Che non ho paura, dovrebbero saperlo; uno schiaffo, a chi se le meritava, ho saputo appiopparlo...
      - Per combinazione!
      - Un duello, a buon conto, l'ho fatto...
      - Per forza!
      - Ma se ora vengono in cinque contro uno?
      - E chi sono? - domandò Ciro, con le ciglia aggrottate.
      - Mauro Salvo...
      - Ah, quel buffone con gli occhi a sportello?
      - Lui, coi fratelli e coi cugini Garofalo... in cinque, capisci? Mauro è innamorato pazzo - non corrisposto, bada, e perciò posso dirlo - di... della signora Alcozèr, tu la conosci: la figlia del Ravì. Ora, che te ne pare? pretende ch'io non vada più, dice, in casa di don Diego; né io, né lui, né nessuno, dice... Anzi, dice, se ci vado stasera, guaj a me... Mi aspetta coi suoi davanti al portoncino dell'Alcozèr.
      - Non capisco, - disse Ciro, infoscandosi. - Per prepotenza?
      - Per prepotenza... eh già! Capisci? sono in cinque...
      - E tu, babbeo? Hai detto che non saresti andato?
      - Nient'affatto!
      - Ma intanto sei qua... E hai paura! Te lo leggo negli occhi: hai paura! Ah, ma tu ci andrai, stasera stessa, or ora... Prepotenze, neanco Dio! Vieni con me.
      - Dove?
      - In casa Alcozèr!
      - Ora?
      - Ora stesso. Il tempo di vestirmi. A che ora suoli andarci tu?
      - Alle sei e mezzo.
      Ciro guardò l'orologio, poi esclamò, stupefatto:
      - Quanto sei vile!
      - Perché? - balbettò Pepè.
      - Sono le sette meno un quarto... Ma non importa: li troveremo... In cinque minuti son bell'e vestito.
      Scappò sù di corsa. Ridiscese, prima dei cinque minuti, che s'infilava ancora la giacca.
      - Aspetta, Ciro... la cravatta - gli disse Pepè, aggiustandogli il giro che gli usciva fuori del colletto.
      - Inezie! Pensi alla cravatta? - gridò il Coppa, fermandosi a fulminar con uno sguardo il cognato; poi gli diede uno spintone. - Cammina! Te li metto subito a posto io, senza bastone.
      E s'avviò con Pepè. Camminando, fremeva, e di tanto in tanto esclamava:
      - Ah sì?... Aspetta, aspetta. Ditelo a me, adesso, che in casa Alcozèr non deve andarci nessuno. Ci vado io. Ah, fai prepotenze tu? Aspetta, aspetta.
      Pepè gli arrancava accanto, come un cagnolino. Presso la casa dell'Alcozèr, alzò gli occhi a guardare, e disse piano al cognato, impallidendo:
      - C'è: eccolo lì, con gli altri.
      - Tira via! Non guardare! - gl'impose Ciro.
      - Tutt'e cinque, - aggiunse pianissimo Pepè.
      Mauro Salvo infatti era alla posta. Il satellizio dei fratelli e dei cugini si teneva a breve distanza, più in là. Appena Mauro scorse Pepè in compagnia del Coppa si staccò dal muro a cui stava appoggiato con le spalle, si tolse una mano di tasca, e venne loro incontro, a passo lento, guardando Ciro, a cui si rivolse, fermandosi in mezzo alla strada.
      - Col vostro permesso, avvocato: una parolina a Pepè.
      Ciro gli si parò di fronte, vicinissimo, lo guardò negli occhi, con le ciglia aggrottate, le mascelle convulse; si tirò con due dita il labbro inferiore, poi gli disse:
      - Con Pepè per il momento parlo io, e non permetto che gli parli nessuno. Lo dico a voi e lo dico pure ai vostri parenti che stanno là ad aspettarvi. Se volete dirla a me, la parolina, sono ai vostri comandi.
      - Preghiere sempre, don Ciro! - gli rispose Mauro, cacciandosi l'altra mano in tasca e alzandosi su la punta dei piedi, come se per ingozzar quel rifiuto avesse bisogno di stirarsi a quel modo.
      - A un'altra volta, col comodo vostro: non mancherà tempo.
      E s'allontanò.


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