Luigi Pirandello
I vecchi e i giovani
Parte I
V
Appena il primo albore
filtrò lieve attraverso le foglie coriacee del caprifico in fondo alla vigna,
Mauro Mortara, che vi stava sotto, con le spalle appoggiate al tronco, aggrottò
le ciglia, ritirò le braccia e stirò la schiena rugliando; poi s’allargò tutto
in un lungo sbadiglio e si rilassò richiudendo gli occhi come a cercar di nuovo
il tepido bujo del sonno; ma udí un gallo cantare da un'aja lontana, un altro da
piú lontano rispondere; udí un frullo d'ali vicino, e si riscosse. I tre
mastini, accucciati sotto l'albero intorno a lui, lo guardavano con occhi umidi,
intenti, salutandolo amorosamente con la coda. Ma il padrone li guatò, seccato
che lo avessero veduto dormire; poi si guatò le gambe distese aperte, rigide, su
la terra cretosa della vigna; si scrollò dalle spalle il cappotto d'albagio; si
stropicciò gli occhi acquosi col dorso delle mani, cavò infine dalla sacca,
pendula da un ramo, tre tozzi di pan secco e li buttò in bocca alle bestie; si
tirò sú sú in piedi e, appeso il cappotto all'albero, lo schioppo alla spalla,
si mosse ancor mezzo trasognato per la
vigna.
Non gli riusciva piú
di vegliar tutta la notte: guardingo, a una cert'ora, come se qualcuno se ne
potesse accorgere, andava a rintanarsi sotto quel caprifico; per poco, diceva a
se stesso; ma stentava a destarsi di giorno in giorno vieppiú. Le gambe non eran
piú quelle d'una volta; anche la forza del polso non era piú
quella.
Ah, la sua bella
vigna! Forse il vino di quell'anno lo avrebbe ancora bevuto; ma quello dell'anno
venturo? Diede una spallata, come per dire: "Oh, alla fin fine...", e tornò a
sbadigliare a quella prima luce del giorno che pareva provasse pena a ridestare
la terra alle fatiche; guardò la distesa vasta dei campi, da cui tardava a
diradarsi l'ultimo velo d'ombra della notte; poi si voltò a guardare il mare,
laggiú, d'un turchino fosco, vaporoso, di tra le agavi ispide e i pingui ceppi
glauchi dei fichidindia, che sorgevano e si storcevano in quella scialba
caligine. La luna calante, sorta tardi nella notte, era rimasta a mezzo cielo,
sorpresa dal giorno, e già smoriva nella crudezza della prima luce. Qua e là
nella campagna entro quel velo lieve di nebbiolina bianchiccia fumigavano i
fornelli dove si bruciava il mallo delle mandorle, e quel fumichío
nell'immobilità dell'aria, saliva dritto al
cielo.
Tuttavia, da due
giorni, Mauro Mortara era meno aggrondato. Guardava ancora in cagnesco la villa;
ma poi, pensando che Flaminio Salvo ogni mattina, a quell'ora, se ne partiva in
carrozza o per Girgenti o per Porto Empedocle, e che non vi ritornava se non a
tarda sera, tirava un respiro di sollievo, Come se la vista del cascinone gli
diventasse piú lieve, sapendo che colui non c'era. Vi rimanevano, sí, coi servi,
la moglie e la figliuola; ma quella, una povera pazza, tranquilla e innocua; e
questa... - pareva impossibile! - questa, quantunque figlia di quel "malo
cristiano", non era cattiva, no,
anzi...
E Mauro, senza
volerlo, volse in giro uno sguardo per vedere se donna Dianella fosse già per la
vigna.
In pochi giorni, da che era a Valsanía, s’era rimessa quasi del tutto;
si levava per tempo, ogni mattina; aspettava che il padre partisse con la
carrozza, e veniva a raggiunger lui là per la vigna, e gli domandava tante cose
della campagna: degli olivi, come si governano; dei gelsi, che a marzo colgono
sangue di nuovo e, quando sono in amore, per gettare, son molli come una pasta,
poi si fermava sotto l'ombrellone del pino solitario laggiú dove l'altipiano
strapiomba sul mare, per assistere alla levata del sole dalle alture della
Crocca, in fondo in fondo all'orizzonte, livide prima, poi man mano cerulee,
aeree e quasi fragili. Il primo a indorarsi al sole, ogni mattina, era quel pino
là, che si stagliava maestoso su l'azzurro aspro e denso del mare, su l'azzurro
tenue e vano del cielo.
In
pochi giorni Dianella aveva fatto il miracolo: l'orso era domato. L'aria del
volto, la nobiltà gentile e pure altera del portamento, la dolcezza mesta dello
sguardo e del sorriso, la soavità della voce avevano fatto il miracolo,
pianamente, naturalmente, andando incontro e vincendo la ruvidezza ombrosa del
vecchio selvaggio.
Parlando,
a volte, ella aveva nella voce e negli sguardi certe improvvise opacità, come
se, di tratto in tratto, l'anima le si partisse dietro qualche parola e le
andasse lontano lontano, chi sa dove; smarrita, se tardava a ritornarle,
domandava: "Che dicevamo?" e sorrideva, perché lei stessa non sapeva spiegarsi
ciò che le era avvenuto. Spesso anche, a ogni minimo tocco rude della realtà,
provava quasi un improvviso sgomento, o, piuttosto, l'impressione di un'ombra
fredda che le si serrasse attorno, e aggrottava un po' le ciglia. Subito però
cancellava con un altro dolce sorriso il gesto ombroso involontario, sgranando e
ilarando gli occhi,
rinfrancata.
"Perché mi si
dovrebbe far male?" pareva dicesse a se stessa. "Non vado innanzi alla vita,
fiduciosa e serena?"
La fiducia le raggiava da ogni atto, da ogni sguardo, e
avvinceva. Anche quei tre mastini feroci del Mortara bisognava vedere che festa
le facevano ogni volta! Si voltavano anch’essi, or l’uno or l’altro, a guardare
verso la villa, come se l’aspettassero. E Mauro, per non allontanarsi troppo,
s’indugiava a esaminare ora questo ora quel tralcio, i cui grappoli, tesori
gelosamente custoditi, aveva già mostrati quasi a uno a uno a Dianella,
gongolando accigliato alle lodi ch’ella gli profondeva tra vivaci esclamazioni
di meraviglia.
"Uh, quanti
qua!"
"Carica, eh? E questo
tralcio, guardate..."
" Un
albero... pare un albero!"
"E qua, qua..."
"Oh, piú uva
che pampini! E può sostenerla tant'uva, questa
vite?"
"Se non avrà male dal
tempo..."
"Che peccato
sarebbe! E questa?" domandava, vedendo qualche vite atterrata. "È stato il
vento? Ah, dev'essere ancora
legata..."
Oppure, piú
là:
"E questi? Vitigni
selvaggi? Innesti nuovi, ho capito. Evviva, evviva... Ah, c'è pure compensi
nella vita!"
E nella voce pareva avesse la gioja dell'aria pura e del sole,
quella stessa gioja che tremava nella gola delle allodole.
Per quel giorno
Mauro le aveva promesso una visita al "camerone" del Generale: al "santuario
della libertà". Ma i cani, a un tratto, drizzarono le orecchie; poi l'uno dopo
l'altro s’avventarono senza abbajare verso il sentieruolo sotto la vigna,
sul ciglio del
burrone.
"Don Ma'! Don Ma'!"
chiamò poco dopo, di lí, una voce
affannata.
Mauro la
riconobbe per quella di Leonardo Costa, l'amico di Porto Empedocle; e chiamò a
sé i cani.
"Te',
Scampirro! Te', Nela! Qua,
Turco!"
Ma i cani
avevano riconosciuto anch’essi il Costa e s’erano fermati al limite della vigna,
scodinzolandogli dall'alto.
Sopravvenne Mauro.
"Il
principale? E partito?" gli domandò subito Leonardo Costa, trafelato,
ansante.
Era un omaccione dalla barba e dai capelli rossi, crespi, la faccia
cotta dal sole e gli occhi bruciati dalla polvere dello zolfo. Portava a gli
orecchi due cerchietti d’or; in capo un cappellaccio bianco tutto impolverato, e
macchiato di sudore.
Veniva di corsa da Porto Empedocle, per la spiaggia lungo la linea
ferroviaria.
"Non so" gli
rispose Mauro, fosco.
"Per
favore, date una voce di costà, che aspetti; debbo parlargli di cosa
grave."
Mauro scosse il
capo.
"Correte, farete a
tempo... Che vi è avvenuto?"
Leonardo Costa, riprendendo la corsa, gli
gridò:
"Guaj! guaj grossi
alle zolfare!"
"Maledetto
lui e le zolfare!" brontolò Mauro tra
sé.
Flaminio Salvo scendeva
la scala della villa per montar su la vettura già pronta, quando Leonardo Costa
sbucò dal sentieruolo a ponente, di tra gli olivi,
gridando:
"Ferma!
Ferma!"
"Chi è? Cos’è?"
domandò il Salvo, con un
soprassalto.
"Bacio le mani
a Vossignoria," disse il Costa, togliendosi il cappellaccio e accostandosi senza
piú fiato e tutto grondante di sudore. "Non ne posso piú... Volevo venire
stanotte... ma poi..."
"Ma
poi? Che cos’è? che hai?" lo interruppe, brusco, il
Salvo.
"Ad Aragona, a
Comitini, tutti i solfaraj, sciopero!" annunziò il
Costa.
Flaminio Salvo lo
guardò con freddo cipiglio, lisciandosi le lunghe basette grige che, insieme con
le lenti d'oro, gli davano una certa aria diplomatica, e disse,
sprezzante:
" Questo lo
sapevo."
"Sissignore. Ma
jersera, sul tardi," riprese il Costa, "è arrivata a Porto Empedocle gente da
Aragona e ha raccontato che tutto jeri hanno fatto l'ira di Dio nel
paese..."
"I
solfaraj?"
"Sissignore:
picconieri, carusi, calcheronaj, carrettieri, pesatori: tutti! Hanno finanche
rotto il filo telegrafico. Dice che hanno assaltato la casa di mio figlio, e che
Aurelio ha tenuto testa, come meglio ha
potuto..."
Flaminio Salvo, a
questo punto, si voltò a spiare acutamente gli occhi di Dianella che s’era
accostata alla vettura.
Quello sguardo strano, rivolto alla figlia a mezzo
del discorso, frastornò il Costa, il quale si voltò anche lui a guardare la
"signorinella", com'egli la chiamava. Questa di pallida si fece vermiglia, poi
subito pallida di nuovo.
"Dunque?" gridò Flaminio Salvo, con
ira.
"Dunque, sissignore,"
riprese il Costa, sconcertato. "Guajo grosso, non c'è soldati; il paese, nelle
loro mani. Due carabinieri soli, il maresciallo e il delegato... Che possono
fare?"
"E che posso fare io
di qua, me lo dici?" gridò il Salvo su le furie. "Tuo figlio Aurelio che cos’è?
il signor ingegnere direttore, venuto dall'École des Mines di Parigi, che
cos’è? Marionetta? Ha bisogno che gli tiri io il filo di qua, per farlo
muovere?
"Ma nossignore, "
disse Leonardo Costa, ritraendosi d'un passo, come se il Salvo lo avesse
sferzato in faccia. " Può star sicuro Vossignoria che mio figlio Aurelio sa
quello che deve fare. Testa e coraggio... non tocca a dirlo a me... ma di fronte
a duemila uomini tra solfaraj e carrettieri, mi dica Vossignoria... Del resto,
il guajo è un altro, fuori del paese. Aurelio ha mandato ad avvertirmi jeri sera
che quelli hanno catturato per lo stradone gli otto carri di carbone che
andavano alle zolfare di Monte
Diesi.
"Ah, sí?" fece il
Salvo, sghignando.
"Vossignoria sa" seguitò il Costa "che il carbone lassú
per le pompe dei cantieri è come il pane pei poverelli, e anche piú necessario.
Vossignoria va a Girgenti? Vada subito dal prefetto perché mandi soldati alla
stazione d'Aragona, quanti piú può, per fare scorta al carbone fino alle
zolfare. Ci son sette vagoni pieni per rinnovare il deposito; i carrettieri sono
in isciopero anch’essi; ma il carbone si potrà caricare su i muli e su gli
asini, scortati dalla forza: ci metteranno piú tempo, ma almeno si potrà
scongiurare il pericolo che la zolfara grande, la Care, Dio liberi,
s’allaghi..."
"E s’allaghi!
s’allaghi! s’allaghi!" scattò, furente, Flaminio Salvo, levando le braccia.
"Vada tutto alla malora! Non m'importa piú di niente! Io chiudo, sai! e mando
tutti a spasso, te, tuo figlio, tutti, dal primo all'ultimo, tutti! Caccia via!
Andiamo!" ordinò al
cocchiere.
La carrozza si
mosse, e Flaminio Salvo partí senza neppur voltarsi a salutare la
figlia.
Alla sfuriata insolita, don Cosmo s’era affacciato a una finestra
della villa e donna Sara Alàimo s’era fatta sul pianerottolo della scala. L'uno
e l'altra, e giú Dianella e il Costa rimasero come intronati. Il Costa alla fine
si scosse, alzò il capo
verso la finestra e salutò
amaramente:
"Bacio le mani,
si-don Cosmo! Ha ragione, lui: è il padrone! Ma per quel Dio messo in croce,
creda pure, si-don Cosmo mio, creda, Signorinella: non sono prepotenze! La fame
è fame, e quando non si può
soddisfare..."
Donna Sara
dal pianerottolo scrollò il capo incuffiato, con gli occhi al cielo.
" Mangia
il Governo," - seguitò il Costa, " mangia la Provincia; mangia il Comune e il
capo e il sottocapo e il direttore e l'ingegnere e il sorvegliante... Che può
avanzare per chi sta sotto terra e sotto di tutti e deve portar tutti sulle
spalle e resta schiacciato?... Ah Dio! Sono un miserabile, un ignorante sono; e
va bene: mi pesti pure sotto i piedi finché vuole. Ma mio figlio, no! mio figlio
non me lo deve toccare! Gli dobbiamo tutto, è vero; ma anche lui, se è ancora
lí, padrone mio riverito, che mi può anche schiaffeggiare, ché da lui mi piglio
tutto e gli bacio anzi le mani; se ancora è lí che comanda e si gode le sue
belle ricchezze, lo deve pure a mio figlio, lo deve: lei lo sa, Signorinella, e
fors’anche lei, si-don Cosmo... siamo
giusti!"
"Già, già," sospirò
il Laurentano dalla finestra, "l'affare delle
zucche..."
"Che zucche?"
domandò, incuriosita, donna Sara
Alàimo.
"Ma!" fece il Costa.
"Ve lo farete raccontare qualche volta dalla Signorinella qua, che conosce bene
mio figlio, perché son cresciuti insieme, anche con quell'altro ragazzo, suo
fratellino, che il Signore volle per sé e fu una rovina per tutti. La povera
signora, là, che me la ricordo io, bella, un occhio di sole! ci perdette la
ragione; e lui, povero galantuomo.. chi ha figli lo
compatisce..."
Dianella, col
cuore gonfio per la durezza del padre, a questo ricordo non poté piú reggere e
per nascondere il turbamento, prese il sentieruolo per cui il Costa era venuto,
e sparve tra gli olivi.
Subito donna Sara, poi anche don Cosmo invitarono il Costa ad andar sú, per
farlo rimettere un po' dalla corsa e non lasciarlo cosí sudato alla brezza del
mattino. Donna Sara avrebbe voluto far di piú: offrirgli una tazzina di caffè;
ma per non perdere una parola del discorso fitto fitto che il Costa aveva
attaccato subito con don Cosmo sul Salvo, ora che la figliuola non poteva piú
sentirlo, finse di non
pensarci.
"Ci conosciamo,
santo Dio, ci conosciamo, si-don Co'! Che era lui, alla fin fine? Io, sí, coi
piedi scalzi, ho portato in collo, lo dico e me ne vanto; in collo lo zolfo e il
carbone, dalla spiaggia alle spigonare. Il latino come dice? Necessitas non
abita legge. Sissignore; e sono stato stivatore, e me ne vanto, misero
staderante agl’imbarchi per la dogana, e me ne vanto. Lui, però, che cos’era? Di
nobile casato, sissignore; ma un sensaluccio era, che veniva da Girgenti a Porto
Empedocle, tutto impolverato per lo stradone della Spinasanta, perché non aveva
neanche da pagarsi la carrozza o d'affittarsi un asinello, allora che la
ferrovia non c'era. E i primi píccioli, come li fece? Lo sa Dio e tanti lo
sanno, tra i morti e i morti. Poi prese l'appalto delle prime ferrovie, insieme
col cognato che ora sta a Roma, signor ingegnere, banchiere, commendatore, don
Francesco Vella, che conosciamo anche
lui..."
"Ah," fece donna
Sara, "ha un'altra sorella,
lui?"
"Come no?" rispose il
Costa, sospendendo gli inchini con cui aveva accompagnato ogni titolo del Vella,
"donna Rosa, maggiore di tutti, moglie del" (e s’inchinò ancora una volta)
"commendatore Francesco Vella, pezzo grosso dell'Amministrazione delle ferrovie
adesso. La linea qua, da Girgenti a Porto Empedocle, non la fece lui? Balla
comare, che fortuna suona! Centinaja di migliaja di lire, sorella mia; denari a
cappellate, come fossero stati rena... Due ponti e quattro gallerie... Allunga
là un gomito; taglia qua a scarpa... Poi altre imprese di linee... Tutta la
ricchezza gli è venuta di là, dico bene, si-don Co'? Ci
conosciamo!"
"E le zucche?
le zucche?" tornò a domandare donna Sara.
Bisognò che il Costa gliela
narrasse per minuto, quella famosa storia delle zucche; e donna Sara lo compensò
con le piú vivaci esclamazioni di stupore, di raccapriccio, d'ammirazione del
vocabolario paesano, battendo di tratto in tratto le mani, per scuotere don
Cosmo, il quale, conoscendo la storia, era ricaduto nel suo solito letargo
filosofico. Si scosse alla fine, ma senza aprir gli occhi; pose una mano avanti,
disse:
"Però..."
"Ah, sí!"
riattaccò subito con enfasi il Costa, battendosi le due manacce sul petto. "In
coscienza, un'anima sola abbiamo, davanti a Dio, e debbo dire la verità. Ma mio
figlio, oh, si-don Cosmo" (e il Costa levò una mano con l'indice e il pollice
giunti, in atto di pesare) "tutti i figli saranno figli, ma quello! cima!
diritto come una bandiera! in tutte le scuole, il primo! Appena laureato, subito
il concorso per la borsa di studio all'estero... Erano, sorella mia, piú di
quattrocento giovani ingegneri d'ogni parte d'Italia: tutti sotto, tutti sotto
se li mise! E mi stette fuori quattr'anni, a Parigi, a Londra, nel Belgio, in
Austria. Appena tornato a Roma, senza neanche farlo fiatare, il Governo gli
diede il posto nel Corpo degli ingegneri minerarii, e lo mandò in Sardegna, a
Iglesias, dove ci fece un lavoro tutto colorato su una montagna... Sarrubbas...
non so... ah, Sarrabus, già, dico bene, Sarrabus (parlano turco, in Sardegna),
un lavoro che fa restare, sorella mia, allocchiti. Ci stette poco, un anno, poco
piú, perché una Società francese, di quelle che... i marenghi, a sacchi...
vedendo quella carta, rimase a bocca aperta. Non lo dico perché è figlio mio; ma
quanti ingegneri c'è, qua e fuorivia? se li mette in tasca tutti! Basta. Questa
Società francese, dice, qua c'è la cassa, figlio mio, tutto quello che volete.
Aurelio, tra il sí e il no d'accettare, venne qua in permesso - saranno sei o
sette mesi - per consigliarsi con me e col principale, suo benefattore, ch’egli
rispetta come suo secondo padre e fa bene! Il principale stesso gli sconsigliò
d'accettare, perché lo volle per sé, capite? per badare alle sue zolfare
d'Aragona e Comitini. Noi diciamo: il poco mi basta, l'assai mi soverchia...
Accettò, ma ci scàpita, parola d'onore! E con tutto questo, ora... ora è
marionetta, l'avete inteso?... Cristo
sacrato!
Leonardo Costa levò
un braccio, si alzò, sbuffò per il naso, scrollando il capo, e prese dalla sedia
il cappellaccio bianco. Doveva andar via subito; ma ogni qual volta si metteva a
parlare di quel suo figliuolo, lustro, colonna d'oro della sua casa, non la
smetteva piú.
"Bacio le
mani, si-don Cosmo, mi lasci scappare. Donna Sara, servo vostro
umilissimo.
"Oh, e
aspettate!" esclamò questa, fingendo di ricordarsi, ora che il discorso era
finito. "Un sorsellino di
caffè..."
" No no, grazie"
si schermí il Costa. "Ho tanta
fretta!"
"Cinque minuti!"
fece donna Sara, levando le mani a un gesto che voleva dire: "Non casca il
mondo!"
E s’avviò. Ma il
Costa, sedendo di nuovo, sospirò, rivolto a don
Cosmo:
"C'è una mala
femmina, si-don Co', una mala femmina che da qualche tempo a questa parte mette
male tra mio figlio e don Flaminio; io lo
so!"
E donna Sara non poté
piú varcare la soglia: si voltò, strizzò gli occhi, arricciò il naso e chiese
con una mossettina del capo: "Chi
è?"
" Non mi fate sparlare
ancora, donna Sara mia!" sbuffò il Costa. "Ho parlato già
troppo!"
Ma, tanto, donna
Sara Alàimo aveva già compreso di quale mala femmina egli intendesse parlare, e
uscí, esclamando con le mani per
aria:
"Che mondo! che
mondo!"
Dianella non s’affrettò
quella mattina a raggiungere Mauro alla vigna. Quello sguardo duro del padre
nell'ira, mentre il Costa parlava del pericolo da cui il figlio era minacciato
in Aragona, le aveva in un baleno richiamato alla memoria un altro sguardo di
lui, di tanti anni addietro, quando il fratellino era morto e la madre
impazzita.
Aveva undici anni, lei, allora. E piú della morte del fratello,
piú della sciagura orrenda della madre le era rimasta indelebile nell'anima
l'impressione di quello sguardo d'odio che a lei - ragazzetta ancor quasi
ignara, incerta e smarrita tra i giuochi e la pena - aveva lanciato il padre,
nel cordoglio rabbioso:
"Non potevi morir tu invece?" le aveva detto chiaramente quello
sguardo.
Cosí. Proprio cosí.
E Dianella comprendeva bene adesso perché il padre non avrebbe esitato un
momento a dar la vita di lei in cambio di quella del
fratello.
Tutte le cure e
l'affetto e le carezze e i doni, di cui egli l'aveva poi colmata, non erano piú
valsi a scioglierle dal fondo dell'anima il gelo, in cui quello sguardo s’era
quasi rappreso e indurito. Spesso se n'adontava con se stessa, sentendo che il
calore dell'affetto paterno non riusciva piú a penetrare in lei quasi respinto
istintivamente da quel gelo.
Per qual ragione seguitava egli ormai a lavorare
con tanto accanimento? ad accumulare tanta ricchezza? Non per lei certamente; sí
per un bisogno spontaneo, prepotente, della sua stessa natura; per dominare su
tutti; per esser temuto e rispettato; o fors’anche per stordirsi negli affari o
per prendersi a suo modo una rivincita su la sorte che lo aveva colpito. Ma in
certi momenti d'ira (come dianzi), o di stanchezza o di sfiducia, lasciava pur
vedere apertamente che tutte le sue imprese e i suoi sforzi e la sua vita stessa
non avevano piú scopo per lui, perduto l'erede del nome, colui che sarebbe stato
il continuatore della sua potenza e della sua
fortuna.
Da un pezzo,
convinta di questo, Dianella, pur non sapendo neanche immaginare la propria vita
priva di tutto quel fasto che la circondava, aveva cominciato a sentire un
segreto dispetto per quella ricchezza del padre, di cui un giorno (il piú
lontano possibile!) ella sarebbe stata l'unica erede, per forza e senza alcuna
soddisfazione per lei. Quante volte, nel vederlo stanco e irato, non avrebbe
voluto gridargli: "Basta! Lascia! Perché la accresci ancora, se dev'esser poi
questa la fine?". E altro ancora, ben altro avrebbe voluto gridargli, se con
l'anima avesse potuto arrivare all'anima del padre, senza che le labbra si
movessero e udissero gli
orecchi.
Da quanto aveva
potuto intendere col finissimo intuito e penetrare con quegli occhi
silenziosamente vigili e da certi discorsi colti a volo senza volerlo, aveva già
coscienza che la ricchezza del padre, se non al tutto male acquistata, aveva pur
fatto molte vittime in paese. Crudele con lui la sorte, crudele la rivincita che
si prendeva su essa. Voleva tutto per sé, tutto in suo pugno: zolfare e terre e
opificii, il commercio e l'industria dell'intera provincia. Ora perché gravare
su le esili spalle di lei - figlia... sí, amata, ma non prediletta, quantunque
rimasta sola - il fardello di tutte quelle ricchezze, che molti forse
maledicevano in segreto e che certo non le avrebbero portato fortuna? Eppure
s’era illusa, fino a poco tempo fa, che il padre l'avrebbe lasciata libera nella
scelta; che anzi egli stesso l'avesse ajutata a scegliere, beneficando colui
che, da ragazzo, gli aveva salvato la vita. Bruno, come fuso nel bronzo, coi
capelli ricci, neri, e gli occhi fermi e serii, Aurelio Costa le era apparso la
prima volta, a tredici anni; era stato poi per tanto tempo suo compagno di
giuoco, suo e del fratellino. Tutt'e tre, ragazzi, non capivano allora che
differenza fosse tra loro. Alla morte del fratellino però, Aurelio era man mano
divenuto con lei sempre piú timido e circospetto; non aveva piú voluto giocare
come prima; era cresciuto tanto; gli s’era alterata la voce; s’era messo a
studiare, a studiare; e lei, che allora non aveva piú di dodici anni, s’era
contentata d'assistere zitta zitta al suo studio, fingendo di studiare anche lei
ogni tanto, in punta di piedi, andava a tirargli un ricciolo sulla nuca. A
diciott'anni Aurelio era poi partito per iscriversi all'Università di Palermo
nella facoltà d'ingegneria. Senza piú lui, la casa per tanti mesi era rimasta
per lei come vuota; aveva l'impressione di quella sua prima solitudine, come se
avesse passato tutto un inverno interminabile con la fronte appoggiata ai vetri
d'una finestra su cui le gocce della pioggia scorrevano come lagrime, su cui
qualche mosca superstite, morta di freddo rimaneva attaccata e lei con un dito,
toccandola appena, la faceva cadere. Forse da allora la sua fronte, per il
contatto di quei vetri gelati, le era rimasta cosí come fasciata di gelo. Ma che
esultanza poi al ritorno di lui, finito l'anno scolastico! Era stata cosí vivace
e piena di giubilo quella festa, che il padre, appena andato via Aurelio, se
l'era chiamata in disparte e pian piano, con garbo, carezzandole i capelli, le
aveva lasciato intendere che sarebbe stato bene frenarsi, perché era ormai un
giovanotto quel suo antico compagno di giuoco, a cui non bisognava piú dare del
tu. Senza saperne bene il perché s’era fatta di bragia: oh Dio, e come allora,
del lei? non era piú lo stesso Aurelio? No, non era piú lo stesso Aurelio,
neanche per lei; e se n'era accorta sempre di piú di anno in anno ai ritorni di
lui, finché all'ultimo, presa la laurea, egli aveva manifestato l'intenzione di
concorrere a una borsa di studio all'estero. Lui, proprio lui non era piú lo
stesso; perché lei, invece.. sí, con la bocca, signor Aurelio, ma con gli
occhi seguitava a dargli del tu. Prima di partire per Parigi, era venuto a
ringraziare il suo benefattore, a giurargli eterna gratitudine; a lei non aveva
saputo quasi dir nulla, quasi non aveva osato guardarla, fors’anche non s’era
accorto né del pallore del volto né del tremito della mano di lei. E tuttavia
non s’era perduta; aveva fatto anzi tanto piú certo in sé il suo sentimento,
quanto piú incerta era rimasta sul conto di lui. Era sicura, superstiziosamente,
ch’egli le fosse destinato. Dopo la partenza, piú volte aveva sentito il padre
parlare del valore eccezionale di quel giovine e dello splendido avvenire che
avrebbe avuto, e lodarsi di quanto aveva fatto per lui, di averlo trattato come
un figliuolo. Naturalmente questi discorsi le avevano ravvivato sempre piú nel
cuore il fuoco segreto e sempre piú acceso la speranza che il padre, avendo
perduto l'unico figliuolo, e avendo quasi creato lui quest'altro al quale pur
doveva la vita, avrebbe preferito che a lui, anziché a un altro piú
estraneo, andassero un giorno le ricchezze e la figlia. S’era
maggiormente raffermata in questa speranza pochi mesi fa, quando Aurelio,
ritornato dalla Sardegna, era stato assunto dal padre alla direzione delle
zolfare. Non lo aveva piú riveduto dal giorno della partenza per Parigi.
Oppressa, tra il vano fasto, dalla vita meschina di Girgenti, vecchia città, non
zotica veramente, ma attediata nel vuoto desolato dei lunghi giorni tutti
uguali, sempre con quel giro di visite delle tre o quattro famiglie conoscenti
che gareggiavano d'affetto e di confidenza verso di lei, ch’era come la
reginetta del paese, fra le spiritosaggini solite dei soliti giovanotti
eleganti, anneghittiti, immelensiti nella povera e ristretta vita provinciale,
s’era riscossa alla vista di lui cosí maschio e padrone di sé. La gioja di
rivederlo le sera però d'un subito offuscata al sopravvenire di Nicoletta Spoto,
da un anno appena moglie del Capolino. Aveva notato uno strano imbarazzo, un
vivo turbamento tanto in costei quanto in Aurelio, allorché questi, introdotto
nel salone, s’era inchinato a salutare. Poi, appena il padre aveva condotto via
con sé nello studio Aurelio, la Capolino, rifiatando, aveva narrato con focosa
vivacità a lei e alla zia Adelaide, che quel poveretto lí, tutto impacciato,
aveva nientemeno osato di mandare a chiederla in isposa, subito dopo ottenuto il
posto d'ingegnere governativo in Sardegna, ricordandosi forse di qualche
occhiatina scambiata tanti e tanti anni addietro, quand'egli era ancora
studentello all'Istituto. Figurarsi che orrore aveva provato lei, Lellè Spoto, a
una tal richiesta, e come s’era affrettata a rifiutare, tanto piú che già erano
avviate le prime pratiche per il matrimonio con Ignazio Capolino. S’era sentita
voltare il cuore in petto a questa notizia inattesa; s’era fatta certo di mille
colori e certo s’era tradita con quella donna, di cui già conosceva la relazione
segreta e illecita col padre. Non le aveva detto nulla; ma quando Aurelio, dopo
la lunga udienza, era ritornato in salone, lei, tutta accesa in volto lo aveva
accolto apposta con premure esagerate ricordandogli i giorni passati insieme, i
giuochi, le confidenze. E piú volte, con gioja, aveva veduto colei mordersi il
labbro e impallidire. Dianella sperava che Aurelio, almeno quella volta, avesse
compreso. Lo aveva subito scusato in cuor suo del tradimento, di cui non poteva
aver coscienza, non credendo di poter ardire di alzar gli occhi fino a lei;
ma... intanto, ah! proprio a quella donna lí, sotto ogni riguardo indegna di
lui, era andato a pensare! E il rifiuto di quella donna le era sembrato quasi
un'offesa diretta anche a lei. Però, ecco, egli era stato a Parigi; la vivacità,
la capricciosa disinvoltura di Nicoletta Spoto avevano forse acquistato allora
un gran pregio agli occhi di lui, ricordandogli probabilmente le donne
conosciute e ammirate colà. D'umilissimi natali, aveva creduto forse di fare un
gran salto imparentandosi con una famiglia come quella della Spoto, molto ricca
un giorno, ora decaduta, ma tuttavia tra le piú cospicue del paese. Costei ora,
certo, avvalendosi del potere che aveva sul padre, si vendicava dell'affronto
patito quella volta. Anche lei, Dianella, aveva notato che da qualche tempo il
padre non si mostrava piú contento di Aurelio; e che da alcune sere lí, nella
villa, parlando con don Cosmo Laurentano, insisteva su certe domande che le
davano da pensare. Segretamente, lei disapprovava quelle nozze strane della zia
col principe don Ippolito, ne aveva quasi onta, sospettando nel padre un
pensiero nascosto: che cioè si volesse servire di quelle nozze non certo
onorevoli per introdursi nella casa dei Laurentano e attrarre a sé a poco a poco
anche le sostanze di questa. Da alcune sere, a cena, il discorso di don Cosmo
cadeva, insistente, sul figlio del principe, su Lando Laurentano, che viveva a
Roma. Perché?
Assorta in
questi pensieri, Dianella s’era seduta sotto un olivo sul ciglio del profondo
burrone e guardava la dirupata costa dirimpetto, dove pascolava una greggiola di
capre scesa dalle terre di Platanía. Il giorno dopo l'arrivo in quella campagna,
s’era sentita quasi rinascere. L'aria di selvatica rustichezza, che la vecchia
villa aveva preso nell'abbandono; la malinconia profonda che da quell'abbandono
pareva si fosse diffusa tutt'intorno, nei viali, nei sentieri solinghi, quasi
scomparsi sotto le borracine e le tignàmiche, ove l'aria fresca dell'ombra degli
olivi e dei mandorli o delle alte spalliere di fichidindia - era satura di
fragranze, amare di prugnole, dense e acute di mentastri e di salvie; e
quell'ampio burrone precipite; e la chiara e gaja vicinanza del mare; e quegli
alberi antichi, non curati, irti di polloni selvaggi, sognanti nel silenzio
della solitudine immensa, si accordavano soavemente con l'animo in cui ella si
trovava. Ora, invece, quei discorsi del padre... l'ira contro Aurelio... e
quello sciopero di solfaraj ad Aragona... le minacce... E lei, lí sola, senza
nessuno veramente con cui votarsi il cuore... Aver la madre e non potersi
rivolgere a lei, e vedersela davanti, peggio che morta - viva e vana...
Lustreggiava per un tratto, tra i culmi radi delle canne in fondo al burrone un
ruscelletto che a un certo punto era stato tagliato dai lavori di presa per la
linea ferroviaria. Vi fissò gli occhi e le sorse allora spontanea l'immagine che
lei fosse rimasta appunto come un ruscello a cui una mano ignota per malvagio
capriccio avesse traviato la vena presso la fonte con irti e gravi sassi; e
l'acqua di là si fosse sparsa stagnante, e di qua il ruscello si fosse
raddensato in rena e in ciottoli. Ah, che sete inestinguibile le era rimasta
dell'amore materno! Ma s’appressava alla madre, e questa non la riconosceva per
figlia. Il dolore di lei cosí vicino e urgente non si ripercoteva per nulla in
quella coscienza spenta.
"Vittoria Vivona d'Alessandria della Rocca," diceva
la madre di se stessa, con voce che pareva arrivasse di lontano. "Bella figlia!
bella figlia! Aveva una treccia di capelli che non finiva mai; tre donne gliela
pettinavano... Cantava e sonava. Sonava anche l'organo in chiesa, a Santa Maria
dell'Udienza, e gli angioletti stavano a sentirla, in ginocchio e a mani giunte,
cosí... Doveva sposare un riccone di Girgenti; le venne un mal di capo, e
morí..."
Dianella non poté piú frenare le lagrime e si mise a piangere
silenziosamente, con amara voluttà in quella solitudine. Ma il silenzio attorno
era cosí attonito, e cosí intenso e immemore il trasognamento della terra e di
tutte le cose, che a poco a poco se ne sentí attratta e affascinata. Le parvero
allora gravati da una tristezza infinita e rassegnata quegli alberi assorti nel
loro sogno perenne, da cui invano il vento cercava di scuoterli. Percepí, in
quella intimità misteriosa con la natura, il brulichío delle foglie, il ronzío
degli insetti, e non sentí piú di vivere per sé; visse per un istante quasi
incosciente, con la terra, come se l'anima le si fosse diffusa e confusa in
tutte le cose della campagna. Ah, che freschezza d'infanzia nell'erbetta che le
sorgeva accanto! e come appariva rosea la sua mano sul tenero verde di quelle
foglie! oh, ecco un maggiolino sperduto, fuor di stagione, che le scorreva su la
mano... Com'era bello! piccolo e lucido piú d'una gemma! E poteva dunque la
terra, tra tante cose brutte e tristi, produrne pure di cosí gentili e
graziose?
Trascorse, quasi
in risposta, su quelle foglie, su la sua mano come un lieve e fresco alito di
gioja. Dianella trasse un sospiro e aspettò con la mano su l'erba che l'insetto
ritrovasse la sua via tra le foglie, poi si scosse di soprassalto all'arrivo
festoso improvviso dei tre mastini che le si fecero attorno, anzi sopra,
impazienti, scostandosi l'un l'altro, per aver sul capo la carezza delle sue
mani. E non la lasciavano alzare. Alla fine sopraggiunse Mauro
Mortara.
"Vi siete sentita
male?" le domandò, cupo, senza
guardarla.
"No... niente..."
gli rispose, schermendosi con le braccia dalle piote e dalle linguate dei cani,
e sorridendo mestamente. "Un po'
stanca..."
"Qua!" gridò
forte Mauro ai tre mastini, perché la lasciassero in pace.
E subito quelli
restarono, come impietriti dal grido. Dianella sorse in piedi e si chinò a
carezzarli di nuovo, in compenso della
sgridata.
"Poverini...
poverini..."
"Se volete
venire..." propose Mauro.
"Eccomi. A veder la stanza del Generale? Ho tanta
curiosità..."
Era impacciata
nel parlargli, non sapendo ancor bene se dargli del voi o del
tu.
"Vostro padre è
partito?"
"Sí, sí,"
s’affrettò a rispondergli; e subito si pentí della fretta che poteva dimostrare
in lei quel sollievo stesso che provavano tutti quando il padre era assente. "Ad
Aragona," disse "si sono ribellati i solfaraj. Bisognerà mandarci soldati e
carabinieri."
"Piombo!
piombo!" approvò Mauro subito, scotendo energicamente il capo. "Sbirro, vi
giuro, andrei a farmi, vecchio come
sono!"
"Forse..." si provò a
dire Dianella.
Ma il Mortara
la interruppe con una sua abituale
esclamazione:
"Oh
Marasantissima, lasciatevi
servire!"
Non ammetteva
repliche, Mauro Mortara. Nelle sue perpetue ruminazioni vagabonde tra la
solitudine della campagna s’era a modo suo sistemato il mondo, e ci camminava
dentro, sicuro, da padreterno, lisciandosi la lunga barba bianca e sorridendo
con gli occhi alle spiegazioni soddisfacenti che aveva saputo darsi d'ogni cosa.
Tutto ciò che accadeva, doveva rientrar nelle regole di quel suo mondo. Se
qualche cosa non poteva entrarci, egli la tagliava fuori, senz'altro, o fingeva
di non accorgersene. Guaj a
contraddirlo!
"Oh
Marasantissima, lasciatevi servire! Che pretendono? Voglio sapere che
pretendono! Dobbiamo tutti ubbidire, dal primo all'ultimo, tutti, e ognuno stare
al suo posto, e guardare alla comunità! Perché questi pezzi di galera figli di
cane ingrati e sconoscenti debbono guastare a noi vecchi la soddisfazione di
vedere questa comunità, l'Italia, divenuta per opera nostra quella che è? Che ne
sanno, di cos’era prima l'Italia? Hanno trovato la tavola apparecchiata, la
pappa scodellata, e ora ci sputano sopra, capite? Intanto, guardate: Tunisi e
là!"
Si voltò verso il mare
e col braccio teso indicò, fosco, un punto nell'orizzonte lontano. Dianella si
volse a guardare, senza comprendere come c'entrasse Tunisi. Ella lo lasciava
dire e non l'interrompeva mai, se non per approvare tutti quegli sproloquii
patriottici ch’egli le faceva.
"È là!" - ripeté Mauro
fieramente. "E ci sono i Francesi là, che ce l'hanno presa a tradimento! E
domani possiamo averli qua, in casa nostra, capite? Vi giuro che non ci dormo
certe notti, e mi mordo le mani dalla rabbia! E invece d'impensierirsi di
questo, quei mascalzoni là pensano a fare scioperi, ad azzuffarsi tra loro!
tutta opera dei preti, sapete? Cima di birbanti! schiuma d'ogni vizio! abissi di
malizia! Soffiano nel fuoco, sotto sotto, per smembrare di nuovo l'Italia... I
Sanfedisti! i Sanfedisti! Io debbo guardarmi davanti e dietro, perché me l'hanno
giurata e mi contano i passi. Ma con me le spese ci perdono... Guardate
qua!"
E mostrò a Dianella i due pistoloni napoletani che gli pendevano dalla
cintola.
Quella visita alla famosa
stanza del Generale, detta per antonomasia il Camerone, era una grazia
veramente particolare concessa a Dianella. Mauro Mortara, che ne teneva la
chiave, non vi lasciava entrar mai nessuno. E non l'uscio soltanto, ma anche le
persiane dei due terrazzini e della finestra stavano sempre chiuse, quasi che
l'aria e la luce, entrandovi apertamente, potessero fugare i ricordi raccolti e
custoditi con tanta gelosa
venerazione.
Certo, dopo la
partenza del vecchio principe per l'esilio, uscio e finestre erano stati
spalancati chi sa quante volte; ma il Mortara, da che era ritornato a Valsanía,
aveva tenute almeno le persiane sempre chiuse cosí, e aveva l'illusione che cosí
appunto fossero rimaste da allora, sempre, e che però quelle pareti serbassero
ancora il respiro del Generale, l'aria di quel
tempo.
Questa illusione era
sostenuta dalla vista della suppellettile rimasta intatta, tranne la lettiera
d'ottone a baldacchino, che non aveva piú né materasse, né tavole, né l'ampio
parato a padiglione.
Quella
penombra era cosí propizia alla rievocazione dei lontani ricordi!
Mauro, ogni
volta, girava un po' per la stanza; si fermava innanzi a questo o a quel mobile
decrepito, dall'impiallacciatura gonfia e crepacchiata qua e là; poi andava a
sedere sul divano imbottito d'una stoffa verde, ora ingiallita, con due rulli
alla base di ciascuna testata, e lí, con gli occhi socchiusi, lisciandosi con la
piccola mano tozza e vigorosa la lunga barba bianca, pensava, e piú spesso
ricordava, assorto, come in chiesa un divoto nella
preghiera.
Non lo
disturbavano neppure i topi che facevano talvolta una gazzarra indiavolata sul
terrazzo di sopra, il cui piano, per impedire che il soffitto del
camerone rovinasse, s’era dovuto ricoprire di lastre di bandone. Il
rimedio era giovato poco e per poco tempo; le lastre di bandone s’erano staccate
e accartocciate al sole, con molta soddisfazione dei topi che, rincorrendosi, vi
s’appiattavano; e il soffitto già s’era aggobbato, gocciava d'inverno per due o
tre stillicidii, e le pareti serbavano, anche d'estate, due larghe chiose
d'umido, grommose di muffa. Don Cosmo non se ne dava pensiero: non entrava quasi
mai nel camerone; Mauro non voleva che si riattasse: poco piú gli restava da
vivere e voleva che tutto lí rimanesse com'era sapeva che, morto lui, nessuno si
sarebbe preso piú cura di custodire quel "santuario della libertà"; e il
soffitto allora poteva anche crollare o essere riattato. Intanto, ogni anno, al
sopravvenire dell'autunno, egli si recava sul terrazzo a rassettare e fissar le
lastre di bandone con grosse pietre, e sul pavimento del camerone
collocava concole e concoline sotto gli stillicidii. Le gocce vi piombavan
sonore, ad una ad una; e quel tin-tan cadenzato pareva gli conciliasse il
raccoglimento.
Dianella,
entrando, ebbe subito come un urto dalla vista inattesa d'una belva imbalsamata
che, nella penombra, pareva viva, là, nella parete di fronte, presso l'angolo,
con la coda bassa e la testa volta da un lato,
felinamente.
"Che paura!"
esclamò, levando le mani verso il volto e sorridendo d'un riso nervoso. "Non me
l'aspettavo... Che è?"
"Leopardo."
"Bello!"
E Dianella abbassò
una mano a carezzare quel pelame variegato; ma subito la ritrasse tutta
impolverata, e notò che alla belva mancava uno degli occhi di vetro, il
sinistro.
"Un altro,
compagno a questo," riprese Mauro "l'ho regalato al Museo dell'Istituto, a
Girgenti. Non l'avete mai veduto? C'è una vetrina mia, nel Museo. Accanto al
leopardo una jena, bella grossa, e, sopra un'aquila imperiale. Su la vetrina sta
scritto: Cacciati, imbalsamati e donati da Mauro Mortara. Gnorsí. Ma
venite qua, prima. Voglio farvi vedere un'altra
cosa.
La condusse davanti al
vecchio divano sgangherato.
Appese alla parete, sopra il divano, eran quattro medaglie, due d'argento, due
di bronzo, fisse in una targhetta di velluto rosso ragnato e scolorito. Sopra la
targhetta era una lettera, chiusa in cornice, scritta dl minutissimo carattere
in un foglietto cilestrino,
sbiadito.
"Ah, le medaglie!"
esclamò Dianella.
"No,"
disse Mauro, turbato, con gli occhi chiusi; "La lettera. Leggete la
lettera."
Dianella s’accostò
di piú al divano e lesse prima la firma: GERLANDO
LAURENTANO.
"Del
Generale?"
Mauro, ancora con
gli occhi chiusi, accennò di sì col capo,
gravemente.
E Dianella
lesse:
Amici,
Le notizie di Francia, il colpo di Stato di Luigi
Napoleone recheranno certamente una grave e lunga sosta al movimento per la
nostra santa causa e ritarderanno, chi sa fino a quando, il nostro ritorno in
Sicilia.
Vecchio come sono, non so né posso più sopportare il peso di questa
vita d'esilio.
Penso che non sarò piú in grado di prestare il mio braccio
alla Patria, quand'essa, meglio maturati gli eventi, ne avrà bisogno. Viene meno
pertanto la ragione di trascinare così un'esistenza incresciosa a me, dannosa a'
miei figli.
Voi, piú giovani, questa ragione avete ancora, epperò vivete per
essa e ricordatevi qualche volta con affetto del vostro
Gerlando Laurentano
Dianella si volse a guardare
il Mortara che, tutto ristretto in sé, con gli occhi ora strizzati, il volto
contratto e una mano su la bocca, si sforzava di soffocare nel barbone
abbatuffolato i singhiozzi
irrompenti.
"Non la
rileggevo piú da anni," mormorò quando poté
parlare.
Tentennò a lungo la
testa, poi prese a dire:
"Mi
fece questo tradimento. Scrisse la lettera e si vestì di tutto punto, come
dovesse andare a una festa da ballo. Ero in cucina; mi chiamò. "Questa lettera a
Mariano Gioèni, a La Valletta" C'erano a La Valletta gli altri esiliati
siciliani, ch’erano stati tutti qua, in questa camera, prima del Quarantotto, al
tempo della cospirazione. Mi pare di vederli ancora: don Giovanni
Ricci-Gramitto, il poeta; don Mariano Gioèni e suo fratello don Francesco; don
Francesco De Luca, don Gerlando Bianchini; don Vincenzo Barresi: tutti qua; e io
sotto a far la guardia. Basta! Portai la lettera... Come avrei potuto supporre?
Quando ritornai a Burmula, lo trovai
morto."
"S’era ucciso?"
domandò, intimidita,
Dianella.
"Col veleno,"
rispose Mauro. "Non aveva fatto neanche in tempo a tirare sul letto l'altra
gamba. Come era bello! Conoscete don Ippolito? Piú bello. Diritto, con un pajo
d'occhi che fulminavano: un San Giorgio! Anche da vecchio, innamorava le
donne.
Richiuse gli occhi e
a bassa voce recitò la chiusa della lettera, che sapeva a
memoria:
"Voi, più
giovani, questa ragione avete ancora, epperò vivete per essa e ricordatevi
qualche volta con affetto del vostro Gerlando Laurentano. Vedete? E vissi
io, come lui volle. E qua, sotto la lettera, che mi feci restituire da don
Mariano Gioèni, ho voluto appendere, come in risposta, le mie medaglie. Ma prima
di guadagnarmele! Sedete, qua; non vi
stancate...
Dianella sedette
sul vecchio divano. In quel punto, donna Sara Alàimo, sentendo parlare nel
camerone e vedendo insolitamente l'uscio socchiuso, sporse il capo
incuffiato a guardare.
"Che
volete voi qua?" saltò su Mauro Mortara, come avrebbe fatto, se vivo, quel
leopardo. - "Qua non c'è nulla per
voi!"
"Puh!" fece donna
Sara, ritraendo subito il capo. "E chi vi
tocca?"
Mauro corse a
sprangar l'uscio.
"La
strozzerei! Non la posso soffrire, non la posso vedere, questa spiaccia dei
preti! S’arrischia anche a ficcare il naso qua dentro ora? Non l'aveva mai
fatto! La tengono qua i preti, sapete? approfittandosi di quel babbeo di don
Cosmo. I Sanfedisti, i
Sanfedisti..."
Ma ci sono
ancora davvero codesti Sanfedisti?" domandò Dianella con un benevolo
sorriso.
"Oh Marasantissima,
lasciatevi servire!" tornò ad esclamare il Mortara. Se ci sono! Forse ora si
fanno chiamare d'un’altra maniera; ma sono sempre quelli. Setta infernale,
sparsa per tutto il mondo! Spie dappertutto: ne trovai una finanche in Turchia,
figuratevi! a
Costantinopoli.
"Siete stato
fin là?" domandò Dianella.
"Fin là? Ma piú lontano ancora!" rispose Mauro con
un sorriso di soddisfazione. "Dove non sono stato e che cosa non ho fatto io?
Contiamo; ma non bastano le dita delle mani: pecorajo, contadino, servitore,
mozzo di nave, scaricatore di bordo, stivatore, fochista, cuoco, bagnino,
cacciatore di bestie feroci, poi volontario garibaldino, attendente di Bixio;
poi, dopo la Rivoluzione, capo-carcerario: trecento galeotti ho tenuto in un
pugno a Santo Vito, che volevano scappare; e alla fine, qua, campagnuolo di
nuovo. La mia vita? Non parrebbe vera, se qualcuno la volesse
raccontare."
Stette un pezzo
a lisciarsi la barba, mentre gli occhi verdastri gli ridevano lucidi, al fremito
interno dei ricordi.
"Tagliate un tronco d'albero," disse, "e buttatelo a mare, lontano dalla
spiaggia. Dove andrà a finire? Ero come un tronco d'albero, nato e cresciuto
qua, a Valsanía. Venne la bufera e mi schiantò. Prima partí il Generale coi
compagni; io partii due giorni dopo, di notte, sopra un bastimento a vela,
com'usava a quei tempi: una barcaccia di quelle che chiamano tartane. Ora rido.
Sapeste però che spavento, quella notte, sul
mare!"
"La prima
volta?"
"Chi c'era mai
stato! Nero, tutto nero, cielo e mare. Solo la vela, stesa, biancheggiava. Le
stelle, fitte fitte, alte, parevano polvere. Il mare si rompeva urtando contro i
fianchi della tartana, e l'albero cigolava. Poi spuntò la luna, e il bestione si
abbonacciò. I marinai, a prua, fumavano a pipa e chiacchieravano tra loro; io,
buttato là, tra le balle e il cordame incatramato, vedevo il fuoco delle loro
pipe; piangevo, con gli occhi spalancati, senz'accorgermene. Le lagrime mi
cadevano su le mani. Ero come una creatura di cinque anni; e ne avevo trentatré!
Addio, Sicilia; addio, Valsanía; Girgenti che si vede da lontano, lassú, alta;
addio, campane di San Gerlando, di cui nel silenzio della campagna m'arrivava il
ronzío; addio, alberi che conoscevo a uno a uno... Voi non vi potete immaginare,
come da lontano vi s’avvistino le cose care che lasciate e vi afferrino e vi
strappino l'anima! Io vedevo certi luoghi, qua, di Valsanía, proprio come se vi
fossi; meglio, anzi; nota certe cose, che prima non avevo mai notato; come
tremavano i fili d'erba alla brezza grecalina, un sasso caduto dal murello, un
albero un po' storto a pendío, che si sarebbe potuto raddrizzare, e di cui
potevo contare le foglie, a una a una... Basta! All'alba, giunsi a Malta. Prima
si tocca l'isola di Gozzo... Malta, capite? tutta come un golfo, abbraccia il
mare. Qua e là, tante insenature. In una di queste è Burmula, dove il Generale
aveva preso stanza. Grossi porti, selve di navi; e gente d'ogni razza, d'ogni
nazione: Arabi, Turchi, Beduini, Marocchini; e poi Inglesi, Francesi, Spagnuoli.
Cento lingue. Nel Cinquanta, ci scoppiò il colera, portato dagli Ebrei di Susa
che avevano con loro belle femmine, belle! ma, sapete? ragazzette fresche, di
sedici e diciott'anni come
voi..."
"Oh, ne ho di piú
io!" - sorrise Dianella.
"Di
piú? Non pare. Si dipingevano. Senza bisogno," seguitò Mauro, "come se fossero
state vecchie. Peccato! Belle femmine! Portarono il colera, vi dicevo:
un'epidemia terribile! Figuratevi che a Burmula, paesettuccio, in una sola
giornata, ottocento morti. Come le mosche si moriva. Ma la morte a un
disgraziato che paura può fare? Io mangiavo, come niente, petronciani e
pomodori: lo facevo apposta. Avevo imparato una canzonetta maltese e la cantavo
giorno e notte, a cavalcioni d'una finestra. Perché ero
innamorato.
"Ah sí? Là?"
domandò Dianella, sorpresa.
"Non là," rispose Mauro. "Avevo lasciato qua, a Valsanía, una villanella con cui
facevo all'amore: Serafina... Si maritò con un altro, dopo un anno appena. E io
cantavo... Volete sentire la canzonetta? Me la ricordo ancora."
Socchiuse gli
occhi, buttò indietro il capo e si mise a canticchiare in falsetto, pronunciando
a suo modo le parole di quella canzonetta popolare:
Ahi me kalbi, kentu giani...
Dianella lo guardava,
ammirata, con un intenerimento e una dolcezza accorata, che spirava anche dal
mesto ritmo di quell'arietta d'un tempo e d'un paese lontano, la quale affiorava
su le labbra di quel vecchio, fievole eco della remota, avventurosa gioventú.
Non sospettava minimamente sotto ruvida scorza del Mortara la tenerezza di tali
ricordi.
"Com'è bella!"
disse.
"Ricantatela."
Mauro, commosso. fe’ cenno di no, con un dito.
"Non posso; non ho voce.
Sapete che vogliono dire le prime parole? Ahimè, il cuore mi duole. Il
senso delle altre non lo ricordo piú. Piaceva tanto al Generale, questa
canzonetta. Me la faceva cantare sempre. Eh, avevo buon voce, allora... Voi
guardate il leopardo? Ora vi
racconto.
E seguitò a
raccontarle come, dopo la morte del Generale, rimasto solo a Burmula, non
volendo ritornare in Sicilia dove s’era già compromesso, si fosse recato a La
Valletta. Qua, gli esiliati siciliani avrebbero voluto ajutarlo; ma egli,
sapendo in che misere condizioni si trovassero, aveva rifiutato ogni soccorso e
s’era messo a lavorare nel porto, come mozzo come scaricatore, come stivatore.
Mancavano le braccia, decimata la popolazione dal colera. Poi s’era imbarcato su
un piroscafo inglese da fochista. Per piú di sei mesi era stato sepolto lí, nel
saldo ventre strepitoso della nave, ad arrostirsi al fuoco alimentato notte e
giorno, senza mai sapere dove s’andasse. I macchinisti inglesi lo guardavano e
ridevano - chi sa perché - e un giorno, per forza, avevano voluto presentarlo,
cosí tutto affumicato com'era, al capitano - pezzo d'omone sanguigno, con una
barbaccia fulva che gli arrivava fin quasi ai ginocchi - e il capitano gli aveva
piú volte battuto la spalla, lodandolo forse per lo zelo. Egli, difatti, in
tutti quei mesi, non s’era dato un momento di requie, neanche per prendere un
boccone; aveva perduto l'appetito: beveva soltanto, per temprar l'arsura del
corpo che, là sotto, smaniava il respiro, un po' d'aria! Unico svago, quando si
approdava in qualche porto, un vecchio libro di cucina, tutto squinternato, sul
quale aveva imparato a compitare con l'ajuto del cuoco di bordo, anch’esso
italiano, da lungo tempo spatriato a
Malta.
Svago e tesoro, per
lui, quel libro! Perché, un giorno, il cuoco, ammalatosi gravemente, era stato
sbarcato a Smirne e, in mancanza d'altri, alla prova di quest'altro fuoco era
stato messo lui, erede del libro e della dottrina culinaria di quello. S’era
dato con tutto l'impegno a questo nuovo ufficio e in breve aveva saputo
contentar cosí bene il capitano, che questi poi, vedendolo lí lí per ammalarsi
come quell'altro cuoco, spontaneamente lo aveva allogato quale sguattero in una
famiglia inglese, ricchissima, domiciliata a Costantinopoli. Ma la malattia
contratta a bordo non lo aveva lasciato lungo tempo a quel posto, per un tristo
accidente capitatogli uno di quei giorni. Un droghieruccio d'Alcamo, stabilito
da molti anni là a Costantinopoli, dal quale egli si recava qualche volta per
sentir parlare il dialetto nativo, aveva voluto avvelenarlo. Sì! Invece d'una
pozione d'olio di mandorle dolci, gli aveva dato forse olio di mandorle amare.
Spia dei preti, dei Sanfedisti, anche quello! Sbaglio involontario? Ma che!
Ricordava bene che una volta colui aveva osato rimproverarlo acerbamente per
l'avventura del francescano appeso, ch’egli, cosí per ridere, gli aveva narrata.
Ah, ma rimessosi per miracolo, dopo circa tre mesi, dall'avvelenamento, gli
aveva fatto pagar caro il delitto. Con un pugno (e Mauro mostrò sorridendo il
pugno) lo aveva steso là, nella bottega. Aveva al dito un grosso anello di
ferro, come un chiodo ritorto, comperato a Smirne, e con esso - senza volerlo,
veh! gli aveva sfracellato la tempia. Ripresosi dal pauroso sbalordimento nel
vederselo cascare giú tutto in un fascio sotto gli occhi, insanguinato, s’era
dato alla fuga e poche ore dopo era partito con una nave che si recava a un
piccolo porto dell'Asia Minore. Non ricordava piú il nome del paesello di mare
in cui era disceso: era d'estate e aveva trovato subito da allogarsi come
bagnino.
"Avete sentito
nominare Orazio Antinori?" domandò a questo punto il
Mortara.
"L'esploratore?
Sì," disse Dianella.
"Venne
là, ai bagni, un giorno," seguitò Mauro, "con un altro italiano. Li sentii
parlare e m'accostai. L'Antinori assoldava cacciatori per la caccia delle fiere,
nel deserto di Libia. Gli piacqui, mi prese con sé. Noi andavamo; gli mandavamo
le fiere uccise; egli le imbalsamava e poi le spediva ai musei, a Londra, a
Vienna... Quando ritornavo dalle cacce siccome lui mi voleva bene sapendomi
fidato, lo ajutavo a preparar le droghe, e intanto, zitto zitto, gli rubavo
l'arte. Così imparai a imbalsamare; e quando lui andò via, seguitai per conto
mio la caccia e la spedizione. Vi voglio raccontare una certa avventura. Un
giorno, eravamo sperduti, io e lui, morti di fame e di sete. A un certo punto
avvistammo alcuni alberi di fico e li prendemmo d'assalto, figuratevi! Ma i
fichi migliori erano in alto e non potevamo prenderli. Allora io, contadino, che
feci? m'allontanai e ritornai poco dopo, munito d'una canna bella lunga; la
spaccai un po' in cima e con essa mi misi a cogliere i fichi alti piú maturi,
con la lagrima di latte: un miele, vi dico! L'Antinori mi guardava e si rodeva
dentro. Alla fine non poté piú reggere e mi gridò: "Che fai? La smetti? Vuoi
farmi ammazzare dai Turchi?" Capii l'antifona. Zitto, stesi il braccio e gli
porsi la canna. Andai a prenderne un'altra, e tutti e due seguitammo a rubar
fichi tranquillamente. Ah, l'Antinori... mi voleva bene, e m'ajutò tanto, anche
da lontano. Stetti lí piú di sei anni. Poi sentii che Garibaldi era sbarcato a
Marsala, volai subito in Sicilia. Sbarco a Messina; raggiungo i volontarii a
Milazzo. Don Stefano Auriti mi morí tra le braccia. Non poteva piú parlare, mi
raccomandava con gli occhi il figlio, don Roberto, il suo leonetto di dodici
anni... Ci battemmo! A Reggio aprii il fuoco io, sapete? la prima fucilata fu la
mia! Poi Bixio mi prese per attendente... Che giornata, quella del Volturno! Ma
ora, dopo aver visto tante cose, dopo averne passate tante, sono soddisfatto,
che volete! L'Italia è grande! L'Italia è alla testa delle nazioni! Detta legge
nel mondo! E posso dire che anch’io, cosí da povero ignorante e meschino come
sono, ho fatto qualche cosa, senza tante chiacchiere. Posso andare dal re e
dirgli: "Maestà, alla sedia su cui voi sedete, se non una gamba o una traversa,
un piccolo pernio, qualche cavicchio, l'ho messo anch’io. La mia parte l'ho
fatta, figlio mio!" E sono contento. Cammino qua per Valsanía, vedo i fili del
telegrafo, sento ronzare il palo, come se ci fosse dentro un nido di calabroni,
e il petto mi s’allarga; dico: "Frutto della Rivoluzione!" Vado piú là, vedo la
ferrovia, il treno che si caccia sottoterra, nel traforo sotto Valsanía, che mi
pare un sogno; e dico: "Frutto della Rivoluzione!" Vado sotto il pino, guardo il
mare, vedo laggiú a ponente Porto Empedocle, che al tempo della mia partenza per
Maka non aveva altro che la Torre, il Rastiglio, il Molo Vecchio e quattro
casucce, e ora è diventato quasi una città; vedo le due lunghe scogliere del
nuovo porto, che mi pajono due braccia tese a tutte le navi di tutti i paesi
civili del mondo, come per dire: "Venite! venite! l'Italia è risorta, l'Italia
abbraccia tutti, dà a tutti la ricchezza del suo zolfo, la ricchezza dei suoi
giardini!" Frutto della Rivoluzione, anche questo, penso, e - vedete? - mi metto
a piangere come un bambino, dalla
gioja...
Cavò, cosí dicendo,
dall'apertura della ruvida camicia d'albagio un grosso fazzoletto di cotone
turchino, e si asciugò gli occhi, che gli s’erano veramente riempiti di
lagrime.
Dianella sentí
anche lei inumidirsi gli occhi. Quel vecchio che incuteva tanta paura, che aveva
ucciso un uomo come niente e ne aveva fatto morire un altro per l'ombra d'un
sospetto maniaco; che andava cosí armato, in procinto sempre di versare altro
sangue, pronto com'era all'ira e irsuto e ombroso; quel vecchio, ecco, piangeva
come un fanciullo per l'opera compiuta, ch’egli vedeva senza mende e gloriosa;
piangeva esaltandosi nella sua gesta e nella grandezza della patria, per cui
aveva tanto sofferto e combattuto, senza chieder mai nulla, generoso e feroce,
fedele come un cane e coraggioso come un leone. Né i suoi colombi, né la pace
dei campi, né il governo della vigna, né il canto delle allodole, riuscivano a
rasserenargli lo spirito dopo tanto tempo: quel camerone era come la sua chiesa;
e usciva di là com'ebbro, e s’aggirava per la campagna sotto i mandorli e gli
olivi, parlando tra sé di battaglie e di congiure, guardando biecamente il mare
dalla parte di Tunisi, donde immaginava un improvviso assalto dei
Francesi...
Un rumore di
sonaglioli e il rotolío d'una vettura vennero a un tratto a scuotere Dianella da
queste considerazioni e Mauro dal
pianto.
"Vostro padre?"
domandò questi, infoscandosi d'un subito e ricacciandosi nell'apertura della
camicia il fazzoletto.
Dianella si levò, costernata, e corse alla finestra a
guardare attraverso le stecche delle persiane. Restò. Dalla vettura, che s’era
fermata davanti alla villa, scendevano il padre, di ritorno, e Aurelio Costa -
lui! - in tenuta da
campagna.
"Andate, andate,"
le disse Mauro, quasi spingendola. "Chiudo e me ne
scappo!"
Dianella uscí sul
corridojo e vide in fondo a esso il Costa e il padre, diretti alla camera di
questo, nella quale si chiusero. Allora Mauro Mortara, come una bestia sorpresa
nel giaccio, sgattajolò ranco ranco, senza dirle
nulla.
Ella rimase
perplessa, profondamente turbata, non sapendo che pensare di quell'improvviso
insolito ritorno del padre. Evidentemente, tanto questo ritorno quanto la venuta
d'Aurelio Costa si connettevano con le notizie dei tumulti d'Aragona. Qualcosa
di molto grave doveva essere accaduto. Era fuggito Aurelio? No: Dianella non
volle nemmeno supporlo. Forse il padre stesso aveva mandato a chiamarlo. Con
quale animo?
Fu tentata di
recarsi nella sua camera, attigua a quella del padre, se le riuscisse di
cogliere qualche parola attraverso la parete, ma ricordò lo sguardo del padre,
quella mattina, e se n'astenne; rimase tuttavia come tenuta tra due, nella sala
d'ingresso.
"Suo papà," le
annunziò donna Sara Alàimo, sporgendo il capo dall'uscio della
cucina.
Dianella le accennò
di sì col capo.
"Con
l'ingegnere," aggiunse donna Sara,
sottovoce.
Dianella le
accennò di nuovo col capo che sapeva, e uscí sul pianerottolo della scala
esterna. La vettura era lí ancora, in attesa, a piè della scala. Dunque il padre
doveva ripartire subito? Forse era venuto per prendere qualche
carta.
"Andrete a Porto
Empedocle adesso?" domandò al
cocchiere.
"Eccellenza, sì"
rispose questi.
Ed ecco il
padre e il Costa frettolosi. Flaminio Salvo non s’aspettava di trovar la figlia
sul pianerottolo della scala, e, vedendola, si tirò un po' indietro, senza
fermarsi, le fece un sorriso e la salutò con la mano. Aurelio Costa, che gli
veniva dietro, rimase un istante confuso, accennò di togliersi il berretto da
viaggio ma il Salvo gli
gridò:
"Andiamo,
andiamo..."
Dianella,
pallida, col fiato rattenuto, li vide montare su la vettura, partire senza
volgere il capo, e li seguí con gli occhi finché non scomparvero tra gli alberi
del viale.
Com'era cangiato
Aurelio! Sconvolto... Pareva malato, invecchiato, con la barba non rifatta...
Dianella pensò al giudizio che ne aveva dato Nicoletta Capolino. Avrebbe voluto
vederlo più altero di fronte al padre; avrebbe voluto che, non ostante il
richiamo imperioso di questo, egli si fosse fermato lí sul pianerottolo, almeno
per salutarla. Invece subito aveva obbedito... Forse il momento.. Chi sa che era
accaduto alle zolfare!
Flaminio Salvo ritornò tardi, la sera, d'umor gajo, come ogni qual volta
prendeva una grave decisione.
A cena, si scusò con don Cosmo della sfuriata
della mattina; disse che n'aveva fino alla gola, delle innumerevoli seccature
che gli erano diluviate da quelle zolfare d'Aragona, e che aveva deciso di
chiuderle.
"Cosí
sciopereranno un po' per piacer mio, i signori solfaraj, e avranno piú tempo
d'assistere alle prediche dei loro sacerdoti umanitarii. Mangino prediche!
Bello, il vangelo umanitario, don Cosmo, letto su una pagina sola! Se voltassero
pagina. Ma se ne guardano bene! Hanno ragione; ma la loro ragione è
qua!"
E si toccò il
ventre.
"Andate a far loro
intendere che la politica doganale seguíta dal Governo italiano è stata tutta
una cuccagna per l'industria e gl’industriali dell'alta Italia e una rovina
spaventosa per il Mezzogiorno e per la nostra povera isola; che da anni e anni
l'aumento delle tasse e di tutti i pesi è continuo e continuo il ribasso dei
prodotti; che col prezzo a cui è disceso lo zolfo non solo è assolutamente
impossibile trattarli meglio, ma è addirittura una follía seguitar
l'industria... Io non avevo chiuso le zolfare per loro, per dar loro almeno un
tozzo di pane. Scioperano? Tante grazie! Vuol dire che possono fare a meno di
lavorare. Tutti a spasso!
Allegria!"
"La vita!"
sospirò don Cosmo, con gli angoli della bocca contratti in giú. "A pensarci
bene... Lo zolfo, sicuro... le industrie.. questa tovaglia qua, damascata,
questo bicchiere arrotato... il lume di bronzo... tutte queste minchionerie
sulla tavola... e per la casa... e per le strade... piroscafi sul mare,
ferrovie, palloni per aria... Siamo pazzi, parola d'onore!... Sí, servono,
servono per riempire in qualche modo questa minchioneria massima che chiamiamo
vita, per darle una certa apparenza, una certa consistenza... Mah! Vi giuro che
non so, in certi momenti, se sono piú pazzo io che non ci capisco nulla o quelli
che credono sul serio di capirci qualche cosa e parlano e si muovono, come se
avessero veramente un qualche scopo davanti a loro, il quale poi, raggiunto, non
dovesse a loro stessi apparir vano. Io comincerei, signor mio, dal rompere
questo bicchiere. Poi butterei giú la casa... Ricominciando daccapo, chi sa!...
Voi dite che quei disgraziati la ragione l'hanno qua? Beati loro, signor mio! E
guaj se si saziano... Dove l'avete piú voi, la ragione? Dove l'ho piú
io?
Poco dopo, Flaminio
Salvo e Dianella erano affacciati alla finestra. La notte era scurissima. Le
stelle profonde, che pungevano e allargavano il cielo, non arrivavano a far lume
in terra. I grilli scampanellavano lontano ininterrottamente e, a quando a
quando, dal fondo del vallone saliva il verso accorato d'un gufo, come un
singulto. Il bujo, il silenzio intorno alla villa era qua e là a tratti punto e
vibrante di rapidi stridi di nottole invisibili. Poi la luna emerse, paonazza,
sú dall'ampia chiostra di Monserrato in fondo, e s’avvertí un lievissimo
brulichío di foglie per tutta la campagna. Un cane, lontano,
abbajò.
"Tu non hai niente,
Dianella, proprio niente da dire a tuo padre?" domandò il Salvo senza guardarla,
con tono mesto, come se con l'anima vagasse lontano assai da quella
finestra.
"Io?" fece
Dianella, incerta e quasi sbigottita. "Niente... Che potrei dirti?"
"Niente,
dunque," riprese il padre. "Nessun piccolo, piccolo segreto... niente, eh? Sono
contento. Perché tu, povera figliuola mia, purtroppo hai soltanto me, preso da
tante brighe... E oggi... che giornataccia!... Sai che manca a molti? Il senso
dell'opportunità. Non dico che avrei risposto di sí, se la domanda mi fosse
stata rivolta in altro giorno, in altro modo; ma avrei risposto di no, almeno
con piú garbo, ecco, dopo aver parlato con
te.
Dianella temette,
ascoltando queste parole calme e lente del padre, che questi potesse udire il
violento martellare del cuore di lei, sospeso in un'aspettazione angosciosa, tra
l'impetuoso ribollimento di tutto il sangue per le
vene.
"Mi hanno chiesto...
tu m'intendi," seguitò il Salvo, voltandosi a spiarla negli occhi. "E io, certo
che la mia buona figliuola, cosí savia, non poteva aver fissato neanche per un
momento la propria attenzione su un giovane - oh, buono, sì; ma pure, per tante
ragioni, non adatto né degno preso in quel momento proprio inopportuno, ho
rifiutato senz'altro. Vediamo un po', non
indovini?"
"No..." rispose,
piú col fiato che con la voce,
Dianella.
"Non indovini
proprio?" insistette il padre, sorridendo come conscio della tortura che le
infliggeva. "Sú, pròvati..."
"Non... non saprei..." balbettò
lei.
"E allora bisognerà che
te lo dica," concluse il padre "perché tu sappia regolarti. Il De
Vincentis..."
"Ah!" esclamò
Dianella, con uno scatto di riso irresistibile. "Quel povero
Niní?"
"Quel povero Niní,"
ripeté il padre, scrollando il capo e sorridendo anche lui. "Dunque, te
l'aspettavi?
"No, ti giuro,"
s’affrettò a rispondergli Dianella, con vivacità. "M'ero accorta,
sí..."
"Ma t'aspettavi
qualche altro?" tornò a domandare il padre, pronto, guardandola piú
acutamente.
Dianella allora
s’impuntò e sostenne lo sguardo del padre con fredda
fermezza.
"Ti ho detto di
no."
Il sospetto che il
padre con quel discorso avesse voluto tenderle un'insidia era divenuto certezza.
Forse non era neanche vero che Niní De Vincentis gli avesse fatto quella
richiesta. E l'essersi il padre servito di lui, povero giovane troppo dabbene,
quasi per metterlo in dileggio, le parve odioso, sapendo il De Vincentis anche
peraltro vittima del padre.
Questi non disse piú nulla; rimase ancora un pezzo alla finestra, a guardar
fuori, poi se ne ritrasse con un sospiro e salutò la figlia per andare a
dormire.
"Buona notte" gli
rispose Dianella,
freddamente.
Appena sola, si
nascose il volto tra le mani e pianse. Le parve che il padre si fosse divertito
a straziarle il cuore, come un gatto col topo. Oh Dio, perché, perché cosí
cattivò anche con la propria figlia, quando gli sarebbe stato cosí facile esser
buono con tutti? Se veramente voleva ch’ella gli dicesse il suo segreto,
ricordandole che non aveva piú da confidarsi con altri, se non con lui, perché,
nello stesso momento che le poneva innanzi la sorte crudele che le aveva tolto
il consiglio e l'amore della madre, le tendeva un'insidia? Dunque, no; era certo
ormai: egli non voleva che lei amasse Aurelio. Aveva chiuso le zolfare; forse
aveva posto a effetto la minaccia della mattina: "Caccio via tutti!". Anche
Aurelio? Oh, Aurelio non aveva piú bisogno di lui, adesso! Perduto quel posto,
tanti altri, anche migliori, avrebbe potuto trovarne subito. E questo forse,
ecco, faceva piú dispetto al padre, aver dato a quel giovane il mezzo di non
aver piú bisogno di lui, e averglielo dato per un dovere che a lui lo legava.
Voleva che tutti fossero docili strumenti nelle sue mani; e Aurelio invece
avrebbe potuto levarglisi contro, dov'egli piú temeva la ribellione: nel cuore
di sua figlia. Sì, sì, perché sapeva bene che ella lo amava. Cosí lo avesse
saputo Aurelio! Ma che sarebbe intanto avvenuto, se davvero il padre, chiuse le
zolfare, lo aveva licenziato? Aurelio se ne sarebbe andato di nuovo lontano,
sarebbe ritornato in Sardegna, senz'alcun sospetto dell'amore di lei, e forse,
là...
Dianella tornò a
nascondersi il volto tra le mani. Nel vuoto angoscioso, fissando l'udito, senza
volerlo, nel fitto continuo scampanellío dei grilli, le parve ch’esso nel
silenzio diventasse di punto in punto piú intenso e piú sonoro; pensò ai tumulti
d'Aragona e di Comitini; e quel fervido concento divenne allora per lei, a un
tratto, il clamore lontano, indefinito d'un popolo in rivolta, di cui Aurelio,
ribelle, andava a farsi duce e vendicatore. E lei? e
lei?
Scoprí il volto: come
un sogno le apparve allora la pace smemorata della campagna, il presente,
all'umido e blando albore lunare. E un fresco rivo inatteso di tenerezza le
scaturí dal cuore; e altre lagrime le velarono gli
occhi.
Ah, era pur bello lo
spettacolo di quella profonda notte lunare su la campagna, con quegli alberi
antichi, immobili nel loro triste sogno perenne, sorgente col fusto dal grembo
della terra, con quei monti laggiú che chiudevano, cupi contro il cielo, il
mistero degli evi piú remoti, con quel tremulo limpido assiduo canto dei grilli
che, sparsi tra le erbe dei piani, pareva persuadessero all'oblio d'ogni
cosa.
Tra quei grilli e
quegli alberi e quella luna e quei monti non era forse un concerto misterioso, a
cui gli uomini restavano estranei? Tanta bellezza non era fatta per gli uomini,
che chiudevano stanchi, a quell'ora, gli occhi al sonno; sarebbe durata tutta la
notte non veduta piú da nessuno, nella solitudine della campagna, quando anche
lei avrebbe chiuso la finestra. Forse voleva questo la nottola invisibile che
strideva svolando lí innanzi, offesa e attratta dal lume: voleva ch’ella non
disturbasse piú oltre con la sua veglia il notturno misterioso concerto della
natura solitaria?
E Dianella
chiuse la finestra: lasciò aperto appena appena uno scuro e, attraverso quello
spiraglio, con le mani congiunte innanzi alla bocca, pregò silenziosamente per
tutta quella bellezza rimasta fuori, animata a un tratto agli occhi di lei dallo
spirito di Dio che gli uomini offendono con le loro torbide e tristi passioni.
Volgendo un ultimo sguardo al viale innanzi alla villa, scorse un'ombra che vi
passeggiava, un cranio lucido sotto la luna. Don Cosmo?
Lui.
Ah, immerso là nello
spirito di Dio, egli forse non lo sentiva! Andava a quell'ora sú e giú per il
viale, con le mani dietro la schiena, assorto tuttavia, certo, nelle sue buje e
vane meditazioni.