Luigi Pirandello
I vecchi e i giovani
Parte II
V
A
Girgenti, tutto il popolo si accalcava nel vasto piano fuori Porta di Ponte,
all'entrata della città, in attesa che dalla stazione, giú in Val Sollano,
arrivassero con le vetture di quella corsa i resti (che si dicevano raccolti in
una sola cassa) di Nicoletta Capolino e di Aurelio
Costa.
Sbalordimento,
angoscia, ribrezzo erano dipinti su tutti i volti per quell'efferato delitto,
che da due giorni teneva in subbuglio la città e tutta la provincia intorno. Era
in tutti quegli occhi un'attenzione intensa e dolorosa, un'ansietà guardinga di
raccoglier nuove notizie di piú precisi particolari e di non lasciarsi nulla
sfuggire; perché nessuno era pago di quanto sapeva, e tutti volevano vedere e
quasi toccare con gli occhi, in quella cassa che si aspettava, la prova che ciò
che era avvenuto lontano, e che pareva per la sua ferocia incredibile, era vero.
Non avendo potuto assistere allo spettacolo di quella ferocia, volevano vedere
almeno, per quanto or ora sarebbe possibile, i miserandi effetti di
essa.
Antiche ragioni,
per una almeno delle vittime; altre nuove che ora si divulgavano e accrescevano,
tra lo stupore e la pietà, il tragico dell'avvenimento, se trattenevano il
rimpianto, non potevano impedir la commiserazione per l'atrocità di quella
morte, l'indignazione per l'infamia che si riversava per essa su l'intera
provincia.
Viva ancora
davanti agli occhi di tutti era l'immagine della bellissima donna, quando,
altera, squisitamente abbigliata, passava nella vettura del Salvo e chinava
appena il capo per rispondere ai saluti con un sorriso quasi di mesta
compiacenza. Tutti vedevano entro di sé, con una strana nitidezza di percezione,
qualche particolarità viva del corpo o dell'espressione di lei, il bianco dei
denti appena trasparente tra il roseo delle labbra, in quel sorriso; il brillare
degli occhi tra le ciglia nere; e si domandavano, con una indefinibile
inquietudine, chi avrebbe potuto immaginare, allora, che dovesse esser questa la
sua fine. Per lasciare, cosí d'un tratto, gli agi e gli onori a cui, col Salvo
amico e col marito deputato, era salita, e prender la fuga con uno, al quale
prima aveva ricusato d'unirsi in matrimonio, via, certo il cervello doveva
averle dato di volta. Ma forse per astio, ecco, per astio contro Dianella Salvo
che amava segretamente il Costa... Forse? E non si sapeva già che quella
poverina, appena avuta la notizia della fuga e di quel macello, era impazzita
come la madre? Dunque, dal tradimento quei due, da un'avventura che forse per
uno solo di essi era d'amore, e che già di per sé avrebbe suscitato tanto
scandalo in paese, erano balzati a quella morte. Ma come, perché si erano
diretti ad Aragona dov'egli doveva sapersi aspettato da quelle jene fameliche da
tanti mesi per la chiusura delle zolfare del Salvo? Ma perché alla volta di
Girgenti, cosí fuggiti insieme, non potevano avviarsi. Quella fuga, piú che in
onta al marito, era in onta al Salvo, e perciò là appunto s’era volta, dove
tutti erano contro il Salvo. Forse egli, il Costa, credeva, o almeno sperava
che, annunziando subito all'arrivo che anche lui si era ribellato al Salvo,
quelli dovessero accoglierlo come uno dei loro e non tenerlo piú responsabile
delle mancate promesse. E poi, lí, ad Aragona, aveva la casa; forse vi andava
soltanto per prendere la roba, gli strumenti del suo lavoro, i libri, col
proposito di ripartirsene subito, di ritornarsene in Sardegna al posto di prima.
Sí; ma con la donna? doveva andar lí, tra nemici, con la donna? Poteva almeno
lasciar questa, prima, in qualche posto! Eh, ma forse lei, lei stessa aveva
voluto affrontare insieme il pericolo. Aveva animo fiero, quella donna, e aveva
saputo mostrarlo di fronte a quell'orda di selvaggi, levandosi in piedi su la
carrozza, a fare scudo del suo corpo ad Aurelio Costa, e gridando che questi per
loro s’era licenziato dal Salvo, per le promesse non mantenute. Ma quel ribaldo
di Marco Prèola aveva levato la
voce:
"Morte alla
sgualdrina!"
E l'orda
dei selvaggi, rimasta dapprima come sbigottita dalla temerità superba di quella
signora, aveva avuto un fremito. Forse ancora Nicoletta Capolino sarebbe
riuscita a dominarla, a farsi ascoltare, se inconsultamente a quel grido di
morte, a quell'ingiuria volgare, Aurelio Costa non fosse balzato in difesa di
lei, con l'arma in pugno. Allora la carrozza era stata assaltata da ogni parte,
e l'uno e l'altra, tempestati prima di coltellate, di martellate, erano
stramazzati, poi sbranati addirittura, come da una canea inferocita; anche la
carrozza, anche la carrozza era stata sconquassata, ridotta in pezzi; e, quando
su la catasta formata dai razzi delle ruote dagli sportelli, dai sedili, erano
stati gettati i miserandi resti irriconoscibili dei due corpi, s’era visto uno
versare su di essi da un grosso lume d'ottone a spera, trafugato dalla vicina
stazione ferroviaria, il petrolio, e tanti e tanti con cupida ansia affannosa
appiccare il fuoco, come per toglier subito ai loro stessi occhi l'atroce vista
di quello
scempio.
Cosí, i
particolari della strage erano per minuto e quasi con voluttà d'orrore descritti
e rappresentati, come se tutti vi avessero assistito e la avessero ancora
davanti agli occhi. Vedevano tutti quel bruto insanguinato, che versava il
petrolio da quella lampa d'ottone su le membra oscenamente squarciate e
ammucchiate su la catasta, e quegli altri chini e ansanti a suscitare il
fuoco.
Si sapeva che
molti, piú di sessanta, erano gli arrestati insieme con Marco Prèola, aborto di
natura; prima, lancia spezzata dei clericali; poi, presidente di quel
fascio di solfaraj ad Aragona. Tra breve, dunque, forse quel giorno
stesso, un nuovo avvenimento spettacoloso: il trasporto di tutti quei manigoldi,
in catena, a due a due, dalla stazione al carcere di San Vito, tra una scorta
solenne di guardie, di carabinieri a cavallo e di
soldati.
"Ecco, ecco
intanto le carrozze!" "Là, eccola!" "Dov'era la cassa?" "Uh, Come piccola!"
"Eccola là!" " Su la terza carrozza là, su quella che aveva in serpe un
maresciallo!" "Uh, capiva tutta sul sedile davanti!" "Quella, quella cassetta
là! quella cassettina di latta!" "Quella? che nell'altro sedile c'era il
commissario di polizia?" Sí, sí!" "E chi era quell'altro accanto? Ah, Leonardo
Costa! il padre! il padre!" "Ah, povero padre, con quella cassetta là
davanti!"
Un urlo di
pietà, di raccapriccio si levò da tutta la folla alla vista del padre che pareva
impietrato in una espressione di rabbia, ma come stupefatta nell'orrore; con gli
occhi fissi su quella cassetta, quasi chiedesse come poteva esser là il suo
figliuolo, la sua colonna! Ma che poteva dunque esser restato, del suo
figliuolo, se due corpi, due, erano là, due? Le teste sole? Forse, spiccate, sí,
e qualche membro, arsicchiato. Oh Dio! oh
Dio!"
E quasi tutti
piangevano, e tanti singhiozzavano
forte.
Udendo quegli
urli, quei singhiozzi, Leonardo Costa, passando, levò un urlo anche lui, esalò
la ferocia del suo cordoglio in un ruglio che non aveva piú nulla di umano; poi
s’abbatté, si contorse, tra le braccia del commissario di
polizia.
La carrozza si
fermò alla voltata della piazza, dove sorge il palazzo della Prefettura, sede
anche del commissariato di polizia. Due guardie presero la cassetta; il cavalier
Franco ajutò Leonardo Costa a smontare. Il povero vecchio, per quanto massiccio,
non si reggeva piú su le gambe; un'orecchia gli sanguinava, perché alla
stazione, in un impeto di rabbia, s’era strappato uno dei cerchietti d'oro.
Altre guardie si schierarono davanti al portone, per impedire alla folla
d'invadere l'atrio del
palazzo.
E la folla
restò lí davanti, irritata, delusa, insoddisfatta. Che sarebbe avvenuto adesso?
Era tutto finito cosí? Sarebbe rimasta lí, nel commissariato, quella cassetta?
Non si farebbe il trasporto al camposanto di Bonamorone? C'era lí la gentilizia
della famiglia Spoto. Ormai piú nessuno restava di quella famiglia. Per Aurelio
Costa c'era il padre; per Nicoletta Capolino, nessuno: non poteva esserci il
marito; avrebbe potuto esserci il patrigno, don Salesio Marullo; ma si sapeva
che il poverino, abbandonato da tutti, era andato a cercar rifugio per carità a
Colimbètra, e si trovava lí da qualche mese, ammalato. Forse Leonardo Costa
reclamava per sé i resti del suo figliuolo, per trasportarli al camposanto di
Porto Empedocle; e ragioni giudiziarie si opponevano a questo suo
desiderio.
La folla, a
poco a poco, cominciò a sbandarsi tra infiniti
commenti.
Leonardo
Costa voleva proprio ciò che la folla aveva immaginato. Il commissario, cav.
Franco, cercava di persuaderlo ad avere un po' di pazienza, che prima tutte le
pratiche giudiziarie fossero, come egli diceva, esperite, là in ufficio... Ma
sí, in giornata; dopo la visita del giudice istruttore. Il Costa, come se non
capisse, insisteva, ripetendo ostinatamente, con le stesse parole, la richiesta
pietosa. E il cavalier Franco, quantunque compreso di pietà per quel povero
padre, sbuffava, non ne poteva piú. Erano momenti terribili, per lui, e non
sapeva da qual parte voltarsi prima giacché da ogni canto della provincia, da
tutta la Sicilia, giungevano notizie di giorno in giorno piú gravi; pareva che
da un istante all'altro dovesse scoppiare una generale sommossa e il presidio
delle milizie era scarso, e piú scarso ancora quello di
polizia.
Ma che voleva,
che altro voleva adesso quel benedett'uomo? Voleva... voleva che i resti di suo
figlio - quali che fossero - non rimanessero mescolati là con quelli della
donna, di quella donna esecrata! Perché, perché cosí insieme li avevano
raccolti?
"Perché?" gli
gridò. "Ma che vi figurate che ci sia piú là
dentro?"
E indicò la
cassetta, deposta su una
tavola.
"Oh
figlio!"
"Tutto quello
che si è potuto raccogliere, tra le fiamme. Niente! quasi
niente!"
"Oh
figlio!"
"Che volete
piú scartare, distinguere? Si arrivò troppo tardi. Alla stazione non c'erano
guardie. Prima che arrivasse il delegato d'Aragona, il fuoco... Niente, vi
dico... qualche residuo
d'ossa..."
"Oh
figlio!"
"Non si
conosce piú nulla... Sí, sí, pover'uomo, sí, piangete, piangete, che è meglio...
Povero Costa, sí... sí... È una cosa che... oh Dio, oh Dio, che cosa... sí, fa
rinnegare l'umanità! Ma voi pensate, per levarvi almeno questa spina dal cuore,
pensate che lí non c'è... vostro figlio lí non c'è: non c'è più niente lí... E
del resto, poverino, pensate che quella donna, se voi la odiate, egli la amò; e
forse non gli dispiace adesso, che ciò che di lui ci può essere là dentro, sia
insieme, mescolato, coi resti di lei... Povera donna! Avrà avuto i suoi torti,
ma via, che sorte anche la
sua!"
"No... no...
lei... non posso... non posso parlare... lei... a perdizione... mio figlio...
lei! Ma non sapete, signor commissario, che mio figlio era amato dalla figlia
del principale? Si sa sicuro... sicuro, questo... è impazzita quella povera
figlia mia, come la mamma! È stata... è stata tutta una macchina... Costei e
quell'assassino del padre... che se la intendevano tra loro... per rovinare
questo figlio mio... per toglierlo all'amore di quella santa creatura... Oh,
signor commissario, legatemi, legatemi le braccia; signor commissario,
chiudetemi, chiudetemi in prigione, perché se io lo vedo, quell'assassino che mi
ha fatto morire il figlio cosí, io lo ammazzo, signor commissario, io non
rispondo di me, lo ammazzo! lo
ammazzo!"
Il cavalier
Franco intrecciò le mani, le strinse, le scosse piú volte in
aria:
"Ma vi pare," gli
gridò poi, con gli occhi sbarrati "vi pare, scusate, che io debba sentire simili
spropositi? Vi compatisco, siete arrabbiato dal dolore e non sapete piú quel che
vi dite. Ma perdio, vostro figlio, vostro figlio... in un momento come questo,
che basta un niente... una favilla, a mandare in fiamme tutta la Sicilia... non
si contenta di prender la fuga come un ragazzino con la moglie d'un deputato...
ma va a cacciarsi da sé, là, come a dire: "Eccoci qua, fateci a pezzi! Cercate
l'esca? Eccola qua! Ci siamo noi!" Perdio, bisogna esser pazzi, ciechi... io non
so! Con chi ve la prendete? E noi siamo qua a dover rispondere di tutto... anche
d'una pazzia come questa! E per giunta, mi tocca di sentire anche voi: -
ammazzo! ammazzo! ammazzo! - Chi ammazzate? Credete che il Salvo, se pur
è vero tutto quel che voi farneticate, ha bisogno della vostra punizione? Gli
basta la pazzia della
figlia!"
Il Costa, dopo
questa sfuriata, non ebbe piú ardire di parlar forte; lo guardò con gli occhi
invetrati di lagrime; e si morse un dito;
mormorò:
"Se fosse
capace di rimorso, signor commissario! Ma non
è!"
Il cavalier Franco
si scrollò; uscí dalla
stanza.
"Andate,
andate..." gli disse dietro, il Costa; poi cauto, s’appressò alla cassetta
deposta su la tavola, e si provò ad
alzarla.
Un groppo di
singulti muti, fitti, nella gola e nel naso, gli scrollarono in convulsione la
testa.
Non pesava, non
pesava niente, quella
cassetta!
S’inginocchiò
davanti alla tavola, appoggiò la fronte al freddo di quella latta, e si mise a
gemere:
"Figlio!...
figlio!... figlio!..."
Due
giorni dopo, arrivò a Girgenti, inatteso, funebre, l'on. Ignazio
Capolino.
La
condizione, in cui lo aveva messo non tanto forse la sciagura improvvisa quanto
lo scatto violento per cui Dianella Salvo aveva perduto la ragione, era cosí
difficile e incerta, che egli aveva bisogno di raccogliere a consulto, lí sul
posto, tutte le sue forze per trovare una via da uscirne in qualche modo, al piú
presto. Lo scandalo della fuga della moglie era soffocato nell'orrore della
morte; il tragico, che spirava da questa morte, lo rendeva immune dal ridicolo
che poteva venirgli da quella fuga. Bastava dunque presentarsi ai suoi
concittadini compunto nell'aspetto, ma nello stesso tempo austeramente
riservato, per trarre profitto della commozione generale, senza tuttavia
parteciparvi, giacché dalla moglie era stato offeso. La simpatia degli altri
doveva venirgli come giusto e meritato compenso a questa offesa. E dovevano
tutti vedere che egli soffriva, schiantato dall'atrocissimo fatto, e che lui piú
di tutti meritava compianto, poiché finanche dalle due vittime tanto commiserate
era stato offeso, cosí da non poter piangere, neanche piangere ora la sua
sciagura!
Eppure...
come mai? Rientrando in casa, in quella casa che le squisite e sapienti cure
della moglie avevano reso cosí bene adatta alla commedia di garbate e graziose
menzogne, alla gara di compitezze ammirevoli, nella quale entrambi avevano preso
tanto gusto a esercitarsi perché la loro vita non fosse troppo di scandalo agli
altri, troppo disgustosa a loro stessi; e sentendo nel silenzio cupo delle
stanze, rimaste con tutti i mobili come in attesa, il vuoto, il vuoto in cui dal
primo momento della sciagura si vedeva perduto... - come mai? nell'aprir la
camera da letto e nell'avvertirvi affievolito, ma pur presente ancora, il
voluttuoso profumo di lei, ecco, per un irresistibile impeto che lo
stordí per la sua incoerenza, ma che pur gli piacque come un ristoro insperato
di accorata tenerezza - pianse, sí, pianse per il ricordo di lei, pianse per la
prima volta dopo l'annunzio di quella morte, pianse come non aveva mai pianto in
vita sua, sentendo in quel pianto quasi un dolore non suo, ma delle sue lagrime
stesse che gli sgorgavano dagli occhi senza ch’egli le volesse, ma, appunto
perché non le voleva, con tanto sapor di dolcezza e di
refrigerio!
Non doveva
però, no, no, non doveva... perché... Si fermò un momento a considerare perché
non avrebbe dovuto piangerla. Non era stata forse la compagna sua necessaria e
insurrogabile? la compagna preziosa dei suoi sottili e complicati accorgimenti,
la quale, correndo - più per sé, forse, quella volta, che per lui - a un riparo
a cui anch’egli però l'aveva spinta - era caduta? Sí, e cosí orribilmente, cosí
orribilmente caduta! Eppure, no; apparentemente, ecco, almeno apparentemente non
doveva piangerla... Cosí in segreto sí, anche perché quel pianto gli faceva
bene, ora. Era restato solo; e da sé solo, ora, doveva ajutarsi, difendersi; e
non sapeva ancora, non vedeva
come.
Piangendo, no,
intanto, di certo!
E
Capolino sorse in piedi; si portò via, prima con le mani, poi a lungo, col
fazzoletto, accuratamente, le lagrime dagli occhi, dalle guance; si rimise le
lenti cerchiate di tartaruga, e si presentò, fosco, severo, aggrondato, allo
specchio
dell'armadio.
Dio, come
il suo viso era sbattuto, invecchiato in pochi
giorni!
Il dolore? Che
dolore? Non poteva riconoscere d'aver provato dolore... se non forse or ora, un
poco. Ma no, anche prima, in fondo, aveva certo dovuto provarne uno e ben
grande, se a Roma, all'annunzio della sciagura, era stato accecato da quella
rabbia che lo aveva scagliato su Dianella
Salvo.
Doveva pentirsi
di quello scatto?
Si
era con esso attirato per sempre l'odio, la nimicizia mortale del Salvo. Ma se
pur fosse riuscito a reprimersi in quel primo momento, a vietarsi la
soddisfazione feroce di quella vendetta, che avrebbe ottenuto? A lui, restato
solo, senza piú la moglie, avrebbe forse Flaminio Salvo seguitato a dare ajuto e
sostegno, per il rimorso e la complicità segreta nel sacrifizio di quella? Forse
la figlia, già inferma, sarebbe impazzita anche senza quel suo scatto, al solo
annunzio della morte del Costa. E allora? Flaminio Salvo avrebbe creduto di
pagare già abbastanza con la pazzia della figliuola; e per lui non avrebbe avuto
piú alcuna considerazione; anzi lo avrebbe respinto da sé, come lo spettro del
suo rimorso. Caso pensato. Se poi Dianella non fosse impazzita e si fosse a poco
a poco quietata, era uomo Flaminio Salvo, avendo raggiunto lo scopo, da restar
grato alla memoria di chi gliel'aveva fatto raggiungere, a costo della propria
vita; e, per essa, al marito, rimasto vedovo? Ma se già, subito, per scrollarsi
d'addosso ogni responsabilità, subito aveva gridato ai quattro venti che
Nicoletta Capolino e Aurelio Costa avevano preso la fuga e che il Costa s’era
licenziato ed era andato dunque a morire per conto suo, ad Aragona, insieme con
l'amante! Sí: fuggita col Costa, sua moglie; ma chi l'aveva spinta a commettere
questa pazzia? Chi aveva spedito a Roma il Costa con la scusa di quel disegno da
presentare al Ministero? Chi aveva aizzato la gelosia, o piuttosto, il puntiglio
di lei, facendole balenare prossimo il matrimonio della figlia col Costa? Ed
egli, Capolino, egli, il marito, aveva dovuto prestarsi a tutte queste perfide
manovre che dovevano condurre a una tale tragedia; cosí, è vero? per restar poi
abbandonato, senza piú alcuna ragione d'ajuto, raccolto il frutto di tante
scellerate perfidie! Ah, no, perdio! Di quel suo scatto non doveva pentirsi. Se
egli aveva perduto la moglie, e lui la figlia! Pari, e di fronte l'uno
all'altro. Ora il Salvo gli avrebbe soppresso ogni assegno. Toccava a lui,
dunque, di provvedere subito anche ai bisogni piú immediati. E ogni credito
presso gli altri, con l'amicizia del Salvo, gli veniva meno. Che fare? Come
fare?
Cosí pensando,
Capolino brancicava con le dita irrequiete la medaglietta da deputato appesa
alla catena dell'orologio. Aveva per sé, ancora, il prestigio che gli veniva da
quella medaglietta. Per ora, il Salvo non poteva strappargliela dalla catena
dell'orologio. E con essa, per uno che valeva, se non piú, certo non meno del
Salvo in paese, egli era ancora il deputato. Don Ippolito Laurentano non avrebbe
permesso, che colui che rappresentava alla Camera il paladino della sua fede, si
dibattesse tra meschine difficoltà
materiali.
Ecco:
subito, prima che Flaminio Salvo arrivasse a Girgenti e si recasse a Colimbètra
a preoccupare l'animo del principe contro di lui, egli vi correrebbe e
parlerebbe aperto a don Ippolito della perfidia di colui. Dopo tanti mesi di
convivenza con donna Adelaide, non doveva il principe essere in animo da tenere
piú tanto dalla parte del cognato; oltreché, in favor suo, egli avrebbe in quel
momento la commiserazione per la sua sciagura. Poteva, sí, contro a questa, il
Salvo porre in bilancia quella della propria figliuola; ma appunto su ciò egli
andrebbe a prevenire il principe, dimostrandogli che non lui, con quel suo
scatto naturale e legittimo, nella rabbia del cordoglio, era stato cagione di
quella pazzia; ma il padre, il padre stesso che con tanta violenza aveva voluto
impedire che la figlia sposasse il Costa, sacrificando costui e distruggendolo
insieme con la moglie. Ora, per sgabellarsi d'ogni rimorso, voleva gettar la
colpa addosso a lui, e anche di lui sbarazzarsi, come già del Costa e della
moglie.
Ecco il piano!
Ma né quel giorno, né il giorno appresso, Capolino ebbe tempo di recarsi a
Colimbètra ad attuarlo. Una processione ininterrotta di visite lo trattenne in
casa, con molta sua soddisfazione, quantunque sapesse e vedesse chiaramente che
piú per curiosità che per pietà di lui si fosse mossa tutta quella gente, la
quale certo, domani, a un cenno del Salvo, gli avrebbe voltato le spalle. A ogni
modo, andando dal principe, avrebbe potuto parlare di questo solenne attestato
di condoglianza e di simpatia dell'intera cittadinanza; oltreché, in tanti animi
che, per la commozione del tragico avvenimento, eran come un terreno ben rimosso
e preparato, poteva intanto seminar odio per il Salvo, cosí senza
parere.
"Non me ne
parlate, per carità!" protestava, alterandosi in viso al minimo accenno. "Dovrei
dir cose, cose che... no, niente; per carità, non mi fate
parlare..."
E se
qualcuno, esitante,
insisteva:
"Quella
povera
figliuola..."
"La
figliuola?" scattava. - Ah, sí, povera, povera vittima anche lei! Non sopra
tutte le altre, però, certo... Per carità, non mi fate
parlare...
Il salotto
era pieno zeppo di gente quando entrò il D'Ambrosio, quello che gli aveva fatto
da testimonio nel duello col Verònica e che era lontano parente di Nicoletta
Spoto. Avvenne allora una scena che, neanche se Capolino l'avesse preparata
apposta, gli sarebbe riuscita piú
favorevole.
Il
D'Ambrosio entrò tutto gonfio di commozione, e con le braccia protese. In piedi,
tutti e due si abbracciarono in mezzo alla stanza, si tennero stretti un pezzo
piangendo forte. Forte, con la sua abituale irruenza, parlò il D'Ambrosio,
staccandosi
dall'abbraccio:
"Dicono
tutti, qua, che Nicoletta mia cugina era la ganza di quell'imbecille del Costa:
è vero? Tu puoi dirlo meglio di tutti: è
vero?"
Sbigottiti, gli
astanti si volsero a guatare il
Capolino.
Questi cadde
a sedere, come trafitto, su la poltrona, con le braccia abbandonate su le gambe,
e scosse amaramente il capo. Poi, facendo un atto appena appena con le mani,
parlò:
"Troppe...
troppe cose dovrei dire, che non posso... Anche la pietà, capirete... sí, sí...
anche queste lacrime, amici, mi bruciano! Perché anche da quei due che le
meritano per la loro sorte, ma da voi, cari, da voi; non da me... anche da quei
due io ebbi male; ma sopra tutto da chi li guidò a quel passo; da chi li teneva
in pugno, e..."
"Il
Salvo!" proruppe il D'Ambrosio. "Hanno arrestato ad Aragona Marco Prèola; ma
lui, il Salvo, per la Madonna, debbono arrestare! lui affamò là tutto il paese!
lui è il vero assassino! E giustamente Dio l'ha punito, con la pazzia della
figlia! Cosí, tra due pazze, se ne starà ora con tutte le sue
ricchezze!"
Capolino,
allora, scattò in piedi,
sublime.
"Ma per
carità! no! no! Non posso permettere che si dicano di queste cose alla mia
presenza! Vuoi difendere quegli assassini? Via! Sappiamo tutti che il Salvo era
nel suo diritto, chiudendo là le zolfare! Ognuno provvede, come sa e crede, ai
proprii interessi. E, del resto, non si è forse adoperato in tanti modi qua, al
risorgimento dell'industria? No, no! Signori miei, vedete? parlo io, io, in
questo momento, e arrivo fino a dirvi che egli, dal suo canto, anche come padre,
ha creduto di agire per il bene della figliuola! Voi tutti non avete alcuna
ragione per non riconoscer questo; potrei non riconoscerlo io, io solo, perché i
mezzi di cui si è servito mi hanno distrutto la casa, spezzato la vita! Ma egli
mirava, là, al bene di tutti quei bruti; e qua, al bene della sua
figliuola!"
Dieci,
quindici, venti mani si tesero a Capolino, in un prorompimento d'ammirazione per
cosí magnanima generosità; e Capolino si sentí levato d'un cubito sopra se
stesso.
"Forse mi vedrò
costretto," soggiunse con triste gravità, "a restituirvi il mandato, di cui
avete voluto
onorarmi."
"No! no! che
c'entra questo? E perché?" protestarono
alcuni.
Capolino,
sorridendo mestamente, levò le mani ad arrestare quell'affettuosa
protesta:
"La
condizione mia," disse. "Considerate. Potrei piú aver rapporti, non dico di
parentela o d'amicizia, ma pur soltanto d'interessi, con Flaminio Salvo? No,
certo. E allora? Devo provvedere a me stesso, signori miei, mentre il mandato
che ho da voi esige un'assoluta indipendenza, quella appunto che avevo per i
miei ufficii nel banco del Salvo. Ora... ora bisognerà che mi raccolga a pensar
seriamente ai miei casi. Non son cose da decidere cosí su due piedi e in questo
momento."
"Ma sí! ma
sí!" ripresero quelli a confortarlo a coro. "Questi sono affari privati! La
rappresentanza
politica..."
"Eh
eh..."
"Ma che! non
c'entra..."
"Altra
cosa..."
"E poi, per
ora..."
"Per ora,"
disse, "mi basta, miei cari, di avervi dimostrato questo: che sono pronto a
tutto, e che guardo le cose e la mia stessa sciagura con animo equo e, per
quanto mi è possibile, sereno. Grazie, intanto, a tutti, amici
miei."
Piú tardi,
recatosi al Vescovado a visitar Monsignore, ebbe da questo tali notizie su don
Ippolito Laurentano e donna Adelaide, che stimò da abbandonare senz'altro il
piano dapprima architettato, e che anzi gli convenisse aspettare il ritorno di
Flaminio Salvo da Roma, per recarsi a Colimbètra a tentarne un altro, che già
gli balenava, audacissimo.
Flaminio
Salvo non volle lasciare a Roma Dianella in qualche "casa di salute", come i
medici e la sorella e il cognato gli consigliavano; disse che, se mai, l'avrebbe
lasciata in una di queste case a Palermo, per averla piú vicina e poterla piú
spesso visitare; ma la sua casa ormai - soggiunse - poteva pur trasformarsi in
uno di questi privati ospizii della pazzia, sotto il governo d'uno o piú medici
e con l'assistenza di altre infermiere adatte: vi restava egli solo provvisto di
ragione; ma sperava che presto, con l'esempio e un po' di buona volontà, la
perderebbe anche
lui.
Quando fu sul
punto di partire, però, si vide costretto a ricorrere a Lando Laurentano, perché
gli désse a compagno di viaggio Mauro Mortara, da cui Dianella non avrebbe
voluto piú staccarsi, e che forse era il solo che avrebbe potuto indurla a
uscire da uno stanzino bujo ove s’era rintanata, e a partire. Lando Laurentano,
che si preparava in gran fretta anche lui, chiamato a Palermo dai compagni del
Comitato centrale del partito, rispose al Salvo, che avrebbero potuto fare
insieme il viaggio, e che la mattina seguente sarebbe venuto con Mauro a
prenderlo in casa Vella. Flaminio Salvo notò nell'aspetto, nella voce, nei gesti
del giovane principe una strana agitazione febbrile, e fu piú volte sul punto di
domandargliene premurosamente il motivo; ma se n'astenne. Lando Laurentano era
in quell'animo per una ragione, a cui il Salvo non avrebbe potuto neppur
lontanamente pensare in quel momento: cioè, l'enorme impressione prodotta in
tutta Roma dal suicidio di Corrado Selmi. Se n'era divulgata la notizia la sera
stessa, che egli usciva con Mauro da casa Vella. Il grido d'un giornalajo
glien'aveva dato l'annunzio. Aveva fatto fermar la vettura per comperare il
giornale. Ma, anziché dargli gioja, quell'annunzio improvviso lo aveva in prima
stordito. Aveva ordinato al vetturino d'accostarsi a un fanale, per leggere, non
ostante l'impazienza di Mauro; aveva saltato il lungo commento necrologico
premesso alle notizie sul suicidio, ed era corso con gli occhi a queste. Dal
racconto del cameriere del Selmi aveva saputo, prima, l'aggressione a mano
armata del nipote di Roberto Auriti, quando già il Selmi aveva ingojato il
veleno; poi... ah poi!... una visita, che il giornalista diceva drammaticissima,
al Selmi appena spirato, "d'una dama velata" di cui, per degni rispetti, non si
faceva il nome, "accorsa", seguitava il cronista, "ignara del suicidio, forse
per dare ajuto e conforto all'amico, dopo la sfida da lui lanciata, la mattina,
all'intera
assemblea".
Lando
Laurentano non aveva avuto alcun dubbio, che quella dama velata fosse donna
Giannetta D'Atri, sua cugina; e aveva strappato il giornale, con schifo e con
rabbia, gridando al vetturino di correre a casa. Qua aveva trovato in smaniosa
ambascia Celsina Pigna e Olindo Passalacqua, che cercavano disperatamente
Antonio Del Re, scomparso dalla mattina. Eran sembrate cosí inopportune a Lando
in quel momento la vista buffa di quell'uomo, le smaniette di quella ragazza,
tutta quell'ansia attorno a lui per la ricerca d'un giovane ch’egli non
conosceva e ch’era tanto lontano dai suoi pensieri, che aveva avuto contro il
suo solito un violento scatto d'ira. Aveva chiamato Raffaele, il cameriere, per
ordinargli di mettersi a disposizione di quei due, ed era rimasto solo con
Mauro. Questi, interpretando quello scatto come un segno di sprezzante
noncuranza per l'arresto del cugino, non s’era potuto trattenere; gli s’era
fatto innanzi tutto acceso di sdegno,
gridando:
"Me ne voglio
andare, subito! ora stesso! Non voglio piú guardarvi in
faccia!"
"Mauro! Mauro!
Mauro!" aveva esclamato Lando, scotendo in aria le mani
afferrate.
Mauro allora
s’era cacciato una mano in tasca, per trarne fuori le
medaglie:
"Guardate!
Dal petto me l'ero strappate, davanti al delegato, quando ho visto arrestare
vostro cugino! Ora quella ragazza è venuta a riportarmele... Che sangue avete
voi nelle vene? E questa la gioventú d'oggi? è
questa?"
"La
gioventú..." s’era messo a rispondere con veemenza Lando; ma s’era subito
frenato, premendosi forte le pugna serrate su la bocca e andando a sedere, coi
gomiti su le ginocchia e la testa tra le
mani.
La gioventú? Che
poteva la gioventú, se l'avara paurosa prepotente gelosia dei vecchi la
schiacciava cosí, col peso della piú vile prudenza e di tante umiliazioni e
vergogne? Se toccava a lei l'espiazione rabbiosa, nel silenzio, di tutti gli
errori e le transazioni indegne, la macerazione d'ogni orgoglio e lo spettacolo
di tante brutture? Ecco come l'opera dei vecchi qua, ora, nel bel mezzo
d'Italia, a Roma, sprofondava in una cloaca; mentre sú, nel settentrione,
s’irretiva in una coalizione spudorata di loschi interessi; e giú, nella bassa
Italia, nelle isole, vaneggiava apposta sospesa, perché vi durassero l'inerzia,
la miseria e l'ignoranza e ne venisse al Parlamento il branco dei deputati a
formar le maggioranze anonime e supine! Soltanto, in Sicilia forse, or ora, la
gioventú sacrificata potrebbe dare un crollo a questa oltracotante oppressione
dei vecchi, e prendersi finalmente uno sfogo, e affermarsi
vittoriosa!
Lando era
balzato in piedi per gridare questa sua speranza a Mauro Mortara; ma s’era
trattenuto per carità, alla vista di lui che piangeva, con quelle sue pietose
medaglie in mano.
Il
giorno appresso Antonio Del Re era stato ritrovato. Olindo Passalacqua era
venuto a mostrare a Lando due telegrammi e un vaglia spediti d'urgenza da
Girgenti per far subito partire il giovine; ma aveva soggiunto che il Del Re si
ricusava ostinatamente di ritornare in Sicilia. Lando allora aveva pregato Mauro
di recarsi a prendere il giovine per invitarlo a partire con loro il giorno
appresso e Mauro a questa preghiera si era arreso di buon grado. Ma come
proporgli adesso di viaggiare insieme con Flaminio
Salvo?
La mattina per
tempo venne al villino di via Sommacampagna Ciccino Vella per concertare il modo
di spinger fuori dal nascondiglio Dianella e farla partire. Guaj, se vedeva il
padre! Durante tutto il viaggio non doveva vederlo. Zio Flaminio e Lando
dovevano viaggiare in un altro scompartimento della vettura, senza mai farsi
scorgere. C'era anche quel giovanotto, il Del Re? Bene: tutti e tre, appartati,
nascosti. Mauro e Dianella sarebbero stati soli, nello scompartimento attiguo:
tutt'intera una vettura sarebbe stata a loro
disposizione.
Fu men
difficile, a tali condizioni, persuadere Mauro a render questo servizio al
Salvo. Quando seppe che né ora, a casa Vella, né poi, durante tutto il tragitto,
lo avrebbe veduto, e che non si trattava tanto di rendere un servizio a lui
quanto un'opera di carità a quella povera fanciulla demente, si arrese
aggrondato, e andò avanti con Raffaele in casa
Vella.
Non ci fu
bisogno né di preghiere né di esortazioni: appena Dianella rivide Mauro, balzò
dal nascondiglio e tornò a riaggrapparsi a lui, incitandolo a fuggire insieme.
Si dovette all'incontro stentare a trattenerla un po' per rassettarla alla
meglio, ravviarle i capelli scarmigliati, metterle un cappello in capo, perché
almeno non desse tanto spettacolo alla gente, in compagnia di quel vecchio che
già per suo conto attirava la curiosità di
tutti.
Quando l'uno e
l'altra, tenendosi per mano, quello col viso tutto scombujato, lo zainetto alle
spalle, questa con gli occhi e la bocca spalancati a un'ilarità squallida e
vana, i capelli cascanti, scompigliati sotto il cappello assettato male sul
capo, attraversarono il salone per andarsene, chi li vide non se ne poté piú
levar l'immagine dalla
memoria.
Che discorsi
tennero tra loro, nel
viaggio?
Dietro
l'usciolino dello scompartimento, il Salvo e il Laurentano, ora l'uno ora
l'altro, li intesero conversar tra loro, a lungo, e s’illusero dapprima che tra
loro il vecchio e la fanciulla s’intendessero. Ma sí, a maraviglia
s’intendevano, perché l'uno e l'altra, ciascuno per sé, non parlavano se non con
la propria follia. E le due follie sedevano accanto e si tenevano per
mano.
"Una donna.,.
vergogna!... Non si dice Aurelio... Signor Aurelio... Signor Aurelio!...
Ma com'è possibile che l'abbia dimenticato?... Una cosí grossa ferita al dito...
Vieni, vieni qua, al bujo... nell'andito... Te lo succhio io, il sangue dal
dito... Una donna? Vergogna... Signor
Aurelio..."
"Questi...
sono questi, i figli! La nuova gioventú... Per veder questo, oh assassini,
abbiamo tanto combattuto, sacrificato la vita nostra... per veder questo, donna
Dianella! E che ci vado piú ad appendere, adesso, sotto la lettera del Generale
nel camerone? che ci vado piú ad appendere, dopo tutto quello che ho
visto?"
"Eh, ma chi lo
sa l'anno che viene? Il gelso, a marzo, coglie sangue di nuovo... E allora,
quand'è in amore, per gettare, è molle, molle come una pasta, e se ne fa quello
che se ne vuole... Chi lo sa l'anno che
viene?"
"Incerto il
bene, ma certe le pene, figlia mia! Incerto il bene, ma certe le
pene!"
Cosí
conversavano di là, quei
due.
Né Lando né
Flaminio Salvo badavano intanto a un altro, di qua con loro, che non diceva
nulla, ma che pure non meno di quei due vaneggiava col cervello. Non vedeva, non
sentiva, non pensava piú nulla, Antonio Del Re. La furia della disperazione, con
la quale s’era avventato sopra il Selmi, gli aveva come folgorato lo spirito.
Uscito dalla casa del Selmi, era rimasto vuoto, sospeso in una tetraggine
attonita, spaventevole; e non ricordava piú nulla, dove fosse andato, che avesse
fatto, come e dove avesse passato la notte, se proprio la notte, una notte fosse
passata. Non rispondeva a nessuna domanda; forse non udiva. Vedere, vedeva;
stava per lo meno a guardare; ma la ragione non vedeva piú, la ragione degli
aspetti delle cose e degli atti degli uomini. Non si era già opposto al suo
ritorno in Sicilia; ma a muoversi da sé dal luogo ove i piedi lo avevano
condotto e la stanchezza accasciato. Si era mosso, allorché Mauro lo aveva
strappato per il petto; ma senza udir nulla di quanto quegli gli aveva detto
della nonna e della mamma. Il Passalacqua e Celsina lo avevano accompagnato, la
mattina, al villino di Lando; prima di partire aveva veduto Celsina sorridere a
Ciccino Vella, accettarne il braccio, montare in carrozza con lui e col
Passalacqua: tutto questo aveva veduto, e piú là, col pensiero; e nulla, piú
nulla gli s’era rimosso
dentro.
Quando, passato
lo stretto di Messina, Lando Laurentano scese dal treno per proseguire su un
altro alla volta di Palermo, Flaminio Salvo provò una certa costernazione al
pensiero di restar solo nella vettura per un'intera giornata fino a Girgenti con
quel giovane a lui ignoto, che due giorni avanti aveva levato il pugnale per
uccidere il Selmi, e che ora gli teneva gli occhi addosso con tanta fissità di
sguardo, tra il torvo e
l'insensato.
Ecco, con
tre pazzi egli viaggiava; e forse non meno pazzo di questi tre era quello or ora
sceso dal treno con l'intenzione di mettere a soqquadro tutta l'isola! Lui solo,
dunque, per terribile condanna, doveva serbare intatto il privilegio di non aver
minimamente velata, offuscata, né per rimorso, né per pietà, né piú da alcun
affetto, né piú da alcuna speranza, né piú da alcun desiderio, quella lucida,
crudele limpidità di spirito? Lui
solo.
E, come per
assaporare lo scherno della sua sorte, si accostò ancora una volta all'usciolino
dello scompartimento, con l'orecchio allo spiraglio, ad ascoltare i discorsi
vani del vecchio e della figliuola.
Appena
Mauro Mortara, arrivato a Girgenti, poté strapparsi dalle braccia di Dianella
Salvo, corse di furia alla casa di donna Caterina Laurentano. Vi trovò Antonio
Del Re ancora tra le braccia della madre che invano, stringendolo, scotendolo,
smaniando, cercava di
spetrarlo.
Come Anna
vide entrar Mauro, gli corse incontro, lasciando il
figlio:
"Che ha? Che
ha? Ditemi voi che ha! Che gli hanno
fatto?"
Ma il Mortara
le scostò le braccia e gridò piú forte di
lei:
"Vostra madre?
Dov'è vostra
madre?"
Sopravvenne
Giulio, in pochi giorni invecchiato di dieci anni. Negli occhi, nelle braccia
protese aveva la speranza di aver da Mauro qualche notizia precisa sull'arresto
di Roberto sul suicidio del Selmi, se questi veramente avesse lasciato qualche
dichiarazione in favore del fratello, come dicevano i giornali. Dal nipote non
aveva potuto saper nulla, per quanto, tra le braccia della madre, lo avesse
furiosamente scrollato per farlo
parlare.
Ma il Mortara
scostò anche lui, ripetendo, testardo e
violento:
"Vostra
madre? Non so nulla! So che l'hanno arrestato sotto i miei occhi! Non voglio
veder nessuno! Voglio vedere lei
sola!"
Giulio restò
perplesso, se permettergli d'entrare nella camera della madre, cosí
all'improvviso.
Dal
giorno che egli, sotto l'urgenza della necessità, vincendo ogni riluttanza,
dapprima con circospezione, poi risolutamente, con crudezza, le aveva detto che
bisognava si recasse dal fratello Ippolito per salvare il figlio, era caduta, di
schianto, in un attonimento quasi di apatia, come se la vista di tutte le cose
intorno le si fosse a un tratto vuotata d'ogni senso. Non un gesto, non una
parola. Piú niente. E quella immobilità e quel silenzio avevano avuto fin da
principio un che di cosí assoluto e invincibile, che né un gesto, né una parola
eran piú stati possibili agli altri per scuoterla o esortarla. Giulio sapeva che
avrebbe ucciso la madre, parlando. E difatti, ecco, subito, parlando, l'aveva
uccisa. Ella non poteva andare dal fratello per salvare il figlio: sarebbe stata
la sua morte. Ed ecco, era
morta.
Tanto egli
quanto Anna avevano sperato, dapprima, che non volesse piú muoversi né
parlare; non che, veramente, non potesse. Ma ben presto s’erano accorti
che non poteva. Pure, una lieve contrazione rimasta su la fronte, tra ciglio e
ciglio, diceva chiaramente che, anche potendo, non avrebbe voluto. La avevano
sollevata di peso dalla seggiola e adagiata sul letto. Erano di morte la
immobilità e il silenzio; soltanto, ancora, non era fredda. E per impedire che
anche quel freddo le sopravvenisse, si erano affrettati a coprirla bene sul
letto, con mani amorose, piangendo. L'ultima crudeltà doveva compiersi cosí
sopra di lei, e, perché fosse piú iniqua, per mano stessa dei figli. Ora,
vegliandola e piangendo, i figli le dimostravano, o piuttosto dimostravano a se
stessi, che non erano stati loro a compierla. Se ella, per tutto ciò che aveva
fatto, non poteva pagare per il figlio, bisognava che pagasse cosí, ora. Giulio
lo sapeva; e, pur sapendolo, non aveva potuto impedirlo. Doveva parlare,
spingerla a quella morte, darle il crollo. L'aveva poi raccolta su le braccia, e
ora le rincalzava le coperte e le stringeva attorno alle braccia lo scialle nero
di lana, per ripararla dall'ultimo freddo, e andava in punta di piedi, perché
nessun rumore arrivasse piú a quel silenzio. Anche il volo d'una mosca sarebbe
stato di piú, ora, oltre a quello che egli aveva fatto, perché doveva. Un
pensiero, se non fosse anche di piú la sua vita, il suo respiro, dopo quello che
aveva fatto, gli era anche passato per la mente. Fuori di quella madre, fuori
della Sicilia, egli, fin da giovinetto, aveva preso mondo. Era vissuto senza né
ricordi, né affetti, né aspirazioni, quasi giorno per giorno: freddo, svogliato,
ironico, sdegnoso. D'improvviso, quando men se l'aspettava, il destino della sua
famiglia aveva allungato una spira a involgerlo, a invilupparlo, e lo aveva
attratto a sé e piombato là, a rinsertarsi, a riaffiggersi alla radice, da cui
s’era strappato; a sentire tutto ciò che non aveva voluto mai sentire, a
ricordarsi di tutto ciò di cui non aveva voluto mai ricordarsi. La fine di
colei, che aveva sempre e tutto sentito, e di tutto e sempre si era ricordata,
schiantata ora dall'urto con cui egli era tornato a inviscerarsi in lei, non
doveva essere adesso anche la sua fine? Schiantato il tronco, schiantati i rami.
Nel tetro squallore della casa, era rimasto inorridito del suo apparire a se
stesso coi sentimenti e i ricordi tutti di quella madre. Ma gli era apparsa
anche Anna, la sorella: il ramo che non s’era mai staccato da quel tronco; che
miseramente una volta sola, per poco, era fiorito, per dare il frutto ispido e
attossicato di quel figlio, in cui neanche l'amore della madre riusciva a
penetrare. E fratello e sorella si erano stretti, allora, fusi in un abbraccio
d'infinita tenerezza d'infinita angoscia, all'ombra della tetra casa,
assaporando la dolcezza del pianto che li univa per la prima volta e che pur
rompeva loro il cuore. Egli doveva vivere per quella sorella e per quel ragazzo.
La notizia dell'arresto di Roberto, ormai inevitabile, attesa da un momento
all'altro, era finalmente arrivata insieme con quella del suicidio di Corrado
Selmi, ma vaga ristretta in poche righe nei giornali siciliani, come una notizia
a cui i lettori non avrebbero dato importanza, presi com'erano tutti, allora,
dalla morbosa curiosità di conoscere fin nei minimi particolari l'eccidio
d'Aragona.
La
trepidazione di Anna per il figlio solo a Roma, il pensiero dell'ajuto da
portare a Roberto avevano spinto dapprima Giulio a ritornar subito alla
Capitale. Ma come abbandonar la madre in quello stato, sola lí con Anna che
s’aggirava per le stanze chiamando il figlio, quasi forsennata? E che ajuto
avrebbe potuto portare a Roberto? L'unico ajuto possibile sarebbe stato il
denaro, il rimborso alla banca di quelle quarantamila lire, cosí che tutti
potessero credere che queste fossero state prese da lui, per bisogni suoi. Il
suicidio del Selmi ora, avrebbe forse aperta la porta del carcere a Roberto, ma
gli sarebbe rimasta, incancellabile, dopo la denunzia e l'arresto, la macchia
d'una losca complicità. Quanti avrebbero creduto, domani, che
disinteressatamente egli si fosse prestato a contrarre il debito, sotto il suo
nome, per conto d'un altro? La dichiarazione del Selmi, se davvero esisteva come
i giornali asserivano, non sarebbe valsa a cancellare del tutto quella
macchia.
Di là, nella
camera della madre, c'era il canonico Pompeo Agrò, che da tanti giorni, per ore
e ore, non si staccava dalla poltrona a pie' del letto, fissi gli occhi nella
faccia spenta della giacente, forse con la speranza di scoprirvi un indizio che
ella - non avendo piú nulla da dire agli uomini - desiderasse per suo mezzo
comunicare con Dio. Piú d'una volta con profonda voce l'aveva chiamata per nome,
a piú riprese, senza ottener
risposta.
Giulio disse
a Mauro di attendere un poco: voleva consigliarsi con l'Agrò, se questi désse
piú peso alla sua speranza o al suo timore che la vista o la voce del Mortara,
scotendo la madre da quel torpore di morte, potessero farle bene o
male.
"Credo," gli
rispose l'Agrò, "che non ci sia piú né da sperare né da temere. Non avvertirà
nulla. Provate. Tanto se dura cosí, è la morte lo
stesso."
Mauro entrò
come un cieco nella camera quasi al bujo, chiamando forte, con affanno di
commozione:
"Donna
Caterina... donna
Caterina..."
Restò,
davanti al letto, alla vista di quella faccia volta al soffitto, sui guanciali
ammontati, cadaverica, con gli occhi che s’immaginavano torbidi e densi di
disperata angoscia sotto la chiusura perpetua delle gravi pàlpebre annerite, con
una ostinata, assoluta volontà di morte negli zigomi tesi, nelle tempie
affossate, nelle pinne stirate del naso aguzzo, nelle livide, sottili labbra,
non solo serrate, ma anche in qualche punto attaccate dall'essiccamento degli
umori.
"Oh figlia... oh
figlia..." esclamò. "Donna Caterina... sono io... Mauro... il cane guardiano di
vostro padre... Guardatemi... aprite gli occhi... da voi voglio essere
guardato... Aprite gli occhi, donna Caterina; guardando me, guardate la vostra
stessa pena... Sentitemi: debbo dirvi una cosa... torno da
Roma..."
Urtando contro
la rigida impassibilità funerea della morente, la commozione di Mauro Mortara si
spezzò a un tratto in striduli singhiozzi, molto simili a una risata. L'Agrò e
Giulio, anch’essi piangenti, se lo presero in mezzo, e, sorreggendolo per le
braccia, lo trassero fuori della
camera.
La morente,
rimasta sola nell'ombra, immobile su i guanciali ammontati, udí tardi la voce,
come se questa avesse dovuto far molto cammino per raggiungerla nelle profonde
lontananze misteriose, ove già il suo spirito s’era inoltrato. E da queste
lontananze, in risposta a quella voce, tardi venne alle sue pàlpebre chiuse una
lagrima, ultima, che nessuno vide. Sgorgò da un occhio; scorse su la gota; cadde
e scomparve tra le rughe del
collo.
Quando Pompeo
Agrò tornò a sedere su la poltrona a pie' del letto, né piú nell'occhio, né piú
su la gota ve n'era
traccia.
Donna Caterina
era morta.