Luigi Pirandello
I vecchi e i giovani
Parte I
II
Pregati da
Flaminio Salvo, che dagli affari di banco e dai tanti altri negozii a cui
attendeva non aveva mai un momento libero, Ignazio Capolino, già suo cognato, e
Niní De Vincentis, giovane amico di casa, scendevano il giorno dopo in carrozza
da Girgenti a Valsanía per dare le opportune disposizioni per la villeggiatura:
incarico graditissimo all'uno e all'altro, per due diverse, anzi opposte
ragioni.
I carri,
sovraccarichi di suppellettile, erano partiti da un pezzo da Girgenti, e a
quell'ora dovevano essere già arrivati a Valsanía. Il discorso, tra i due in
quella carrozza padronale del Salvo, era caduto su le proposte nozze di donna
Adelaide sorella di don Flaminio, col principe di
Laurentano.
"No no: è
troppo! è troppo!" diceva sogghignando Capolino. "Povera Adelaide, è troppo,
dopo cinquant'anni d'attesa! Diciamo la
verità!"
Niní De Vincentis
batteva di continuo le pàlpebre, come per contenere nei begli occhi neri a
mandorla il dispiacere per quella derisione. Nello stesso tempo, con
l'atteggiamento del volto pallido affilato avrebbe voluto mostrare l'intenzione
almeno d'un sorriso, per regger la cèlia e rispondere in qualche maniera
all'ilarità pur cosí smodata e sconveniente di
Capolino.
"Già, nozze per
modo di dire!" seguitò questi, implacabile, lí che nessuno lo sentiva (Niní, il
buon Niní, pasta d'angelo, era men che nessuno). "Per modo di dire... perché,
lasciamo andare! sarà bene, sarà male: la legge è legge, caro mio, e le opinioni
politiche e religiose, se cóntano, cóntano poco di fronte a lei. Ora il
principe, lo sai, conditio sine qua non, vuole che il matrimonio sia
soltanto religioso, non ammette l'altro per le sue idee. Dunque, matrimonio
senza effetti legali, mi spiego? Sarà una cosa bella, oh! gustosa. anche
coraggiosa, non dico di no: ma quella povera Adelaide,
via!"
E Capolino si mise a
ghignar di nuovo, come se nel suo concetto Adelaide Salvo non fosse la donna piú
adatta a quell'eroismo di nuovo genere che si richiedeva da lei, a quella sfida
coraggiosa alla società civilmente
costituita.
Niní De
Vincentis taceva e continuava a sbattere gli occhi, ancora con quel sorriso
afflitto, rassegato sulle labbra, sperando che il suo silenzio impacciasse la
foga derisoria del compagno.
Ma che! Ci sguazzava,
Capolino.
"Perché lo fa?"
riprese, ponendosi davanti la sposa zitellona. "Per entrare nel mondo con tutti
i diritti di signora? Ma io direi che ne esce, piuttosto. Va a rinchiudersi a
Colimbètra! E, monacazione sotto tutti i rispetti, mi spiego? Il principe, a
buon conto, ha sessantacinque anni
sonati."
S’interruppe a un
atto del De Vincentis.
"Eh,
caro mio! Lo so, tu fai professione d'angelo; ma qua si tratta di matrimonio; e
ci si deve pur pensare all'età. Vis, vis, vis: lo dicono anche i
sacerdoti! Dunque, mondo, niente. Diventa principessa, principessa di
Laurentano: dirò, regina di Colimbètra! Sí: per me, per te, per tutti noi che
riteniamo il matrimonio religioso, non pur superiore al civile, ma il solo, il
vero che valga; quello che, bastando davanti a Dio, dovrebbe strabastare per gli
uomini. Tutti gli altri però, ohé, non hanno mica l'obbligo di riconoscerlo e di
rispettare lei, fuori di Colimbètra, quale principessa di Laurentano; e Lando,
per esempio, il figlio del primo letto, di rispettarla quale seconda madre. E
che le resta allora? La ricchezza... Non lo fa per questo certamente, ricca
com'è di casa sua. Se lo facesse per questo, oh! povera Adelaide, ho una gran
paura che le andrebbe a finire come a
me..."
E qui rise di nuovo
Capolino, ma come una lumaca nel
fuoco.
Dopo una lunghissima
lotta, era riuscito a ottenere in moglie una sorella di Flaminio Salvo, mezza
gobba, minore di due anni di donna Adelaide, e formarsi con la dote di lei uno
stato invidiabile. Allegrezza in sogno, ahimè! Povero mondo, e chi ci crede!
Cinque anni dopo, morta la moglie, sterile per colmo di sventura, aveva dovuto
restituire al Salvo la dote, ed era ripiombato nello stato di prima, con tante e
tante idee, una piú bella e piú ardita dell'altra nel fecondo cervello alle
quali purtroppo, cosí d'un tratto, era venuta meno la benedetta leva del denaro.
S’era concesso sei mesi di profondo scoramento e poi altri sei d'invincibile
malinconia, sperando con quello e con questa d'intenerire il cuore dell'altra
sorella del Salvo, di donna Adelaide appunto. Ma il cuore di donna Adelaide non
s’era per nulla intenerito: ben guardato nell'ampia e solida fortezza del busto,
aveva per due anni resistito all'assedio di lui, assedio di gentilezze, di
cortesie, di devozione; aveva infine respinto d'un colpo un assalto supremo e
decisivo, e Capolino s’era dovuto ritirare in buon ordine. Altri sei mesi di
profondo scoramento, d'invincibile malinconia; e, finalmente, munito d'una
seconda moglie, giovane, bella e vivacissima, era ritornato con piú fortuna
all'assalto della casa di Flaminio
Salvo.
Le male lingue
dicevano che in grazia di Nicoletta Spoto, cioè della moglie giovane, bella e
vivacissima, la quale era diventata subito quasi la dama di compagnia di donna
Adelaide e dell'unica figliuola di don Flaminio, Dianella, Capolino era bucato
nel banco in qualità di segretario e d'avvocato consulente. Ma se vogliamo
pigliare tutte le mosche che volano... Da un anno egli viveva nel lusso e
nell'abbondanza; tanto lui quanto la moglie si servivano da padroni dei landò
pomposi e dei superbi cavalli della scuderia del Salvo; elegantissimo cavaliere,
ogni domenica, sú e giú per il viale della Passeggiata, pareva che egli ne
facesse la mostra; e infine col favore incondizionato di Flaminio Salvo era
riuscito a imporsi, a farsi riconoscere capo del partito clericale militante, il
quale, dopo il ritiro dell'onorevole Fazello, gli avrebbe offerta fra pochi
giorni la candidatura alle imminenti elezioni politiche
generali.
All'anima candida
di Niní De Vincentis non balenava neppur da lontano il sospetto che tutta
quell'acredine di Capolino per donna Adelaide potesse avere una ragione
recondita e inconfessabile. Come non credeva che qualcuno mai si fosse potuto
accorgere del suo timido, puro e ardentissimo amore per Dianella Salvo, la
figlia ora inferma di don Flaminio, cosí non s’era mai accorto, prima, del vano
ostinato assedio di Capolino a donna Adelaide, né credeva ora minimamente alle
chiacchiere maligne sul conto di quella cara signora Nicoletta, seconda moglie
di Capolino. Non sapeva scoprir secondi fini in nessuno; meno che mai poi quello
del denaro. Era, su questo punto, come un cieco. Da parecchi anni dopo la morte
dei genitori, si lasciava spogliare, insieme col fratello maggiore Vincente, da
un amministratore ladro, chiamato Jaco Pacia, il quale aveva saputo arruffar
cosí bene la matassa degli affari, che il povero Niní, avendogliene tempo
addietro domandato conto, per poco non ne aveva avuto il capogiro. E s’era
dovuto recare una prima volta al fianco del Salvo per un prestito di denaro su
cambiali. Parecchie altre volte era poi dovuto ritornare allo stesso banco; e.
alla fine per consiglio dell'amministratore, aveva fatto al Salvo la proposta di
saldare il debito con la cessione della magnifica tenuta dl Primosole,
proposta che il Salvo aveva subito accettata, acquistandosi per giunta la piú
fervida gratitudine di Niní, a cui naturalmente non era passato neppure per il
capo il sospetto d'un accordo segreto tra il Pacia, suo amministratore, e il
banchiere. Amava Dianella Salvo e in don Flaminio non sapeva veder altro che il
padre di lei.
Ora avrebbe
tanto desiderato che la fanciulla, scampata per miracolo a un'infezione
tifoidea, fosse andata a recuperar la salute a Primosole, nell'antica
villa di sua madre, dove tutto le avrebbe parlato di lui, con la mesta, amorosa
dolcezza dei ricordi materni. Ma i medici avevano consigliato al Salvo per la
figliuola aria di mare. E Niní pensava, dolente, che a Valsanía sul mare egli
non avrebbe potuto recarsi a vederla se non di rado. Si confortava per il
momento col pensiero che avrebbe sorvegliato lui alla preparazione della camera,
del nido che l'avrebbe accolta per qualche
mese.
Come se Capolino
avesse letto il pensiero del suo giovane amico, di cui facilmente e da un pezzo
aveva indovinato l'ingenua aspirazione, suggellò, dopo la risata, con un
basta! il primo discorso, e riprese, fregandosi le
mani:
"Tra poco saremo
arrivati. Tu attenderai alla camera di Dianella; sarà meglio. Io penserò per
donna Vittoriona.
Niní,
soprappreso cosí, mostrò una viva costernazione per quest'ultima, ch’era la
moglie del Salvo, pazza da molti
anni.
" Sí sí" disse,
"bisogna star bene attenti, che questo cambiamento, Dio liberi, non la turbi
troppo."
"Non c'è pericolo!"
lo interruppe Capolino. "Vedrai che neppure se n'accorgerà. Seguiterà
tranquillamente la sua interminabile calza. Fa le calze al Padreterno, lo sai.
Notte e giorno; e vuole che lavorino con lei anche le due suore di San Vincenzo
che l'assistono. Pare che questa calza sia già grande come un
tartanone.
Niní crollò il
capo mestamente.
La vettura,
poco oltre la Seta, entrò nel fèudo, dallo stradone. Il cancello era rovinato:
una sola banda, tutta arrugginita, era in piedi, fissa a un pilastro; l'altro
pilastro era da gran tempo diroccato. La strada carrozzabile, che attraversava
quest'altra parte del fèudo, ceduta anch’essa a mezzadria, era come tutto il
resto in abbandono, irta di cespugli, tra i quali si vedevano i solchi lasciati
di recente dai carri con la
suppellettile.
Niní De
Vincentis guardò tutt'intorno quella desolazione senza dir nulla, ma seguitò a
parlar per sé e per lui
Capolino.
"La malatuccia"
disse, facendo una smusata "avrà poco da stare allegra qua, non ti
pare?"
"È molto triste"
sospirò Niní.
" Non dico
soltanto per il luogo" soggiunse Capolino. "Anche per quelli che vi stanno. Due
tomi, caro mio. Adesso vedrai. Mah... Questa villeggiatura si farà piú per donna
Adelaide che non ci viene, che per Dianella. E Dianella, che forse lo sospetta,
la soffrirà in pace, al solito, per amore della zia.. Eh! Flaminio è un
grand'uomo, non c'è che
dire!
"L'aria però è buona"
osservò il giovanotto per attenuare, almeno un po', l'aspro giudizio del
compagno sul Salvo.
"Ottima!
ottima!" sbuffò Capolino, il quale, da questo punto, Si chiuse in un silenzio
accigliato, fino all'arrivo alla villa.
I carri erano
giunti da poco, insieme con la giardiniera che aveva portato due servi
del Salvo, il cuoco, una cameriera e due tappezzieri. Donna Sara Alàimo, sul
pianerottolo in cima alla scala, batteva le mani, festante, a quelle quattro
montagne di bella roba su i
carri.
"Presto, scaricate!"
ordinò ai servi e ai carrettieri Capolino, smontando dalla vettura e agitando la
mazzettina. Poi, salita in fretta la scala, domandò a donna Sara: "Don
Cosmo?"
Ed entrò senza
aspettar risposta, nel vecchio Cascinone con Niní De Vincentis, che gli andava
dietro come un cagnolino
sperduto.
"
Scaricate!"ripeté uno dei servi, rifacendo tra le risate dei compagni il tono di
voce e il gesto imperioso di quel padrone
improvvisato.
Don Cosmo
s’aggirava come una mosca senza capo per le stanze lavate di fresco da donna
Sara, la quale fin dal giorno avanti, appena saputa la notizia della prossima
Venuta del Salvo, s’era sentita tutta allargare dalla contentezza e, subito
messa in gran da fare, aveva anche persuaso a don Cosmo che sarebbe stato bene
sgombrare questa e quella stanza della decrepita mobilia, perché gli ospiti
ricconi non vedessero tutta quella miseria in una casa di principi. "Ma no! ma
no! ma no!" aveva cominciato subito a strillare don Cosmo dalla sua stanza,
udendo il fracasso di quei poveri vecchi mobili strappati a forza dai loro posti
e trascinati; e donna Sara, stupefatta da quella protesta: "No? Come no, se me
l'ha detto lei?". Perché avveniva sempre cosí: donna Sara parlava, parlava, e
don Cosmo, dal canto suo, pensava, pensava, facendo finta di tanto in tanto
d'udire, con qualche rapido cenno del capo, quando piú lo pungeva il fastidio
del suono di quelle interminabili parole. Questi cenni erano interpretati
naturalmente da donna Sara come segni d'assentimento; la sopportazione con cui
don Cosmo simulava d'ascoltarla, come riconoscimento della saggezza con cui lei
governava la casa e il mondo; e tanto lontana era arrivata nell'interpretare a
suo modo quei segni e quella sopportazione del suo padrone, che forse qualche
sera se lo sarebbe preso per mano e condotto a letto, se tutt'a un tratto don
Cosmo, sbarrando tanto d'occhi e prorompendo in un'esclamazione inopinata, non
le avesse fatto crollare tutto il castello delle sue
supposizioni.
"Don Cosmo
onorandissimo!" esclamò Capolino, scoprendolo alla fine, dopo aver girato anche
lui di qua e di là per trovarlo. "In gran confusione, eh?
Perbacco!"
" No, no,"
s’affrettò a rispondere don Cosmo per troncar subito le cerimonie, con le nari
arricciate per il lezzo acre di muffa che ammorbava il cascinone, umido ancora
per l'insolita lavatura. "Cercavo una stanza appartata, dove starmene senza
recare incomodo."Capolino fece per protestare; ma don Cosmo lo fermò a
tempo:
"Lasciatemi dire!
Ecco... comodo io, comodi loro: va bene cosí? In capo, in capo, tenete in
capo!"
Alzò una mano, cosí
dicendo, a carezzare l'elegantissima barbetta nera di Niní De
Vincentis.
" Ti sei fatto un
bel ragazzo, figliuolo mio, e cosí cresciuto, mi fai accorgere di quanto sono
vecchio! Tuo fratello Vincente? sempre
arabista?
"Sempre!" rispose
Niní, sorridendo.
"Ah! Quei
quattordici volumi d'arabo manoscritti dovrebbero pesare come tanti macigni, nel
mondo di là, sull'anima del conte Lucchesi-Palli che volle farne dono morendo
alla nostra Biblioteca per rovinare codesto povero
figliuolo!"
"Ne ha già
interpretati dieci," disse Niní. "Gliene restano ancora quattro, ma grossi
cosí!"
"Faccia presto!
faccia presto!" concluse don Cosmo paternamente. "E anche tu, figliuolo mio,
bada... badate alle cose vostre: so che vanno male!
Giudizio!"
Capolino intanto,
presso la finestra, s’industriava di farsi specchio della vetrata aperta, e si
lisciava sulle gote le fedine, già un po' brizzolate. Bello non era davvero, ma
aveva occhi fervidi e penetranti che gli accendevano simpaticamente tutto il
volto bruno e magro.
Sentendo cadere il discorso tra il Laurentano e Niní, finse di star lí a
determinare i punti cardinali della
villa.
"Esposizione a
mezzogiorno, è vero? Ma se l'era scelta per lei, questa camera, don
Cosmo?"
"Questa o un'altra,"
rispose il Laurentano. "Camere ce n'è d'avanzo, vedrete; ma tutte cosí, vecchie
e in pessimo stato. Uscendo di qua.. . (no, senza cerimonie: scusate, che gusto
c'è a dire che non è vecchio quello che è vecchio? Si vede!)... dicevo, uscendo
di qua, abbiamo questo lungo corridojo, che divide in due parti il casermone: le
camere da questa parte sono a mezzogiorno; quelle di là, a tramontana. La sala
d'ingresso interrompe di qua e di là il corridojo, e divide la villa in due
quartieri uguali, salvo che di qua, in fondo, abbiamo un camerone, il cui uscio
è alle mie spalle; di là, invece, abbiamo una terrazza. È
semplicissimo."
"Ah bene
bene bene" approvò Capolino. "E dunque abbiamo anche un
camerone?"
Don Cosmo
sorrise, negando col capo; poi spiegò che cosa era il "camerone", e come ridotto
e da chi custodito.
"Per
amor di Dio!" esclamò
Capolino.
" Sarebbe meglio
perciò," concluse don Cosmo, "che disponeste l'abitazione nel quartiere di là,
libero del tutto. Io m'ero scelta apposta questa camera.
Capolino
approvò di nuovo; e poiché i servi eran già venuti sú col primo carico, s’avviò
con Niní per l'altro quartiere. Don Cosmo rimase in quella camera, dove con
l'ajuto di donna Sara trasportò tutti i suoi libracci. La povera casiera,
sentendo quanto pesava tutta quella erudizione, non riusciva a capacitarsi come
mai don Cosmo che se l'era messa in corpo, potesse vivere poi cosí sulle nuvole.
Don Cosmo, ancora con le nari arricciate, non riusciva a capacitarsi, invece,
perché quella mattina ci fosse tutto quel puzzo d'umido. Ma forse non
distingueva bene tra il puzzo e il fastidio che gli veniva dal pensare che or
ora, per l'arrivo degli ospiti, tutte le sue antiche abitudini sarebbero
frastornate, e chi sa per quanto
tempo.
Di lí a poco,
Capolino ritornò, lasciando solo di là il De Vincentis, che s’era dimostrato
molto piú adatto di lui alla bisogna: cosí almeno dichiarò. In verità, veniva
per porre a effetto una delle ragioni per cui s’era volentieri accollato
l'incarico del Salvo: quella cioè di scoprir l'umore di don Cosmo circa il
matrimonio del fratello, o di "tastargli il polso" su quell'argomento, com'egli
diceva tra sé.
Non già che
sperasse che ormai quelle nozze potessero andare a monte; ma, conoscendo la
diversità, anzi l'opposizione inconciliabile tra i due modi di pensare e di
sentire del Salvo e di don Cosmo, gli piaceva supporre che qualche attrito,
qualche urto potesse nascere dal soggiorno di quello a Valsanía. Era cosí
astratta e solitaria l'anima di don Cosmo, che la vita comune non riusciva a
penetrargli nella coscienza con tutti quegli infingimenti e quelle arti e quelle
persuasioni che spontaneamente la trasfigurano agli altri, e spesso, perciò,
dalla gelida vetta della sua stoica noncuranza lasciava precipitar come valanghe
le verità piú crude.
"Uh
quanti libri!" esclamò Capolino entrando. "Già lei studia sempre... Romagnosi,
Rosmini, Egel, Kant..."
A
ogni nome letto sul dorso di quei libri sgranava gli occhi, come se vi ponesse
punti esclamativi sempre piú
sperticati.
"Poesie!"
sospirò don Cosmo, con un gesto vago della mano, socchiudendo gli
occhi.
"Come come? Don
Cosmo, non capisco. Filosofia, vorrà
dire."
"Chiamatela come
volete," rispose il Laurentano, con un nuovo sospiro. "Da studiare, poco o
niente: c'è da godere, sí, della grandezza dell'ingegnaccio umano, che su
un'ipotesi, cioè su una nuvola, fabbrica castelli: tutti questi varii sistemi di
filosofia, caro avvocato, che mi pajono... sapete che mi pajono? chiese,
chiesine, chiesacce, di vario stile, campate in
aria."
"Ah già, ah già..."
cercò d'interrompere Capolino, grattandosi con un dito la
nuca.
Ma don Cosmo, che non
parlava mai, toccato giusto su quell'unico tasto sensibile, non seppe
trattenersi:
"Soffiate,
rúzzola tutto; perché dentro non c'è niente: il vuoto, tanto piú opprimente,
quanto piú alto e solenne
l'edifizio."
Capolino s’era
tutto raccolto in sé, per raccapezzarsi, incitato dalla passione con cui don
Cosmo parlava, a rispondere, a rintuzzare; e aspettava, sospeso, una pausa;
avvenuta, proruppe:
"Però..."
"No, niente!
Lasciamo stare!" troncò subito don Cosmo, posandogli una mano su la spalla.
"Minchionerie, caro
avvocato!"
Per fortuna, in
quella, Mauro Mortara, sulla spianata innanzi alla villa dalla parte che
guardava la vigna e il mare, si mise a chiamare col suo solito verso "pïo, pïo,
pïo" gl’innumerevoli colombi, a cui soleva dare il pasto due volte al
giorno.
Don Cosmo e Capolino
s’affacciarono al balcone. Anche Niní si sporse a guardare dalla ringhiera
dell'ultimo balcone in fondo, e poi dal terrazzo s’affacciarono i servi e le
cameriere e i tappezzieri.
Era ogni volta, tra quel candido fermento d'ali, una zuffa terribile, giacché la
razione delle cicerchie era rimasta da tempo la stessa, mentre i colombi s’erano
moltiplicati all'infinito e vivevano, ormai, quasi in istato selvaggio per il
fèudo e per tutte le contrade vicine. Sapevano l'ora dei pasti e accorrevano
puntuali a fitti nugoli fruscianti, da ogni parte: invadevano, tubando
d'impazienza, in gran subbuglio, i tetti della villa, della casa rustica, del
pagliajo, del colombajo, del granajo, del palmento e della cantina, e se Mauro
tardava un po', dimentico o assorto nelle sue memorie, una numerosa comitiva si
spiccava dai tetti e andava a sollecitarlo dietro la porta della nota camera a
pianterreno: la comitiva a poco a poco diventava folla e in breve tutta la
spianata ferveva d'ali e grugnava, mentre per aria tant'altri si tenevan su le
ali sospesi a stento, non sapendo dove
posarsi.
Don Cosmo pensò con
dispiacere che quel giorno, intanto, Mauro non sarebbe salito a desinare;
gliel'aveva detto la sera
avanti:
"Questa è l'ultima
volta che mangio con voi. Perché mi farete la grazia di credere che non verrò a
sedermi a tavola con Flaminio
Salvo."
Ora se ne stava giú
tra i suoi colombi a testa bassa, aggrondato. Capolino l'osservava dal balcone,
come se avesse sotto gli occhi una bestia
rara.
"Lo saluto?" domandò
piano a don Cosmo.
Questi
con la mano gli fe' cenno di
no.
"Orso, eh?" soggiunse
Capolino. "Ma un gran bel
tipo!"
"Orso," ripeté don
Cosmo, ritirandosi dal
balcone.
Andati nella sala
da pranzo dell'altro quartiere, già riccamente addobbata dai tappezzieri,
Capolino tentò di nuovo di "tastare il polso" a don Cosmo sul noto argomento.
Non sarebbe piú certo ricascato a muovergliene il discorso dai libri di
filosofia.
Don Cosmo era
distratto nell'ammirazione di quella sala, resa cosí d'improvviso
irriconoscibile.
"Prodigio
d'Atlante!" esclamava, battendo una mano su la spalla di Niní De Vincentis. "Mi
par d'essere a Colimbètra!"
Subito Capolino colse la palla al
balzo:
"Lei non ci va piú da
anni, a Colimbètra, eh?"
Don
Cosmo stette un po' a
pensare.
"Da circa
dieci."
E restò sospeso,
senza aggiunger altro. Ma Capolino, fissando il gancio per tirarlo a
parlare:
"Da quando vi morí
sua cognata, è vero?"
"Già,"
rispose, asciutto, il
Laurentano.
E Capolino
sospirò:
"Donna Teresa
Montalto... che dama! che lutto! Vera donna di stampo
antico!"
E, dopo una pausa,
grave di simulato rimpianto, un nuovo sospiro, d'altro
genere:
"Mah! Cosa bella
mortal passa e non
dura!"
Donna Sara
Alàimo, la casiera, che si trovava in quel punto a servire in tavola, per
rialzarsi agli occhi degli ospiti dalla sua indegna condizione di serva, fu
tentata d'interloquire e sospirò timidamente con un languido
risolino:
"Metastasio!"
Niní si voltò
a guardarla, stupito; don Cosmo accomodò la bocca per emettere un suo riso
speciale, fatto di tre oh! oh! oh! pieni, cupi e profondi. Ma Capolino,
nel vedersi minacciato d'aver guastate le uova nel paniere sul piú bello,
rimbeccò, stizzito:
"Leopardi, Leopardi..."
"Petrarca, Petrarca, scusate, caro avvocato!" protestò don Cosmo, aprendo le
mani. "Me n'appello a Niní!"
"Ah, già, Petrarca, che bestia! Muor giovine colui che al cielo è
caro..." si riprese subito Capolino. "Confondevo... E lei dunque... dunque
lei non rivede il fratello da
allora?"
Don Cosmo riprese a
un tratto l'aria addormentata, socchiuse gli occhi; confermò col
capo.
"Sempre sepolto qui!"
spiegò allora Capolino al De Vincentis, come se questi non lo sapesse. "Altri
gusti, capisco... anzi diametralmente opposti, perché don Ippolito ama la... la
compagnia, non sa farne a meno... E forse, io dico, dopo la sciagura, avrebbe
molto desiderato di non restar solo, senza parenti attorno... Ma, lei qui; il
figlio sempre a Roma...
e..."
Don Cosmo, che aveva
già compreso, ma a suo modo, l'intenzione di Capolino, per tagliar corto uscí a
dire:
"E dunque fa bene a
riammogliarsi, volete dir questo? D'accordo! Tu intanto," soggiunse,
rivolgendosi a Niní, "bello mio, non ti risolvi
ancora?"
Niní, nel vedersi
cosí d'improvviso tirato in ballo, s’invermigliò
tutto:
"Io?"
"Guarda come sè fatto
rosso!" esclamò Capolino, scoppiando a ridere, dalla
rabbia.
"Dunque c'è, dunque
c'è?" domandò don Cosmo, picchiandosi con un dito il petto, dalla parte del
cuore.
"Altro se c'è!"
esclamò Capolino, ridendo piú
forte.
Niní, tra le spine,
mortificato, urtato da quella risata sconveniente, protestò con qualche
energia:
"Ma non c'è
nientissim'affatto! Per carità, non dicano codeste
cose!"
"Già! San Luigi
Gonzaga!" riprese allora Capolino, prolungando sforzatamente la risata. "O
piuttosto... si, dov'è donna Sara? lui sí, davvero, Metastasio... un eroe di
Metastasio, don Cosmo! o diciamo meglio, un angelo... ma un angelo, non come ad
Alcamo, badiamo! Sa, don Cosmo, che ad Alcamo chiamano angelo il
porchetto?"
Niní s’inquietò
sul serio; impallidí; disse con voce
ferma:
"Lei mi secca,
avvocato!"
"Non parlo piú!"
fece allora Capolino,
ricomponendosi.
Don Cosmo
rimase afflitto, senza comprendere in prima: poi aprí la bocca a un ah!
che gli rimase in gola. Si trattava forse della figlia del Salvo? Ah, ecco,
ecco... Non ci aveva pensato. Non la conosceva ancora. Ma sicuro! benissimo! Una
fortuna per quel caro Niní! E glielo volle
dire:
"Non ti turbare,
figliuolo mio. È una cosa molto seria. Non dovresti perder tempo, nella tua
condizione."
Niní si torse
sulla seggiola quasi per resistere, senza gridare, alla puntura di cento spilli
su tutto il corpo. Capolino rattenne il fiato e aspettò che la valanga
precipitasse. Don Cosmo non seppe rendersi ragione dell'effetto di quelle sue
parole e guardò, stordito, prima l'uno, poi
l'altro.
"M'è scappata
qualche altra minchioneria?" domandò. "Scusate. Non parlo piú neanche
io."
Niní viveva veramente
in cielo, in un cielo illuminato da un suo sole particolare, lí lí per sorgere,
non sorto ancora, e che forse non sarebbe sorto mai. Lo lasciava lí, dietro le
montagne dure della realtà, e preferiva rimanere nel lume roseo e vano d'una
perpetua aurora, perché il sole, sorgendo, non dovesse poi tramontare, e perché
le ombre, inevitabili, rimanessero tenui e quasi diafane. Già gli s’era
affacciato il dubbio che il Salvo ormai non avrebbe accolto bene la sua
richiesta di nozze, dato che egli si fosse mai spinto a fargliela. Ma aveva
sempre rifuggito dall'accogliere e ponderare questo dubbio per non turbare il
purissimo sogno di tutta la sua vita. E non perché quel dubbio gliel'avesse
impedito, ma perché veramente gli mancava il coraggio di tradurre in atto un
ideale cosí altamente vagheggiato che quasi temeva si potesse guastare al minimo
urto della realtà, non s’era mai risoluto, non che a fare la richiesta, ma
nemmeno a dichiararsi apertamente con Dianella Salvo. Ora, il sospetto che egli
potesse farlo per la dote della ragazza che avrebbe rimesso in sesto le sue
finanze, gli cagionò un acutissimo cordoglio, gli avvelenò la gioja di quel
servigio reso per amore, e che invece poteva parere interessato; e, come se
tutt'a un tratto il suo sole avesse dato un tracollo, tutto improvvisamente gli
s’oscurò, e quando le stanze furon messe in ordine, ed egli con la gola stretta
d'angoscia fece un ultimo giro d'ispezione, non seppe posare, come s’era
proposto, sul guanciale del letto di Dianella il bacio dell'arrivo, perché ella,
senza saperlo, ve lo trovasse la sera, andando a dormire.
Don Cosmo e
Capolino, piccoli, neri, sotto un cielo altissimo, cupamente infocato dal
tramonto, s’erano messi intanto a passeggiare innanzi alla vecchia villa, per il
lungo, diritto viale, che fa quasi orlo, a manca, al ciglio, d'onde sprofonda
ripido un burrone ampio e profondo, detto il
vallone.
Pareva che
lí l'altipiano per una convulsione tellurica si fosse spaccato innanzi al
mare.
La tenuta di Valsanía
restava di qua, scendeva con gli ultimi olivi in quel burrone, gola d'ombra
cinerulea, nel cui fondo sornuotano i gelsi, i carubi, gli aranci, i limoni
lieti d'un rivo d'acqua che vi scorre da una vena aperta laggiú in fondo nella
grotta misteriosa di San
Calògero.
Dall'altra parte
del burrone, alla stessa altezza, eran le terre alberate di Platanía che a
mezzogiorno scendono minacciose sulla linea ferroviaria, la quale, sbucando dal
traforo sotto Valsanía, corre quasi in riva al mare fino a Porto
Empedocle.
La zona di fiamma
e d'oro del tramonto traspariva in un fantastico frastaglio di tra il verde
intenso degli alberi lontani, di là dal burrone. Qua, su i mandorli e gli olivi
di Valsanía, alitava già la prima frescura d'ombra, dolce, lieve e malinconica,
della sera.
Quest'ora
crepuscolare, in cui le cose, nell'ombra calante, ritenendo piú intensamente le
ultime luci, quasi si smaltano nei lor chiusi colori, era alla solitudine di don
Cosmo piú d'ogn'altra gradita. Egli aveva costante nell'animo il sentimento
della sua precarietà nei luoghi dove abitava, e non se n'affliggeva. Per questo
sentimento che si trasfondeva lieve e vago nel mistero impenetrabile di tutte le
cose, ogni cura, ogni pensiero gli erano insopportabilmente gravi. Figurarsi,
ora, come schiacciante dovesse riuscirgli il discorso di Capolino, che
s’aggirava fervoroso intorno alle imprese fortunate del Salvo, a un gran disegno
che costui meditava, insieme col direttore delle sue zolfare, l'ingegnere
Aurelio Costa, per sollevar le sorti dell'industria zolfifera, miserrime da
parecchi anni.
"Coscienza
nuova, la sua," diceva Capolino. "Lucida, precisa e complicata, don Cosmo, come
un macchinario moderno, d'acciajo. Sa sempre quel che fa. E non sbaglia
mai!"
"Beato lui!" ripeteva
don Cosmo con gli occhi socchiusi, in atto di rassegnata
sopportazione.
"E
credentissimo, sa!" seguitava Capolino. "Veramente
divoto!"
"Beato
lui!"
"È una meraviglia
come, tra tante brighe, riesca a trovar tempo e modo di badare anche al nostro
partito. E con che impegno ne ha sposato la
causa!"
Ma, poco dopo,
Capolino cambiò discorso, accorgendosi che don Cosmo non gli prestava ascolto.
Gli si fece piú accosto, gli toccò il braccio e aggiunse piano, con aria
mesta:
"Quel povero Niní!
Son sicuro che ci piange, sa? per quel po' di baja che gli abbiamo dato a
tavola. Innamoratissimo, povero figliuolo! Ma la ragazza, eh! purtroppo, non è
per lui."
"Fidanzata ad
altri?" domandò don Cosmo,
fermandosi.
"No no:
ufficialmente, no!" negò subito Capolino. "Ma... zitto però, mi raccomando: non
deve saperlo neanche l'aria! Io credo, caro don Cosmo, che la ragazza sia in
fondo piú malata d'anima che di
corpo."
"Toccata,
eh?"
"Toccata. Questa forse
è l'unica cosa mal fatta di suo padre. Qua Flaminio ha sbagliato... eh, non c'è
che dire, ha sbagliato!"
Don
Cosmo si rifermò, crollò piú volte il capo e disse, serio
serio:
"Vedete dunque che
sbaglia anche lui, caro
avvocato?"
"Ma se il
diavolo, creda, ci volle proprio cacciar la coda, quella volta!" riprese
Capolino. "Lei saprà che Flaminio... sarà dieci anni, altro che dieci! saranno
quindici di sicuro! Insomma lí, poco piú poco meno, fu a un pelo di morire
affogato... Non lo sa? E come! Ai bagni di mare, a Porto Empedocle. Una cosa
buffa, creda, buffa e atroce al tempo stesso! Per un pajo di
zucche..."
"Di zucche?
Sentiamo," disse don Cosmo, contro il suo solito,
incuriosito.
"Ma sí,"
seguitò Capolino. "Prendeva un bagno, ai Casotti. Non sa nuotare e, per
prudenza, si teneva tra i pali del recinto, dove l'acqua, sí e no, gli arrivava
al petto. Ora (il diavolo!) vide un pajo di zucche galleggiare accanto a lui,
lasciate in mare forse da qualche ragazzo. Le prese. Stando accoccolato, perché
l'acqua lo coprisse fino al collo - (com'è brutto l'uomo nell'acqua, don Cosmo
mio, l'uomo che non sa nuotare!) - gli venne la cattiva ispirazione d'allungar
la mano a quel pajo di zucche e cacciarsele sotto con la cordicella che le
teneva unite; ci si mise a seder sopra, e, siccome le zucche, naturalmente,
spingevano, e lui aveva lasciato il sostegno del palo per veder se quelle
avessero tanta forza da sollevargli i piedi dal fondo a un tratto, patapúmfete!
perdette l'equilibrio e tracollò a testa giú,
sott'acqua!"
"Oh, guarda!"
esclamò don Cosmo,
costernato.
"Si figuri,"
riprese Capolino, "come cominciò a fare coi piedi per tornare a galla! Ma, per
disgrazia, i piedi gli s’erano impigliati nella cordicella e, naturalmente, per
quanti sforzi facesse sott'acqua, non li poteva piú tirare al
fondo."
"Zitto! zitto! ohi
ohi ohi..." fece con Cosmo contraendo le dita e tutto il
volto.
Ma Capolino
seguitò.
"Badi che è buffo
davvero rischiar d'affogare in un recinto di bagni, in mezzo a tanta gente che
non se ne accorgeva e non gli dava ajuto, non sospettando minimamente ch’egli
fosse lí con la morte in bocca! E sarebbe affogato, affogato com'è vero Dio, se
un ragazzotto di tredici anni - questo Aurelio Costa, che ora è ingegnere e
direttore delle zolfare del Salvo ad Aragona e a Comitini - non si fosse accorto
di quei due piedi che si azzuffavano disperatamente a fior d'acqua e non fosse
accorso, ridendo, a
liberarlo..."
"Ah,
capisco..." fece don Cosmo. "E la figliuola,
adesso...
"La figliuola...
la figliuola... "masticò Capolino. "Flaminio, capirà, dovette disobbligarsi con
quel ragazzo e si disobbligò nella misura del pericolo che aveva corso e del
terrore che s’era preso. Gli dissero che era figlio d'un povero staderante
all'imbarco dello zolfo..."
"Il Costa, già, Leonardo Costa," interruppe don Cosmo. "Amico mio. Viene a
trovarmi qua, qualche domenica, da Porto
Empedocle."
"Saprà dunque
che sta con Flaminio, adesso?" soggiunse Capolino. Flaminio lo levò dalle
stadere e gli diede un posto nel suo gran deposito di zolfi su la spiaggia di
levante. Al figlio Aurelio, poi, volle dar lui la riuscita, senza badare a
spese; non solo, ma se lo tolse con sé, lo fece crescere in casa sua coi
figliuoli, con Dianella e con quell'altro bimbo che gli morí. Anche questa
disgrazia contribuí certo a fargli crescere l'affetto per il giovine. Ma,
affetto, dico, fino a un certo punto. Per la stessa ragione per cui ora non
darebbe la figlia a Niní De Vincentis, non la darebbe mai, m'immagino, neanche
ad Aurelio Costa, suo dipendente, si
figuri!
"Ma!" esclamò don
Cosmo, scrollando le spalle. "Ricco com'è... con una figlia
sola..."
"Eh no... eh
no...," rispose Capolino. "Capisco, a un caso di lui, tutte le ricchezze
cascheranno per forza in mano a qualcuno, a un genero, a quello che sarà. Ma
vorrà ben pesarlo, prima, Flaminio! Non è uomo da rosee romanticherie. Può
averne la figlia... E, romanticherie nel vero senso della parola, badi! Perché,
di questa sua vera e segreta malattia sono a conoscenza io, per certe mie
ragioni particolari; ne è a conoscenza credo, anche Flaminio, o almeno ne ha il
sospetto; ma lui, l'ingegnere Costa (ottimo giovine, badiamo! giovine solido,
cosciente del suo stato e di quanto deve al suo benefattore) non ne sa nulla di
nulla, non se l'immagina neppur lontanamente; glielo posso assicurare, perché ne
ho una prova di fatto, intima.
L'ingegnere..."
A questo
punto Capolino s’interruppe, scorgendo in fondo al viale un uomo, che veniva
loro incontro di corsa,
gesticolando.
"Chi è là?"
domandò, fermandosi,
accigliato.
Era Marco
Prèola, tutto impolverato, arrangolato, in sudore, con le calze ricadute su le
scarpacce rotte. Stanco
morto.
"Ci siamo! ci siamo!"
si mise a gridare, appressandosi. "E
arrivato!"
"L'Auriti?"
domandò Capolino.
"Sissignore!" riprese il Prèola. "Per le elezioni: non c'è piú dubbio! Vengo di
corsa apposta da Girgenti."
Si tolse il cappelluccio roccioso, e con un fazzoletto sudicio s’asciugò il
sudore che gli grondava dal capo
tignoso.
" Mio nipote?"
domandò, frastornato e stupito, don
Cosmo.
Subito Capolino, con
aria rammaricata, prese a informarlo delle dimissioni del Fazello, e delle
premure che si facevano su lui perché accettasse la candidatura, e delle voci
che correvano a Girgenti su questa venuta inattesa di Roberto Auriti. Voci...
voci a cui egli, Capolino, non voleva prestar fede per due ragioni: prima, per
il rispetto che aveva per l'Auriti, rispetto che non gli consentiva di supporre
che, non chiamato, venisse a contendere un posto che il Fazello lasciava
volontariamente. La compagine del partito che rappresentava la maggioranza del
paese, come per tante prove indiscutibili s’era veduto, rimaneva salda, anche
dopo il ritiro di Giacinto Fazello. L'altra ragione era piú intima, ed era
questa: che gli sarebbe doluto, troppo doluto, d'aver per avversario non
temibile, in una lotta ímpari, uno che, non ostanti le divergenze d'opinioni in
famiglia, era parente pur sempre dei Laurentano ch’egli venerava e della cui
amicizia si onorava. No, no: preferiva credere piuttosto che l'Auriti fosse
venuto a Girgenti solo per riveder la madre e la
sorella.
"Ma che dice,
avvocato?" proruppe Marco Prèola, scrollandosi dalle spalle quel lungo, faticoso
discorso, col quale Capolino, senza parere, aveva voluto dare un saggio delle
sue attitudini politiche. Se sono andati a prenderlo alla stazione quattro
mascalzoni, studentelli dell'Istituto Tecnico? se sono arrivate in paese la
mafia e la massoneria, capitanate da Guido Verònica e da Giambattista Mattina?
Non c'è piú dubbio, le dico! E venuto per le
elezioni."
Mentre Capolino e
il Prèola discutevano tra loro, gli occhi, il naso, la bocca di don Cosmo
facevano una mimica speciosissima: si strizzavano, s’arricciavano, si
storcevano... Vivendo in quell'esilio, assorto sempre in pensieri eterni, con
gli occhi alle stelle, al mare lí sotto, o alla campagna solitaria intorno, ora,
cosí investito da tutte quelle notizie piccine, si sentiva come pinzato da tanti
insettucci fastidiosi.
"Gesú! Gesú! Pare impossibile... Quante
minchionerie..."
"E allora,
un bicchiere di vino, si-don Co'" esclamò, per concluder bene, Marco Prèola.
"Vossignoria mi deve fare la grazia d'un bicchiere di vino. Non ne posso piú! Ho
girato tutta Girgenti per trovare il nostro carissimo avvocato; m'hanno detto
che si trovava qua a Valsanía, e subito mi sono precipitato a piedi per la Spina
Santa. Mi guardino! Ho la gola, propriamente, arsa."
"Andate,
andate a bere alla villa" gli rispose don
Cosmo.
"E non c'è il
Mortara?" domandò il Prèola. "Ho paura" aggiunse ridendo. "Mi sparò, or è
l'anno... Dice che venivo qua nel fèudo a caccia dei suoi colombi. Parola
d'onore, si-don Cosmo, non è vero! Per le tortore venivo. Forse, qualche volta,
non dico, avrò sbagliato. Tiro e, botta e risposta, mi sento arrivare... Fortuna
che mi voltai subito. Pum! Nelle natiche, una grandinata... Privo di Dio, le
giuro, si-don Co', che se non era per il rispetto alla famiglia Laurentano... La
doppietta ce l'avevo anch’io e, parola
d'onore..."
Dal fondo del
viale giunse in quella un rumore di sonaglioli. I tre, che s’erano accostati
alla villa conversando, si voltarono a guardare. Capolino
chiamò:
"Niní! Niní! Ecco le
vetture! Arrivano!"
Niní
s’affrettò a scendere dalla villa, ne scesero anche i servi, donna Sara Alàimo e
la cameriera, già amiche tra
loro.
Erano due
vittorie. Nella prima stava don Flaminio con la figliuola; nella seconda,
la demente con due infermiere. Don Cosmo s’aspettava di vedere smontare da una
delle vetture anche donna Adelaide, la sposa: restò disilluso. Niní De Vincentis
non ebbe il coraggio di farsi avanti a offrire il braccio a Dianella. Col cuore
tremante e la vista annebbiata dalla commozione, le intravide il volto affilato,
pallidissimo sotto la spessa veletta da viaggio, e la seguí con lo sguardo,
mentre, appoggiata al braccio di Capolino, tutta avvolta in una pesante
mantiglia, saliva pian piano la scala, come una vecchina, tra gli augurii
ossequiosi di donna Sara
Alàimo.
Donna Vittoria,
smontata dalla vettura faticosamente per l'enorme pinguedine, restò tra le due
infermiere con gli occhi immobili, vani nell'ampio volto pallido, incorniciato
dall'umile scialle nero, che teneva in capo; guardò cosí un pezzo don Cosmo; poi
aprí le labbra carnose e quasi bianche a un sorriso squallido e disse in un
inchino:
" Signor
Priore!"
Una delle
infermiere la prese per mano, mentre don Cosmo, accanto al Salvo, socchiudeva
gli occhi, afflitto. Niní andò dietro alla
demente.
"Grazie" disse
Flaminio Salvo, stringendo forte la mano a don Cosmo. "E non dico altro a
lei."
"No, no..." s’affrettò
a rispondere il Laurentano, turbato e commosso ancora dal triste spettacolo,
sentendo un'improvvisa, profonda pietà per quell'uomo che, nella sua invidiata
potenza, con quella stretta di mano gli confidava in quel punto il sentimento
della propria miseria.