Luigi Pirandello
I vecchi e i giovani
Parte I
VII
Nicoletta Capolino
entrò nello studio del marito già abbigliata, con uno strano cappellone piumato
di feltro su i bellissimi capelli corvini. Florida, snella e procacissima,
ardente negli occhi e nelle labbra, spirava dalle segrete sapienti cure della
persona un profumo voluttuoso, inebriante. Era quello un momento drammatico,
d'intermezzo alla commedia che marito e moglie rappresentavano da due anni ogni
giorno, anche nell'intimità delle pareti domestiche, l'una di fronte all'altro,
compiacendosi reciprocamente della loro finezza e della loro bravura. Sapevano
bene l'uno e l'altra che non sarebbero mai riusciti a ingannarsi e non tentavan
nemmeno. Che lo facessero per puro amore dell'arte, non si poteva dire ché
odiavano entrambi in segreto la necessità di quelle loro finzioni. Ma se
volevano vivere insieme, senza scandalo per gli altri, senza troppo disgusto per
sé, riconoscevano di non poterne far di meno. Ed eccoli dunque premurosi a
vestire o meglio, a mascherare di garbata e graziosa menzogna quel loro odio; a
trattar la menzogna come un mesto e caro esercizio di carità reciproca, che si
manifestava in un impegno, in una gara di compitezze ammirevoli, per cui alla
fine marito e moglie avevano acquistato non solo una stima affettuosa del loro
merito, ma anche una sincera gratitudine l'uno per l'altra. E quasi si amavano
davvero.
"Gnazio, non
vado via tranquilla!" diss’ella, entrando, come imbronciata d'un supposto
inganno che la addolorava e costernava." Giurami che non vai a batterti questa
mattina.
"Oh Dio,
Lellè, ma se t'ho detto che vado a Siculiana!" rispose Capolino, levando le mani
per posargliele lievemente sulle braccia. "Dovevo andarci jeri, lo sai. Sta'
tranquilla, cara. Il duello è stato rimandato alla fine delle
elezioni."
Debbo
crederci, proprio?" insistette lei, mentre stentava ad abbottonarsi il guanto
con l'altra mano già
inguantata.
Capolino
volentieri avrebbe risposto a quell'insistenza con uno sbuffo; invece, sorrise;
si accostò premuroso; le prese la mano per abbottonarle lui quel guanto, e vi
s’indugiò, come un
innamorato.
" Sapessi
quanto mi secca d'andare a Valsanía!" soggiunse lei allora, parlandogli quasi
all'orecchio, con
abbandono.
"Ma va'!"
esclamò egli, guardandola negli occhi, come per farle avvertire che quella nota
tenera (molto cara e graziosa, del resto) era per lo meno fuor di tempo e di
luogo.
"Ti giuro!"
replicò lei, ostinandosi, ma pur rispondendo al
sorriso.
Capolino
scattò a ridere
forte:
"Ma va'! ma va'!
che ti divertirai un mondo! Vedere quella foca di Adelaide davanti allo sposo...
Sarà uno spettacolo impagabile! Dici sul serio,
Lellè?"
" Se avessi il
cuore tranquillo..." ripeté Nicoletta. "Jersera ti sei trattenuto qua, chi sa
quanto... Non t'ho sentito venire a
letto..."
"Ma tutta
questa corrispondenza elettorale, non vedi?" le disse egli, indicando la
scrivania. "Zio Salesio, santo Dio, almeno in questo, potrebbe
ajutarmi..."
"Oh sí,
zio Salesio! Fossero
pasticcini..."
"Basta.
Non perder tempo, va' va'... O aspetti la
carrozza?"
Nicoletta
fece con gli occhi il gesto di chi si rassegna a credere non convinto, e
sospirò:
" Se è vero
che vai a Siculiana, al ritorno verso sera, passando dallo stradone, non
potresti venire a
Valsanía?"
"Ah,
potendo, figurati!" rispose egli. "Ma se gli amici... Non ritornerò solo... Se
potrò... dico, se potrò
lasciarli..."
Tese le
labbra per baciarla. Ella ritrasse il capo, istintivamente, temendo di guastarsi
l'acconciatura.
"Perché?"
disse
"Perché mi piaci,
così... Non vuoi darmi un
bacio?"
"Piano,
però..."
Furono
sorpresi dalla vecchia cameriera, la quale veniva ad annunziare che la carrozza
del Salvo era arrivata. Nicoletta si staccò subito dal
marito.
"Ecco, vengo"
disse alla serva; poi, tendendo la mano al marito: "E allora, a
rivederci".
"Divèrtiti"
le augurò il
Capolino.
Quella
vettura, per una cittaduzza come Girgenti, era proprio di più; goffa
ostentazione di lusso e di ricchezza che soltanto il Salvo si poteva passare.
Dal sobborgo Ràbato, ove Capolino abitava, al viale della Passeggiata, ove il
Salvo da alcuni anni s’era fatto costruire un’amenissima villa, si poteva andare
a piedi in
mezz’ora.
Nicoletta non
aveva alcun dubbio che il marito andava a battersi quella mattina. Quante e
quant’altre cose non doveva allo stesso modo sapere, per poter essere così,
gaja, e amante della vita! Ci riusciva, spesso, a forza di volontà, non già a
non saperle, che non le sarebbe stato possibile, ma a fare, proprio, come se non
le sapesse. Di nascosto, quando ne aveva fino alla gola, uno sbuffo, e là!
sollevava l’anima sopra tutte le miserie che la avevano oppressa sempre, fina
dalla nascita. Non doveva sapere, ad esempio, che la madre le aveva fatto
morire, se non proprio di veleno, come qualcuno in paese aveva malignato, certo
però di crepacuore il padre, per unirsi in seconde nozze con colui ch’ella
chiamava zio Salesio, antico scritturale del banco Spoto. Aveva appena cinque
anni, quando il padre le era morto, eppure lo ricordava bene, tanto che la madre
non aveva potuto mai persuaderla a chiamar babbo quel suo secondo marito molto
più giovine di lei. Non era cattivo, no, zio Salesio; ma fatuo, e vano come la
stessa vanità. Appena marito della vedova di Baldassarre Spoto, aveva creduto
sul serio che da quel matrimonio gli fosse derivato quasi un titolo di nobiltà;
e i più strani fumi gli erano saliti al cervello; tutta l’anima anzi gli si era
convertita in fumo. Presto però la brace per quei fumi aveva cominciato a
languire. Spese pazze... E n’avesse almeno goduto! Che supplizio cinese dovevano
essere per lui, tuttora, quelle scarpine di coppale, che lo costringevano ad
andare a passetti di pernice, quasi in punta di piedi! Le male lingue dicevano
che sotto il panciotto teneva il busto, come le donne. Il busto, no; una fascia
di lana teneva, stretta e rigirata piú volte attorno alla vita, anche a
salvaguardia delle reni che gli s’erano ingommate. Non era poi tanto vecchio:
aveva appena qualche annetto piú di Capolino: ma lo sfacimento, ad onta di tutte
le diligenze e delle piú amorose e disperate cure, era cominciato in lui
prestissimo. Pareva adesso un fantoccio automatico: tutto aggiustato, tutto
congegnato, tutto finto: nei denti, nel roseo delle gote, nel nero dei baffetti
incerati e del piccolo pappafico e delle esili sopracciglia e dei radi capelli;
e camminava e si moveva come per virtú di molle, giovanilmente. Gli occhi, però,
tra tanta chimica, quasi smarriti entro le borse gonfie e acquose delle
pàlpebre, esprimevano una pena infinita. Perché erano venuti i guaj, purtroppo,
dopo la morte della moglie. Nicoletta avrebbe potuto sbarazzarsi di lui, ma ne
aveva avuto pietà; s’era presa lei, però l'amministrazione di quel po' ch’era
restato; e le apparenze, sí, aveva voluto salvarle, e zio Salesio (ormai quasi
mummificato) aveva seguitato a mostrarsi per via come un milordino, prodigio
d'eleganza, sempre in calze di seta e scarpine di coppale, in punta di piedi;
ma, in casa, eh, in casa la piú stretta economia. Tanto che un giorno Nicoletta
se l'era visto arrivare con un involto di due polli arrosto finti, di cartone,
sotto il braccio. Sicuro: due polli arrosto di cartone da figurare su la magra
mensa sotto il paramosche di rete metallica. Ogni giorno il povero vecchio se li
mettèva lí davanti, su la tavola, per illudersi: non poteva farne a meno! E quei
due polli di cartone e un tozzo di pane (vero, ma duro per i suoi denti non
veri) erano adesso per intere settimane tutto il suo pranzo giornaliero! Perché
Capolino non aveva voluto prenderlo con sé, e zio Salesio Marullo, rimasto solo
nella vecchia e triste casa che Nicoletta gli aveva ceduto con quel po' ch’era
riuscita a salvare dalla rovina, spesso, non sapendo limitarsi nelle spese, per
comperarsi una bella cravatta o un bel bastoncino, restava digiuno - quando,
beninteso, non si presentava in casa di Flaminio Salvo nell'ora del desinare,
sapendo che la figliastra era lì. E Nicoletta, che per l'onta segreta gli
avrebbe strappato il pappafico o gli occhi, doveva accoglierlo
sorridente.
Sentiva che
avrebbe potuto esser buona, in fondo, e veramente buona le pareva d'essersi
dimostrata in certi momenti della sua vita; ma che intanto un perfido destino
non aveva voluto permetterle d'esser tale. Cattiva per forza doveva essere!
Tutto falso in lei, dentro e fuori e intorno. E una lotta segreta, continua, per
vincer l'afa del disgusto per non sentir l'impiccio della maschera, quantunque
già sul volto le fosse divenuta fina come la stessa pelle. Ma aveva su la fronte
un cerro di capelli svoltato, ribelle, Nicoletta Capolino, e temeva in certe ore
che cosí l'anima qualche giorno le si sarebbe svoltata in petto, in un subito
prorompimento contro la soffocazione di tanti e tanti
anni.
Per ora, il
marito andava a battersi? E lei a
festa!
Per non vedere,
per non esser veduta da troppa gente, ordinò al cocchiere di lasciar la via
Atenéa e di prendere per la strada esterna di Santa Lucia, sotto la città. Non
si curava piú da un pezzo di ciò che la gente pensava nel vederla nella carrozza
del Salvo. Era ormai cosa risaputa. Del resto, anche qua, le apparenze in certo
qual modo erano salvate dalla parentela che Capolino aveva avuto col Salvo e
dall'ufficio ch’ella rappresentava presso la figlia di don Flaminio. L'audacia
aveva sfidato la malignità e, se non vinta del tutto, l'aveva costretta a tacere
e a far di cappello in pubblico; a spettegolare solo in privato, ed anche con
una certa filosofica indulgenza. Perché la filosofia ha questo di buono: che
alla fine dà sempre ragione a chi, comunque, riesca a imporsi.
Villa Salvo era situata
in alto, aerea, e dominava il viale tagliato su la collina dal lato meridionale.
Vi si saliva per ampie scalee, che superavano l'altezza con agevoli fughe. A
ogni ripiano, su i pilastrini, eran quattro statue d'arcigna bruttezza, che
certo non facevano buona accoglienza ai visitatori né si congratulavano molto
con essi della branca superata. Si godeva però di lassú la vista incantevole
dell'intera campagna tutta a pianure e convalli e del mare
lontano.
Prima di
salire al piano superiore della villa, Nicoletta corse diviata allo studio del
Salvo a pianterreno; ma si arrestò d'un tratto su la soglia, vedendo ch’egli non
era solo.
"Avanti,
avanti," disse, inchinandosi, Flaminio Salvo, che stava in piedi davanti alla
scrivania, a cui era seduto un giovine, intento a scrivere: Aurelio
Costa.
"Domando scusa,
se..." cominciò a dire Nicoletta, guardando il Costa che si levava da
sedere.
"Ma non lo
dica!" la interruppe il Salvo, lisciandosi le basette, con un sorriso freddo, a
cui lo sguardo lento degli occhi sotto le grosse palpebre dava un'espressione di
lieve ironia. "Venga avanti... stavo qui a chiacchierare col mio
ingegnere."
Poi,
notando l'impaccio di questo per la presenza della signora,
aggiunse:
" Non vi
conoscete?"
"Veramente,
di nome sí," rispose con una certa disinvoltura Nicoletta. "Credo però non ci
sia mai stata presentazione fra
noi..."
" Oh! e
allora," riprese il Salvo, "per la formalità: l'ingegnere Aurelio Costa, la
signora Lellè
Capolino-Spoto."
Aurelio
Costa, con gli occhi bassi, senza scostarsi dalla scrivania, chinò lievemente il
capo. Era ben messo, senza ombra di ricercatezza, composto e altero nella
maschia bellezza, cui l'insolito abito cittadino, di fresca fattura, faceva
forse apparire un po'
rude.
"Sarà pronta
Adelaide?" domandò Nicoletta al Salvo dopo aver osservato il giovane e risposto
con un lieve sorriso all'inchino sostenuto di
lui.
"Ecco, un
momento," rispose il Salvo. "Segga, segga, donna Lellè. Io vado e torno. Credo
che Adelaide sia
pronta."
E s’avviò per
uscire.
"Ma sarà meglio
che venga sú anch’io!" gli gridò dietro
Nicoletta.
" No,
perché?" disse il Salvo, voltandosi su la soglia. "Viene giú subito
Adelaide."
E
uscí.
Nicoletta non
volle sedere; girò un po', dimenandosi capricciosamente per l'ampia sala
addobbata con sobria
ricchezza.
Aurelio,
rimasto in piedi, non sapeva se dovesse, o no, rimettersi a sedere; temeva di
commettere un atto indelicato; ma, d'altra parte, era urtato dal pensiero che,
per il capriccio di colei, dovesse star lí come un servitore in attesa. E come
una padrona veramente ella era lí: ma a qual prezzo? E dire che lui aveva
sognato tant'anni di farla sua, quella donna! Era anche lui lí al servizio del
Salvo, come lei, come Capolino, come tutti; ma se ella fosse stata sua moglie,
il Salvo non avrebbe certamente osato neppur di pensare che avrebbe potuto
servirsene pe' i suoi senili allettamenti. Là, tra due vecchi si trovava ella
ora, con la sua florida bellezza voluttuosa, contaminata. Ne godeva? Ostentava
di fronte a lui quella sfacciata padronanza? Godeva di quel lusso? degli onori
che le si rendevano per l'onore perduto? Ma sí! Anche deputato sarebbe stato tra
poco suo marito... E lei, moglie d'un deputato! Con lui, invece, che sarebbe
stata, se pur fosse riuscita a vincere l'orrore - già, l'orrore! - d'unirsi a
uno di cosí bassi natali? L'onestà, la gioventú, l'amore puro e santo? Ma
valevan di più per lei le piume ondeggianti e il velo dell'ampio
cappello!
Stanco e
sdegnato, sedette.
" Oh
bravo, sí," esclamò allora Nicoletta, voltandosi a guardarlo. "Mi scusi tanto,
se non gliel'ho detto... Distratta,
pensavo..."
Si
appressò; venne a porsi innanzi alla scrivania, di fronte a lui, con una mossa
repentina, risoluta e provocante della
persona.
"Lei ora starà
qui, ingegnere?"
"
Forse... Non so..." le rispose egli, guardandola a sua volta con fermezza.
"Attendiamo per ora a tracciare un disegno... Se si
attua..."
" Rimarrà
qui?"
"Ci sarà bisogno
d'un
direttore..."
Nicoletta
rimase un po' a guardarlo, sopra pensiero; poi, rialzandosi lievemente con una
mano i capelli su la
fronte:"
"Lei studiò a
Parigi, è vero?"
" Sí,"
rispose lui, reciso, sentendo il profumo inebbriante che ella esalava dalla
procacissima
persona.
"Parigi!"
esclamò Nicoletta Capolino, levando il mento e socchiudendo gli occhi. Ci sono
stata, nel mio viaggio di nozze... e dica un po', volendo, adesso, lei non
potrebbe più ritornare ingegnere
governativo?"
Aurelio
la guardò, stordito da questa subitanea diversione. Aggrottò le ciglia;
rispose:
"Non so. Non
credo. Ma non tenterei neppure. Ritornerei per mio conto in Sardegna. Sono qua
per fare un piacere al signor Salvo. Non perderei nulla,
andandomene."
"Oh lo
so!" disse subito lei. "Coi suoi meriti... Volevo dir questo appunto! E il
signor Salvo certamente non se lo lascerà scappare, se ha in mente, come lei
dice, un
disegno."
Strizzò un
po' gli occhi, e portò un dito alle labbra, stette un po' assorta e riprese con
altro tono di
voce:
"Eppure io mi
ricordo bene di lei, sa? di quando lei era qua, ancora studente...
giovanottino... sí! me ne ricordo benissimo
ora..."
Aurelio fece un
violento sforzo su se stesso per resistere al turbamento, all'urto che le parole
di lei, dette con cosí calma improntitudine, gli cagionavano. Che voleva da lui
quella donna? Perché gli parlava
cosí?
Era veramente
difficile a indovinare; e per Aurelio, anzi, impossibile. L'improvviso,
inopinato incontro con lui; l'impressione che ne aveva ricevuta; i pensieri che
coi feminei sguardi furtivi gli aveva letti in fronte dopo il suo irrompere con
tanta libertà nello studio del Salvo, e poi durante quell'attesa; l'avvilimento
segreto per la sua condizione, che in fondo non poteva non sentire davanti a
quel giovine che un giorno l'aveva chiesta in moglie onestamente, per amore; il
pensiero ch’egli ora sarebbe rimasto lí, nella casa del Salvo, e che Dianella lo
amava in segreto, e che presto egli, con la vicinanza, avrebbe potuto
accorgersene; e che tra poco dunque - ostinandosi Dianella fino a vincere
l'opposizione del padre - lei avrebbe potuto soffrir l'onta d'assistere al
fidanzamento di colui con la figlia del suo padrone, avevano messo in subbuglio
l'anima di Nicoletta Capolino. Sarebbe toccato a lei, allora, di sorvegliare, di
far la guardia ai fidanzati; e quel giovine là, che si mostrava ancor tanto
mortificato del rifiuto ch’ella sdegnosamente aveva opposto alla domanda di lui;
quel giovine là si sarebbe presa una tale rivincita su lei: sarebbe diventato
domani suo padrone anche lui, marito di quella Diana, da cui ella si sentiva
sprezzata e odiata. Ed era pur bello, e forte, e fiero! E ancora (se n'era
accorta bene!), ancora sotto il fascino di lei, per quanto offeso e sdegnato...
Perché poi Flaminio Salvo, che sapeva tutto, se n'era subito uscito e l'aveva
lasciata lí, sola con
lui?
Tornò a strizzar
gli occhi, quasi per smorzare lo sfavillío dei segreti pensieri; e aggiunse con
un tono strano:
"Anche
lei forse si
ricorderà..."
Aurelio,
sconvolto, levò gli occhi a guardarla con una espressione fosca e
dura.
"Non me ne voglia
male," disse allora ella con triste dolcezza, piegando da un lato la testa.
"Poiché lei rimarrà qui e noi avremo occasione di vederci spesso, cogliamo
questa, intanto, per togliere con franchezza un'ombra tra noi, che ci
aduggerebbe. Io passo per sventata; sarò tale, non nego; ma non posso soffrire
le simulazioni, le dissimulazioni d'ogni sorta, per nessuna ragione, i pensieri
coperti... Vogliamo essere buoni
amici?"
Gli tese, cosí
dicendo, la bella mano inanellata- e, dopo la stretta, gliela lasciò ancora un
poco per
aggiungere:
"Tanto,
creda, non glielo dico per civetteria, né per avere un complimento; lei ancora
ha la sua bella libertà; nessuna perdita e nessun rimpianto. Buoni
amici?"
E, sentendo
l'ànsito affannoso e il fruscío della veste di seta di donna Adelaide Salvo,
tornò a stringergli la mano in fretta, apposta, come per dar senso e sapore d'un
patto segreto a quella
conversazione.
"Alla
fiera! alla fiera!" esclamò donna Adelaide, entrando con le mani per aria,
accaldata, sbuffante. "Guarda, Lellè guarda, ingegnere, figlio mio, come mi
hanno parata! Oh, Maria Santissima, mi sembro io stessa una bella puledra
stagionata, tutta infiocchettata, da condurre alla fiera... Ma con Flaminio non
si può combattere, picciotti miei- bisogna fare: Sú, bubbolino,
salutami il re; dir sempre di sí, dir sempre di sí. Ridete? ridete
pure..."
Ridevano,
infatti, Nicoletta Capolino e Aurelio Costa, mentre donna Adelaide con le
braccia aperte si girava intorno come una trottola; ridevano anche,
irresistibilmente, per il piacere di sentire espressa con tanta disinvoltura e
tanta comicità la loro segreta impressione, che essi si sarebbero guardati bene,
non che d'esprimere, ma anche di riflettere, con quella crudezza, su la propria
coscienza. Appunto questo voleva donna Adelaide. La quale sentiva il ridicolo di
quelle nozze strane e tardive, e poneva le mani avanti per disarmar l'altrui
malignità. Dotata di buon senso e d'un certo spirito, aveva stimato di poter
senz'altro approfittare della sua privilegiata condizione e di quella dello
sposo, che mascheravano con pompa sdegnosa quanto vi era d'illegale in quelle
nozze. Ma vi si prestava senza entusiasmo, quasi per fare un piacere al fratello
piú che a se stessa. Sapeva però che il principe era un bellissimo e
garbatissimo uomo. Ella, già anziana, dopo l'entrata di quella simpatica
Nicoletta in casa, che aveva preso tanto impero su Flaminio (e giustamente, veh!
bella figliuola, sacrificata, poverina, da quel cagliostro del marito!), ella
s’era stancata della sua "terribile signorinaggine" come la chiamava, e aveva
detto di sí:
"Sú,
bubbolino, salutanti il
re!"
Senza
municipio; con la chiesa soltanto. Che glien'importava? Vecchia, non avrebbe
fatto figli di certo. L'assoluzione del prete, per lei, bastava, per i parenti e
gli amici bastava, e dunque avanti, alla fiera! allegramente! La musoneria, la
musoneria non poteva soffrire, donna Adelaide. Era impensierita soltanto di
questo: che le avevano detto che il principe aveva la barba lunga. Un uomo con
la barba lunga doveva essere molto serio per forza, o averne per lo meno
l'impostatura. Sperava di fargliela accorciare. Bella Madre Santissima, non ci
avrebbe avuto pazienza, lei, a lisciar peli lunghi come fiumi! Piú corta, la
barba, piú corta... Chionza, popputa, quasi senza collo, non era tuttavia
brutta, donna Adelaide; aveva anzi bello il viso, ma gli occhi troppo lucenti,
d'una lucentezza cruda, quasi di smalto, e lucentissimi i denti che le si
scoprivano tutti nelle sonore risate frequenti. Smaniava sempre, oppressa
com'era e soffocata da quelle enormi poppe sotto il mento, "prepotenti
escrescenze", com'ella le chiamava. E caldo, caldo, caldo; aveva sempre caldo, e
voleva aria! aria! aria!
Non se l'aspettava, intanto,
il vecchio cascinone di Valsanía, nel desolato abbandono in cui da tanti anni
viveva, tutti quei fronzoli e quei pennacchi, tutti quei paramenti sfarzosi che
i tappezzieri gli appendevano dalla mattina. Pareva se li guardasse addosso,
triste e un po' stupito, con gli occhi delle sue finestre. Oh! oh! gli avevano
appeso anche un lungo festone di lauro, come una collana; un'altra collana, piú
sú, di mortella, sotto le gronde, con certi rosoni di carta che avevano
spaventato i passeri del tetto. Povere care creaturine, a cui esso, buon
vecchione ospitale, voleva tanto bene! Eccoli là, tutti scappati via, nascosti
tra le foglie degli alberi attorno. E di là gli mandavano, sgomenti, certi acuti
squittíi, che volevano
dire:
"Oh Dio, che ti
fanno, vecchione, che ti
fanno?"
Mah! S’era da
gran tempo addormentato, il vecchione, nella pace dei campi. Lontano dalla vita
degli uomini e quasi abbandonato da essa, aveva da un pezzo cominciato a
sentirsi nel sogno, cosa della natura: le sue pietre, nel sogno, a risentire la
montagna nativa da cui erano state cavate e intagliate; e l'umidore della terra
profonda era salito e s’era diffuso nei muri, come la linfa nei rami degli
alberi e qua e là per le crepe erano spuntati ciuffi d'erba, e le tegole del
tetto s’eran tutte vestite di musco. Il vecchio cascinone, dormendo, godeva di
sentirsi cosí riprendere dalla terra, di sentire in sé la vita della montagna e
delle piante, per cui ora intendeva meglio la voce dei venti, la voce del mare
vicino, lo sfavillío delle stelle lontane e la blanda carezza lunare. Che bel
tappeto nuovo fiammante su la vecchia scala rustica, che aveva due stanghe verdi
per ringhiera! che scorta di lauri e di bambú sú per i gradini e poi sul
pianerottolo! e che drappi damascati ai davanzali delle finestre e al terrazzo
di levante per nascondere la ringhiera arrugginita! che tappeto anche lí, su
quel terrazzo, e sedie di giunco e tavolini e vasi di fiori... Ora vi rizzavano
una tenda a padiglione. Il ricevimento e la presentazione degli sposi avrebbero
avuto luogo lí, poiché non s’era potuta strappare a Mauro Mortara la chiave del
"camerone". Dall'alba egli era andato a rintanarsi, non si sapeva dove. Don
Cosmo, in maniche di camicia, sbuffava e smaniava per la camera in disordine,
mentre donna Sara Alàimo, ancora spettinata, cercava dentro un'arca antica di
faggio, stretta e lunga come una bara, un abito decente per farlo comparire
nella solenne cerimonia. Spirava da quell'arca piena d'abiti vecchi un denso
acutissimo odore di
canfora.
"Mi tenga il
coperchio, almeno, santo Dio!" gemeva soffocata, come da sotterra, la povera
"casiera". Già due volte il coperchio le era caduto addosso, su le
reni.
E don
Cosmo:
" Gnornò! Siamo
in campagna! Lasciatemi in
pace!"
" Ma si lasci
servire..." seguitava a gemere dentro l'arca donna Sara. "Verrà monsignor
vescovo... verrà la
sposa.."
"E io vi dico,
invece, che non c'è
piú!"
"Ma se l'ho vista
io! C'è! C'è!"
Cercava
un'antica napoleona, che don Cosmo al tempo dei tempi aveva indossata una o due
volte, e rimasta perciò nuova nuova, lí sepolta sotto la canfora, di foggia
antica, sí, ma "abito di tono"
almeno..."
"Eccola
qua!" gridò alla fine, trionfante, donna Sara, rizzandosi su le reni
indolenzite.
E tira e
tira e tira... oh, Dio, cosí lunga?... e
tira...
Le si
allentarono le braccia, a donna Sara. Era una tonaca, quella. La tonaca da
seminarista di don Cosmo Laurentano. Finí di tirarla fuori tutta, mogia mogia,
per ripiegarla a modo e riseppellirla coi debiti riguardi. Tentennò il capo;
sospirò:
"Vero peccato!
Chi sa che, invece di monsignor Montoro, non sarebbe lei a quest'ora vescovo di
Girgenti..."
"Starebbe
fresca la diocesi!" borbottò don Cosmo. "Buttatela via,
giú!"
S’era turbato
alla vista inaspettata di quella tonaca, spettro della sua antica fede
giovanile. Vuota e nera come quella tonaca era rimasta di poi l'anima sua! Che
angosce, che torture gli resuscitava... Con gli angoli della bocca in giú e gli
occhi chiusi, don Cosmo s’immerse nelle memorie lontane e tuttavia dolenti della
sua gioventú tormentata per anni dalla ragione in lotta con la fede. E la
ragione aveva vinto la fede, ma per naufragare poi in quella nera, fredda e
profonda
disperazione.
"C'era o
non c'era?" gli disse donna Sara alla fine, parandoglisi davanti con la
napoleona su le braccia
protese.
Don Cosmo fece
appena in tempo a indossarla. Uno degli uomini di guardia (ne erano venuti otto,
alla spicciolata, da Colimbètra, in gran tenuta) entrò di corsa ad annunziar
l'arrivo di Monsignore. Don Cosmo tornò a sbuffare; volle alzar le braccia per
esprimere il fastidio che gli recava quell'annunzio; ma non poté; la
napoleona...
"Giusta!
attillata! dipinta!" lo prevenne donna
Sara.
"Dipinta un
corno!" gridò don Cosmo. "Mi sega le ascelle, mi
strozza!"
E scappò
via.
Sperava che
arrivasse per ultimo il vescovo e che non toccasse a lui d'accoglierlo e di
tenergli compagnia fino all'arrivo degli altri ospiti. Gli seccavano anche
questi, gli seccava enormemente tutta quella pagliacciata pomposa; ma piú di
tutto e di tutti la vista di monsignor vescovo, di quell'alto rappresentante
d'un mondo da cui egli s’era allontanato dopo tanto strazio, urtato specialmente
dall'ipocrisia di tanti altri suoi compagni, i quali, pur assaliti in segreto
dai suoi stessi dubbii, vi erano rimasti. E monsignor Montoro era appunto fra
questi. Ora si faceva baciar la mano, colui, e aveva la cura suprema delle anime
di un'intera diocesi. Le illusioni incoscienti, le finzioni spontanee e
necessarie dell'anima, don Cosmo, sí, le scusava e le commiserava e compativa;
ma le finzioni coscienti, no, segnatamente in quell'ufficio supremo, in quel
ministero della vita e della
morte.
"Oh bello! oh
bene!" diceva intanto Monsignore, molle molle, smontato dalla vettura e
guardando la campagna intorno, tra Dianella Salvo e il suo segretario, giovane
prete, smilzo e pallidissimo, dagli occhi profondi e intelligenti. "Col mare
vicino... oh bello!... oh bene!... e la valle... e la valle... e
che..."
S’interruppe,
vedendo don Cosmo scender la scala della vecchia villa
infronzolata.
"Oh
eccolo! Caro mio don
Cosmo..."
"Monsignore
riveritissimo," disse questi, inchinandosi
goffamente.
"Caro...
Caro..." ripeté Monsignore, quasi abbracciandolo e battendogli una mano sulla
spalla. "Da quanti mai anni non ci vediamo piú... Vecchi... eh! vecchi... Tu...
(ci daremo del tu, spero, come un tempo noi due) tu devi avere, se non sbaglio,
qualche annetto piú di
me..."
"Forse... sí,"
sospirò don Cosmo. "Ma chi li conta piú, Montoro mio? So che n'ho molti dietro;
pochi, davanti; e quelli mi pesano, e questi mi paiono enormemente lunghi... Non
so altro."
Dianella
Salvo, guardando don Cosmo, aveva atteggiato involontariamente il volto di riso
nel vedergli addosso quell'antica napoleona che gli serrava le spalle e le
braccia. Sorrideva sotto il naso anche il giovine e pallido prete; e gli otto
uomini di guardia, postati e impalati a piè della scala, miravano il fratello
del principe loro padrone, a quel solenne ricevimento, tra afflitti e
mortificati. Donna Sara Alàimo s’era accomodata alla bell'e meglio i capelli
sotto la cuffia ed era scesa a baciar la mano al vescovo, piegando un ginocchio
fino a terra; erano scese con lei le due cameriere insieme col cuoco e il
servitore, e s’era accostata anche la moglie del curàtolo Vanni di Ninfa
coi tre marmocchi sbracati, dalle zampe a roncolo. Monsignore tendeva la mano al
bacio e sorrideva a tutti, chinando il capo. Poi presentò il segretario a don
Cosmo e, salendo la scala della villa, parlò della visita che aveva fatto testé,
di passata, alla chiesuola della Seta, e della festa che gli avevano fatta tutti
gli abitanti di quel
casale.
"Che buona
gente... che buona
gente..."
E domandò a
Dianella e a donna Sara se la domenica andavano a messa lí, a quella
chiesuola.
"So che ci
viene apposta un sacerdote da Porto Empedocle, e che quei buoni borghigiani
raccolgono l'obolo dai viandanti tutta la settimana, per lo
stradone..."
Entrando
nella villa si rivolse a Dianella e le
domandò:
"La
mamma?"
Dianella gli
rispose con un gesto sconsolato delle braccia, impallidendo e guardandolo negli
occhi amaramente.
"Che
pena!" sospirò Monsignore, andando a sedere nel terrazzo già addobbato. "Ma
calma, eh, almeno è
calma?"
"Non si sente!"
esclamò donna Sara.
"E
seguita a pregare, è vero?" aggiunse il
vescovo.
" Sempre,"
rispose
Dianella.
"Consolante
per voi," osservò Monsignore, tentennando lievemente il capo, con gli occhi
globulenti socchiusi, "che nel bujo della mente, soltanto il lume della fede le
sia rimasto acceso... Divina
misericordia..."
"Perdere
la ragione!" mormorò don
Cosmo.
Monsignore si
voltò a guardarlo, piccato. Ma don Cosmo, assorto, non lo vide: pensava per
conto suo.
"Dico serbar
la fede, pur avendo perduto la ragione," spiegò
Monsignore.
" Sí, sí!"
sospirò don Cosmo, riscotendosi. "Ma difficile è il contrario, Monsignore
mio!"
"Credo che non
sia prudente, è vero, farmi vedere da lei?" domandò il vescovo, rivolgendosi a
Dianella, come se non avesse inteso le parole di don Cosmo. "Lasciamola,
lasciamola tranquilla... Con te," soggiunse poi, piano e con un benevolo sorriso
a don Cosmo, "vorrei pur riprendere le fervide discussioni nostre d'un tempo, ma
non ora e non qui... Se tu volessi venire a
trovarmi..."
"Discutere?
Stolido perfetto!" esclamò don Cosmo. "Sono diventato stolido perfetto, caro
Montoro mio... Non connetto piú! Se uno mi dice che due e due fanno sei e un
altro mi dice che fanno
tre..."
"Ecco il
principe!" lo interruppe donna Sara, che guardava verso il viale dalla ringhiera
del
terrazzo.
Monsignore si
alzò con Dianella e don Cosmo per vederlo arrivare. Questi accorse, per
abbracciarlo appena smontato dalla vettura. Cavalcavano ai due lati capitan
Sciaralla e un altro graduato, anch’essi in alta tenuta. Il rosso acceso dei
calzoni spiccava gajamente tra il verde degli alberi e sotto l'azzurro del
cielo. La vettura era chiusa. Il segretario Lisi Prèola sedeva dirimpetto al
principe.
Donna Sara si
ritrasse dal terrazzo, ove rimasero soltanto Monsignore, Dianella Salvo e il
segretario ad assistere dalla ringhiera all'abbraccio che i due fratelli si
sarebbero
scambiato.
Don Ippolito
Laurentano smontò dalla vettura con giovanile agilità. Vestiva da mattina e
aveva in capo un cappello avana dalle ampie tese. Baciò il fratello e subito si
trasse indietro a
osservarlo.
"Cosmo, e
come ti sei conciato?" gli domandò sorridendo. "Ma no! ma no! Vai subito a
levarti codesto monumento dalle
spalle..."
Don Cosmo si
guardò addosso la napoleona, di cui non si ricordava piú, quantunque se ne
sentisse segar le
ascelle.
"Sí, difatti,"
disse, "sento un certo
odore..."
"Odore? Ma tu
appesti, caro!" esclamò don Ippolito. Senti di canfora lontano un
miglio!
E sorrise a
Monsignore e si levò il cappello per salutare Dianella Salvo nel terrazzo; poi
s’avviò per la
scala.
"Vi do la
consolante notizia che siete molto piú stolida di me! ma molto! molto!" diceva
poco dopo don Cosmo alla "casiera" avvilita e stizzita, punto persuasa che
quell'"abito di tono" fosse fuor di luogo in un avvenimento come quello, con la
presenza d'un monsignore. "E mi avete fatto girar la testa," incalzava don
Cosmo, "e mi avete ubriacato con tutta la vostra canfora... Tirate, giú! tirate
subito... Non mi posso scorticare da me! Datemi la mia solita giacca,
adesso."
Quando
ricomparve sul terrazzo, don Ippolito levò le
braccia.
"Ah, sia
lodato Dio! cosí va
bene!"
Monsignore e
Dianella
ridevano.
"Pensate di
donna Sara! che vuoi farci?" sospirò don Cosmo, alzando le spalle. "Vi assicuro
che è molto piú stolida di
me."
" Questo poi!"
disse il principe, ridendo. "E di' un po', Mauro dov'è? non si fa
vedere?"
"Uhm!" fece
don Cosmo. "Sparito! Non ne ho piú nuova da tanti giorni, da che abbiamo
l'onore..."
"Io so
dov'è, - disse Dianella, inchinando graziosamente il capo al complimento di don
Cosmo, che volle interrompere. - Sotto un carubo giú nel vallone... Ma, per
carità non deve saperlo nessuno! Noi abbiamo fatto
amicizia..."
"Ah sí?"
domandò don Ippolito, ammirando con occhi ridenti la gentilezza e la grazia
della fanciulla. "Con
quell'orso?"
"È un gran
pazzo!" sentenziò gravemente don
Cosmo.
"No, perché?" fece
Dianella.
"E guardi poi
chi lo dice, Monsignore!" esclamò i principe. "Non so che pagherei per
assistere, non visto, alle scene che debbono avvenire qua fra tutti e due,
quando son soli..."
Don
Cosmo approvò col capo ed emise il suo solito riso di tre oh! oh!
oh!
"Dev'essere uno
spasso!" aggiunse don
Ippolito.
Dianella
guardava con piacere e indefinibile soddisfazione quel vecchio, a cui la virile
bellezza, la composta vigoria, la sicura padronanza di sé davano una nobiltà
cosí altera e cosí serena a un tempo; indovinava il tratto squisito che doveva
avere senza il minimo studio e però senz'ombra d'affettazione, e soffriva nel
porgli accanto col pensiero sua zia Adelaide di cosí diversa, anzi opposta
natura: scoppiante e sempliciona. Che impressione ne avrebbe ricevuta tra
poco?
Si mossero tutti
dal terrazzo e tutti, tranne Monsignore e il suo segretario che rimasero sul
pianerottolo innanzi alla porta, scesero a piè della scala, quando i sonaglioli
d'argento annunziarono per il viale la vettura di Flaminio Salvo. Don Ippolito
si fece avanti per ajutar le signore a smontare, e sorprese la sposa nell'atto
di sbuffare un Eccoci qua! con le braccia protese verso il cielo della
carrozza, come per spiccicarsele. Finse di non accorgersi di quell'atto
sguajato, facendo piú profondo l'inchino, poi le baciò la mano; la baciò a donna
Nicoletta Capolino, e strinse vigorosamente quella di Flaminio Salvo, mentre le
due signore abbracciavano festosamente Dianella, e don Cosmo restava impacciato,
non sapendo se e come farsi avanti. Capitan Sciaralla su la giumenta bianca
pareva una statua, a piè della scala, innanzi al plotone su
l'attenti.
"Ah, i
militari! lasciatemi vedere i militari!" esclamò donna Adelaide, accorrendo come
una papera, senza accorgersi che dall'alto della scala, tra i cassoni di lauro e
di bambú monsignor Montoro col volto atteggiato di benevolo condiscendente
sorriso per la terza volta si inchinava
invano.
Dianella,
scorgendo alla fine l'imbarazzo di don Cosmo, troncò le espansioni d'affetto di
Nicoletta Capolino, e trattenne la zia per indicargli e presentargli il futuro
cognato.
"Ah già" fece
donna Adelaide, ridendo e stringendogli forte la mano. "Tanto piacere! Il romito
di Valsanía, è vero? Piacerone! E come l'hanno parata bella la villa! Uh,
guarda! guarda! ma c'è già Monsignore... E nessuno me lo
diceva!"
S’avviò in
fretta per la scala; subito il principe accorse per offrirle il braccio; don
Cosmo lo offrí a donna Nicoletta, e Dianella seguí col
padre.
"Vestiti proprio
bene codesti militari!" disse donna Adelaide al principe, tirandosi sú davanti
con la mano libera la veste, per non incespicar nella salita. "Graziosi davvero!
pajono pupi di
zucchero!"
Poi, prima
d'arrivare al pianerottolo in cima alla
scala:
"Monsignore
eccellentissimo! Credevo che Vostra Eccellenza dovesse arrivare col comodo suo,
ed eccola qua invece...
puntuale!"
Il vescovo
sorrise, tese la mano perché donna Adelaide baciasse l'anello, e le
disse:
"Per aver la
gioja di vedervi cosí, a braccio del principe e darvi la benvenuta, donna
Adelaide, nelle case dei
Laurentano.
"Ma che
degnazione, grazie, grazie, proprio gentile, Vostra Eccellenza!" rispose donna
Adelaide, entrando nella villa a un invito del
principe.
Entrò
Monsignore e poi donna Nicoletta e poi Dianella e il Salvo e il segretario del
vescovo e anche don Cosmo: il principe volle entrare per ultimo. Quando si fece
nel terrazzo, sorprese i dolci occhi di Dianella che lo aspettavano, indagatori.
Istintivamente rispose a quello sguardo con un lievissimo
sorriso.
"Bell'uomo,
no?" disse piano a Dianella Nicoletta Capolino. "Non ci sarà punto bisogno
d'accorciargli la barba, come dice
Adelaide."
"Accorciargli
la barba?" domandò
Dianella.
"Sí," riprese
l'altra. "Ci ha fatto tanto ridere in carrozza, con la paura della barba lunga
del principe."
"Che
avete da dire voi due là?" saltò a domandare a questo punto donna Adelaide.
"Ridete di noi? Ridono di me e di voi, caro principe. Ragazzacce! Ma non c'è che
fare: siamo qua per questo; oggi è la nostra giornata... Come alla fiera!
Flaminio, figlio mio, non mi mangiare con gli occhi. Fammi coraggio, piuttosto!
Io ti dico di sí, sempre di sí... Ma lasciami stare allegra! Dico sciocchezze,
perché sono commossa... Andiamo, Nicoletta! Con licenza vostra, principe, vado a
salutare la mia povera
cognata.
E andò seguita
dalla nipote e da
Nicoletta.
Subito il
Salvo, per rimediare all'impressione sgradevole di quella scappata della sorella
nell'animo del principe, spiegò con aria misteriosa che la signora Capolino
ignorava affatto che il marito forse in quel momento stesso si batteva e che lo
credeva invece a Siculiana per il giro
elettorale.
" Preghiamo
Iddio che avvenga bene!" sospirò Monsignore, afflittissimo, levando gli occhi al
cielo.
"Oh, non c'è da
dubitarne!" sorrise il Salvo. "Un avversario ridicolo, che le ha prese da tutti,
sempre: corto, grassoccio e miope forte. Il nostro Capolino,
invece..."
"Ho visto da
lontano, per lo stradone, appena uscito dalla villa," disse don Ippolito, "le
due carrozze che venivano a
Colimbètra."
"Eh già,"
soggiunse il Salvo, "a quest'ora, certamente..
."
E s’interruppe.
Tacquero tutti per un istante, sopraffatti senza volerlo dalla costernazione, e
volarono col pensiero alla villa lontana, dove in quel momento avveniva lo
scontro. Lí era una ben diversa realtà: due uomini a fronte, due sciabole nude,
guizzanti nell'aria; qua, in mezzo al silenzio della campagna, gli addobbi
sfarzosi, improvvisati per una festa, che ora, stranamente, appariva a tutti
quasi fuor di luogo. C'era veramente, fin dall'arrivo, in fondo agli animi una
certa freddezza impicciosa, che tanto il principe quanto il Salvo cercavano dl
dissimulare alla meglio. Tale freddezza proveniva dalla risposta di Landino,
finalmente arrivata, alla lettera del padre: solite congratulazioni, soliti
augurii, espressioni ricercate di compiacimento per la buona e affettuosa
compagnia che il padre avrebbe avuto; ma nessun accenno alla sua venuta per
assistere alle nozze. Don Ippolito, partendo da Colimbètra, aveva divisato di
mandare a Roma Mauro Mortara, perché facesse intendere a Landino quanto
dispiacere gli cagionasse la sua condotta, e lo inducesse a ritornare con sé in
Sicilia. Sapeva che Landino fin dalla prima infanzia nutriva un affetto
tenerissimo e profondo per il vecchio Mauro e una viva ammirazione per il
carattere di lui, per la fedeltà fanatica alla memoria e alle idee del nonno,
per l'atteggiamento quasi sdegnoso che aveva assunto fin da principio e
manteneva tuttora di fronte al padre, cioè di fronte a lui don Ippolito, che
pure era il suo padrone. Nessun ambasciatore forse sarebbe stato piú efficace di
lui. Perché quel vecchio selvaggio era come radicato nel cuore della famiglia.
Volle approfittare di quel momento che le due signore s’erano assentate, per
uscire sul pianerottolo della scala a ordinare a Sciaralla di mandar giú nel
burrone Vanni di Ninfa in cerca di Mauro, a cui voleva parlare Quando ritornò
sul terrazzo, vi ritrovò donna Adelaide, donna Nicoletta e Dianella. Le prime
due s’erano tolti i cappelli Donna Adelaide aveva gli occhi rossi di pianto e
Dianella era piú pallida e piú fosco il
Salvo.
"Io non v'ho
chiesto, don Flaminio," disse il principe afflitto, "d'essere presentato alla
vostra signora, perché so
purtroppo..."
"Oh,
grazie, grazie," lo interruppe il Salvo, stringendosi nel suo cordoglio e
scrollando lievemente il capo, con gli occhi socchiusi, come per dire: "Tanto...
è come se non ci
fosse!".
Donna Adelaide
s’era accostata alla ringhiera del terrazzo e, con le spalle voltate,
s’asciugava gli occhi, si soffiava forte il naso, dicendo a Nicoletta Capolino
che la esortava a
calmarsi:
"Sono
un'asinaccia, lo so! Ma che ci posso fare? Quando la vedo... quando le vedo
quegli occhi... mi fa una pena! una
pena!"
A un tratto,
facendo uno sforzo, alzò le braccia, si provò a sollevare e a scuotere il capo,
come soffocata,
sbuffò:
"Uff, e basta
ora!" e si voltò
sorridente.
Vennero nel
terrazzo due camerieri in livrea con vassoj pieni di tazze e di paste. Dopo la
colazione, monsignor Montoro prese la parola per dichiarare con un forbito
sermoncino (che pur voleva aver l'aria d'essere improvvisato lí per lí, alla
buona) la promessa formale delle prossime nozze, ed esaltò naturalmente i bei
tempi, in cui alla società degli uomini bastava d'intendersi solamente con Dio
per il vincolo matrimoniale, che soltanto la religione può render sacro e
nobile, laddove la legge umana e cosí detta civile lo avvilisce e quasi lo
abietta... Tutti ascoltavano a occhi bassi, religiosamente, le parole dipinte
del vescovo. Solo don Cosmo teneva le ciglia aggrottate e gli occhi serrati,
come se in qualcuna di quelle parole volesse trovar l'appiglio per una
discussione filosofica. Don Ippolito, nel vederlo in quell'atteggiamento, se ne
impensierí sul serio. Flaminio Salvo, dal canto suo, con quella lettera da Roma
attraverso all'anima, pensava che eran belle e buone, sí, quelle considerazioni
del vescovo, ma che intanto il signor figlio del principe faceva orecchie da
mercante, e che non si stava ai patti, e che la sorella senz'alcuna garanzia si
lasciava andare a quella prima compromissione. Per donna Adelaide
quell'orazioncina era come una funzione sacra, quasi come sentir messa: una
formalità, insomma. Tutta una commedia, invece, non molto divertente in quel
punto era per Nicoletta Capolino, e nauseosa per Dianella che guardava costei e
chiaramente le leggeva in fronte ciò che
pensava.
S’era levata
una brezzolina dal mare, e la tenda a padiglione si gonfiava a tratti come un
pallone, e un lembo del drappo damascato sbatteva insolentemente contro le
bacchette della ringhiera nascosta. Questo battío distrasse alla fine
l'attenzione non molto intensa che donna Adelaide prestava all'orazioncina
oramai troppo lunga e, come una nuvola portata dal vento offuscò a un tratto il
sole, ella si chinò alquanto a sbirciare il cielo di sotto la tenda e non poté
tenersi dal
mormorare:
" Purché non
piova...
Queste tre
parole, appena mormorate, ebbero un effetto disastroso, come se tutti
irresistibilmente (tranne Monsignore s’intende) scoprissero una relazione
immediata tra la minaccia della pioggia e quel ponderoso e interminabile
sermone. Don Cosmo sbarrò gli occhi, stralunato; donna Nicoletta non poté
frenare uno scatto di riso; don Flaminio si accigliò; Monsignore s’interruppe,
si smarrí,
disse:
"Speriamo di
no," e subito soggiunse:
"Conchiudo."
Conchiuse, naturalmente, con augurii e rallegramenti, e tutti si levarono
con molto sollievo. Donna Adelaide, sentendosi proprio soffocare sotto quel
parato a padiglione, propose di scendere a passeggiare per il viale. Il principe
tornò a offrirle il braccio, Nicoletta scese con Dianella, e Monsignore, il
Salvo, don Cosmo e il segretario tennero dietro.
Don Ippolito Laurentano si sentiva la lingua inaridita e legata, per la lotta crudele dentro di lui tra il sentimento cavalleresco che lo spingeva a mostrarsi premuroso e galante con la dama, e il disinganno e la repulsione invincibile che i modi di lei, il tratto, i gesti, la voce, il riso gli avevano subito ispirato; tra il bisogno istintivo, prepotente, irresistibile di liberarsene al piú presto, mandando a monte senz'altro quel disegno che ora, in atto, gli appariva cosí intollerabilmente minore dell'idea che se n'era formata e il pensiero della difficoltà dopo quella prima compromissione, e il puntiglio inoltre, segreto e acerbo, contro il figlio lontano, a cui gli pareva di darla vinta, dopo che s’era abbassato fin quasi a chiedergli il permesso di quelle nozze. Gli bolliva dentro, infine, acerrima, la stizza contro Monsignore che cosí ingannevolmente gli aveva dipinto la sposa: "briosetta, gran cuore, indole aperta, sincera, vivace, remissiva..." Che dirle intanto? da che rifarsi a parlarle? Per fortuna sopravvenne capitan Sciaralla ad annunziargli, su l'attenti, che il Mortara era venuto sú dal "vallone".
"E dov'è?" domandò il
principe aspramente. "Digli che venga
qua."
"Mauro?" domandò don
Cosmo. "Eh no, lascialo stare, poveretto... Sai
com'è..."
"Ah, quello che
chiamano il monaco?" esclamò donna Adelaide. "Andiamo a vederlo, andiamo
subito, principe, per
favore!"
"No, zia!" pregò
Dianella, che si pentiva d'avere indicato il nascondiglio... "Lo faremmo
soffrire..."
"Ma è proprio
cosí orso?" disse, stupita, donna
Adelaide.
"Orsissimo!"
confermò don Cosmo.
"Figuratevi," soggiunse Flaminio Salvo, "che, dopo tanti giorni, non ho potuto
ancora vederlo."
E Nicoletta
domandò:
"E vero che ha una
pelle di capro in testa e va armato fino ai
denti?"
"Andiamo noi due
soli, principe!" propose di nuovo donna Adelaide. "Vorrei proprio vederlo... non
so resistere, andiamo!"
Mauro se ne stava davanti alla porta della sua camera a terreno, e guardava
torvo la vigna e il mare. Vedendo il principe con una signora, s’infoscò
vieppiú; ma, come don Ippolito lo chiamò amorevolmente, s’accostò e si curvò a
baciarlo sul petto. Il bacio fu seguíto da una specie di
singulto."
"Vecchio mio,"
disse don Ippolito, intenerito da quel bacio sul cuore, "sai chi è questa
signora?"
"Me lo figuro; e
Dio vi faccia contento!" rispose Mauro, guardando serio donna Adelaide che lo
mirava con gli occhi lucenti, sbarrati, e la bocca
ridente.
"Vorrei far
contento anche te," riprese il principe. "Vuoi andare a
Roma?"
"A Roma? io? "esclamò
Mauro, stordito. "A Roma? E me lo domandate? Chi sa quante volte ci sarei andato
a piedi, pellegrino, se le mie
gambe..."
"Bene," lo
interruppe il principe, "ci andrai col vapore e con la ferrovia. Ho da darti un
incarico per Lando. Vieni domani a Colimbètra... cioè, domani no... lasciami
pensare! Manderò io a chiamarti in settimana. Devo parlarti a
lungo."
" E poi... presto a
Roma?" domandò, titubante,
Mauro.
"Prestissimo!"
"Perché sono
vecchio," soggiunse Mauro. "Su la forca dei due 7... e morire senza veder Roma è
stata sempre la spina mia!"
"Ma ci andrete vestito cosí, a Roma?" gli domandò donna
Adelaide.
"Nossignora," le
rispose Mauro. "Ci ho l'abito buono, di panno, e un bel cappello nero, come
codesto del vostro sposo."
"E codesta berretta lanosa," tornò a domandargli donna Adelaide, "come potete
sopportarla? Oh Dio, io soffro soltanto a
vederla!"
" Questa
berretta..." cominciò a dir Mauro; ma un grido improvviso, dall'altra parte
della cascina, lo
interruppe.
Sopraggiunse,
sconvolto, con passo concitato, Flaminio
Salvo.
"Don Ippolito,
venite! venite!... Il nostro
Capolino..."
"Che è stato?"
gridò donna Adelaide.
"Ferito?" domandò il
principe.
" Sí, pare
gravemente..." rispose il Salvo.
"Venite!"
"Ma chi l'ha
detto?"
"E venuto di corsa
uno dei vostri uomini da Colimbètra... L'hanno portato sú da voi ferito al
petto... non so ancora se di sciabola o di pistola... E la povera signora
Nicoletta che è qua con
noi!"
Quando salirono alla
villa, Nicoletta si dibatteva tra Monsignore e Dianella, gemendo di
continuo:
"Il cuore me lo
diceva! il cuore mi parlava! Il mio cappello... il mio cappello... Presto, la
vettura... Infami, assassini... O Gnazio
mio!"
"La vettura è pronta!"
venne ad annunziare capitan
Sciaralla.
Nicoletta si
lanciò senza salutar
nessuno.
"Voi, principe?"
disse il Salvo.
"Debbo
andare anch’io?" domandò don
Ippolito.
E il
Salvo:
" Sarebbe meglio. Tu,
Adelaide, questa sera rimarrai qua. Andiamo.
Andiamo."
La vettura con
Nicoletta, il principe e il Salvo partí di
galoppo.
"Oh bella Madre
Santissima, che jettatura!" rimase a esclamare sul pianerottolo della scala
donna Adelaide, battendo le mani. "Ma che c'entrava proprio oggi il duello, che
c'entrava? Son cose giuste? Lasci star Dio, Monsignore! Mi faccia il piacere!
Che ci prega?... Mi scusi Vostra Eccellenza, ma sono parti, queste, da fare a
una povera donna come me?"