Luigi Pirandello
I vecchi e i giovani
Parte II
III
L'on.
Ignazio Capolino non capiva nei panni dalla gioja. Migliaja d'operaj, nel suo
collegio, inferociti dalla fame per la chiusura delle zolfare del Salvo,
minacciavano tumulti, rapine, incendii, strage; Aurelio Costa, esposto all'ira
di quelli per le promesse fatte a nome del Salvo, fremeva d'indignazione alle
lepide ciance di S. E. il Sottosegretario di Stato al Ministero d'agricoltura; e
lui gongolava beato dell'insperata affabilità, del tratto confidenziale, da
vecchio amico, con cui quella sotto-eccellenza lo aveva
accolto.
Chiedendo per
il Costa quell'udienza, aveva temuto che l'ostentato prestigio, la vantata
amicizia personale coi membri del Governo, messi alla prova, avrebbero sofferto
la piú affliggente mortificazione; e invece... Ma sí, ma sí, matti da legare,
benissimo! nemici dell'ordine sociale, quei solfaraj là! gente facinorosa, ma
sí! esaltata da quattro impostori degni della forca! Misure estreme? di estremo
rigore? ma sí! benissimo! Non ci voleva altro... Viso fermo, già! polso duro!
Umanità... ah sicuro... fin dov'era possibile... Già, già, oh caro... ma come
no? ma come no?
E
accennava, con timidezza mal dissimulata, d'allungare una mano per batterla o su
la gamba o dietro le spalle del Sottosegretario di Stato, come un cagnolino che,
dopo essersi storcignato per far le feste al padrone che teme severo,
s’arrischia a levare uno zampino per far la prova d'averlo
placato.
Quanto a quel
disegno d'un consorzio obbligatorio tra tutti i produttori di zolfo della
Sicilia, studiato dall'amico ingegnere lí presente... - oh, valorosissimo e
tanto modesto, già del corpo minerario governativo, sí, e uscito
dall'École des Mines di Parigi - quanto a quel disegno, ecco, se
almeno S. E. il Ministro avesse voluto degnarlo d'uno sguardo... No, eh?
impossibile, è vero? il momento... già! già! non era il momento quello! nuova
esca al fuoco, sicuro! ci voleva altro... ma sí! bravissimo! oh caro... come no?
come no?
Uscí dal
palazzo del Ministero, tronfio e congestionato come un tacchino, mentre Aurelio
Costa, per sottrarsi alla tentazione di schiaffeggiarlo o sputargli in faccia,
pallido e muto allungava il passo e lo lasciava
indietro.
"Ingegnere!"
Il
Costa, senza voltarsi, gli rispose con un gesto rabbioso della
mano.
"Ingegnere!" lo
richiamò Capolino, raggiungendolo, fieramente accigliato. "Ma scusi, è pazzo
lei? o che pretendeva di
piú?"
"Mi lasci andare!
per carità, mi lasci andare," gli rispose Aurelio Costa, convulso. "Corro al
telegrafo. Venga qua lui, don Flaminio! Io me ne riparto
domani."
"Ma si calmi!
Dice sul serio?" riprese, con tono tra arrogante e derisorio, Capolino. "Che
voleva lei da un Sottosegretario di Stato? che le buttasse le braccia al collo?
Io non so... Meglio di cosí? Non m'aspettavo io stesso una simile
accoglienza..."
"Eh,
sfido! "ghignò, fremente, il Costa. " Se
lei..."
"Io che cosa?"
rimbeccò pronto Capolino. "Voleva promesse vaghe? fumo? Mi ha trattato, mi ha
parlato da amico, da vero amico! E metta ch’io sono deputato d’opposizione; che
sono stato combattuto dal Governo, accanitamente, nelle elezioni. Lei lo sa
bene!"
"Non so nulla
io!" sbuffò il Costa. "So questo soltanto: che avevo l'ordine, ordine positivo,
che il disegno almeno fosse preso subito in considerazione dal Governo. E lei
non ha speso una parola; lei non ha fatto che
approvare..."
Capolino
lo arrestò, squadrandolo da capo a
piedi.
"Parlo con un
uomo, o parlo con un ragazzino? Dove vive lei? Può credere sul serio che in un
momento come questo, in mezzo a questo pandemonio, si possa attendere all'esame
del suo disegno? L'ordine! Abbia pazienza! Quando ricevette lei quest'ordine da
Flaminio Salvo? Prima di partire, è vero? Ma scusi, ormai... ecco
qua!"
E Capolino con
furioso gesto di sdegno trasse fuori dal fascio di carte che teneva sotto il
braccio la partecipazione delle speciose nozze di S. E. il principe don Ippolito
Laurentano con donna Adelaide
Salvo.
"L'avrà ricevuta
anche lei!" disse. "Si stia zitto, e non pensi piú né a ordini né a
progetti!"
"Ah, dunque,
un giuoco?" esclamò Aurelio Costa. "Con la pelle degli
altri?"
"Ma che pelle!"
fece Capolino, con una
spallata.
"Con la mia
pelle! con la mia pelle, sissignore!" raffermò il Costa infiammato d'ira. "Con
la mia pelle, perché dovrò tornarci io laggiú, ad Aragona, tra i solfaraj! E sa
lei come li ritroverò, dopo sette mesi di sciopero forzato? Tante jene! Ma
perché dunque mi ha fatto promettere a tutti... anche qua, anche qua adesso a
Nicasio Ingrao, al figlio del principe? E tutti gli studii
fatti?"
"Caro
ingegnere, scusi," disse pacatamente Capolino, con gli occhi socchiusi,
trattenendo il sorriso, "lei pratica con Flaminio da tanti anni, e ancora non
s’è accorto che Flaminio non è soltanto uomo d'affari, ma anche uomo politico.
Ora la politica, sa? bisogna viverci un po' in mezzo; la politica, signor mio,
che cos’è in gran parte? giuoco di promesse, via! E lei, scusi, va a cacciarsi
in mezzo proprio in questo
momento..."
"Io?"
proruppe Aurelio Costa, portandosi le mani al petto. " Io, in
mezzo?"
"Ma sí, ma sí,"
affermò con forza Capolino. "Come un cieco, scusi! E non dico soltanto per
questa faccenda qua, del progetto. Lei non vede nulla, lei non capisce... non
capisce tante cose! Dia ascolto a me, ingegnere: non s’impicci piú di nulla! se
ne torni al suo posto... Mi duole, creda, sinceramente, veder fare a un uomo
come lei, per cui ho tanta stima, una figura... non bella, via! non
bella..."
Aurelio Costa
restò dapprima, a queste parole, a bocca aperta, trasecolato; poi si fece
pallido e abbasso gli occhi per un momento; infine, non riuscendo a frenar
l'impeto della
stizza:
"A me,"
balbettò, "a me dice cosí? a me?... Ma io... Quando mai io... a quali cose io mi
son cacciato in mezzo, di mia volontà? Vi sono stato sempre trascinato, io,
tirato per i capelli, e sono stufo, sa? stufo, stufo di queste imprese, di
questi intrighi, e bizze, e
scandali..."
"Scandali,
poi!" fece
Capolino.
"Sissignori,
scandali!" seguitò Aurelio, senza piú freno. "Scandali qua, laggiú... e se non
li vede lei, li vedo io! Basta! basta! Io non ho voluto mai nulla! non ho
aspirato mai a nulla, per sua norma, altro che di stare in pace con la mia
coscienza, e tranquillo, facendo ciò che so fare. E basta! Venga qua lui, ora, e
pensi, dopo le promesse fatte, ad aggiustar bene le cose, perché laggiú, ripeto,
debbo tornarci io, e la pelle non ce la voglio lasciare. La
riverisco."
Ignazio
Capolino lo seguí un tratto con gli occhi; poi si scosse con un altro ghigno
muto, e tentennò a lungo il capo. Se avesse saputo che la vera ragione, per cui
Aurelio Costa voleva che Flaminio Salvo venisse a Roma, era quella stessa
appunto per cui egli voleva che non venisse: sua
moglie!"
Il calore con
cui difendeva quel disegno, studiato veramente con tutto lo zelo scrupoloso che
metteva in ogni sua opera, e la stizza nel vederlo mandato a monte, buttato lí,
senz'alcuna considerazione e quasi deriso, provenivano in fondo dal calore
d'un'altra passione, dalla stizza per un altro smacco, di cui egli, per non
mortificare innanzi a se stesso il suo amor proprio, non si voleva accorgere.
Allontanato da Flaminio Salvo da Girgenti con la scusa di quel disegno, proprio
nel momento in cui la figlia sapeva che Nicoletta Capolino era a Roma col
marito, era accorso come un assetato alla fonte. Aveva creduto di ritrovar qui
Nicoletta come la aveva veduta l'ultima volta a Colimbètra, piena di lusinghe
per lui, ardente e aizzosa. E invece... per miracolo non s’era messa a ridere
nel leggergli nello sguardo profondo il ricordo di quella sera
indimenticabile!"
Capolino,
che aveva tanto da ridire su la condotta della moglie in quei giorni, se ne
sarebbe potuto accorgere; ma da che, a Colimbètra, ancora col petto fasciato per
la ferita, aveva sentito il bisogno d'un pajo d'occhiali, non riusciva a veder
piú nulla con l'antica chiarezza, Capolino, né in sé né attorno a sé. Lo scherzo
di quella palla, scappata fuori con inopinata violenza dalla pistola del
Verònica, gli aveva turbato profondamente la concezione della vita. Fino a quel
punto, aveva creduto di farlo lui agli altri, lo scherzo, uno scherzo che gli
era riuscito sempre bene; ora, all'improvviso e sul piú bello, s’era accorto
che, ad onta di tutte le diligenze e contro ogni previsione, ridendosi d'ogni
arte e d'ogni riparo, il caso, nella sua cecità, può e sa scherzare anche lui,
facendone passare agli altri la voglia. E Capolino era diventato seriissimo.
Già, subito, o per la violenta emozione o per il sangue perduto, gli s’era
indebolita la vista. Il principe don Ippolito, graziosamente, aveva voluto
regalargli lui gli occhiali, un bel pajo d'occhiali serii, con staffe,
cerchietti e sellino di tartaruga. E la vita veduta con quegli occhiali, e da
deputato, gli aveva fatto d'improvviso un curioso effetto: le sue mani, tutte le
cose intorno, sua moglie, il suo passato, il suo avvenire, gli s’erano
presentati con linee, luci e colori nuovi, innanzi a cui egli si era veduto
quasi costretto ad assumer subito un certo cipiglio tra freddo e grave, che
aveva fatto rompere, la prima volta, in una risata sua
moglie:
"Oh povero
Gnazio mio!"
Ed ecco,
segnatamente sua moglie non aveva piú saputo vedersi d'attorno, Capolino: sua
moglie che gli cercava gli occhi dietro quei nuovi occhiali, e non poteva in
alcun modo prenderlo sul
serio.
Venuta a Roma
con lui per quindici o venti giorni, per un mese al piú, Lellè vi si tratteneva
da piú di tre mesi e non accennava ancora, neppur lontanamente, di volersene
partire. O ch’era matta? Tripudiava, Lellè. Aveva trovato finalmente il suo
elemento. Dai Vella, parenti di Flaminio Salvo, e un po' anche del marito per
via della prima moglie, era diventata subito di casa. A Francesco Vella piaceva
il fasto, donna Rosa Vella era tal quale la sorella minore donna Adelaide,
sbuffante e sempliciona, e i loro due figli, Ciccino e Lillina, se Nicoletta
fosse andata a ordinarseli apposta, non avrebbe potuto trovarli piú di suo
gusto. Che amore quella Lillina! Rimasta nubile, ormai spighita nella simpatica
bruttezza tutta pepe, era la compagna inseparabile del fratello Ciccino: piú
scaltra, piú ardita, piú vivace di lui, lo ajutava, lo difendeva, lo guidava, a
parte di tutti i suoi segreti piú intimi. Fratello e sorella non avevano mai
pensato ad altro che a darsi buon tempo; e Nicoletta, con loro, in pochi giorni
era diventata una cavallerizza perfetta; era già andata tre volte alla caccia
della volpe; e teatri e feste e gite: una cuccagna! Lillina sapeva sempre con
precisione quando doveva farsi venire un po' di emicrania o qualche altro
dolorino, per lasciare in libertà Ciccino e la nuova amica Lellè.
Ora Capolino, per
quanto Roma fosse grande, da deputato e con gli occhiali serii, non vi si vedeva
minimo, e temeva che quello sbrigliamento della moglie potesse dare all'occhio.
Del resto, non poteva soffrirlo, non tanto per quello che potevano pensarne gli
altri quanto per sé. Da deputato e con gli occhiali, voleva che anche sua
moglie, ormai, diventasse piú seria. A Roma e con quei Vella attorno e con la
libertà in cui era costretto a lasciarla, non gli pareva possibile. Flaminio
Salvo, ora che donna Adelaide era andata a nozze, certamente avrebbe avuto
bisogno di lei, a Girgenti. Per la figliuola, s’intende; per quella cara
Dianella senza mamma. Se non oggi, domani, avrebbe scritto per pregarla di
ritornare. Non gli pareva l'ora all'onorevole Ignazio Capolino! Ma ecco, adesso,
quell'imbecille del Costa che veniva a guastargli le uova nel paniere! La
pelle... Temeva per la pelle... Pezzo d'asino! Ma già, se non era stato buono in
tanti anni neanche d'accorgersi che Dianella lo amava, che aveva sotto mano la
fortuna, una simile fortuna! come avrebbe riconosciuto ora, che meglio di cosí
un deputato d'opposizione non poteva essere accolto da un Sottosegretario di
Stato? E aveva osato rimproverargli le approvazioni... Ma sicuro! per far
piacere a lui doveva difendere i solfaraj, quasi che, nelle ultime elezioni egli
fosse andato sú anche col suffragio di quei galantuomini! Messo tra il Governo e
i socialisti, poteva un deputato conservatore, d'opposizione, esitare nella
scelta? Ma andate a ragionare di queste cose con uno, a cui la fortuna dava il
pane perché lo sapeva senza denti! Intanto Flaminio Salvo, per seguitare da un
canto la commedia di quel progetto e aver modo dall'altro d'abboccarsi con Lando
Laurentano, che non aveva voluto assistere alle nozze del padre, senza dubbio
sarebbe accorso alla chiamata; e certo avrebbe condotto con sé Dianella, che non
poteva restar sola a Girgenti. E sarebbe forse rimasta a Roma per un pezzo,
Dianella, presso gli zii, per divagarsi e... chi sa! - gli occhi di Flaminio
Salvo vedevano molto lontano Lando andava qualche volta in casa Vella, e... chi
sa! Rimanendo Dianella a Roma, addio ritorno di Lellè a Girgenti. Cosí pensando,
Capolino sbuffava, e gli occhiali serii, con staffe, cerchietti e sellino di
tartaruga, gli
s’appannavano.
Non
passò neanche una settimana, che Flaminio Salvo fu a Roma insieme con Dianella,
come Capolino aveva
preveduto.
Dianella
arrivò come una morta; Flaminio Salvo, al solito, sicuro di sé, con quel sorriso
freddo su le labbra, a cui lo sguardo lento degli occhi sotto le grosse pàlpebre
dava un'espressione di lieve ironia. Furono ospitati dai Vella, che insieme coi
coniugi Capolino e il Costa si recarono ad accoglierli alla stazione. Donna
Rosa, Ciccino e Lillina non conoscevano ancora
Dianella.
"Figlia mia,
o che mangi lucertole?" le domandò in prima la zia Rosa, nel vederle il volto
come di cera e con gli occhi dolenti e smarriti. "Ma capisco, sai? con un uomo
insulso come tuo padre, difficile passarsela bene. Ah, io gliele dico, sai? Non
sono come tua zia Adelaide che cala a tutto la testa. Sono piú grande di lui, e
mi deve
rispettare."
"Io ti
bacio sempre la mano," disse don Flaminio,
inchinandosi.
"Sicuro!
Ecco qua: bacia, bacia!" riprese donna Rosa stendendo la mano tozza, paffuta.
"Sicuro che me la devi baciare! Sta' un po' con noi qua a Roma, figlia mia, e
vedrai che ti farò ritornare in Sicilia bella grossa come una madre badessa.
Vedi questa signora?" aggiunse, indicando Nicoletta Capolino. "Come ti pare?
Brutta è, bisogna dirglielo; ma da che Ciccino e Lillina le hanno fatto far la
cura di trotto a cavallo, vedi l'occhio? piú vivo! Lascia fare ai tuoi cugini,
cara mia. Andiamo, andiamo! Ridere, ridere... Cosa da ridere, la vita, te lo
dico io."
A casa, don
Flaminio narrò mirabilia alla sorella, al cognato, ai nipoti, agli amici, degli
sponsali del principe con donna Adelaide, celebrati da monsignor Montoro nella
cappella di Colimbètra, tra il fior fiore della cittadinanza girgentana. S. A.
R. il Conte di Caserta aveva avuto la degnazione di mandare dalla Costa Azzurra
una lettera autografa d'augurii e rallegramenti agli
sposi.
"E chi è?"
domandò donna Rosa, guardando tutti in giro; poi, picchiandosi la fronte: "Ah
già, ho capito, il fratello di Cecco Bomba... Ero un cognato borbonico, coi
militari... Me l'ha scritto Adelaide! Ora è mai possibile che stia allegra
codesta povera figliuola con tale razza di Altezze Reali che scrivono lettere
autografe per le nozze di sua zia? Va' avanti, va' avanti... Ah se ci fossi
stata io! Codesto tuo principe di
Laurentano..."
Seguitando,
don Flaminio si dichiarò particolarmente grato della presenza di don Cosmo,
fratello dello sposo, alla magnifica festa, e del dono prezioso mandato da Lando
alla matrigna.
"L'ho
visto!" disse
Ciccino.
"L'ha
comperato con noi!" aggiunse
Lillina.
"Ah, dunque lo
conoscete bene?" domandò, contento, don
Flaminio.
E volle
sapere dai nipoti in che intrinsechezza fossero con lui, e che aspetto e che
umore avesse, chiamando a parte la figliuola con vivaci esclamazioni, della sua
meraviglia e del suo compiacimento per le risposte che quelli gli davano. Ma
Dianella si turbò in viso cosí manifestamente e mostrò negli occhi un cosí
strano sbigottimento, ch’egli cangiò a un tratto aria e tono, e finse di
meravigliarsi, perché la gravità delle cose che avvenivano in quei giorni in
Sicilia, e nelle quali il giovane principe, a quanto si diceva, doveva essere
piú d'un po' immischiato, gli pareva non comportasse in lui quell'umor gajo, che
i nipoti dicevano. E prese a raccontare, con atteggiamento di grave
costernazione, i fatti avvenuti di recente in Sicilia, a Serradifalco, a
Catenanuova, ad Alcamo, a Casale Floresta, i quali provavano come in tutta
l'isola covasse un gran fuoco, che presto sarebbe divampato; e a rappresentar la
Sicilia come una catasta immane di legna, d'alberi morti per siccità, e da anni
e anni abbattuti senza misericordia dall'accetta, poiché la pioggia dei
benefizii s’era riversata tutta su l'Italia settentrionale, e mai una goccia ne
era caduta su le arse terre dell'isola. Ora i giovincelli s’erano divertiti ad
accendere sotto la catasta i fasci di paglia delle loro predicazioni
socialistiche, ed ecco che i vecchi ceppi cominciavano a prender fuoco. Erano
per adesso piccoli scoppii striduli, crepitíi qua e là; scappava fuori ora da
una parte ora dall'altra qualche lingua di fiamma minacciosa; ma già s’addensava
nell'aria come una fumicaja soffocante. E il peggio era questo: che il Governo,
invece d'accorrere a gettar acqua, mandava soldati a suscitare altro fuoco col
fuoco delle armi. Ma avesse almeno avuto soldati abbastanza, da fronteggiare
l'impeto delle popolazioni irritate! Gli scarsi presidii, bestialmente incitati
a sparare su le folle inermi, si vedevano costretti, subito dopo, a rinserrarsi
nelle caserme; e allora la folla, inselvaggita dagli eccidii, restava padrona
del campo e assaltava furibonda i municipii e vi appiccava il fuoco. Lo sgomento
intanto si propagava per tutta l'isola; sindaci e prefetti e commissarii di
polizia perdevano la testa; e dove si sarebbe andati a
finire?
Queste cose
disse, rivolto specialmente al cognato Francesco Vella, al Capolino e ad Aurelio
Costa: volle dedicare alle signore il racconto d'una recente prodezza compiuta
da cinquecento donne in un villaggio dell'interno della Sicilia, chiamato
Milocca. Per la speciosa denuncia di un mucchio di concime sparso non già fuori,
ma nelle terre medesime d'un proprietario che non aveva voluto arrendersi ai
nuovi patti colonici dei contadini del Fascio, la forza pubblica aveva
tratto in arresto iniquamente e sottoposto a processo per associazione a
delinquere il presidente e i quattro consiglieri del Fascio stesso. E allora le
donne del villaggio, in numero di cinquecento, indignate dell'ingiustizia e
della prepotenza, s’erano scagliate come tante furie contro la caserma dei
carabinieri, ne avevano sfondato la porta e tratto fuori i cinque arrestati;
poi, ebbre di gioja per la liberazione dei prigionieri, avevano condotto in
trionfo sulle braccia, per le vie del paese, uno dei carabinieri e le armi
strappate loro dalle
mani.
Donna Rosa,
Nicoletta Capolino e Lillina approvarono festosamente la vittoria di quelle
donne gagliarde; ma don Flaminio parò le mani
gridando:
"Piano,
piano! Aspettate! L'allegrezza è stata breve... I milocchesi, dico gli uomini,
che non s’erano affatto immischiati in questa rivolta delle loro donne, saputo
che il prefetto della provincia mandava un rinforzo di soldati e delegati e
giudici a Milocca, cavalcarono le mule e, armati di fucile, presero il largo.
Sono ancora sparsi per le campagne, decisi a vender cara la loro libertà. Ma i
signori giudici, a Milocca, hanno arrestato trentadue donne, di cui alcune
gestanti, altre coi bambini lattanti in collo, e le hanno tradotte ammanettate
nelle carceri di
Mussomeli.
"Valorosi!
valorosi!" esclamò allora donna Rosa. "Ma come? E voi, Gnazio, deputato
siciliano, non levate la voce in Parlamento neanche contro l'arresto delle donne
gravide e delle mamme coi bambini in
collo?"
Don Flaminio
sorrise e, lisciandosi le
basette:
"Non gli
conviene," disse. "Sono gestanti e mamme socialiste. Lui è conservatore.
Quantunque laggiú, sai? don Ippolito Laurentano vorrebbe che il partito
clericale secondasse il movimento proletario e se n'avvalesse, stabilendo anche
con esso qualche accordo segreto. Ma monsignor Montoro, confòrtati, è contrario;
forse perché il canonico Pompeo Agrò è da un mese a Comitini a far propaganda,
non so quanto evangelica, contro me, tra i solfaraj. Basta. Vedremo di stare tra
il padre e il figlio. Domani mi recherò dal giovane principe socialista a
lasciargli un biglietto da
visita."
Capolino
accompagnò Flaminio Salvo in quella gita al villino di via Sommacampagna, tanto
nell'andata quanto nel ritorno. La strana impressione, quasi di sgomento, che
gli aveva fatta la vista di Dianella, all'arrivo, si raffermò al discorso che
gli tenne il Salvo lungo la
via.
Fu al solito un
discorso sinuoso, pieno di sottintesi e di velate allusioni, da cui parve a
Capolino di poter desumere questo: che il Salvo era davvero fortemente
impensierito non dalle condizioni politiche della Sicilia, ma dalle condizioni
di spirito della figliuola, le quali tanto piú dovevano dar da pensare, in
quanto che la madre era pazza; ch’egli intendeva perciò di contentarla, se quel
viaggio a Roma non riusciva agli effetti che se ne riprometteva; contentarla,
anche perché, uscita ormai di casa la sorella, egli, non avendo piú alcuno che
stésse attorno alla figliuola bisognosa di cure, d'affettuosa compagnia, di
distrazioni, avrebbe dovuto sacrificare troppo gli affari, e non poteva (qui
parve a Capolino di dover notare un grave rimprovero per sua moglie, che aveva
osato lasciar sola anche donna Adelaide nell'avvenimento delle nozze);
contentarla, infine, anche per dare ad Aurelio Costa (che presto, fra due o tre
giorni, sarebbe tornato in Sicilia) un premio degno, se riusciva a ridurre a
ragione gli operaj delle
zolfare.
Queste
deduzioni cosí chiare del lungo discorso a mezz'aria del Salvo costarono a
Capolino un cosí intenso sforzo, che uno dei cristalli degli occhiali,
continuamente appannati dagli sbuffi, gli s’infranse tra le dita nervose, a
furia di ripulirlo. Fortuna che le scagliette del cristallo s’infissero soltanto
nel fazzoletto, senza ferirgli le dita. Ma la sera dovette parlare, e
seriamente, alla moglie, senza
occhiali.
Nicoletta
sapeva che l'improvviso arrivo di Flaminio Salvo e di Dianella a Roma era dovuto
al Costa. Piú perspicace del marito, aveva subito preveduto che questo arrivo
avrebbe segnato la fine della sua cuccagna, ed era perciò cosí gonfia d'odio
contro quello che lo avrebbe ucciso senza esitare, se le avessero assicurato
l'impunità. Già aveva veduto il primo effetto dell'arrivo: Ciccino e Lillina
Vella se n'erano andati in giro per Roma con la cuginetta pallida e smarrita,
mettendo lei da parte fin dal primo giorno. Scelto male, dunque, il momento per
un discorso
serio!
"Debbo partire?"
domandò subito, per tagliar corto. " Parto anche domani. Senza chiacchiere. Ma
sola, no!"
"E con chi?"
fece Capolino.
"Io..."
"Tu hai le
sorti d'Italia su le braccia, lo so!" esclamò Nicoletta. "Come potrebbe sedere
la Camera, domani, se tu
mancassi?"
"Ti prego,"
fece Capolino, con un gesto delle mani, che significava freno, prudenza, da un
canto, e dall'altro, sdegno di avviare il discorso, senza scopo, per una china
facile, per quanto sdrucciolevole. "Io sono qui per fare il mio
dovere."
"Anch’io!"
rimbeccò, pronta, Nicoletta. "Non ti pare? Tu, di deputato; io, di moglie. Lo
dice anche il sindaco: la moglie deve seguire il marito. Caro mio, se la pigli
cosí!... Lascia stare i doveri, non mi far ridere! Te l'ho detto: tu, caro mio,
hai perduto da un pezzo in qua la bussola! Parliamoci come prima, o piuttosto,
intendiamoci come prima, senza parlare affatto, per il tuo e per il mio meglio!
Bada, Gnazio, tu sei stufo, ma io piú che piú, e capace... non so, capace in
questo momento di commettere qualunque pazzia. Te
n'avverto!"
" Santo
Dio, ma perché?" gemette Capolino con le mani
giunte.
"Ah, perché?"
gridò Nicoletta, andandogli incontro, vampante d'ira e di sprezzo. "Mi domandi
perché? Mi dici di partire, di ritornarmene laggiú, e mi domandi
perché?"
"Prego,
prego..." cercò d'interromperla Capolino, protendendo adesso le mani, per
arrestare anche col gesto quella furia. "Nel nostro... nel tuo stesso interesse,
scusa! Se non mi lasci
parlare..."
"Ma che
vuoi dire! Lascia stare!" esclamò
Nicoletta.
"So come
debbo dire, non dubitare," riprese Capolino con molta gravità, abbassando gli
occhi. "Tu ignori il discorso che mi ha tenuto Flaminio questa mattina. T'ho
detto nulla, finora, del tuo prolungato soggiorno a Roma? Nulla... E tu stessa
ti sei rimproverata di non esser partita per assistere Adelaide nel giorno delle
nozze. Ora la tua assenza da Girgenti sai qual effetto ha prodotto? Questo,
semplicemente: che Flaminio Salvo, lasciato solo e stanco, ha deciso di
contentar fnalmente la
fgliuola.
Nicoletta
restò a questa
notizia.
"Ah sí?"
disse; e si morse il labbro, fissando nel vuoto gli occhi,
odiosamente.
"Capisci?"
seguitò Capolino. "Teme che le dia di volta il cervello, come alla madre. E mi
pare che il timore non sia infondato. L'hai veduta? Fa
pietà."
" Schifo!"
scattò Nicoletta. "Se ne dovrebbe
vergognare!"
"L'amore..."
sospirò Capolino, alzando le spalle, socchiudendo gli occhi. "E Flaminio
fors’anche pensa che, con l'ombra della pazzia della madre, un degno partito per
la figlia non sarebbe facile trovarlo. Ha messo poi in gravissimi imbarazzi il
Costa laggiú, tra i solfaraj, e pensa di premiar la devozione,
l'abnegazione..."
"Quanti
pensieri!... quante dolcezze!..." disse Nicoletta. "E io dovrei sguazzarci in
mezzo, è vero? come un'ape nel
miele..."
"Tu? perché?"
domandò Capolino.
"Ma
la custode della figlia non sono io?" inveí Nicoletta. "Non toccherà a me allora
covar con gli occhi la coppia innamorata? assistere alle loro carezze, ai loro
colloquii? accogliere in seno le confidenze della timida colombella
risanata?"
Capolino si
strinse nelle spalle, come per dire: "Dopo tutto, che
male?...".
"Ah, no,
caro mio!" riprese con impeto la moglie. "Non me ne importerebbe nulla se, per
il mio interesse, come tu dici, non mi vedessi costretta a far questa parte... E
tu dimentichi un'altra cosa! Che codesto signor ingegnere chiese un giorno la
mia mano, e che io la rifiutai, perché non mi parve degno di me! Bella vendetta,
adesso, per lui, diventare sotto gli occhi miei il fidanzato della figlia di
Flaminio Salvo!"
"Ma
questo, se mai, di fronte a te che l'hai rifiutato," le fece osservar Capolino,
"potrà esser ragione d'avvilimento per la figlia di Flaminio
Salvo..."
"Già! "
esclamò Nicoletta, levandosi. " Perché io adesso sono la moglie dell'onorevole
deputato Ignazio
Capolino!"
"Che vale
molto di piú, ti prego di credere!" gridò questi, dando un pugno sulla tavola e
levandosi in piedi anche lui,
fiero.
Nicoletta lo
squadrò, calma, di sotto in sú; poi
disse:
"Uh, quanto a
meriti, non oserei metterlo in dubbio! Però... però io debbo partire, ecco,
sempre per il mio interesse, come tu dici... Che vuoi? i meriti, caro, non hanno
spesso fortuna."
"Fa
rabbia anche a me," disse allora Capolino, "che uno stupido, un imbecille di
quella fatta debba salire cosí, tirato sú dal favore della sorte, cacciato a
spintoni, come una bestia bendata e restía... Perché egli, sai? l'ha detto a me:
non vorrebbe nulla... Questo è il bello. Non s’accorge di nulla, non capisce
nulla, e la fortuna lo ajuta! Domani, genero di Flaminio
Salvo!"
"Ah no!" scattò
Nicoletta. "Questo matrimonio non si farà! Te l'assicuro io:
non-si-fa-rà!"
Capolino
tornò a stringersi nelle spalle e a socchiudere gli
occhi:
"Se Flaminio
vuole... come potresti
impedirlo?"
"Come?"
rispose Nicoletta. "Come... non so! Ma a ogni costo... ah, a ogni costo! puoi
esserne
certo!"
Capolino
insistette:
"Ma via, tu
credi che il Costa sia capace di sentir la vendetta che tu dici, per il tuo
rifiuto? No, sai! Non è capace neanche di questo! Io l'ho studiato: è con te
riguardoso, ossequioso... anzi, tutto impacciato in tua presenza... non ci
penserà mai! E se tu... se tu saprai vincer lo sdegno, e trattarlo... dico,
trattarlo con una certa... disinvoltura
cortese..."
Sotto gli
occhi di Nicoletta, che lo fissavano con freddo e calmo sprezzo, smorí, si
scompose il sorriso con cui aveva accompagnato le ultime
parole.
"Come, del
resto, lo hai trattato finora," soggiunse dignitosamente. Poi, cangiando
discorso: "Oh, volevo proporti d'uscire... Ceneremo fuori... Ti
va?"
Di ritorno a casa
a tarda notte, Nicoletta, nel mettersi a letto, domandò al
marito:
"Non deve
ripartire fra due o tre giorni l'ingegnere Costa per la
Sicilia?"
" Sí,"
rispose Capolino. "Me l'ha detto Flaminio
stamattina."
"E tu a
Flaminio potresti dire," seguitò Nicoletta, raccogliendosi sotto le coperte,
"che sono pronta anch’io a partire; ma non sola. Poiché parte
l'ingegnere..."
"Ah,
già!" esclamò Capolino. "Benissimo! Potresti accompagnarti con
lui."
"Buona notte,
caro!"
"Buona
notte."
Fermamente
convinto d'aver sempre avuto contraria la sorte, fin dalla nascita, Flaminio
Salvo credeva che soltanto con l'assidua difesa d'una volontà sempre vigile e
incrollabile, e opponendosi con atti che egli stesso stimava duri, contro tutti
coloro che s’eran fatti e si facevano strumenti ciechi di essa, avesse potuto
vincerla finora. Ma l'avversione della sorte non potendo su lui, s’era rivolta
con ferocia su i suoi, su la moglie, sul figlio: ora anche, con quella passione
invincibile, su la figlia. In queste sciagure sentiva veramente come una
vendetta vile e crudele; e questo sentimento non solo gli toglieva il rimorso di
tutto il male che sapeva d'aver commesso, ma gl’ispirava anzi vergogna di
qualche debolezza passeggera, e quasi lo abilitava a commettere altro male, sia
per vendicarsi a sua volta della sorte, sia per non essere egli stesso
sopraffatto. Non si poneva neppur lontanamente il dubbio che potesse in fondo
non essere un male quella passione della figliuola per Aurelio Costa. Era per
lui sicuramente un male; e non già per la disparità della nascita o della
condizione sociale (fisime!); ma perché essa aveva origine da una sua debolezza,
dalla gratitudine per tanti anni dimostrata al suo piccolo salvatore. Da un bene
non poteva venirgli altro che un male. Domma, questo, per lui. E nessun filosofo
avrebbe potuto indurlo a riconoscere che il suo ragionamento, fondato su un
pregiudizio, era vizioso. La logica? Che logica contro l'esperienza di tutta una
vita? E poi, se per un solo caso si fosse indotto a riconoscere il vizio del suo
ragionamento, addio scusa di tutto il male in tanti altri casi coscientemente
commesso! Ogni qual volta un negozio, una faccenda qualsiasi accennava fin da
principio di volgergli a seconda, egli, anziché rallegrarsene, s’adombrava,
sospettava subito una insidia e si parava in
difesa.
Accolse male
perciò, da un canto, la notizia e la proposta di Capolino, che cioè Nicoletta
era pronta a partire il giorno appresso e che avrebbe voluto accompagnarsi nel
viaggio col Costa; dall'altro, l'annunzio recato da Ciccino e Lillina che Lando
Laurentano, il quale tutta quella mattina era stato in giro con essi e con
Dianella, sarebbe venuto quella sera stessa a salutarlo. Lo avevano incontrato
per caso, e quantunque avesse detto loro in prima d'esser fortemente irritato
per una certa pubblicazione in un giornale del mattino, s’era poi dimostrato
gajo in loro compagnia e gratissimo della distrazione procuratagli. Flaminio
Salvo era nella stanza da studio di Francesco Vella e dava ad Aurelio Costa le
ultime istruzioni circa il ritorno di questo in Sicilia, fissato per la mattina
seguente, quando i due nipoti gli recarono quest'annunzio, irrompendo
rumorosamente e tirandosi dietro Dianella. Egli notò subito nel viso della
figlia un'alterazione molto diversa dalle solite alla vista di Aurelio, e rimase
per un attimo quasi stordito, allorché, parlando i due cugini della graziosa
affabilità del Laurentano verso di loro, ella con voce vibrante, che non pareva
piú la sua, e con un'aria di sfida,
confermò:
"Sí,
gentilissimo! proprio
gentilissimo!"
"Piacere..."
rispose freddamente, guardandola di su gli occhiali. "Ma, vi prego, io ora
qua..."
E accennò il
Costa con un gesto che significava: "Ho da pensare a ben altro per il
momento...".
Era vero,
del resto. Si trattava d'esporre a un rischio di morte quel giovane dabbene,
ignaro affatto della parte, che stava a rappresentare; si trattava di gettarlo
in preda alla rabbia d'un intero paese affamato e disilluso. Nell'anima del
Salvo si svolse allora uno strano giuoco di finzioni coscienti. Il piacere di
quell'annunzio doveva mutarsi in lui in dispiacere, la speranza in diffidenza; e
però non solo non doveva tener conto di quella fortunata combinazione
dell'incontro del Laurentano e della buona impressione che la figlia pareva ne
avesse avuto, ma considerarla anzi come una vera e propria contrarietà, nel
momento ch’egli, per contentare appunto la figliuola, faceva intravvedere a quel
buon giovane del Costa il premio della pericolosissima impresa a cui lo gettava.
E seguitò in quella finzione cosciente, acceso di stizza contro la figliuola, la
quale, dopo averlo costretto a piegarsi fino a tanto, eccola lí, veniva ora a
fargli intendere, con aria nuova, che il giovane principe Laurentano non le era
punto dispiaciuto! Né s’arrestava qui il giuoco delle finzioni nell'anima del
Salvo. Fingeva di non comprendere ancora quell'aria nuova della figlia, che pure
aveva già compreso bene; era sicuro infatti che Dianella, facendo quella lode
del Laurentano in presenza di Aurelio, s’era intesa di vendicarsi di questo, e
ora di là certo piangeva e si straziava in segreto. La stizza finta per quel
premio ch’egli doveva far balenare al Costa, era dunque in fondo stizza vera,
tanto che, per non avvertire il rimorso di quello strazio che cagionava alla
figlia, seguitò a fingere di credere sul serio, che veramente, sí, veramente, se
il Costa fosse riuscito a ridurre a ragione gli operaj delle zolfare in Sicilia,
gli avrebbe dato in premio Dianella. Intanto, lo faceva partire il giorno
appresso in compagnia di Nicoletta
Capolino.
La sera, fu
compíto, ma con una certa sostenutezza, verso Lando Laurentano, accolto con
molta festa dai Vella, specialmente da Ciccino e Lillina. Dianella era
pallidissima, e si teneva sú per continui sforzi a scatti, che facevano pena e
paura. I dolci occhi ora le s’accendevano come in un confuso spavento, ora le
smorivano quasi in una torba opacità. Nicoletta Capolino, invitata a tavola dai
Vella quell'ultimo giorno, le aveva fatto sapere che la mattina appresso sarebbe
partita col Costa; e adesso, ecco, era lí e parlava senza vezzi affettati, ma
con la vivace disinvoltura consueta al giovane principe di Laurentano della
cortesia squisita di don Ippolito, là a Colimbètra, nella disgraziata
congiuntura del duello del
marito.
Questi entrò,
poco dopo, nel ricco salone insieme con l'ingegnere Aurelio Costa, che veniva a
licenziarsi dai
Vella.
Fu per Dianella
e per Nicoletta un momento d'angosciosa sospensione. Quanto composto e grave e
costernato l'onorevole Ignazio Capolino con quei funebri occhiali di tartaruga,
tanto appariva stordito, acceso, abbagliato, Aurelio Costa. Gli si leggeva
chiaramente in viso l'emozione profonda, che la notizia della sua prossima
partenza con Nicoletta gli aveva suscitato. Non sentiva piú la terra sotto i
piedi; non riusciva ad articolar parola. Nel vederlo entrare, Nicoletta ne ebbe
quasi sgomento: sentí, senza guardarlo, che egli la cercava con gli occhi, senza
piú badare a nessuno. Respirò nel sentirlo poco dopo discutere animatamente col
Laurentano su i moti dei Fasci in Sicilia. Ogni costernazione gli era svanita,
svanita ogni considerazione per quei solfaraj affamati d'Aragona, svanito il
dispetto per quel suo disegno d'un consorzio obbligatorio mandato a monte:
avrebbe ora affrontato col frustino in mano tutti quei ribelli laggiú. Flaminio
Salvo, per prudenza di fronte al Laurentano, lo richiamò sorridendo a piú miti
propositi.
"Perché le
diano fuoco alle zolfare?" gli domandò tutto infervorato il Costa. "Li conosco
io, quei bruti! Guaj a mostrare di temerli! Con la verga si riducono a ragione!
Lasci fare a me... Abbandonato da tutti, senza neanche la soddisfazione di veder
degnato d'uno sguardo il mio progetto, andrò solo, laggiú... e ci guarderemo in
faccia..."
Nell'esaltazione,
non avvertiva la stonatura di quella sua apostrofe bellicosa; né si mortificò
affatto nell'accorgersi alla fine che nessuno gli badava piú, si lasciò condurre
da Capolino nell'ampio balcone della sala, mentre Flaminio Salvo, Francesco
Vella e Lando Laurentano seguitavano a conversare tra loro pacatamente, e
Ciccino prometteva a Nicoletta che presto sarebbe venuto a trovarla a Girgenti,
e donna Rosa e Lillina davano consigli a Dianella che si regolasse cosí e cosí,
se voleva presto recuperare la salute e la gajezza. Chiamato dal Salvo, Capolino
rientrò poco dopo, e Aurelio Costa restò solo nel
balcone.
Quanto vi
restò? Guardava le stelle, guardava come in un sogno il chiaror della luna che
si rifletteva su i vetri di lontane finestre dirimpetto, nella piazza; stretto
da un'ansia smaniosa e dolce; senza piú pensare al luogo ove si trovava; con una
sola immagine davanti agli occhi, quella di lei che ora, tra poco, senza dubbio
sarebbe venuta a trovarlo là per dirgli: A domani! Per sempre! "A domani,
per sempre," si ripeteva, serrando le pugna, con gli occhi socchiusi
voluttuosamente.
Aveva
già parlato con lei la mattina. S’erano già accordati. Tutto, tutto ella avrebbe
lasciato, per seguir lui! Sí, anche laggiú, nel pericolo, da cui egli non
avrebbe potuto in quel momento ritrarsi. Del resto, per forza, doveva andar
laggiú; lí era la sua casa, lí il suo lavoro, che avrebbe ora messo a
disposizione di altri, lasciando il Salvo. Che gl’importava? Di qual premio gli
aveva ella parlato? Un grosso premio ch’egli avrebbe perduto lasciando il
Salvo... Che gl’importava? Qual premio maggiore della felicità che ella gli
avrebbe data, amandolo? Cosí farneticava Aurelio nel balcone, in attesa,
tornando a ripetere di tratto in tratto, smaniosamente: A domani! per
sempre!
Nel salone,
intanto, Ignazio Capolino parlava con aria afflitta del subbuglio, in cui la
pubblicazione d'una denunzia in un giornale del mattino aveva messo tutto quel
giorno i corridoj della Camera. Si trattava delle quarantamila lire, di cui
appariva debitore verso la Banca Romana Roberto Auriti, "notoriamente
prestanome" diceva il giornale "d'un deputato meridionale molto conosciuto e
nelle grazie, fino a poco tempo fa, se non proprio del Governo, di qualche
membro (hic et haec) di esso". E quel giornale, seguitando,
parlava delle carte sottratte per salvare questo deputato meridionale. Ma nella
fretta, all'ultimo momento, qualche biglietto era rimasto fuori e caduto in mano
all'autorità giudiziaria, qualche biglietto appunto dell'Auriti, ora in ricerca
affannosa di quelle quarantamila lire, per salvare sé e
l'amico.
Capolino
diceva che parecchi deputati dell'Estrema Sinistra avrebbero portato la denunzia
alla Camera, e prevedeva imminente l'arresto
dell'Auriti.
Lando
Laurentano era su le spine. Tutto il pomeriggio di quel giorno aveva cercato
d'appurare donde quella notizia fosse pervenuta al giornale del mattino: pareva
riferita da qualcuno che fosse stato a origliare all'uscio della stanza, in cui
Giulio Auriti aveva implorato ajuto da lui; e temeva che questi potesse ora
sospettarlo autore della
denunzia.
Il Salvo, il
Vella e il Capolino, notando il turbamento del giovane principe, si misero a
compiangere Roberto Auriti, come una vittima, e il Salvo lasciò intendere
chiaramente che egli sarebbe stato disposto ad approntare quella somma per
salvarlo; ma il Capolino disse che ormai era troppo tardi. Non restava che di
prendere una tazza di tè, che Lillina aveva già
preparato.
Le prime due
tazze, recate da Ciccino, erano andate a donna Rosa e a Dianella. Nicoletta ne
porgeva ora una tazza a Lando
Laurentano.
"Latte?"
"Sí,
grazie.
Poco."
Dianella,
sorbendo la sua, aspettava che Nicoletta si recasse al balcone con l'ultima
tazza per Aurelio. Ma Nicoletta, vedendosi spiata, finse in prima di
dimenticarsene, e tenne la tazza per
sé.
"Uh, e per il mio
cavaliere?" esclamò poi, come sovvenendosi
all'improvviso.
E andò
al balcone.
Appena
Aurelio la vide comparire, si ritrasse istintivamente nell'ombra quanto piú
poté, per attirarla. Ma ella varcò appena la soglia del balcone e, porgendogli
la tazza, disse piano,
rigida:
"Rientri, per
carità: lei si fa notare. Non faccia
ragazzate!"
"Ma mi dica
soltanto..." scongiurò
egli.
"Sì, questo; e se
lo imprima bene in mente," soggiunse lei, subiito: "che ho fatto di tutto per
impedir la sua e la mia rovina. Non mi accusi, domani; perché l'ha voluta anche
lei. Basta!"
E rientrò
nel salone.