Luigi Pirandello
I vecchi e i giovani
Parte I
III
"Di qua, di
qua, mi segua," disse al signore che gli veniva dietro il vecchio cameriere
dalle piote sbieche in fuori, che lo facevano andare in qua e in là con le gambe
piegate.
Attraversarono su i
soffici tappeti polverosi tre stanze morte in fila, in ognuna delle quali il
cameriere, passando, apriva gli scuri dei vecchi finestroni tinti di verde. Le
stanze tuttavia rimanevano in un'angustiosa penombra, sia per la pesantezza dei
drappi, sia per la bassezza della casa sovrastata dagli edifizii di contro che
paravano. Aperti gli scuri, il cameriere guardava la stanza e sospirava, come
per dire: "Vede com'è arredata bene? E intanto non
figura!".
Pervennero cosí al
salone in fondo, lugubre e solenne, dal palco scompartito, in rilievo, ornato di
dorature.
Il signore trasse
da un elegante portafogli un biglietto da visita stemmato, ne piegò un lembo e
lo porse al cameriere, il quale, indicando un uscio nel salone,
disse:
"Un momentino. C'è di
là il cavalier Prèola."
"Prèola padre?"
"Figlio."
"E cavaliere per
giunta?"
"Per me," protestò
il vecchio inchinandosi profondamente con la mano al petto, "tutti i padroni
miei, cavalieri!"
E,
andandosene su i piedi sbiechi, lesse sottecchi, sul biglietto da visita:
Cav. Gian Battista
Mattina.
"(Costui -
dunque - cavaliere autentico,
pare)."
Il Mattina rimase in
piedi, cogitabondo in mezzo al salone; poi scrollò le spalle, seccato; volse uno
sguardo distratto in giro; vide uno specchio alla parete di fronte e vi
s’appressò. In quel vasto specchio, dalla luce tetra, la propria immagine gli
apparve come uno spettro; e ne provò un momentaneo turbamento
indefinito.
Spirava da tutti
i mobili, dal tappeto dalle tende quel tanfo speciale delle case antiche, d'una
vita appassita nell'abbandono. Quasi il respiro d'un altro tempo. Il Mattina si
guardò di nuovo attorno con una strana costernazione per la immobilità
silenziosa di quei vecchi oggetti, chi sa da quanti anni lì senz'uso, e si
accostò di piú allo specchio per scrutarsi davvicino, movendo pian piano la
testa, stirandosi fin sotto gli occhi stanchi le punte dei folti baffi
conservati neri da una mistura, in contrasto coi capelli precocemente grigi che
conferivano cotal serietà al suo volto bruno. A un tratto, un lunghissimo
sbadiglio gli fece spalancare e storcere la bocca, e all'emissione del fiato
fradicio contrasse il volto in un'espressione di nausea e di tedio. Stava per
scostarsi dallo specchio, allorché sul piano della mensola, chinando gli occhi,
scorse qua e là tanti bei mucchietti di tarlatura disposti quasi con arte, e si
chinò a mirarli con curiosità. Avevano lavorato bene quelle tarme, e nessuno
intanto pareva tenesse in debito conto la lor fatica... Eppure, il frutto,
eccolo là, bene in vista, che diceva: "Questo è fatto. Portate via!". Stese una
mano a uno di quei mucchietti, ne prese un pizzico e strofinò le dita. Niente!
Neanche polvere... E, guardandosi i polpastrelli dell'indice e del pollice, andò
a sedere su una comoda poltrona accanto al canapè. Seduto, la scosse un po',
come per accertarsi della
solidità.
"Neanche
polvere... Niente!"
Con una
smorfia, trasse dal tavolinetto tondo innanzi al canapè un album, in capo al
quale era il ritratto del padrone dl casa, il canonico
Agrò.
Era sempre parso al
Mattina che il canonico Pompeo Agrò avesse una strana somiglianza con un
uccellaccio, di cui non rammentava il nome. Certo il naso, largo alla base,
acuminato in punta, s’allungava in quel volto come un becco Era però negli
occhietti grigi, vivi, sotto la fronte alta e angusta, tutta la malizia astuta,
sottile e tenace, di cui l'Agrò godeva
fama.
Il Mattina esaminò
quel viso, come se nei tratti di esso volesse scorgere la ragione dell'invito
ricevuto la sera avanti. Che diamine poteva voler da lui l'Agrò? Il dissidio di
questo canonico gran signore col partito clericale, dissidio che suscitava tanto
scandalo in paese, era proprio proprio vero, o non piuttosto un atteggiamento
concertato, insidioso, per tradir la buona fede dell'Auriti, penetrar nel campo
avversario e sorprenderne le mosse? Eh, a fidarsi d'una volpe... Quel colloquio
segreto col Prèola... Fosse tutto un
tranello?
Alzò gli occhi,
volse di nuovo lo sguardo attorno e di nuovo dall'immobilità silenziosa di quei
vecchi oggetti senz'uso e senza vita si sentí turbato, quasi che essi, per
averne egli scoperto le magagne, lo spiassero ora piú
ostili.
Udí per le tre
stanze in fila la voce del vecchio cameriere, che
ripeteva:
"Di qua, di qua,
mi segua."
Posò l'album e
guardò in direzione
dell'uscio.
"Oh!
Verònica..."
"Caro Titta,"
rispose Guido Verònica, fermandosi in mezzo al
salone.
Si tolse le lenti
per pulirle col fazzoletto pronto nell'altra mano; strizzò gli occhi fortemente
miopi, e con l'indice e il pollice della mano tozza si stropicciò il naso
maltrattato dal continuo pinzar delle lenti; poi si appressò per sedere su la
poltrona di fronte al Mattina; ma questi, alzandosi, lo prese sotto il braccio e
gli disse piano:
"Aspetta,
ti voglio far vedere..."
E
lo condusse innanzi alla mensola per mostrargli tutti quei mucchietti di
polviglio.
Il Verònica, non
comprendendo che cosa dovesse guardare, miope com'era, si chinò fin quasi a
toccar col naso il piano della
mensola.
"Tarli?" disse poi,
ma senza farci caso, anzi guardando freddamente il Mattina, come per domandargli
perché glieli avesse mostrati: e andò a sedere su la
poltrona.
" Tu
quoque?" domandò allora il Mattina, rimasto male e volendo dissimular la
stizza.
"Non so di che si
tratti" gli rispose il Verònica con l'aria di chi voglia nascondere un
segreto.
"Neanch’io"
s’affrettò a soggiungere il Mattina con indifferenza. "Ho ricevuto un
invito..."
E posò gli occhi
senza sguardo su la fronte del Verònica sconciata da tre lunghi raffrigni in
vario senso: ferite ripor tate in
duello.
"Torni da
Roma?"
"No. Da
Palermo."
"E ti trattieni
molto?"
"Non
so."
Dimostrava chiaramente
il Verònica con quelle secche risposte che voleva restar chiuso in sé, per non
darsi importanza con ciò che - volendo - avrebbe potuto dire. Difatti il suo
cómpito, adesso, era questo: mostrarsi seccato, anzi stanco e sfiduciato. Per
sua disgrazia, egli - e tutti lo sapevano - aveva un ideale: la Patria,
rappresentata, anzi incarnata tutta quanta nella persona di un vecchio glorioso
statista, il Crispi, battuto alcuni anni addietro in una tumultuosa seduta
parlamentare, dopo una lotta piccina e sleale. Per questo vecchio glorioso s’era
cimentato in tanti e tanti duelli, riportandone quasi sempre la peggio; aveva
respinto su i giornali con inaudita violenza di linguaggio le ingiurie degli
oppositori. Ma ormai, caduto quel Vecchio, anche la patria per lui era caduta:
trionfava la marmaglia; non era noja, la sua; era propriamente schifo di vivere.
Non credeva affatto che Roberto Auriti potesse vincere, quantunque sostenuto dal
Governo; ma quel suo Vecchio venerato - che ancora intorno all'avvenire della
patria s’illudeva come un fanciullo - gli aveva imposto di recarsi a Girgenti a
combattere per l'Auriti; sapeva che questi, piú che per le premure del Governo,
s’era piegato ad accettare la lotta per la spinta del vecchio statista; ed
eccolo a Girgenti. Tanto per non venir meno al dovere, rispondeva ora all'invito
dell'Agrò, d'un canonico, lui che amava i preti quanto il fumo negli occhi.
C'era; bisognava che s’adattasse. Non ostante però la sfiducia con cui s’era
lasciato andare a quella impresa elettorale, si sentiva alquanto stizzito nel
vedersi messo ora alla pari con un Mattina qualunque, appajato con costui nella
piccola congiura che il canonico Agrò pareva volesse
ordire.
Il Mattina si mosse
su la poltrona, sbuffando e prendendo un'altra
positura.
" Si fa
aspettare..."
"Chi c'è di
là?" domandò Guido Verònica, senz'ombra
d'impazienza.
Il Mattina si
protese e disse sottovoce:
"Prèola figlio, la lancia spezzata d'Ignazio Capolino. L'ho saputo dal
cameriere. Che te ne pare? Domando e dico, che cosa ci stiamo a fare qua noi
due?"
" Sentiremo..."
sospirò il Verònica.
"Non
vorrei che..."
Il Mattina
s’interruppe, vedendo aprir l'uscio ed entrare lungo e curvo su la sua magrezza,
il canonico Pompeo Agrò.
Facendo cenno con ambo le mani ai due ospiti di rimaner seduti, disse con
vocetta stridente:
"Chiedo
vènia... Stieno, stieno seduti, prego. Caro Verònica; cavaliere esimio. Qua,
cavaliere, segga qua, accanto a me; non ho paura de' suoi peccatacci di
gioventú."
"Sí, gioventú!"
sorrise il Mattina, mostrando il capo
grigio.
Il Canonico trasse
dal petto un vecchio orologino
d'argento.
"Il pelo, eh, lei
m'insegna, e non il vizio. Già le dieci perbacco! Ho perduto molto tempo...
Mah!"
S’alterò in volto;
restò un momento perplesso, se dire o non dire; poi, come attaccando una coda al
sospiro rimasto in tronco:
"La gratitudine, un mito!"
Tentennò il capo, e riprese:
" Sarebbero disposti lor signori a venire un momentino con
me?"
"Dove?" domandò il
Mattina.
"In casa di Roberto
Auriti... tanto amico mio, tanto fin dall'infanzia, lo sanno. I nostri padri,
piú che fratelli, compagni d'arme; quello di Roberto a Milazzo, e il mio cadde
al Volturno. Storia, questa. Se ne dovrebbe tener conto in paese, invece di
menare tanto scalpore per la mia... come la chiamano? diserzione... eh?
diserzione, già. La veste! Sissignori. Ma sotto la veste c'è pure un cuore; e ce
l'ho anch’io per la santa amicizia, e anche... e
anche..."
Il Canonico forse
voleva aggiungere "per la patria", lo lasciò intendere col gesto e pose un freno
alla foga del sentimento generoso. Si sforzava di parlar dipinto, con un
risolino arguto sulle labbra, strofinandosi di continuo sotto il mento le mani
ossute, come se le lavasse alla fontanella delle sue frasi polite, sí, non però
fluenti e limpide e continue, ma quasi a sbruffi, esitanti spesso e con curiosi
ingorghi esclamativi. Di tratto in tratto, nel sollevar le pàlpebre stanche,
lasciava intravedere qualche obliquo sguardo fuggevole, cosí diverso
dall'ordinario, che subito ciascuno immaginava quell'uomo dovesse,
nell'intimità, non esser quale appariva, aver piú d'una afflizione profondamente
segreta che lo rendeva astuto e cattivo, e travagli d'animo
oscuri.
"Prima d'andare,"
riprese cangiando tono, "due paroline per intenderci. Avrei meditato... messo
sú, o mi sembra, un piccolo piano di battaglia. Non la pretendo a generale, veh!
Lor signori combatteranno; io porterò il gamellino. Ecco. Ben ponderato tutto,
il nostro piú temibile avversario chi è? Il Capolino? No; ma chi gli fa spalla:
il Salvo, già suo cognato, potentissimo. Ora io da buona fonte so che il Salvo
fino a pochi giorni fa non voleva permettere in verun modo questa... questa
comparsa del Capolino."
"Si,
sí," confermò il Mattina. "A causa delle trattative di matrimonio tra la sorella
e il principe di Laurentano.
"Oh! Benissimo," approvò il Canonico. "Ma il Salvo concesse la grazia di fargli
spalla appena seppe che il principe non intendeva d'aver riguardo alla parentela
dell'Auriti e ordinava non ne avesse parimenti il partito. Stando cosí le cose,
le sorti del nostro Roberto sono quasi disperate. Non
c'illudiamo."
"Eh, lo so!"
sbuffò il Verònica.
Subito
il Canonico lo fermò con un gesto della mano,
seguitando:
"Ma se. noi,
ecco, pognamo che noi, signori miei, a dispetto della libertà concessa dal
principe, riuscissimo a legar mani e piedi al colosso, al Salvo... eh? Come?
Ecco: sarebbe questo il mio
piano."
Pompeo Agrò, data
cosí l'esca alla curiosità, stette un pezzo con le mani spalmate, sospese sotto
il mento; poi le ritrasse, richiudendole; chiuse anche gli occhi per
raccogliersi meglio; lasciò andar fuori un altro: "Ecco!", come un gancio per
sostener l'attenzione dei due ascoltatori, e rimase ancora un po' in
silenzio.
"Lor signori sanno
le condizioni con cui si effettuerà il matrimonio per espressa volontà del
Laurentano. Ora queste condizioni, secondo che io ho divisato, dovrebbero
diventare il punto... come diremo? vulnerabile del
Salvo."
"Il tallone
d'Achille," suggerí il Mattina, scotendosi, per dire una cosa
nuova.
"Benissimo!
d'Achille!" approvò l'Agrò. "E mi spiego. Preme al Salvo certamente, avendole
accettate, che il figlio del principe, residente a Roma (mi par che si chiami
Gerlando, eh? come il nonno: Gerlandino, Landino) non sia o almeno, non si
mostri apertamente contrario a questo matrimonio del padre. Anzi so che il Salvo
ha posto come patto la presenza del giovine alla cerimonia nuziale, per il
riconoscimento del vincolo da parte sua e come impegno da gentiluomo per
l'avvenire. Io non conosco codesto Gerlandino, ma so che è di pelo... cioè,
diciamo, di stampa ben altra dal
padre."
"Opposta!" esclamò
il Veronica. "Io lo conosco
bene."
"Oh bravo!" soggiunse
l'Agrò. "Ammesso dunque che non abbia neppure le idee di Roberto Auriti, tra i
due, voglio dire tra questo e un Capolino, dovrebbe aver piú cara, m'immagino,
la vittoria del parente."
Guido Verònica, a questo punto, si scosse e sospirò a lungo, come per vôtarsi
dell'illusione accolta per un momento, e
disse:
"Ah, no, non credo,
sa! non credo proprio che Lando si impicci di codeste
cose..."
"Mi lasci dire,"
riprese il Canonico, con voce agretta. "A me non cale che se ne impicci: vorrei
saper solamente da lei che è stato tanto tempo a Roma e conosce il giovine, se
l'antagonismo, diciamo cosi, tra don Ippolito Laurentano e donna Caterina Auriti
sussista anche tra i loro
figliuoli.
"No, questo no!"
rispose subito il Verònica. "Sono anzi in buon accordo,
amici."
"Mi basta!" esclamò
allora il Canonico picchiandosi col dorso d'una mano la palma dell'altra. "Mi
strabasta! Se della parentela con l'Auriti non vuole tener conto il padre, può
invece, o potrebbe, tener conto il figlio. Ed ecco legato il Salvo, il
colosso!"
Pompeo Agrò volle
godere un momento di quella prima vittoria guardando acutamente, con un
sorrisino un po' smorboso, il Verònica, poi il Mattina, già accampati entrambi
nel suo piano, stimato almeno meditabile. Quindi, come un generale non contento
di vincere soltanto a tavolino, con le leggi della tattica, scese a osservare le
difficoltà materiali
dell'impresa.
"Il punto,"
disse, "sarà persuadere a quel benedetto Roberto di servirsi di questo
spediente. Giacché, per lo meno abbiamo bisogno di una lettera privata di
Gerlandino, da far vedere o conoscere in qualche modo al Salvo, ecco! o diretta
al Salvo stesso, che sarà difficile, o a Roberto, o a qualche amico: a lei, per
esempio, caro Verònica: insomma, una prova, un
documento..."
Guido Verònica
non volle dichiarare ch’egli non poteva attendersi una lettera da Lando, col
quale non aveva alcuna intimità; stimò, sí, ingegnoso il piano dell'Agrò, ma
forse inattuabile per la troppa schifiltà di Roberto il quale... il quale... sí,
benemerenze patriottiche...
""Onestà immacolata!"" soggiunse
l'Agrò.
"Sí"," concesse il
Verònica, "e anche ingegno, se vogliamo; ma... ma... ma... al dí d'oggi... e gli
secca il Prefetto e par che gli secchino anche gli amici... basta! Sarà un affar
serio! io, per me, mi metterei anche la pelle alla rovescia per ajutarlo,
però..."
S’interruppe; si
batté la fronte con una mano;
esclamò:
"Ho trovato!
Giulio... c'è Giulio... il fratello di Roberto, giusto in questo momento nella
segreteria particolare di S. E. il ministro D'Atri: eh, perbacco! a lui sí posso
scrivere... è intimissimo di Lando. Da Giulio si otterrà facilmente quello che
vogliamo, senza farne saper nulla a Roberto, che opporrebbe chi sa quanti
ostacoli. Ecco fatto!"
"Bravissimo! bravissimo!" non rifiniva piú d'esclamare il Canonico,
gongolante.
Solo il Mattina
era rimasto come una barca, la cui vela non riuscisse a pigliar vento. Vedendo
quell'altre due barche filar cosi leste senza piú curarsi di lui rimasto floscio
indietro si sentí umiliato, volle dir la sua e, non potendo altro, si provò a
soffiare un po' di vento contrario e a parar qualche secca o qualche
scoglio.
"Già,"disse,"ma non
sarà troppo tardi, signori miei? Riflettiamo! Prima che la lettera arrivi, anche
facendo con la massima sollecitudine, di qui a Roma, chiama e rispondi! Ci vorrà
una settimana; dico poco. Il Salvo avrà tutto il tempo, di compromettersi e non
si potrà piú tirare
indietro.
" Eh, lo vorrò
vedere!" esclamò il Canonico con un sogghignetto, e alzando una mano, come per
salutarlo da lontano. "No, sa! no, sa! Mai piúú mai piúú, mai piúú... Vuole che
gli stia poi tanto a cuore il
Capolino?"
"Ma la propria
dignità, scusi!" si risentí il cavaliere, come se fosse in ballo la sua. "Bella
figura ci farebbe! Ma sa che oggi stesso nella sala di redazione
dell’Empedocle si proclamerà ufficialmente la candidatura di Capolino con
l'intervento del Salvo e di tutti i maggiorenti del partito? Non
scherziamo!"
"In questo
caso," saltò a dire il Verònica, "per far piú presto, si spedirà a Giulio ora
stesso, d'urgenza, un telegramma in cifre. Roberto ha un cifrario particolare
col fratello. Non perdiamo piú tempo... Piuttosto... aspetti!... ora che ci
penso... il Selmi...
perdio!"
"Selmi?" domandò il
Canonico, stordito da quel nome che cadeva all'improvviso come un ostacolo
insormontabile su la via cosí bene spianata. "Il deputato
Selmi?"
"Corrado Selmi,
sí,"rispose il Verònica. "L'ho visto a Palermo... Ha promesso a Roberto di
venire qua, per lui, e che anzi avrebbe tenuto un
discorso..."
"Ebbene?" fece
l'Agrò. "Anzi, un parlamentare di tanta autorità... vero
patriota..."
"Lasci andare!
lasci andare!" lo interruppe il Verònica, socchiudendo gli occhi, scotendo una
mano. "Patriota... va bene! Bacato, bacato, bacato, caro Canonico... Debiti...
compromissioni... storie... e Dio non voglia che il povero Roberto per causa di
lui... Basta. Non è per questo, adesso... Ma per Lando
Laurentano..."
E Guido
Verònica fece piú volte schioccar le dita, come per strigarsele dell'impiccio
che gli dava il pensiero del
Selmi.
"Non capisco..."
osservò il Canonico. "Forse tra il Laurentano e il
Selmi?..."
"Eh, altro!"
esclamò il Verònica. "Nimicizia
mortale!"
"Affar di donne,"
aggiunse il Mattina, serio, socchiudendo gli occhi, soddisfattissimo di quella
contrarietà."
E il Canonico,
incuriosito:
" Ah sí? di
donne?"
" Storia vecchia,"
rispose il Verònica. "Finita, a quanto pare, ma, fino a un anno fa, Corrado
Selmi - lo dico perché tutta Roma lo sa - fu l'amante di donna Giannetta D'Atri,
moglie del Ministro d'oggi."
Il Canonico levò una mano:
"Uh, che cose! E questa... e questa donna Giannetta chi
sarebbe?"
"Ma una Montalto!"
disse il Verònica. "Cugina di Lando... Lei sa che la prima moglie del principe
fu una Montalto."
"Ah, ecco!
E forse il giovine...?"
"Da
ragazzo, tra cugini... Questo non lo so bene. Il fatto è che Lando Laurentano
provocò due volte il Selmi... Ora, capirà, se questi viene qua a sostenere la
candidatura di Roberto..."
"Già, già, già... ora comprendo!" esclamò il Canonico. "Si dovrebbe impedire!
Ah, si dovrebbe impedire!"
"Forse non sarà difficile," concluse il Verònica. "Perché Corrado Selmi avrà da
combattere per sé nel suo collegio. Basta, vedremo. Adesso andiamo subito da
Roberto."
Il Canonico si
alzò.
"Pronti," disse. "La
vettura è giú. Un momentino, col loro permesso. Prendo il cappello e il
tabarro."
Poco dopo, il
Verònica e il Mattina rividero il vecchio cameriere dai piedi sbiechi, parato da
automedonte, e salirono in vettura con
l'Agrò.
Venendo su dal
Ràbato, per piazza San Domenico notarono subito un movimento insolito lungo la
via maestra. Quattro, cinque monellacci, correndo e fermandosi qua e là,
strillavano il giornaletto clericale Empedocle, che pareva andasse a
ruba.
"L'Impíducli!
L'Impíducli!"
E per
tutto si formavano capannelli, qua a leggere, là a commentar vivamente qualche
articolo, certo violento, stampato in quel
foglio.
Il Verònica, vedendo
passare presso la vettura uno di quegli strilloni, non seppe resistere alla
tentazione, e mentre il Canonico - che per le vie della città, in quei giorni,
si sentiva in mezzo a un campo nemico - consigliava: ""Meglio a casa! meglio a
casa!"" si fece buttare nella vettura una copia del giornale. La prese il
Mattina.
" Leggo
io?"
E cominciò a leggere
sottovoce l'articolo di fondo, quello che, indubbiamente, suscitava tanto
fermento nel pubblico.
Era
intitolato Patrioti per bisogni di famiglia, e si riferiva senza far
nomi, ma con turpe evidenza - alla memoria di Stefano Auriti, padre di Roberto,
alterando con vilissima calunnia la storia romanzesca del suo amore per Caterina
Laurentano: la fuga dei due giovani poco prima della rivoluzione del 1848; la
parte presa da Stefano Auriti a questa rivoluzione "non già per amor di patria,
ma appunto per bisogni di famiglia, cioè per la conquista d'una dote insieme con
le grazie del suocero per forza, ricco, liberale, sí, ma, ahimè, d'una
inflessibilità superiore a ogni
previsione".
Man mano,
leggendo, la voce del Mattina si alterava dallo sdegno, acceso maggiormente
dall'indignazione dell'Agrò, che prorompeva di tratto in tratto, accennando di
turarsi le orecchie e buttandosi
indietro:
"Oh vigliacchi! oh
vigliacchi!"
A un certo
punto il Mattina si vide strappar di mano il giornale. Guido Verònica,
pallidissimo, col volto scontraffatto dall'ira, aprí lo sportello della vettura,
ne balzò fuori e, senza sentire i richiami del Canonico, tanto per cominciare,
si lanciò di furia tra un crocchio di gente, in mezzo al quale stava il
Capolino, a cui schiaffò in faccia il giornale, stropicciandoglielo sul muso.
L'aggressione fu cosí fulminea, che tutti restarono per un momento storditi e
sgomenti, poi s’avventarono addosso all'aggressore: accorse gente, vociando, da
tutte le parti: nel mezzo era la mischia, fitta: volavano bastonate, tra urli e
imprecazioni. Il Mattina non ebbe tempo né modo di cacciarsi in difesa del
Verònica; ma, poco dopo, l'abbaruffío, lí nel forte, si allargò: la rissa era
partita. Il Canonico chiamava il Mattina, smaniando, dalla vettura. Questi udí
alla fine e si volse; ma vide in quella il Verònica, senza cappello, senza
lenti, strappato, ansimante tra una frotta di giovani che evidentemente lo
difendevano, e accorse. Ritornò, poco dopo, alla vettura del
Canonico:
"Niente" disse;
"stia tranquillo; andiamo pure; è tra amici; se l'è cavata
bene."
Il Canonico tremava
tutto.
"Signore Iddio,
Signore Iddio... che scandalo... Ma perché?... Schifosi... Non conveniva
sporcarsi le mani... E ora che
avverrà?"
"Oh," fece con una
certa sprezzatura il Mattina. "Un duello; è semplicissimo... o una querela, se
la santa religione non consentirà a quel farabutto di dar conto delle
turpitudini che pure gli ha permesso di
sfognare."
"La religione,
scusi, lasciamola stare, cavaliere," disse Pompeo Agrò pacatamente. "Non c'entra
e... mi lasci dire! non c'entra neppure il
Capolino."
"Come
no?"
"Mi lasci dire. Io so
chi ha scritto l'articolo, quella sozzura. Il Prèola, il Prèola venuto stamani
da me, non so da chi spedito... Brutto ingrato! feccia
d'uomo!"
"Ma il Capolino,"
obbiettò il Mattina, "è direttore del giornale e ha lasciato passar
l'articolo."
"Giurerei,
metterei le mani sul fuoco," rispose il Canonico, "che non lo lesse prima. È mio
avversario, veda, eppure lo riconosco incapace d'una siffatta bassezza... E ora
che troveremo in casa di Roberto?"
Donna Caterina
Auriti-Laurentano abitava con la figlia Anna, vedova anch’essa, e col nipote,
una vecchia e triste casa sotto la Badía
Grande.
La casa era
appartenuta a Michele Del Re, marito di Anna che null'altro aveva potuto
lasciare in eredità alla vedova giovanissima, all'unico figliuolo, Antonio, che
ora aveva circa diciott'anni
.
Vi si saliva per angusti
vicoli sdruccioli, a scalini, malamente acciottolati, sudici spesso, intanfati
dai cattivi odori misti esalanti dalle botteghe buje come antri, botteghe per lo
piú di fabbricatori di pasta al tornio, stesa lí su canne e cavalletti ad
asciugare, e dalle catapecchie delle povere donne, che passavano le giornate a
seder su l'uscio, le giornate eguali tutte, vedendo la stessa gente alla
stess’ora, udendo le solite liti che s’accendevano da un uscio all'altro tra due
o piú comari linguacciute per i loro monelli che, giocando, s’erano strappati i
capelli o rotta la testa. Unica novità, di tanto in tanto, il Viatico; il prete
sotto il baldacchino, il campanello, il coro delle divote:
Oggi e
sempre sia lodato
Nostro Dio Sacramentato...
Morto il
marito, dopo appena tre anni di matrimonio, Anna Auriti era quasi morta
anch’essa per il mondo. Fin dal giorno della sciagura non era uscita mai piú di
casa, neanche per andare a messa le domeniche; né s’era mai piú mostrata,
nemmeno attraverso i vetri delle finestre sempre socchiuse. Soltanto le monache
della Badía Grande, affacciandosi alle grate a gabbia, avevano potuto vederla
dall'alto, quand'ella veniva a prendere, sul vespro, un po' d'aria nell'angusto
giardinetto pensile della casa, ch’era addossata alla tetra, altissima fabbrica
di quella badía, già antico castello baronale dei Chiaramonte. Né certo quelle
monache avevano potuto sentire alcuna invidia di lei, reclusa come loro. Come
loro, se non piú semplicemente, vestiva di nero, sempre; come loro nascondeva,
sotto un fazzoletto nero di seta annodato al mento, i capelli, se non recisi,
non piú curati affatto, appena ravviati in due bande e attorti alla lesta dietro
la nuca; que' bei capelli castani, voluminosi, che tanta grazia un giorno,
acconciati con arte, avevano dato al suo pallido, mite, soavissimo
volto.
Donna Caterina aveva
condiviso strettamente questa clausura della figlia, vestita anch’essa di nero,
fin dal 1860, data della morte eroica del marito, a Milazzo. Rigida, magra, non
aveva l'aria di mesta rassegnazione della figlia. La macerazione cupa
dell'orgoglio, la fierezza del carattere che, a costo d'incredibili sacrifizii,
non s’era mai smentita di fronte alle piú crudeli avversità della sorte, le
avevano alterato cosí i lineamenti del volto, che nessuna traccia esso ormai
serbava piú dell'antica bellezza. Il naso le si era allungato, affilato e teso
sulla bocca vizza, qua e là rientrante per la perdita di alcuni denti; le gote
le si erano affossate; aguzzato il mento. Ma sopra tutto gli occhi, sotto le
folte sopracciglia nere, mostravano la rovina di quel volto: le pàlpebre s’eran
rilassate, una piú, l'altra meno; e quell'occhio piú dell'altro socchiuso, dallo
sguardo lento, velato d'intensa angoscia, conferiva a quella faccia spenta
l'aspetto d'una maschera di cera, orribilmente dolorosa. I capelli, intanto, le
erano rimasti nerissimi e lucidi, quasi per dileggio, per far risaltare meglio
lo scempio di quelle fattezze e smentir la credenza che i dolori facciano
incanutire. Aveva sofferto tutto donna Caterina Laurentano, anche la fame, lei
nata nel fasto, allevata e cresciuta fra gli splendori d'una casa principesca:
la fame, quando, domata la rivoluzione del 1848, a diciotto anni, col primo
figliuolo neonato, Roberto, aveva dovuto seguire nell'esilio, in Piemonte, il
marito, escluso con altri quarantatré dall'amnistia, e condannato alla confisca
dei pochi beni. Il padre, don Gerlando Laurentano, anch’egli tra quei
quarantatré esclusi, la aveva allora invitata ad andare con lui a Malta, suo
luogo d'esilio, a patto però che avesse abbandonato per sempre Stefano Auriti.
Lei? Aveva rifiutato sdegnosamente; e con piú sdegno aveva poi rifiutato
l'elemosina del fratello Ippolito, il quale con altri pochi indegni della
nobiltà siciliana era andato a ossequiar Satriano a Palermo, e ne aveva ottenuto
la restituzione dei beni confiscati al padre. Ed era andata a Torino col marito,
tutti e due sperduti e come ciechi, a mendicare per quel figlioletto la vita.
Nessuno degli esuli, dei fuorusciti siciliani colà, aveva voluto credere
dapprima che ella, di cosí cospicui natali, unica figliuola femmina del principe
di Laurentano, non avesse portato nulla con sé, né ricevesse soccorsi dalla
famiglia; e Stefano Auriti era stato perciò in tutti i modi ostacolato dagli
stessi compagni di sventura nella ricerca affannosa d'un posticino che gli
avesse dato pane, solo pane per la moglie e per sé. E allora ella s’era
gravemente ammalata e per cinque mesi era stata in un ospedale, ricoverata per
carità dopo infiniti stenti, e per carità il piccolo Roberto era stato allevato
in un altro ospizio. S’erano ravveduti finalmente e commossi i compagni d'esilio
e avevano ajutato a gara Stefano Auriti. Uscita dall'ospedale, ella aveva
ricevuto la notizia che il padre, don Gerlando Laurentano, era morto
volontariamente a Búrmula, di veleno. Dei dodici anni passati a Torino, fino al
1860, donna Caterina serbava ormai una memoria vaga, confusa, come di una vita
non vissuta propriamente da lei, ma piuttosto immaginata in un sogno strano e
violento, in cui tuttavia sprazzavano visioni liete, qualche momento felice e
ardente, d'entusiasmo patriottico. Incancellabilmente impressa nel cuore aveva
invece l'ora del risveglio da questo sogno: allorché le era pervenuta la notizia
che Stefano Auriti, partito col figliuolo appena dodicenne da Quarto con
Garibaldi per la liberazione della Sicilia, era caduto nella battaglia campale
di Milazzo. Neanche la grazia di farla impazzire aveva voluto concederle Iddio
in quel momento! E aveva dovuto sentire, vedere quasi, il suo cuore di moglie
straziato, colpito a morte, là in Sicilia, trascinarsi sanguinando dietro al
figliuolo giovinetto, rimasto ora senza il presidio del padre a seguitare la
guerra. Le avevano fatto a Torino una colletta, e coi due orfanelli, Giulio e
Anna, nati colà, era ritornata in Sicilia, nella patria già liberata; ma da
vedova, in gramaglie, e piú misera di come ne era partita: tra l'esultanza di
tutti, lei, con quei due piccini, vestiti anch’essi di nero. Roberto era già
entrato a Napoli con Garibaldi, e ora combatteva sotto Caserta, accanto a Mauro
Mortara. Era stata accolta in casa degli Alàimo, parenti poveri di Stefano
Auriti. Novamente il fratello Ippolito, ora riparato a Colimbètra, le aveva
profferto ajuto; e novamente, con pari sdegno, ella lo aveva rifiutato,
meravigliando e gettando nella costernazione gli Alàimo, che la ospitavano.
Povera gente, anche d'intelletto povera e di cuore, quante amarezze non le aveva
cagionate! S’era dovuta guardare da loro, come da nemici acerrimi della sua
dignità, ch’essi non intendevano; capacissimi com'erano di chiedere e
d'accettare di nascosto quell'ajuto che ella aveva rifiutato, non contenti del
lavoro che faceva in casa e che si procacciava da fuori per cavarne un giusto
compenso al poco dispendio che dava loro. S’era rialzata per poco da
quell'orribile avvilimento al ritorno di Roberto, accolto da tutto il paese
quasi in delirio. Ancora, ricordando quel giorno, quel momento, le sue misere
carni eran corse da brividi. Ah con quale esultanza, con che spasimo d'amore e
di dolore s’era serrato al seno il figliuolo, che ritornava solo, senza il
padre, l'eroe giovinetto dalla camicia rossa, che il popolo le aveva recato su
le braccia in trionfo! Il Governo provvisorio le aveva accordato un sussidio
mensile, e a Roberto - non potendo altro, per l'età - aveva accordato una borsa
di studio in Palermo. L'aveva perduta pochi anni dopo, questa borsa, Roberto,
per seguir Garibaldi alla conquista di Roma. Ma al torrente di sangue giovanile,
che avrebbe ristorato le vene esauste di Roma, la ragion di Stato aveva opposto,
ad Aspromonte, un argine di petti fraterni; e Roberto, con gli altri, era stato
preso e imprigionato, prima alla Spezia, poi al forte Monteratti a Genova.
Liberato, aveva ripreso gli studii, per poco. Nel 1866, dietro a Garibaldi, di
nuovo. Solo nel 1871 gli era venuto fatto di laurearsi in legge; e subito era
andato a Roma per provvedere, dopo tante vicende tumultuose, alla propria
esistenza e a quella dei suoi. Qualche anno dopo, lo aveva raggiunto il fratello
Giulio. Anna, a Girgenti, aveva già trovato marito, e donna Caterina -
aspettando che Roberto a Roma si facesse largo e si preparasse un avvenire degno
del suo passato, e la consolasse infine di tutte le amarezze patite e
dell'avvilimento per cui maggiormente aveva sofferto - era andata a vivere in
casa del genero Michele Del Re. La morte di questo, tre anni dopo, la sciagura
della figlia, la miseria sopravvenuta di nuovo, quasi non avevano avuto potere
di scuoterla da un dolore piú cupo e profondo, in cui era caduta. Il figlio, il
figlio da cui tanto si aspettava, il suo Roberto, fra il trambusto violento
della nuova vita nella terza Capitale, tra la baraonda oscena dei tanti che vi
s’abbaruffavano reclamando compensi, carpendo onori e favori, il suo Roberto si
era perduto! Stimando semplicemente come suo dovere quanto aveva fatto per la
patria, non aveva voluto né saputo accampare alcun diritto a compensi, aveva
forse sperato e atteso che gli amici, i compagni, si fossero ricordati di lui
dignitoso e modesto. Poi forse lo schifo lo aveva vinto e tratto in disparte. E
qual rovinío era sopravvenuto in Sicilia di tutte le illusioni, di tutta la
fervida fede, con cui s’era accesa alla rivolta! Povera isola, trattata come
terra di conquista! Poveri isolani, trattati come barbari che bisognava
incivilire! Ed eran calati i Continentali a incivilirli: calate le
soldatesche nuove, quella colonna infame comandata da un rinnegato, l'ungherese
colonnello Eberhardt, venuto per la prima volta in Sicilia con Garibaldi e poi
tra i fucilatori di Lui ad Aspromonte, e quell'altro tenentino savojardo Dupuy,
l'incendiatore; calati tutti gli scarti della burocrazia; e liti e duelli e
scene selvagge; e la prefettura del Medici, e i tribunali militari, e i furti,
gli assassinii, le grassazioni, orditi ed eseguiti dalla nuova polizia in nome
del Real Governo; e falsificazioni e sottrazioni di documenti e processi
politici ignominiosi: tutto il primo governo della Destra parlamentare! E poi
era venuta la Sinistra al potere, e aveva cominciato anch’essa con provvedimenti
eccezionali per la Sicilia; e usurpazioni e truffe e concussioni e favori
scandalosi e scandaloso sperpero del denaro pubblico; prefetti, delegati,
magistrati messi a servizio dei deputati ministeriali, e clientele spudorate e
brogli elettorali; spese pazze, cortigianerie degradanti; l'oppressione dei
vinti e dei lavoratori, assistita e protetta dalla legge, e assicurata
l'impunità agli
oppressori...
Da due giorni
- dacché Roberto era arrivato a Girgenti usciva dalla bocca amara di donna
Caterina Auriti questo fiotto veemente di crudeli ricordi, d'acerbe rampogne, di
fiere accuse. Guardando il figlio, a traverso le pàlpebre rilassate, con
quell'occhio quasi spento, si votava il cuore di tutte le amarezze accumulate in
tanti anni, di tutto il dolore, di cui l'anima sua s’era nutrita e
attossicata.
"Che speri? che
vuoi?" - gli domandava. "Che sei venuto a far
qui?"
E Roberto Auriti,
investito dalla furia della madre, taceva aggrondato, a capo chino, con gli
occhi chiusi.
Aveva ormai
quarantatré anni: già calvo, ma vigoroso, col volto fortemente inquadrato dalle
folte sopracciglia nere, quasi giunte, e dalla corta barba pur nera, se ne stava
avvilito e addogliato, come un fanciullo debole al cospetto di quella madre che,
pur cosí debellata dai dolori e dagli anni, serbava tanta energia e cosí fieri
spiriti. Si sentiva veramente sconfitto. L'animo, troppo teso negli sforzi della
prima gioventú, gli era venuto meno a poco a poco, di fronte alla nuova, laida
guerra, guerra di lucro, guerra per la conquista indegna dei posti. E ne aveva
chiesto uno anche lui, non per sé, per il fratello Giulio, e lo aveva ottenuto
al Ministero del tesoro. Egli s’era affidato agli scarsi, incerti proventi della
professione d'avvocato: proventi che tuttavia, tal volta, non gli lasciavano al
tutto tranquilla la coscienza, non già perché non li credesse meritato compenso
al proprio lavoro, allo zelo; ma perché la maggior parte delle liti gli venivano
per il tramite dei deputati siciliani suoi amici, di Corrado Selmi specialmente,
e per parecchie aveva il dubbio che le avesse vinte, non tanto per la sua
bravura, quanto per l'indebita e non gratuita ingerenza di quelli. Ma egli,
morto il cognato Michele Del Re, aveva la madre e la sorella vedova e il nipote
da mantenere a Girgenti; oltre che a Roma, da parecchi anni, non era piú solo.
Certo la madre non ignorava la convivenza di lui a Roma con una donna, di cui
per antichi pregiudizii e per la puritana rigidezza dei costumi non poteva avere
alcuna stima; non glien'aveva mai fatto parola; ma egli sentiva l'aspra condanna
nel cuore materno, un'altra amarezza - secondo lui ingiusta - che la madre non
gli mostrava per non avvilirlo, per non ferirlo vieppiú. Ma forse donna
Caterina, in quei momenti, non ci pensava nemmeno, tutt'intesa com'era a mettere
innanzi al figlio, con foga inesausta, insieme coi ricordi luttuosi della
famiglia, le condizioni tristissime del paese. E durante quest'esposizione, la
sorpresero il canonico Pompeo Agrò e il
Mattina.
Dalla cordialità
vivace, con cui Roberto Auriti lo accolse, l'Agrò comprese subito ch’egli
ignorava ancora la pubblicazione di quel turpe articolo. Presentò il Mattina,
ossequiò la signora.
Donna
Caterina aspettò che i primi convenevoli fossero scambiati e che i due amici
esprimessero la gioja di rivedersi dopo tanti anni; e riprese, rivolta
all'Agrò:
"Per carità,
Monsignore, glielo faccia intendere anche lei, che è amico sincero. Qua siamo
tra noi. Anche questo signore, se l'ha condotto lei, sarà un amico. Io voglio
persuadere mio figlio a non accettare questa lotta."
"Mamma..."pregò Roberto,
con un sorriso afflitto.
"Sí, sí," incalzò la madre. "Lo dicano loro. Che ha fatto Roberto, e perché, in
nome di che cosa viene oggi a chiedere il suffragio del suo paese? Forse in nome
di tutto ciò che fece da giovinetto, in nome del padre morto, dei sacrifizii e
degli ideali santi per cui quei sacrifizii furono fatti e quello strazio
sofferto? Farà ridere!"
"Oh,
no, perché, donna Caterina?" si provò a interrompere il canonico Agrò,
portandosi una mano al petto, quasi ferito. "Non dica
cosí."
"Ridere! ridere!"
incalzò quella con piú foga. "Lo sa bene anche lei come quegli ideali si sono
tradotti in realtà per il popolo siciliano! Che n'ha avuto? com'è stato
trattato? Oppresso, vessato, abbandonato e vilipeso! Gli ideali del Quarantotto
e del Sessanta? Ma tutti i vecchi, qua, gridano: Meglio prima! Meglio
prima! E lo grido anch’io, sa? io, Caterina Laurentano, vedova di Stefano
Auriti!"
"Mamma! mamma!"
supplicò Roberto, con le mani agli
orecchi.
E subito la
madre:
"Sí, figlio: perché
prima almeno avevamo una speranza, quella che ci sostenne in mezzo a tutti i
triboli che tu sai e non sai, là, a Torino... Nessuno vuol piú saperne, ora,
credi. Troppo cari si son pagati, quegli ideali; e ora basta! Ritórnatene a
Roma! Non voglio, non posso ammettere che tu sia venuto qua in nome del Governo
che ci regge. Tu non hai rubato, figlio, non hai prestato man forte a tutte le
ingiustizie e le turpitudini che qua si perpetrano protette dai prefetti e dai
deputati, non hai favorito la prepotenza delle consorterie locali che appestano
l'aria delle nostre città come la malaria le nostre campagne! E allora perché?
che titoli hai per essere eletto? chi ti sostiene? chi ti
vuole?"
Entrò, in questo
punto, Guido Verònica, rassettato e ricomposto. Era salito all'albergo dopo la
rissa per cambiarsi d'abito, e vi aveva lasciato detto che se qualcuno fosse
venuto a cercar di lui, egli sarebbe ritornato alle ore tre del pomeriggio.
Subito l'Agrò e il Mattina gli fecero cenno con gli occhi, che Roberto non
sapeva nulla. Donna Caterina Auriti s’era levata in piedi, per incitare il
figlio a rifiutare l'ajuto del Governo, che del resto non avrebbe avuto alcun
valore nell'imminente lotta, e ad accettar questa, invece, in nome dell'isola
oppressa. Non avrebbe vinto, certamente; ma la sconfitta almeno non sarebbe
stata disonorevole e sarebbe servita di mònito al
Governo.
"Perché voi lo
vedrete," concluse. "Faccio una facile profezia: non passerà un anno,
assisteremo a scene di
sangue."
Guido Verònica parò
le mani grassocce.
"Per
carità, signora mia, per carità, non dica codeste cose, che sono orribili in
bocca a lei! Le lasci dire ai sobillatori che, senza volerlo, fanno il giuoco
dei clericali! Scusi, Canonico; ma è proprio cosí! Quattro mascalzoni ambiziosi
che seminano la discordia per assaltare i Consigli comunali e provinciali e
anche il Parlamento; altri quattro ignobili nemici della patria che sognano la
separazione della Sicilia sotto il protettorato inglese, uso Malta! E c'è poi la
Francia, la nostra cara sorella latina, che soffia nel fuoco e manda denari per
trar partito domani di qualche sommossa brigantesca, ispirata dalla
mafia!"
"Ah sí?" proruppe
donna Caterina, che s’era tenuta a stento. "Lei si conforta cosí? Sono tutte
calunnie, le solite, quelle che ripetono i ministri, facendo eco ai prefetti e
ai tirannelli locali capi-elettori; per mascherare trenta e piú anni di
malgoverno! Qua c'è la fame, caro signore, nelle campagne e nelle zolfare; i
latifondi, la tirannia feudale dei cosiddetti cappelli, le tasse comunali
che succhiano l'ultimo sangue a gente che non ha neanche da comperarsi il pane!
Si stia zitto! si stia
zitto!"
Guido Verònica
sorrise nervosamente, aprendo le braccia; poi si rivolse a
Roberto:
"Oh senti... (col
suo permesso, signora!): avrei bisogno del tuo cifrario, per spedire un
telegramma d'urgenza a
Roma."
"Ah già, bravo,
bravo!" esclamò il canonico Agrò, riscotendosi dal doloroso atteggiamento preso
durante la violenta intemerata di donna
Caterina.
Roberto si recò di
là per il cifrario. La conversazione cadde fra i tre amici e la vecchia signora;
poi l'Agrò per rompere il silenzio penoso sopravvenuto,
sospirò:
"Eh, certo sono
tristi assai le condizioni del nostro povero
paese!"
E la conversazione
fu ripresa un po', ma senza piú calore. I tre avevano un'intesa segreta tra loro
ed erano anche gonfii e costernati dello scandalo di quell'articolo: si
scambiavano occhiate d'intelligenza, avrebbero voluto rimanere soli un momento
per accordarsi sul miglior modo di preparare Roberto. Ma donna Caterina non se
n'andava.
" Sa se Corrado
Selmi," le domandò Guido Verònica, "ha scritto a Roberto che
verrà?"
"Verrà, verrà,"
rispose ella, scrollando il capo con amaro
sdegno.
"Ci ho pensato,"
disse piano il Verònica all'Agrò e al Mattina. "Tanto meglio, se viene. Anzi gli
spedirò io stesso un telegramma perché venga subito, per me, capite? Cosí
Lando... zitti, ecco
Roberto."
Ma non era
Roberto: entrò invece nella sala un giovinotto alto, smilzo, a cui le lenti
serrate in cima al naso, congiungendo le folte sopracciglia, davano un'aria di
cupa e rigida tenacia. Era Antonio Del Re, il nipote. Pallidissimo di solito,
appariva in quel momento quasi
cèreo.
"Hanno letto
nell'Empedocle?" domandò con un fremito nelle labbra e nel
naso.
Il canonico Agrò e il
Mattina alzarono subito le mani per impedire che
seguitasse.
"Contro
Roberto?" domandò donna
Caterina.
"Contro il nonno!"
rispose, vibrante, il giovinotto. "Una manata di fango! E contro
te!"
"Sozzure! sozzure!" -
esclamò l'Agrò. "Per carità, non ne sappia nulla il povero
Roberto!"
"Già sta a
leggerlo," disse il nipote,
sprezzante.
" No! no!" gridò
allora l'Agrò, levandosi in piedi. "Oh Signore Iddio, bisogna prevenirlo! Già
questi farabutti hanno avuto la lezione che si meritavano dal nostro Verònica!
Per carità, vada lei, donna Caterina... Imprudenza, imprudenza, ragazzo
mio!"
Donna Caterina
accorse; ma troppo tardi. Roberto Auriti, ignorando quel che poc'anzi aveva
fatto il Verònica, era corso pallido, col volto contratto da un sorriso
spasmodico, e come un cieco alla redazione di quel giornalucolo, presso Porta
Atenèa. Vi aveva trovati già raccolti i maggiorenti del partito, con Flaminio
Salvo alla testa, per proclamare, subito dopo l'aggressione la candidatura di
Ignazio Capolino. Al vecchio usciere, che stava di guardia nella saletta
d'ingresso innanzi all'uscio a vetri della sala di redazione, aveva detto ancor
sorridendo a quel modo - che Roberto Auriti voleva parlare col direttore. Nella
sala di redazione s’era fatto un improvviso silenzio; poi agli orecchi di
Roberto eran venute queste parole
concitate:
"Nossignori! Vado
io, tocca a me; l'articolo l'ho scritto io, e io ne
rispondo!"
Non aveva neppur
visto chi gli s’era fatto innanzi: gli s’era lanciato addosso come una belva, lo
aveva levato di peso e scagliato con tale impeto contro l'uscio, che questo
s’era sfondato, sfasciato, con gran fracasso e rovinío di vetri
infranti.
Quando il
Verònica, il Mattina e il nipote Del Re sopraggiunsero a precipizio, tra la
ressa della gente accorsa da ogni parte agli urli che s’eran levati altissimi
dalla sala di redazione, Marco Prèola col volto insanguinato e un coltello in
mano si dibatteva ferocemente
sbraitando:
"Lasciatemi,
maledetti, lasciatemi! Se lo liberate adesso, l'ammazzo piú tardi! Lasciatemi!
Lasciatemi!"