Luigi Pirandello
I vecchi e i giovani
Parte II
IV
Corrado
Selmi uscí dalla Camera dei deputati livido, stravolto, con un tremor convulso
per tutto il corpo. Appena su la piazza, nel sole, fece uno sforzo disperato su
se stesso per riaversi, per riafferrare in sé e rimettere sotto il suo dominio
la vita che gli sfuggiva in un tremendo scompiglio; ma restò, avvertendo che non
aveva neanche la forza di trarre il respiro, quasi avesse il petto, il ventre
squarciati.
Un
sentimento nuovo gli sorse allora improvviso: la paura. Non degli altri; ma di
sé.
Or ora gli altri li
aveva sfidati e assaliti, nell'aula del Parlamento, con estrema violenza. Ancora
ne tremava tutto. Nessuno, là, aveva osato fiatare. Ma quel silenzio... ah, quel
silenzio era stato per lui peggiore di ogni invettiva, d'ogni tumultuoso
insorgere di tutta
l'assemblea.
Quel
silenzio lo aveva
ucciso.
Aveva ancora
negli orecchi il suono dei suoi passi nell'uscire dall'aula. Nel silenzio
formidabile, quei passi avevano sonato come colpi di martello su una cassa da
morto.
Sentiva una
grande arsione; e le gambe, come... come se gli si fossero stroncate
sotto.
Schiacciato
dall'accusa, aveva voluto rilevarsene con tutto l'impeto delle energie vitali,
ancora possenti in lui; ma appena aveva finito di parlare, quel silenzio. Nessun
dubbio che l'assemblea, subito dopo la sua uscita dall'aula, avesse votato
l'autorizzazione a procedere contro di
lui.
Eppure tutti lo
sapevano povero; sapevano che il denaro preso alle banche non poteva essere
rinfacciato a lui come a tanti
altri.
Dall'avere
affrontato la morte, quando piú bella suol essere per tutti la vita, non gli
veniva il diritto di vivere? Nella losca complicazione di tante oblique vicende
la semplicità di questo diritto appariva quasi ingenua e tale, che tutti,
ridendo, dovessero
negarglielo.
Morto; non
solo, ma anche svergognato lo volevano! Doveva morire allora, e sarebbe stato un
eroe per tutti questi vivi d'oggi che gli rinfacciavano come un delitto l'aver
vissuto.
Ma non tanto
l'accusa, in fondo, gli sembrava ingiusta, quanto ingiusti gli accusatori; e,
piú che ingiusti, ingrati e vili: vili perché, dopo aver per tanti anni compreso
che egli aveva pure questo diritto di vivere, si levavano ora a dimostrargliene
con ischerno l'ingenuità; dopo aver per tanti anni compreso il suo bisogno, si
levavano ora a rinfacciarglielo come
un'onta.
Né si
sarebbero arrestati qui! Ora, il processo, la condanna, il
carcere.
Corrado Selmi
rise, e avvertí ancora lo sforzo che gli costava lo scomporre la truce
espressione del volto in quel riso orribile. Il sorriso schietto e lieve, che
aveva accompagnato sempre tutti gli atti della sua vita, anche i piú gravi e i
piú rischiosi, s’era tramutato in quella triste smorfia dura e amara? Ebbe di
nuovo paura di sé: paura di assumere coscienza precisa di un certo che oscuro e
orrendo che gli s’era cacciato all'improvviso nel fondo dell'essere e glielo
scompaginava, dandogli quell'impressione d'esser come squarciato dentro,
irrimediabilmente. E per ricomporre comunque la compagine del suo essere, per
vincere il ribrezzo e l'orrore di quell'impressione, si guardò attorno, quasi
chiedendo sostegno e conforto ai noti aspetti delle cose. Gli parvero anche
questi cangiati e come evanescenti. Sentí con terrore che non gli era piú
possibile ristabilire una relazione qual si fosse tra sé e tutto ciò che lo
circondava. Sí, poteva guardare; ma che vedeva? poteva parlare; ma che dire?
poteva muoversi; ma dove
andare?
Parlò, tanto
per udire il suono della sua voce, e gli parve anch’esso cangiato.
Disse:
"Che
faccio?"
Sapeva bene
quel che gli restava da fare. Ma nello schiacciar con la lingua contro il palato
le due c di faccio, non avvertí altro che l'annodatura della
lingua e l'amarezza aspra della bocca; e rimase col viso disgustato e
arcigno.
" No,"
soggiunse. "Prima... che
altro?"
Qualunque altra
cosa gli apparve inutile, vana. Poteva soltanto, ancor per poco, per passarsi la
voglia e darsi cosí fuor fuori uno sfogo, dire e fare sciocchezze. Pensare
seriamente, agire seriamente non avrebbe potuto se non a costo di cedere al
proposito oscuro e violento che stava a distruggergli dentro tutti gli elementi
della vita. Baloccarsi poteva coi frantumi di essa che dal tumulto interno
balzavano a galla della sua coscienza squarciata: baloccarsi un poco... Sí, in
casa di Roberto Auriti! Doveva vederlo, dirgli che per lui, per coprirlo, si era
messo da sé sotto accusa. Ecco che aveva ancora dove
andare.
Chiamò una
vettura, per non avvertire il tremore e la debolezza delle gambe, e diede al
vetturino l'indirizzo: via delle
Colonnette.
Appena
montato, se ne pentí, prevedendo, in compenso di quanto aveva fatto, una
scenata. Ma no: a ogni costo avrebbe saputo impedirla. Piú che doveroso, il suo
atto gli appariva generoso verso Roberto Auriti. E, in quel momento, non poteva
sentir che disprezzo della sua stessa generosità. S’era spogliato d'ogni
prestigio, d'ogni prerogativa, per subir la stessa sorte d'uno sconfitto, che
delle sue doti, dei suoi meriti non aveva saputo avvalersi per farsi uno stato,
per imporsi, come avrebbe potuto, alla considerazione altrui. Non pietà, ma
dispetto, poteva ispirare Roberto Auriti. Che se pure egli, navigando alla
ventura, lo aveva gittato con sé in quei frangenti, non meritava certo quel
naufrago che Corrado Selmi, già quasi scampato, si ributtasse in mare per perire
con lui: non lo meritava, perché non aveva saputo mai vivere, quell'uomo, mai
disimpacciarsi da ostacoli anche lievi: era già per se stesso un annegato, a cui
tante e tante volte egli aveva gettato una corda per ajutarlo a trarsi in salvo.
L’unica volta che quest'uomo s’era messo a dar lui ajuto, ecco, con la stessa
mano che gli aveva teso, lo tirava con sé nel baratro, giú, giú, costringendolo
a rinunziare al salvataggio altrui. E quel suo fratello corso in Sicilia per
salvare entrambi: ma sí! tutti dovevano stare ad aspettare che andasse e
ritornasse col denaro! a comodo! senza fretta! e dopo avere svelato tutto a
Lando Laurentano! imbecille! Ecco: per questo solo fatto, egli avrebbe potuto
fare a meno d'esporsi per coprire un inetto. Ma
ormai...
Arrivato in
via delle Colonnette, salendo la scala semibuja, incontrò Olindo Passalacqua che
scendeva gli scalini a quattro a
quattro.
"Ah! giusto
lei, onorevole! Correvo in cerca di lei... Dica, che c'è? che
c'è?"
"Vento," rispose
Corrado Selmi,
placidamente.
Olindo
Passalacqua restò come un
ceppo.
"Vento? Che
dice? Quella denunzia infame? Ma come? chi è stato? roba da sputargli in faccia!
Andate a far l'Italia per questa
canaglia!"
Corrado
Selmi gli prese il mento fra due
dita:
"Bravo, Olindo!
Nobili sensi, invero... Sú,
andiamo!"
"Aspetti,
onorevole," pregò il Passalacqua, trattenendolo. "La prevengo! Nanna mia non sa
ancora nulla. Non sapevamo nulla neanche noi. Per combinazione a mio cognato
Pilade càpita tra le mani il giornale di due giorni fa... apre e vede... ce lo
manda sú, segnato... Roberto stava ad annaffiare i fiori in terrazzo... legge,
casca dalle nuvole... Ma ci si crede? un uomo, un uomo come lui, non leggere i
giornali, in un momento come questo? Capisce? come quell'uccello... qual è? che
caccia la testa nella rena... E gliene compro tre, sa? ogni sera: tre giornali!
Ne leggesse uno! Appena lo apre, si mette a pisolare; e poi dice che li ha letti
tutti e tre e che dorme
poco!"
"Lo struzzo,"
disse Corrado Selmi.
"Permetti?"
E alzò le
mani per aggiustare sotto la gola a Olindo Passalacqua la cravatta rossa
sgargiante, annodata a
farfalla.
"Lo struzzo,"
ripeté. "Quell'uccello che dicevi... Cosí va
bene!"
Olindo
Passalacqua restò di nuovo a bocca
aperta.
"Grazie,"
disse. "Ma dunque... dunque possiamo star
tranquilli?"
Corrado
Selmi lo guardò negli occhi, serio; gli posò le mani sugli omeri,
e:
"Non sei censore
tu?" gli
domandò.
"Censore...
già," rispose perplesso, quasi non ne fosse ben sicuro, il
Passalacqua.
"E dunque
lascia crollare il mondo!" esclamò il Selmi con un gesto di noncuranza sdegnosa.
"Censore, te ne impipi. Sú, sú, vieni sú con
me."
Trovarono Roberto
abbattuto su una poltrona, con la faccia rivolta al soffitto, le braccia
abbandonate, l'annaffiatojo accanto. Appena vide il Selmi, fece per balzare in
piedi, e, arrangolando in una irrompente convulsione, andò a buttarglisi sul
petto.
"Per carità! per
carità!" scongiurò Olindo Passalacqua, correndo a chiudere l'uscio e accennando
con le mani di far piano, che Nanna non sentisse di
là.
Attraverso l'uscio
chiuso, all'arrangolío di Roberto sul petto di Corrado Selmi rispondeva di là il
vocalizzo miagolante di una studentessa di canto. Corrado Selmi, gravato dal
peso di Roberto, stette un po' a guardare i cenni del Passalacqua, che seguitava
a implorar carità per il cuore malato della sua povera moglie, carità per
Roberto cosí perduto, carità per la casa che sarebbe andata a soqquadro; e
scattò alla fine, scrollandosi, in una risata
pazzesca:
"Ma da' qui!"
disse, ghermendo l'annaffiatojo e avviandosi di furia al terrazzo. "Ma che
facciamo sul serio? Annaffiavi? E seguitiamo ad annaffiare! Qua... qua... cosí!
cosí! Pioggia, Olindo! pioggia!
pioggia!"
E una vera
pioggia furiosa si rovesciò dalla mela dell'annaffiatojo addosso a Olindo
Passalacqua, che prese a fuggire per il terrazzo, gridando e riparandosi con le
mani la testa, inseguito dal Selmi che seguitava a ridere,
dicendo:
"Io passo
l'acqua, tu passi l'acqua, egli passa l'acqua, tutti passiamo
l'acqua!"
"Oh Dio! per
carità... no! caro... nòooo... ma che fa? basta... per carità... non è scherzo!
basta... uuuh...
basta!..."
Alle grida,
sopravvennero Nanna, la studentessa di canto, Antonio Del Re e Celsina.
Subito Corrado Selmi, ansante, corse a stringere la mano alla signora Lalla che
rideva, guardando il marito che si scrollava come un pulcino bagnato. Ridevano
anche le due
giovinette.
" La
pianta, Nanna mia," gridò il Selmi, "quale è la pianta piú utile? Il
riso! Coltiviamo il riso e annacquiamo Olindo che fa
ridere!"
" Ma io
piango, invece..." gemette il
Passalacqua.
"E appunto
perché piangi, fai ridere!" ribatté il
Selmi.
"Chi fa ridere,
invece..." borbottò Antonio Del Re, serrando le
pugna.
"Fa piangere, è
vero?" compí la frase il Selmi. "Bravo, giovanotto! Sempre serio! Tu le tue
sciocchezze le farai sempre sode, bene azzampate e con tanto di grugno. Noi, le
nostre... qua, censore... ballando, ballando... Su, di là, Nanna, di
là... al pianoforte! Lei suona, e noi balliamo! Roberto si metterà i calzoncini
con lo spacco di dietro e la falda della camicina fuori; prenderà la sciaboletta
e il cavalluccio di legno, quelli con cui giocò alla guerra, al Sessanta; gli
faremo l'elmo di carta, e si metterà a girare attorno... arrí!...
arrí!... mentre io e Olindo balleremo al suono dell'inno di Garibaldi...
Va' fuori d'Italia... Va' fuori d'Italia... Va' fuori d'Italia... va' fuori,
o stranier!
Non
aveva finito l'ultima battuta, che su la soglia del terrazzo si presentò, con
gli occhi ilari e lagrimosi, raggiante di commossa beatitudine, Mauro Mortara,
con le medaglie sul petto e lo zainetto dietro le spalle. Appena lo vide,
Corrado Selmi fece un gesto d'orrore e scappò via per l'altro finestrone che
dava sul terrazzo,
gridando:
"Ah perdio,
no! Questo poi è
troppo!"
Roberto Auriti
gli corse dietro per
trattenerlo:
"Corrado!
Corrado!"
Mauro
Mortara, a quella fuga, restò come smarrito davanti allo stupore della signora
Lalla, del Passalacqua e della studentessa di canto, alla meraviglia sorridente
di Celsina e a quella ingrugnita di Antonio Del
Re.
"Vengo, se non c'è
offesa," disse, "a salutare don Roberto. Parto
domani."
" Ma chi
siete?" gli domandò la signora Lalla, come se avesse davanti un abitante della
luna, piovuto dal
cielo.
"Sono..." prese
a rispondere Mauro Mortara; ma s’interruppe riconoscendo Antonio Del Re. "Non
siete il nipote di donna Caterina,
voi?"
E, pronunziando
questo nome, si levò il
cappello.
"Diteglielo
voi," soggiunse, "chi sono io. Sono venuto due altre volte; non mi hanno fatto
salire, perché don Roberto non era in
casa."
Il Passalacqua,
tutto bagnato, gli s’accostò, gli sbirciò le medaglie sul petto,
e:
"Patriota
siciliano?" domandò. "Ai patrioti siciliani, perdio, statue d'oro! sta...
statu... statue..."
Uno
starnuto, tardo a scoppiare, lo tenne un tratto a bocca aperta, le nari
frementi, le mani tese come a pararlo; finalmente scoppiò
e:
"D'oro!" ripeté il
Passalacqua. "Mannaggia il Selmi che m'ha fatto raffreddare! Ma perché è
scappato? Che è pazzo?... Guardate come mi... mi ha... ma dove è
andato?
"Roberto!"
strillò a questo punto la signora Lalla, accorrendo dal terrazzo nella stanza,
attraverso la quale il Selmi era poc'anzi
fuggito.
Rientrarono
tutti, spaventati, dietro a
lei.
Un estraneo, col
cappello in mano e gli occhi bassi, stava rigido su la soglia di quella camera,
mentre Roberto, col viso terreo, chiazzato qua e là, si guardava attorno,
convulso, indeciso. Al grido di lei, protese le mani, ma come per impedire il
prorompere della sua piú che dell'altrui
commozione.
"Vi prego,
vi prego," disse, "senza chiasso... Nulla... Una... una chiamata in
questura..."
"Lo
arrestano!" fischiò allora tra i denti Antonio Del Re, col volto scontraffatto e
tutto vibrante.
Nanna cacciò uno
strillo e cadde in convulsione tra le braccia del
marito.
"Lo arrestano?"
domandò Mauro Mortara, facendosi innanzi, mentre Roberto Auriti cercava nella
camera gli abiti da indossare e con le mani accennava a tutti di non gridare, di
non far
confusione.
"Come?"
seguitò Mauro, guardando Antonio Del
Re.
Non ottenendo
risposta da nessuno, andò incontro a quell'estraneo e, levando un braccio, lo
apostrofò:
"Voi! voi
siete venuto qua ad arrestare don Roberto
Auriti?"
"Mauro!" lo
interruppe questi. "Per carità, Mauro...
lascia!"
"Ma come?"
ripeté Mauro Mortara, rivolgendosi a Roberto. "Arrestano voi?
Perché?"
Roberto
accorse a dare una mano al Passalacqua, alla studentessa di canto, a Celsina,
che non riuscivano a sorreggere la signora Lalla, la quale si dibatteva e si
scontorceva, tra urli, singhiozzi, gemiti e risa
convulse.
"Di là, per
carità, di là, portatela di là!"
scongiurò.
Ma non fu
possibile. Il Passalacqua, invece di avvalersi dell'ajuto di Roberto, pensò bene
di buttargli le braccia al collo, rompendo in singhiozzi ed
esclamando:
"Cireneo!
Cireneo!
Cireneo!"
Roberto si
divincolò, quasi con schifo, e si turò gli orecchi, mentre il Passalacqua,
rivolto a Mauro Mortara,
seguitava:
"Patriota,
vedete? cosí l'Italia compensa i suoi martiri!
cosí!"
"Il figlio di
Stefano Auriti!" diceva tra sé Mauro Mortara, con gli occhi sbarrati, battendosi
una mano sul petto. "Il figlio di donna Caterina Laurentano!... E dovevo veder
questo a Roma? Ma che avete fatto?" corse a domandare a Roberto, afferrandolo
per le braccia e scotendolo. "Ditemi che siete sempre lo stesso! Sí? E
allora..."
Si afferrò
con una mano le medaglie sul petto; se le strappò; le scagliò a terra; vi andò
sopra col piede e le calpestò; poi, rivolgendosi al
delegato:
"Ditelo al
vostro Governo!" gridò. "Ditegli che un vecchio campagnuolo, venuto a veder Roma
con le sue medaglie garibaldine, vedendo arrestare il figlio d'un eroe che gli
morí tra le braccia nella battaglia di Milazzo, si strappò dal petto le medaglie
e le calpestò!
cosí!"
Tornò a Roberto,
lo abbracciò, e sentendolo singhiozzare su la sua
spalla:
"Figlio mio!
figlio mio!" si mise a dirgli, battendogli dietro una
mano.
A questo punto,
Antonio Del Re scappò via dalla camera mugolando e rovesciando nella furia una
seggiola. Celsina, che lo spiava, gli corse dietro, sgomenta, chiamandolo per
nome. Mauro Mortara si voltò felinamente, come se a quell'uscita precipitosa gli
fosse balenato in mente che si volesse impedire comunque l'arresto; e si mostrò
pronto a qualunque violenza. Sciolto dall'abbraccio di lui, Roberto Auriti si
fece innanzi al
delegato:
"Eccomi."
"No!"
gridò Mauro, riafferrandolo per un braccio. "Don Roberto! Cosí vi
consegnate?"
"Ti prego,
lasciami..." disse Roberto Auriti; e, rivolgendosi al delegato: "Lei
scusi..."
Con la mano
chiamò Nanna, che fiatava ora a stento, con ambo le mani sul cuore, e la
baciò in fronte,
dicendole:
"Coraggio..."
"E
che dirò a vostra madre?" esclamò allora Mauro agitando in aria le
mani.
Roberto Auriti si
gonfiò, si portò le mani sul volto per far argine all'impeto della commozione e
andò via, seguito dal delegato, mentre la signora Lalla, sostenuta dal marito e
dalla studentessa di canto, riprendeva piú a gemere che a
gridare:
" Roberto!
Roberto!
Roberto!"
Mauro Mortara
restò a guatare, come annichilito. Quando il Passalacqua lo ragguagliò di tutto,
e, fresco della recente lettura del giornale, gli espose tutta la miseria e la
vergogna del
momento:
"Questa,"
disse, "questa è
l'Italia?"
E, nel
crollo del suo gran sogno, non pensò piú a Roberto Auriti, all'arresto di lui,
non sentí, non vide piú nulla. Le sue medaglie rimasero lí per terra,
calpestate.
Uscendo dalla casa di
Roberto, Corrado Selmi s’imbatté per le scale nel delegato e nelle guardie che
salivano ad arrestar l'innocente. Si fermò un istante, indeciso; ma subito si
sentí occupare il cervello da una densa oscurità, e in quella tenebra d'ira e
d'angoscia udí una voce che dal fondo della coscienza lo ammoniva ch’egli non
poteva in alcun modo sul momento impedire quell'atroce ingiustizia. Seguitò a
scendere la scala; rimontò in vettura e provò quasi stupore alla domanda del
vetturino, ove dovesse condurlo. Ma a casa; c'era bisogno di dirlo? dove poteva
piú andare? che piú gli restava da
fare?
"Via San Niccolò
da Tolentino."
E, come
se già vi fosse, si vide per le scale della sua casa: ecco, entrava in camera;
si recava all'angolo, ov'era uno stipetto a muro, di lacca verde; lo apriva; ne
traeva una boccetta, e... Istintivamente, s’era cacciata una mano nel taschino
del panciotto, ov'era la chiave di quello stipetto. Cosa strana: pensava ora
allo specchio, a un piccolo specchio ovale, appeso accanto a quello stipetto, al
quale egli non avrebbe dovuto volger lo sguardo, per non vedersi. Ma pure, ecco,
si vedeva: sí, in quello specchio, con la boccetta in mano: vedeva l'espressione
dei suoi occhi, ridente, quasi non credessero ch’egli avrebbe fatto quella
cosa. No! Prima doveva scrivere e suggellare una dichiarazione per l'Auriti:
poche righe, esplicite. Non meritavano gli accusatori un suo ultimo sfogo. Due
righe soltanto, per salvar l'amico, già in
carcere.
I nemici... -
ma quali? quanti erano? Tutti! Possibile? Tutti gli amici di jeri. Tutti e
nessuno, a prenderli a uno a uno. Ché nulla egli aveva fatto a nessuno di loro
perché le liete accoglienze di jeri si convertissero cosí d'un tratto in tanta
alienazione d'animi, in tanta ostilità. Ma era il momento, la furia cieca del
momento, che s’abbatteva su lui, che in lui trovava la preda, e lo abbrancava,
ecco, e lo sbranava in un
attimo.
Ah come andava
lenta quella vettura! Parve a Corrado Selmi ch’essa gli prolungasse con feroce
dispetto l’agonía.
"Non
sono in casa per nessuno," disse a Pietro, il vecchio servo che stava da tanti
anni con lui.
E il
primo suo moto, entrando in camera, fu verso quello stipetto. Si trattenne.
Pensò alla dichiarazione da scrivere. Ma pur volle prendere prima la boccetta e,
senza guardarla, la recò con sé alla scrivania dello studio. Restò un pezzo lí
in piedi, come sospeso in cerca di qualche cosa che s’era proposto di fare e a
cui non pensava piú. Istintivamente, pian piano, rientrò nella camera; gli occhi
gli andarono al piccolo specchio ovale, appeso alla parete presso lo stipetto.
Aveva dimenticato di guardarsi lí. Scrollò le spalle e tornò indietro, alla
scrivania; sedette; trasse dalla cartella un foglio e una busta; guardò se su la
scrivania ci fosse il cannello di ceralacca e il sigillo; si alzò di nuovo e
rientrò nella camera per prendere dal tavolino da notte la bugia con la
candela.
La
dichiarazione gli venne men breve di quanto aveva divisato, poiché a maggior
salvaguardia dell'innocenza dell'Auriti pensò di chiamare in testimonio lo
stesso governatore della banca, già anche lui tratto in arresto, col quale,
prima di contrarre sott'altro nome quel debito, si era segretamente accordato.
Finito di scrivere, guardò su la scrivania la boccetta, e sentí mancarsi a un
tratto la voglia di rileggere quanto aveva scritto. Gli parvero enormi tutte le
piccole cose che gli restavano ancora da fare: piegare in quattro quel foglio;
chiuderlo nella busta; accendere la candela; bruciarvi il cannello di ceralacca;
apporre i sigilli... Si diede a far tutto con esasperazione. Ansava; le dita,
senza piú tatto, gli ballavano. Stava per chiudere la busta, quando giú dalla
via scattò stridulo, sguajato, il suono d'un organetto. Parve al Selmi che quel
suono, in quel punto, gli spaccasse il cranio: si turò gli orecchi, balzò in
piedi, contrasse tutto il volto come per uno strazio insopportabile, fu per
avventarsi alla finestra a scagliare ingiurie a quel sonatore ambulante. Ah no
perdio! cosí, no! al suono d'una canzonetta napoletana, no, no, no. Si sentí
avvilito da tutta quella furia. O che era un ladro davvero? Piano, piano, senza
tremor di mani, senza quell'aridezza in bocca; dopo aver sedato i nervi, e
sorridente, egli doveva uccidersi, come a lui si conveniva. Prese la busta con
la dichiarazione e la cacciò dentro la cartella; Si pose in tasca la boccetta
del veleno. Voleva uscir di nuovo per un'ultima passeggiata, per salutar la
vita, scevro ormai d'ogni cura, esente d'ogni peso, libero d'ogni passione, con
occhi limpidi e animo sereno; salutar la vita, col suo lieve antico sorriso;
bearsi per l'ultima volta delle cose che restavano, liete in quel giorno di
sole, ignare in mezzo al torbido fluttuare di tante vicende che presto il tempo
avrebbe travolte con sé. Ridiscese in istrada, fe' cenno a un vetturino
d'accostarsi e si fece condurre al Gianicolo. Dapprima, come in preda a quello
stordimento rombante cagionato da un improvviso otturarsi degli orecchi, non
poté avvertire, né vedere, né pensar nulla; solo quando passò con la vettura per
la via della Lungara, innanzi le carceri di Regina Coeli, pensò che forse a
quell'ora Roberto Auriti vi era rinchiuso; ma non volle affliggersene piú. Tra
poco, con quella sua dichiarazione, ne sarebbe uscito, per seguitare la sua
incerta e penosa esistenza tra quella sua signora Lalla e il Passalacqua e il
Bonomè, mentre egli, invece – ah! si sarebbe
liberato!
Giunto in
cima al colle, gli parve davvero una liberazione quell'altezza, da cui poté
contemplare Roma luminosa nel sole, sotto l'azzurro intenso del cielo;
liberazione da tutte le piccole miserie acerbe che laggiú lo avevano offeso e
soffocato, dall'urto di tutte le meschine volgarità quotidiane; dalle fastidiose
risse dei piccoli uomini che volevano contendergli il passo e il respiro. Si
sentí lassú libero e solo, libero e sereno, sopra tutti gli odii, sopra tutte le
passioni, sopra e oltre il tempo, inalzato, assunto a quella altezza dal suo
grande amore per la vita ch’egli difendeva, uccidendosi. E in esso e con esso si
sentí puro, in un attimo, per sempre. Nell'eternità di quell'attimo si
cancellarono, sparvero assolte le sue debolezze, i suoi trascorsi, le sue colpe,
già che egli era pure stato un uomo e soggetto a contrarie necessità. Ora, con
la morte, le avrebbe vinte tutte. Restava solo, in quel punto, luminoso
indefettibile immortale il suo amore per la vita, l'amore per la sua terra, per
la sua patria, per cui aveva combattuto e vinto. Sí, come i tanti che avevano
avuto lassú, in difesa di Roma, una bella morte, troncati nel frenetico ardore
della gioventú e resi immuni di tutte le miserie, liberi di tutti gli ostacoli
che forse nel tempo li avrebbero deformati e avviliti. Ora in quel momento
anch’egli, spogliandosi di tutte le miserie, liberandosi di tutti gli ostacoli,
acceso e vibrante dell'ardore antico, con negli occhi l'oro dell'ultimo sole su
le case della grande città quadrata, si foggiava com'essi una bella morte, una
morte che lo inalzava a se stesso, senza invidia per quelli effigiati e composti
lassú per la gloria in un mezzo busto di marmo. Pensò che aveva con sé la
boccetta del veleno; ma no! a casa! a casa! tranquillamente, sul suo letto:
senza dare spettacolo! E ridiscese alla
città.
Ridisceso, gli
parve di aver lasciato la propria anima lassú, nel sole. Qua, nell'ombra era il
corpo ancor vivo, per poco. Si guardò le mani, le gambe, e provò subito un
brivido d'orrore. Ma, come se di lassú una voce severamente lo richiamasse, egli
si riprese e a quella voce rispose che sí, quel suo corpo, egli lo avrebbe tra
poco ucciso, senza
esitare.
Passato il
ponte di ferro, udí strillare da alcuni giornalaj un'edizione straordinaria del
foglio piú diffuso di Roma. Pensò che fosse per lui, e fece fermar la vettura;
comprò quel foglio. Difatti, in prima pagina era il resoconto della seduta
parlamentare, e nella sesta colonna spiccava in cima il suo nome
Corrado Selmi
come titolo dell'articolo del giorno. Prese a leggerlo; ma presto n'ebbe un
fastidio strano: avvertí che quello era già per lui un linguaggio vuoto e vano,
che non aveva piú alcun potere di muovere in lui alcun sentimento, quasi fatto
di parole senza significato. Gli parve che lo scrittore di quell'articolo non
avesse altra mira che quella di dimostrare che egli era vivo, ben vivo, e che,
come tale, poteva e sapeva giocare con le parole, perché gli altri vivi, i
lettori, potessero dire: "Guarda com'è bravo! guarda come scrive bene!". Quel
foglio, cosí leggero, gli parve a un tratto, con quel suo nome stampato lí in
cima, una lapide, la sua lapide, ch’egli stesso per uno strano caso si portasse
in carrozza, diretto alla fossa; strana lapide, in cui, anziché le solite lodi
menzognere, fossero incise accuse e ingiurie. Ma che importavano piú a lui? Era
morto.
Voltò la pagina
del giornale. Subito gli occhi gli andarono su un'intestazione a grossi
caratteri, che prendeva cinque colonne di quella seconda pagina:
L’eccidio d’Aragona in Sicilia
e sotto, a caratteri piú piccoli: Gli operaj delle zolfare in rivolta -
L'assalto alla vettura dell'ingegnere minerario Costa - Scene selvagge - Lo
uccidono con la moglie del deputato Capolino e bruciano i
cadaveri.
Corrado
Selmi restò, oppresso d'orrore e di ribrezzo, con gli occhi fissi su quelle
notizie. Comprese che per esse e non per lui era uscita quell'edizione
straordinaria del giornale. La moglie del deputato Capolino? Egli l'aveva veduta
a Girgenti, quando vi si era recato per sostenere la candidatura di Roberto
Auriti e assistere il Verònica nel duello col marito di lei. Bellissima donna...
Uccisa? E come si trovava in vettura, ad Aragona, con quell'ingegnere? Ah,
partita da Roma con lui... Una fuga?... Era l'ingegnere del Salvo... Gli operaj
delle zolfare si recavano in colonna dal paese alla stazione, risoluti a non
farlo entrare, se da Roma non portava l'assicurazione che le promesse sarebbero
state mantenute... Oh, guarda... quel Prèola... Marco Prèola, quel miserabile
che Roberto Auriti aveva scaraventato contro l'uscio a vetri della redazione del
giornalucolo clericale... capitanava lui, adesso, quella turba selvaggia di
facinorosi... li incitava all'assalto della vettura, al macello. Ah, vili!
colpire una donna... Il Costa sparava... e
allora...
Il Selmi non
poté leggere piú oltre; restò, nel raccapriccio, col giornale aperto tra le
mani, come soffocato da quella strage; gli parve di sentirsi investito dal
feroce affanno di tutto un popolo inselvaggito. Appallottò in un impeto di
schifo il foglio e lo scagliò dalla vettura. Domani, o la sera di quello stesso
giorno, in una nuova edizione straordinaria esso avrebbe annunziato con quei
grossi caratteri il suicidio di
lui.
Rientrando in
casa, da Pietro, il vecchio servo, fu avvertito che c'era in salotto il nipote
dell'Auriti, Antonio Del
Re.
"Sta bene," disse.
"Lo farai entrare nello studio, appena
sonerò."
Forse Pietro
si aspettava una riprensione per aver fatto entrare quel giovanotto, e aveva
pronta la risposta, che questi cioè s’era introdotto di prepotenza in casa, non
ostante che lui già una prima volta gli avesse detto che il padrone non c'era e
avesse fatto poi di tutto per impedirgli il passo. Aprí le braccia e s’inchinò
al reciso ordine del Selmi; ma, come questi s’avviò per la sua camera, rimase
perplesso, se non lo dovesse prevenire circa al contegno minaccioso e
all'aspetto stravolto di quel giovanotto. Socchiuse gli occhi, si strinse nelle
spalle, come per dire: "L'ordine è questo!" e si recò nel salotto per tener
d'occhio quell'insolente
visitatore.
"Ecco" gli
disse, indicando con una mossa del volto l’uscio di fronte. "Adesso, appena
suona..."
Antonio Del
Re non stava piú alle mosse; friggeva. Il viso, nello spasimo dell'attesa
terribile, gli si scomponeva. Teneva una mano irrequieta in tasca. E il vecchio
servo gli guatava quella mano che, dentro la giacca, pareva brancicasse un'arma.
Il suono del campanello, intanto, tardava; e piú tardava, piú cresceva l'ansito,
invano dissimulato, del giovine e l'irrequietezza di quella mano. Il vecchio
servo, ormai al colmo della costernazione, si accostò all'uscio, vi si parò
davanti, appena a tempo, ché allo squillo del campanello Antonio Del Re
s’avventò all'uscio come una belva con un pugnale brandito, trascinandosi dietro
nella furia il vecchio che lo teneva
abbrancato.
Corrado
Selmi, pallidissimo, seduto innanzi alla scrivania, col bicchiere ancora in
mano, da cui aveva bevuto or ora il veleno della boccetta rovesciata presso la
cartella, si volse e arrestò d'un tratto con uno sguardo gelido e un sorriso
appena sdegnoso, tremulo su le labbra, la violenza del
giovine.
"Non
t'incomodare!", gli disse. "Vedi? Ho fatto da me... Lascialo!" ordinò al servo.
"E ti proibisco di gridare o di correre a
soccorsi."
Prese dalla
scrivania la busta sigillata e la mostrò al giovine che ansimava e mirava, ora,
allibito.
"Tu butti
male, ragazzo," gli disse. "Hai una trista faccia... Ma sta' tranquillo: questa
busta è per tuo zio. Sarà liberato. Lasciala stare
qua."
Posò di nuovo la
busta su la scrivania; strizzò gli occhi; serrò i denti; s’interí, mentre nel
pallore cadaverico il viso gli si chiazzava di lividi. Fece per alzarsi; il
servo accorse a
sostenerlo.
"Accompagnami...
al letto..."
Si voltò
al Del Re, con gli occhi già un po' vagellanti. Quasi l'ombra d'un sorriso gli
tremò ancora nella faccia spenta. E disse con strana
voce:
"Impara a ridere,
giovanotto... Va' fuori: oggi è una bellissima
giornata."
E scomparve
dall'uscio, sostenuto dal servo.
Come da via delle
Colonnette, all'arresto di Roberto Auriti, Antonio Del Re era scappato alla casa
del Selmi, cosí, ma con altro animo, Mauro Mortara era corso in cerca di Lando
Laurentano. Al villino di via Sommacampagna, Raffaele il cameriere gli aveva
detto che il padrone, letta nel giornale la notizia di quell'eccidio avvenuto in
Sicilia, dalle parti di Girgenti, era saltato in vettura, diretto alla casa dei
Vella.
"E dov'è? Come
faccio a trovar la
via?"
"Se volete, in
vettura vi ci accompagno
io."
In vettura,
vedendolo affannato e smanioso d'arrivare, gli aveva chiesto se conosceva quella
signora e
quell'ingegnere.
"Che
signora? che
ingegnere?"
"Come? Non
avete inteso? Non sapete nulla? Li hanno assassinati ad
Aragona..."
"Ad
Aragona?"
"I
solfaraj."
"Ma
dunque..."
E s’era
interrotto, con un balzo, per guardar prima fisso in faccia, con occhi
stralunati, il cameriere, poi dalla vettura la gente che passava per via, quasi
tutt'a un tratto assaltato dal dubbio che una gran catastrofe fosse accaduta,
senza ch’egli ne sapesse
nulla.
" Ma dunque, che
succede? Tutto sottosopra? Là ammazzano! Qua arrestano! Sapete che hanno
arrestato don Roberto
Auriti?"
"Il cugino del
padrone?"
"Il cugino!
il cugino! E lui se ne va dal Vella! Gli arrestano il cugino, don Roberto
Auriti, uno dei Mille, che al Sessanta aveva dodici anni, e combatteva! E suo
padre mi morí fra le braccia, a Milazzo... Arrestato! Sotto gli occhi miei! A
questo, a questo mi dovevo
ritrovare!
S’era messo
a gridare in vettura e a gesticolare e a pianger forte; e tutta la gente, a
voltarsi, a fermarsi, a commentare, nel vederlo cosí stranamente parato, con
quello zainetto dietro le spalle, in fuga su quella vettura e
vociferante.
"Statevi
zitto! statevi
zitto!"
Ma che zitto!
Voleva giustizia e vendetta Mauro Mortara di quell'arresto; e come Raffaele, per
farlo tacere, gli parlò della visita che, alcuni giorni addietro, forse per
questo don Giulio, il fratello di don Roberto, aveva fatto al
padrone:
"Ma sicuro!"
gridò, sovvenendosi. "C'ero io! c'ero io! E l'ho visto piangere. Per questo,
dunque, piangeva quel povero figliuolo? Voleva ajuto... E dunque... e dunque don
Landino gliel'ha negato?
Possibile?"
"Forse
perché la somma era troppo
forte..."
"Ma che
troppo forte mi andate dicendo! Quando si tratta dell'onore d'un patriota! E lui
è ricco! E sua zia non ebbe nulla dei tesori del padre, ché si prese tutto il
fratello maggiore... Oh Dio! Dio! Donna Caterina... l'unica degna figlia di suo
padre... Ora donna Caterina ne morrà di crepacuore... Ma se è vero questo, per
la Madonna, che gli ha negato ajuto, non lo guardo piú in faccia, com'è vero
Dio! Non ci credo! non ci voglio
credere!"
Arrivato in
casa Vella, però, vi trovò tale scompiglio, che non poté piú pensare a domandar
conto a Lando dell'arresto di Roberto Auriti. Dianella Salvo, la sua amicuccia
donna Dianella, la sua colomba, che in quel mese passato a Valsanía aveva saputo
avvincerlo e intenerirlo con la grazia soave degli sguardi e della voce, nel
vederlo entrare aggrondato e smarrito nel salone, gli si precipitò subito
incontro quasi con un nitrito di polledra spaurita, e gli s’aggrappò al petto,
tutta tremante, affondandogli la testa scarmigliata entro la camicia d'albagio,
quasi volesse nascondersi dentro di lui, e gridando, con una mano protesa
indietro, verso il
padre:
"Il lupo!... Il
lupo!"
Mauro Mortara,
cosí soprappreso, frugato nel petto da quella fanciulla in quello stato, levò il
capo, sbalordito, a cercar negli occhi degli astanti una spiegazione: mirò visi
sbigottiti, afflitti, piangenti, mani alzate in gesti di timore, di riparo, di
pena e di maraviglia. Non comprese che la fanciulla fosse impazzita. Le prese il
capo tra le mani e provò di scostarselo dal petto per guardarla negli
occhi:
"Figlia mia!"
disse. "Che vi hanno fatto? che vi hanno fatto? Ditelo a me! Assassini... Il
cuore... hanno strappato il cuore... il cuore anche a
me!"
Ma, come poté
vederle gli occhi e la faccia disfatta, stravolta, aperta ora a uno squallido
riso, con un filo di sangue tra i denti, inorridí: guatò di nuovo tutti in giro
e, riponendosi sul petto il capo di lei e lasciandovi sui capelli scarmigliati
la mano in atto di protezione e di
pietà:
"Come la madre?"
disse in un brivido, e addietro spinto dalla fanciulla che, seguitando sul petto
di lui quell'orribile riso come un nitrito, con ansia frenetica lo
incitava:
"Da
Aurelio... da
Aurelio..."
Accorse,
col volto inondato di lagrime, la cugina Lillina, mentre in fondo al salone
Lando Laurentano e don Francesco Vella cercavano di far coraggio a Flaminio
Salvo che, a quella scena, s’era nascosto il volto con le mani,
imprecando.
"Sí,
Dianella, sii buona! sii buona! Ora lui ti porterà... ti porterà dove tu vuoi...
sii buona, cara, sii buona! da
Aurelio!"
Ma Dianella,
sentendo la voce del padre, invasa di nuovo dal terrore, aveva ripreso ad
affondar la testa sul petto di Mauro e a riaggrapparsi a lui piú freneticamente,
urlando:
" Il lupo!...
il lupo!..."
"Ci sono
qua io! Dov'è il lupo?" le gridò allora Mauro, ricingendola con le braccia. "Non
abbiate paura! Ci sono io,
qua!"
"Vedi? c'è lui,
ora! c'è lui!" le ripeteva
Lillina.
E anche
Ciccino e la zia Rosa le si fecero attorno a
ripetere:
"C'è lui!
Vedi che è venuto per te? per difenderti,
cara..."
Levò, felice e
tremante, il volto, appena appena, la poverina, a mostrare un sorriso di
riconoscenza, e seguitò a spinger Mauro verso la
porta:
"Sí... sí... da
Aurelio... da
Aurelio..."
Strozzato
dalla commozione Mauro, cosí respinto indietro, tra quella gente che non
conosceva e gli si stringeva attorno, domandò con
rabbia:
"Ma insomma,
che è? com'è stato? che dice? dice Aurelio? Chi è? Il figlio di don Leonardo
Costa? Ah, è lui... quello che hanno
assassinato?"
Con gli
occhi, con le mani, tutti gli facevano cenno di tacere, e qualcuno gli
rispondeva chinando il
capo.
"Lo amava? Oh
figlia..."
Lando
Laurentano e don Francesco Vella si portarono via di là Flaminio
Salvo.
"Ditemi, ditemi
che vi hanno fatto, "seguitò Mauro rivolto a Dianella, con tenerezza quasi
rabbiosa. "Ora andiamo da Aurelio... Ma ditemi che vi hanno fatto! Chi è il
lupo, che lo ammazzo? Chi è il lupo?" domandò agli altri con viso
fermo.
Ma nessuno
sapeva con certezza che cosa fosse accaduto, a chi veramente alludesse Dianella
con quel suo grido. Pareva al padre, ma poi, chi sa? Forse lo scambiava per un
altro. Era stato lí, durante la loro assenza, Ignazio Capolino. Dianella era
rimasta in casa, lei sola, perché si sentiva poco bene; e certo sopra di lei
Capolino, senza misericordia, forsennato per l'orrenda sciagura, aveva dovuto
rovesciar la furia della sua disperazione. Ciccino e Lillina, che erano stati i
primi a rincasare, gli avevano sentito
gridare:
"Tuo padre!
tuo padre, capisci?"
Ma
al loro entrare, quegli era scappato via, furibondo, lasciando questa poveretta
come insensata, come intronata da tanti colpi spietati alla testa, e, subito
dopo, dando segni di terrore, s’era messa a urlare: "Il lupo!... il
lupo!..."
Che le aveva
detto Capolino?
Uno
solo poteva saperlo, cosí bene come se fosse stato presente alla scena: Flaminio
Salvo, che di là, tra Lando Laurentano e il cognato Francesco Vella, sentiva
prepotente il bisogno di confessare il suo rimorso, ma che tuttavia, senza che
potesse impedirlo, si scusava
accusandosi.
Francesco
Vella gli aveva domandato, se si fosse mai accorto che la figliuola amava il
Costa.
"Se tu non lo
sapevi!"
"Io lo sapevo.
Ma potevo io, io padre, profferire la mia figliuola a un mio dipendente? Quel
disgraziato, lui, non se n'era mai accorto, per la modestia della mia figliuola,
e perché a lui stesso non poteva passare per il capo una tal cosa; tanto piú
che, da un pezzo, era invescato nella passione per quell'altra disgraziata... Ma
il torto è mio, il torto è mio: io non ho scuse! Nessuno meglio di me può sapere
che il torto è mio! Avevo beneficato quel povero giovine, come avevo beneficato
tutti coloro che laggiú lo hanno assassinato! Qual altro frutto poteva recare il
beneficio? Il Costa era cresciuto a casa mia, come un figliuolo; e quella mia
povera ragazza... Ma sí, certo! E io, io vedevo bene la necessità che il male da
me fatto in principio, beneficando, si dovesse compiere con un matrimonio; però,
lo confesso, mi ripugnava, e cercavo d'allontanarlo quanto piú mi fosse
possibile. Ma, vedete: intanto, avevo richiamato quel figliuolo dalla Sardegna,
e lo avevo assunto alla direzione delle zolfare d'Aragona; e ora, qua a Roma,
avevo detto al Capolino che, se il Costa fosse riuscito a domare quei bruti
laggiú, io gli avrei dato in premio la mia figliuola. Notate questo: che dunque
Capolino sapeva e, per conseguenza, sapeva anche la moglie, che questo era il
mio disegno. Sí, è vero, sotto, avevo altre intenzioni, o piuttosto, una
speranza... Signori miei, io potevo bene per la mia figliuola aspirare a ben
altro... (e, cosí dicendo, fissò negli occhi Lando Laurentano). L'avevo perciò
condotta a Roma e mi proponevo di lasciarla qua in casa di mia sorella, con la
speranza che si distraesse da quella sua puerile ostinazione. Ebbene, la signora
Capolino volle profittare di questa mia speranza per render vano quel mio
disegno: volle partire col Costa per toglierlo per sempre alla mia figliuola. E
il signor Capolino forse sperava che, sposo Aurelio, domani, di mia figlia e già
amante di sua moglie, egli potesse seguitare a tenere un posto in casa mia. E
ora, ora che tutto gli è crollato cosí d'un tratto, ha gridato a mia figlia,
come mie, le sue macchinazioni! Ma io vi giuro, signori, che lo schiaccerò, lo
schiaccerò... Seppure... ormai...
ormai..."
Scrollò le
spalle, scartò con le mani quella sua minaccia come se ogni proposito gli désse
ora un'invincibile nausea. E andò a buttarsi su una poltrona, come atterrito a
mano a mano dal vuoto arido, orrido, che dopo quel lungo sfogo gli s’era fatto
dentro.
Nulla: non
sentiva piú nulla: nessuna pietà, né affetto per nessuno. Un fastidio enorme,
anzi afa, afa sentiva ormai di tutto, e specialmente della parte che doveva
rappresentare, di padre inconsolabile per quella sciagura della figliuola, che
invece non gli moveva altro che irritazione, ecco, e dispetto, e quasi vergogna,
sí, vergogna. Quella smania folle della figliuola per l'innamorato lo rivoltava
come alcunché di vergognoso. E si domandava, con bieca crudezza, se avesse mai
amato veramente, di cuore, quella sua figliuola. No. Come per dovere l'aveva
amata. E ora che questo dovere gli si rendeva cosí grave e penoso, non poteva
provarne altro che uggia e nausea. Ma sí, perché era anche fatalmente condannata
quella sua figliuola! Non era pazza la madre? E ormai, tutto quello che poteva
accadergli, ecco, gli era accaduto. La misura era colma, e basta ormai! Lo
sterminio della sorte su la sua esistenza era compiuto; in quel vuoto arido,
orrido, restava padrone, senza piú nulla da temere. La morte non la temeva. E
guardò il brillío della grossa pietra preziosa dell'anello nel tozzo mignolo
della sua mano pelosa, posata su la gamba. Quel brillío, chi sa perché, gli
richiamò un lembo delle carni di Nicoletta Capolino che laggiú quei bruti
avevano arse. Sollevò il capo, con le nari arricciate. Ah come volentieri
avrebbe fumato un sigaro! Ma pensò che non poteva fumare, perché in quel momento
sarebbe sembrato scandaloso. Sentí che Francesco Vella diceva a Lando
Laurentano:
" Ma sí, è
certo: erano fuggiti! Partiti da quattro giorni, arrivavano allora appena ad
Aragona... Dove erano stati in questi quattro
giorni?"
E interloquí,
con altra voce, con altro aspetto, come se non fosse piú quello di
prima:
"Non c'è luogo a
dubbio," disse. "Già l'altro jeri da Napoli m'era arrivata una lettera del
Costa, con la quale si licenziava da me. È andato dunque a morire per conto suo
laggiú: e anche di questo, dunque, posso non aver
rimorsi.
Entrò a questo
punto Ciccino come sospeso e smarrito nell'ambascia della notizia che
recava.
"Lando," disse
esitante, "bisogna che ti avverta... Quel
vecchio..."
"Mauro?"
"Ecco,
sí... era venuto qua col tuo domestico a cercarti per... dice che... dice che
hanno arrestato Roberto
Auriti."
Lando
impallidí, poi arrossí, aggrottando le ciglia come per un pensiero che, contro
la sua volontà, gli si fosse imposto; si mostrò imbarazzato lí tra gente che
aveva per sé una sciagura ben piú
grave.
"Vada, vada,"
s’affrettò a dirgli Flaminio Salvo, tendendogli una mano e posandogli l'altra su
una spalla per
accompagnarlo.
"Le
auguro," gli disse allora Lando, "che sia un turbamento passeggero questo della
sua
figliuola."
Flaminio
Salvo socchiuse gli occhi e negò col
capo:
"Non mi faccio
illusioni."
E
rientrarono nel salone, cosí, con le mani
afferrate.
Mauro
Mortara, già da un pezzo esasperato, soffocato, ancora con la povera fanciulla
demente aggrappata al petto, non seppe trattenersi a quello spettacolo: si
scrollò con un muggito nella gola, e gridò alle due donne che gli stavano
attorno:
"Tenetela...
prendetevela... Gli dà la mano... Non posso vederlo... Sapete come si chiama? Ha
il nome di suo nonno: Gerlando
Laurentano!"
E,
strappandosi dalle braccia di Dianella, scappò
via.
Flaminio Salvo
schiuse le labbra a un sorriso amaro, piú di commiserazione derisoria che di
sdegno: e, alle scuse che gli porgeva Lando Laurentano,
rispose:
"Contagio...
Niente principe... La pazzia purtroppo è contagiosa..."