Luigi Pirandello
I vecchi e i giovani
Parte II
VI
Per donna
Adelaide e don Ippolito Laurentano era cominciato, fin dalla prima sera che eran
rimasti soli nella villa di Colimbètra, un supplizio previsto da entrambi
difficilissimo da sopportare, per quanta buona volontà l'uno e l'altra ci
avrebbero messo.
Appena
andati via gl’invitati alla cerimonia nuziale, don Ippolito, con molto garbo
prendendole una mano, ma pur senza guardargliela per non avvertire quanto fosse
diversa da quella tenuta un tempo tra le sue (pallida e lunga mano morbida,
tenera e lieve!), aveva cercato di farle intendere il bene che da lei si
riprometteva in quella solitudine d'esilio, di cui supponeva le dovessero esser
note le ragioni, se non tutte, almeno in parte. Il discorso tenuto sul terrazzo,
davanti alla campagna silenziosa, già invasa dal bujo della notte, era stato, in
verità, un po' troppo lungo e un tantino anche faticoso. La povera donna
Adelaide, oppressa dalla violenza di tanti sentimenti nuovi durante quella
giornata, e ora da tutta quell'ombra e da quel silenzio che le vaneggiavano
intorno e le rendevano piú che mai soffocante l'ambascia per ciò che
misteriosamente incombeva ancora su la sua "terribile signorinaggine", a un
certo punto, per quanto si fosse sforzata, non aveva potuto udir piú nulla di
quel pacato interminabile discorso. Aveva avuto l'impressione che esso, proprio
fuor di tempo, la volesse trarre per forza quasi in una cima di monte altissima
e nebbiosa, dalla quale le sarebbe stato difficile se non addirittura
impossibile, ridiscendere ancora in grado di resistere ad altre sorprese, ad
altre emozioni che quella notte certamente le apparecchiava. Non per cattiva
volontà, ma per l'aria, ecco, per l'aria che, a un certo punto, cominciava a
sentirsi mancare, non le era stato mai possibile prestare ascolto a lunghi
discorsi. Oh, buon Dio, e perché poi prendere di questi giri cosí alla lontana,
se alla fine pur sempre bisognava ridursi a fare, sú per giú, le stesse cose,
quelle che la natura comanda? Che brutto vizio, buon Dio! F senz'altro effetto
che la stanchezza e la stizza. Anche la stizza, sí. Perché le cose da fare sono
semplici, e da contarsi tutte su le dita d'una mano; cosicché, alla fine,
ciascuno deve riconoscere che tutto quel girare attorno a esse, non solo e
inutile, ma anche sciocco e dannoso, in quanto che poi, per la stanchezza
appunto e con la stizza di questo riconoscimento, si fanno tardi e si fanno
male. Dapprima s’era messa a guardare, con occhi tra imploranti e spaventati, il
principe, o piuttosto, quella sua lunga, lunghissima barba. Poi,
nell'intronamento, aveva sentito un prepotente bisogno di ritirare la mano e di
soffiare, di soffiare un poco almeno, non potendo sbuffare, non potendo gridare
per dare uno sfogo alla soffocazione e alle smanie. Alla fine, era riuscita a
vincere l'intronamento: gli orecchi le si erano rifatti vivi un istante, ma per
fuggire lontano, per afferrarsi a un qualche filo di suono, nell'oscurità della
notte, che le avesse dato sollievo, distrazione. Veniva dalla riviera, laggiú
laggiú, invisibile, un sordo borboglío continuo. E tutt'a un tratto, proprio nel
punto che il discorso del principe s’era fatto piú patetico, donna Adelaide era
uscita a
domandargli:
"Ma che è,
il mare? Si sente cosí forte, ogni
notte.»
Don Ippolito,
dapprima stordito (- il mare? che mare? -) si era poi sentito cascar le
braccia:
«Ah sí... è il
mare, è il mare...»
E
le aveva lasciato la mano e si era
scostato.
Donna
Adelaide, imbarazzata, non sapendo come rimediare alla evidente mortificazione
del principe per quella domanda inopportuna, era rimasta come appesa
balordamente alla sua
domanda.
La risposta
s’era fatta aspettare un po'; alla fine era arrivata da lontano,
grave:
«Grida cosí,
quand'è
scirocco...»
Quella
remota voce del mare era a lui cara e pur triste. Tante volte, nella pace
profonda delle notti, gli aveva dato angoscia e compagnia. Abbandonato su la
sedia a sdrajo, s’era lasciato cullare da quel cupo fremito continuo delle acque
che gli parlavano di terre lontane, d'una vita diversa e tumultuosa ch’egli non
avrebbe mai conosciuta. Sera sentito ripiombare tutt'a un tratto da quel
richiamo nella profondità della sua antica solitudine.
Come piú
riprendere il discorso, adesso? E, d'altra parte, come rimaner cosí in silenzio,
lasciar lí discosta nel terrazzo quella donna che ora gli apparteneva per sempre
e che s’era affidata alla sua cortesia, in quella solitudine per lei nuova e
certo non gradita? Bisognava farsi forza, vincere la ripugnanza e riaccostarsi.
Ma certo, ormai, di non potere entrare con lei in altra intimità che di corpo,
don Ippolito s’era domandato amaramente qual altro effetto questa intimità
avrebbe potuto avere, se non lo scàpito irreparabile della sua
considerazione.
E
difatti, quella
notte...
Ah, la povera
donna Adelaide non avrebbe potuto mai immaginare un simile spettacolo, di pietà
a un tempo e di paura! Le veniva di farsi ancora la croce con tutt'e due le
mani. Ah, Bella Madre Santissima! Un uomo con tanto di barba... un uomo serio...
Dio! Dio! Lo aveva veduto, a un certo punto, scappar via, avvilito e
inselvaggito. Forse era andato a rintanarsi di notte tempo nelle sale del
Museo, a pianterreno. E lei era rimasta a passare il resto della notte,
semivestita, dietro una finestra, a sentire i singhiozzi d'un chiú innamorato,
forse nel bosco della Civita, forse in quello piú là, di
Torre-che-parla.
Meno
male che, la mattina dopo, la vista della campagna e dello squisito arredo della
villa l'aveva un po' racconsolata e rimessa anche in parte nelle consuete
disposizioni di spirito, per cui volentieri, ove non avesse temuto di far
peggio, si sarebbe lei per prima riaccostata al principe a dirgli, cosí alla
buona, senza stare a pesar le parole, che, via, non si désse pensiero né
afflizione di nulla, perché lei... lei era contenta, proprio contenta,
cosí...
Le aveva fatto
pena quel viso rabbujato! Pover'uomo, non aveva saputo neanche alzar gli occhi a
guardarla, quando a colazione si era rimesso a parlarle. Ma sí, ma sí, certo:
era una condizione insolita, la loro: trovarsi cosí, a essere marito e moglie,
quasi senza conoscersi. A poco a poco, certo, sarebbe nata tra loro la
confidenza, e... ma sí! ma sí!
certo!
S’era accorta
però che, dicendo cosí, le smanie del principe erano cresciute, s’erano anzi piú
che piú esacerbate; e con vero terrore aveva veduto riapprossimarsi la notte.
Per parecchie notti di fila s’era rinnovato questo terrore; alla fine aveva
ottenuto in grazia d'esser lasciata in pace, a dormir sola, in una camera a
parte. Se non che, il giorno dopo, era sceso a Colimbètra monsignor Montoro a
farle a quattr'occhi un certo sermoncino. E allora lei, di nuovo: «Oh Bella
Madre Santissima! Ma che!... no... Ah, come?... che?... che doveva far lei?...
Gesú! Gesú!... Alla sua età, smorfie, moine? Ah! questo mai! no no! no no!
questo mai! Non erano della sua natura, ecco. E, del resto, perché? Non si
poteva restar cosí? Non chiedeva di meglio, lei. Che faccia aveva fatto
Monsignore! E la povera donna Adelaide, da quel momento in poi, non aveva saputo
piú in che mondo si fosse o, com'ella diceva, aveva cominciato a sentirsi «presa
dai turchi». Ma come? il torto era
suo?
Il principe, tutto
il giorno tappato nel Museo, non s’era piú fatto vedere, se non a pranzo
e a cena, rigido aggrondato taciturno. Aria! aria! aria! Sí, ce n'era tanta, lí:
ma per donna Adelaide non era piú respirabile. E il bello era questo: che della
soffocazione, avvertita da lei, le era parso che dovessero soffrire tutte le
cose, gli alberi segnatamente! Sul principio dei tre ripiani fioriti innanzi
alla villa c'era da piú che cent'anni un olivo saraceno, il cui tronco robusto,
pieno di groppi e di nodi per contrarietà dei venti o del suolo, era cresciuto
di traverso e pareva sopportasse con pena infinita i molti rami sorti da una
sola parte, ritti, per conto loro. Nessuno aveva potuto levar dal capo a donna
Adelaide che quell'albero, cosí pendente e gravato da tutti quei rami,
soffrisse.
«Oh Dio, ma
non vedete? soffre! ve lo dico io che soffre!
poverino!»
E lo aveva
fatto atterrare. Atterrato, guardando il posto dove prima
sorgeva:
«Ah!» aveva
rifiatato. «Cosí va bene! L'ho
liberato.»
Né s’era
fermata qui. Altre prove di buon cuore aveva dato, le sere senza luna, durante
la cena, verso le bestioline alate che il lume del lampadario attirava nella
sala da pranzo. Un certo Pertichino, ragazzotto di circa tredici anni,
figlio del sergente delle guardie, era incaricato di star dietro la sedia di
donna Adelaide e di dar subito la caccia a quelle bestioline, appena entravano.
Se non che, Pertichino spesso si distraeva nella contemplazione dei
grossi guanti bianchi di filo, in cui gli avevano insaccato le mani; e donna
Adelaide, ogni volta, doveva strapparlo a quella contemplazione con strilli e
sobbalzi per lo springare di qualche grillo o per il ronzare di qualche
parpaglione.
«Niente!
Farfalletta... Non si spaventi! Eccola qua,
farfalletta...»
«Povera
bestiola, non farla patire: staccale subito la testa; se no, rientra...
Fatto?»
«Fatto,
eccellenza. Eccola
qua.»
«No, no, che fai?
non me la mostrare, poverina! Farfalletta era? proprio farfalletta? Povera
bestiolina... Ma chi gliel'aveva detto d'entrare? Con tanta bella campagna
fuori... Ah, avessi io le ali, avessi io le
ali!»
Come dire che,
senza pensarci due volte, se ne sarebbe volata
via.
Don Ippolito, per
quanto urtato e disgustato, la aveva lasciata fare e dire. Ma una sera,
finalmente, non s’era piú potuto tenere. Erano tutti e due seduti discosti sul
terrazzo. Egli aspettava che sú dalle chiome dense degli olivi, sorgenti sul
pendío della collina dietro la ripa, spuntasse la luna piena, per rinnovare in
sé una cara, antica impressione. Gli pareva, ogni volta, che la luna piena,
affacciandosi dalle chiome di quegli olivi allo spettacolo della vasta campagna
sottostante e del mare lontano, ancora dopo tanti secoli restasse compresa di
sgomento e di stupore, mirando giú piani deserti e silenziosi dove prima sorgeva
una delle piú splendide e fastose città del mondo. Ora la luna stava per
sorgere, s’intravvedeva già di tra il brulichío dei cimoli argentei degli olivi,
e don Ippolito disponeva la sua malinconia attonita e ansiosa a ricevere
l'antica impressione insieme con tutta la campagna, ove era un sommesso e
misterioso scampanellío di grilli e gemeva a tratti un assiolo, quando,
all'improvviso, dalla casermuccia sul greppo dello Sperone, era scoppiato a
rompere, a fracassare quell'incanto, il suono stridulo e sguajato del fischietto
di canna di capitan Sciaralla. Donna Adelaide s’era messa a battere le mani,
festante.
«Oh bello! Oh
bravo il capitano che ci fa la
sonatina!»
Don Ippolito
era balzato in piedi, fremente d'ira e di sdegno, s’era turati gli orecchi,
gridando
esasperato:
«Maledetti!
maledetti!
maledetti!»
E,
afferrando per le spalle Pertichino e scrollandolo furiosamente, gli
aveva ingiunto di correre a gridare a quella canaglia dal ciglio del burrone
dirimpetto, che smettesse
subito.
«E poi, fuori
di qua! fuori dai piedi! Non voglio piú vederti! Chi ha qua fastidio delle
mosche se le cacci da sé! zitta, da sé! Sono stanco, sono stufo di tutte queste
volgarità che mi tolgono il respiro! Basta! basta!
basta!»
Ed era scappato
via dal terrazzo, con gli occhi strizzati e le mani su le tempie.
Fortuna
che, pochi giorni dopo, s’era presentato alla villa don Salesio Marullo, con un
viso sparuto e quasi affumicato, guardingo e sgomento, a chiedere ajuto e
ospitalità. Era diventato, fin dal primo giorno, cavaliere di compagnia di donna
Adelaide, la quale credette che gliel'avesse mandato
Iddio.
» Don Salesio,
per carità, mangiate! Per carità, don Salesio, rimettetevi subito! Subito,
Pertichino, due altri ovetti a don
Salesio!»
S’era messa a
ingozzarlo come un pollo d'India prima di Natale. Il povero gentiluomo, ridotto
una larva, non aveva saputo opporre alcuna resistenza; aveva ingollato,
ingollato, ingollato tutto ciò che gli era stato messo davanti, e quasi in
bocca, a manate; poi... eh, poi l'aveva scontato con tremende coliche e disturbi
viscerali d'ogni genere, per cui, nel bel mezzo d'uno svago o d'un passatempo
concertato con capitan Sciaralla per distrarre la principessa, si faceva in
volto di tanti colori e alla fine doveva scappare, non è a dire con quanta
sofferenza della sua dignità, per quanto ormai
intisichita.
La donna
Adelaide ne gongolava. Non potendo nulla contro quella del principe suo marito,
per vendetta s’era gettata a fare strazio d'ogni dignità mascolina che le si
parasse davanti: anche di quella di Sciaralla il capitano. Aveva trovato per
caso tra le carte della scrivania, nella stanza del segretario Lisi Prèola, una
vecchia poesia manoscritta contro il capitano, dove tra l'altro era detto:
Oppur vai ai,
don Chisciottino,
all'assalto d'un
molino?
od a caccia di
lumache
t'avventuri
col mattino,
cosí
rosso nelle brache,
nel giubbon cosí
turchino,
Sciarallino,
Sciarallino
E un giorno, ch’era
piovuto a dirotto, appena cessata la pioggia, era scesa nello spiazzo sotto il
corpo di guardia dove «i militari» facevano le esercitazioni, e chiamando
misteriosamente in disparte capitan Sciaralla, gli aveva ordinato di mandare i
suoi uomini, con la zappetta in una mano e un corbellino nell'altra, in cerca di
babbaluceddi, ossia delle lumachelle che dopo quell'acquata dovevano
essere schiumate dalla
terra.
Il povero
capitano, a quell'ordine, era rimasto
basito.
Come dare
militarmente un siffatto comando ai suoi uomini? Perché donna Adelaide, per
metterlo alla prova, aveva preteso che quella cerca di lumache avesse tutta
l'aria d'una spedizione
militare.
«Eccellenza,
e come
faccio?»
«Perché?»
«Se
perdiamo il prestigio,
eccellenza...»
«Che
prestigio?»
«Ma...
capirà, io debbo comandare... e in momenti come
questi...»
«Io voglio i
babbaluceddi.»
«Sí, eccellenza... piú
tardi, quando rompo le
file...»
«Quando
rompete... che cosa?»
«Le file, eccellenza.»
«No no! E allora
finisce il bello, che c'entra! Io voglio babbaluceddi
militari!»
E non c'era
stato verso di farla recedere da quella tirannia capricciosa. Con quali effetti
per la disciplina, Sciaralla il giorno dopo lo aveva lasciato considerare
amaramente a don Salesio Marullo, già da un pezzo messo a parte della sua
costernazione per le notizie che arrivavano da tutta la Sicilia, del gran
fermento dei Fasci, a cui pareva non potessero piú tener testa né la
polizia, né la milizia, «quella
vera«.
«Capissero
almeno che qua siamo anche noi contro il governo... Ma no, caro sí-don Salesio:
perché sono una lega, non tanto contro il governo, quanto contro la proprietà,
capisce?»
«Capisco,
capisco...»
«Vogliono
le terre! E se, cacciati dalle città, si buttano nelle campagne? Quattro gatti
siamo... E piú diamo all'occhio, perché figuriamo in assetto di guerra,
capisce?»
«Capisco,
Capisco.»
«Qua, cosí
armati, diciamo quasi noi stessi che c'è pericolo; sfidiamo l'assalto; siamo
come un piccolo stato, a cui si può fare benissimo una guerra a parte, mi
spiego? E domani il prefetto un'offesa a noi sa come la prenderebbe? come una
giusta retribuzione. Guarderà gli altri, e per noi dirà: «Ah, S. E. il principe
di Laurentano, vuol fare il re, con la sua milizia? Bene, e ora si difenda da
sé!» Ma con che ci difendiamo noi? Me lo dica lei... Che roba è
questa?»
«Piano... eh,
con le armi...»
«Armi?
Non mi faccia ridere! Armi, queste? Ma quando si vuol tener gente cosí... e
vestita, dico, lei mi vede... coraggio ci vuole, creda, coraggio a indossare in
tempi come questi un abito che strilla cosí... e io mi sento scolorir la faccia,
quando mi guardo addosso il rosso di questi calzoni. Dico, sí-don Salesio, che
scherziamo? Quando, dico, si sta sul puntiglio di non volersi abbassare a
nessuno...»
«Forse,»
suggeriva, esitante, don Salesio, «sarebbe prudente
raccogliere...»
«Altra
gente? E chi? Sarebbe questo il mio piano! Ma chi? I contadini? E se sono
anch’essi della lega? I nemici in
casa?»
«Già...
già...»
«Ma che!
L'unica, sa quale
sarebbe?...»
A voce,
non lo disse: con due dita si prese sul petto la giubba; guardingo, la scosse un
poco; poi, quasi di furto, fece altri due gesti che significavano: ripiegarla e
riporla, e subito
domandò:
«Che? No? Lei
dice di no?»
Don
Salesio si strinse nelle
spalle:
«Dico che il
principe... forse...»
»
Eh già, perché non deve portarla lui! Sí-don Salesio, il cielo s’incaverna,
s’incaverna sempre piú da ogni parte; e i primi fulmini li attireremo noi qua,
con questi ferracci in mano, vedrà se
sbaglio!»
Scoppiò
difatti il fulmine, e terribile, pochi giorni dopo, e fu la notizia dell'eccidio
d'Aragona. Parve che scoppiasse proprio su Colimbètra, poiché lí, per
combinazione, sotto lo stesso tetto si trovarono il padre dell'autore principale
dell'eccidio, cioè il segretario Lisi Prèola, e il patrigno della vittima, il
povero don Salesio. E lo sbigottimento e l'orrore crebbero ancor piú, allorché
da Roma, come il rimbombo di quel fulmine caduto cosí da presso, giunse l'altra
notizia dell'impazzimento di
Dianella.
Donna
Adelaide, colpita ora direttamente dalla sciagura, lasciò d'accoppare con la sua
fragorosa e affannosa carità don Salesio e si mise a strillare per conto suo
che, con Dianella impazzita a causa di quell'eccidio, non era piú possibile che
rimanesse lí a Colimbètra il padre dell'assassino! E il principe, per farla
tacere, quantunque stimasse ingiusto incrudelire su quel vecchio già atterrato
dalla colpa nefanda del figlio, si vide costretto a mandarlo via dalla villa,
con un assegno. Prima d'andare, il Prèola, strascicandosi a stento, col grosso
capo venoso e inteschiato ciondoloni, volle baciar la mano anche alla signora
principessa e le disse che volentieri offriva ai suoi padroni, per il delitto
del figlio, la penitenza di lasciare dopo trentatré anni il servizio in quella
casa, compiuto con tanto amore e tanta devozione. Donna Adelaide, commossa e
pentita, cominciò a dare in ismanie e chiamò innanzi a Dio responsabile il
principe del suo rimorso per l'ingiusta punizione di quel povero vecchio; sí, il
principe, sí, per l'orgasmo continuo in cui la teneva, cosí che ella non sapeva
piú quel che si volesse e, pur di darsi uno sfogo, diceva e faceva cose
contrarie alla sua natura. Le sue smanie divennero piú furiose che mai, come
seppe ch’erano ritornati da Roma suo fratello Flaminio e Dianella. A monsignor
Montoro, sceso a Colimbètra in visita di condoglianza per la morte di donna
Caterina, domandò con gli occhi gonfii dal pianto, se gli pareva umano che le si
proibisse d'andare a vedere e assistere la nipote, a cui aveva fatto da
madre!
Don Ippolito, in
quel momento, non era in villa. S’era recato al camposanto di Bonamorone, poco
discosto da Colimbètra, a pregare su la fossa della sorella. Quando entrò,
scuro, nel salone, finse di non vedere il pianto della moglie, e al vescovo che
gli si fece innanzi compunto e con le mani tese,
disse:
«È morta
disperata, Monsignore. Disperata. Il figlio in carcere, compromesso con tanti
altri di questi patrioti, nella frode delle banche. E quel Selmi venuto
qua padrino avversario del Capolino, ha saputo? s’è ucciso. Scontano tutti le
loro belle imprese! E lo sfacelo, Monsignore! Dio abbia pietà dei morti. Io mi
sento il cuore cosí arso di sdegno, che non m'è stato possibile pregare. Un
fremito ai ginocchi m'ha fatto levare dalla fossa della mia povera sorella, e mi
sono domandato se questo era il momento di pregare e di piangere, o non
piuttosto d'agire, Monsignore! Ma dobbiamo proprio rimanere inerti, mentre tutto
si sfascia e le popolazioni insorgono? Ha sentito, ha letto nei giornali? Le
folle hanno un bell'essere incitate da predicazioni anarchiche; scendendo in
piazza a gridare contro la gravezza delle tasse, recano ancora con sé il
Crocefisso e le immagini dei
Santi!»
«Anche quelle,
però, del re e della regina, don Ippolito,» gli fece osservare amaramente
Monsignore.
«Per
disarmare i soldati, queste!« rispose pronto don Ippolito. «Il segno che l'animo
del popolo è ancora con noi, è in quelle! è chiaro in quelle! Sa che mio figlio
è in
Sicilia?»
Monsignore
chinò il capo piú volte con mesta gravità, credendo che il principe gli avesse
fatto quella domanda per chiamarlo a parte d'un
dispiacere.
«Ha
viaggiato insieme con don Flaminio,» aggiunse con un sospiro, «e con la povera
figliuola.»
Donna
Adelaide ruppe in nuovi e piú forti singhiozzi. Don Ippolito pestò un piede
rabbiosamente.
«Bisogna
vincere i proprii dolori,» disse con fierezza «e guardar oltre! Saper vivere per
qualche cosa che stia sopra alle nostre miserie quotidiane e a tutte le
afflizioni che ci procaccia la vita! Io ho scritto a mio figlio, Monsignore, e
ho fatto anche chiamare il Capolino per proporgli d'andare ad abboccarsi con
lui, se fosse possibile venire a qualche
intesa...»
«Ma come,
don Ippolito?» esclamò, con stupore e afflizione, Monsignore. «Con quelli che
gli hanno or ora assassinato barbaramente la
moglie?»
Don Ippolito
tornò a pestare un piede sul tappeto, strinse e scosse le pugna, e col volto
levato e atteggiato di sdegno,
fremette:
«Schiavitú!
schiavitú! schiavitú! Ah se io non fossi inchiodato
qui!»
«Ma che siamo
sbanditi? davvero sbanditi?» domandò allora, tra le lagrime, donna Adelaide,
rivolta al vescovo. «Chi ci proibisce d'uscire di qui, d'andare dove ci pare,
Monsignore?»
«Chi?»
gridò don Ippolito, volgendosi di scatto, col volto scolorito dall'ira. «Non lo
sapete ancora? Monsignore, non ha posto lei chiaramente i patti di queste mie
nuove nozze sciagurate? Come non sa ancora costei chi ci proibisce d'uscire di
qui?»
«Ma in un caso
come questo!« gemette donna Adelaide. «Vado io sola! Egli può restare! Santo
Dio, ci vuole anche un po' di cuore, ci
vuole!»
Monsignor
Montoro la supplicò con le mani di tacere, d'usar prudenza. Don Ippolito si
portò e si premette forte le mani sul volto, a lungo; poi mostrando un'aria al
tutto cangiata, di profonda amarezza, di profondo avvilimento,
disse:
«Monsignore,
procuri d'indurre mio cognato a portar qui la figliuola, presso la zia. Forse la
quiete, la novità del luogo le potranno far
bene.»
«Ah, qui?
davvero qui? Ah se viene qui...» proruppe allora con furia di giubilo donna
Adelaide, dimenandosi, quasi ballando sulla seggiola. «Sí, sí, sí, Monsignore
mio. Sente? lo dice lui! La faccia venire qui, Monsignore, subito subito, qui,
la mia povera
figliuola!»
Lieto della
concessione, Monsignore parò le candide mani paffute ad arrestare quella
furia:
«Aspettate...
permettete? Ecco... vi devo dire... oh, una cosa che mi ha tanto, tanto
intenerito... Qua, sí... ma aspettate... vedrete che è meglio lasciare per ora a
Girgenti la povera figliuola... Forse abbiamo un mezzo per guarirla. Sí, ecco,
l'altro jer sera, sapete chi è venuto a trovarmi al vescovado? Il De Vincentis,
quel povero Niní De Vincentis innamorato da lungo tempo della ragazza, lo
sapete. Caro giovine! Oh se l'aveste veduto! In uno stato, vi assicuro, che
faceva pietà. Si mise a piangere, a piangere perdutamente, e mi pregò, mi
scongiurò di dire a don Flaminio che si fidasse di lui e lo mettesse accanto
alla ragazza, ché egli col suo amore, con la sua calda pietà insistente sperava
di scuoterla, di richiamarla alla ragione, alla vita. Ebbene, che ne
dite?
«Magari!» esclamò
donna Adelaide. «E Flaminio?
Flaminio?»
«Ho fatto
subito, jeri mattina, l'ambasciata,» rispose Monsignore. «E don Flaminio, che
conosce il cuore, la gentilezza e l'onestà illibata del giovine, ha accettato la
proposta, promettendo al De Vincentis che la figliuola sarà sua se farà il
miracolo di guarirla. Ora il giovine è lí, presso la povera figliuola.
Lasciamola stare, donna Adelaide, e preghiamo Iddio insieme, che il miracolo si
compia!»
Con questa
esortazione, monsignor Montoro tolse commiato. Per le scale disse a don Ippolito
che aveva in animo di mandare una pastorale ai fedeli della diocesi, e che fra
qualche giorno sarebbe venuto a fargliela sentire, prima di mandarla. Don
Ippolito aprí le braccia e, appena il vescovo partí con la vettura, andò a
rinchiudersi nelle sale del
Museo.
Donna
Adelaide rimase a piangere, prima di tenerezza per quell'atto del povero Niní,
poi per disperazione, poiché sapeva purtroppo in che conto la nipote tenesse un
tempo quel giovine. Forse, se anche lei avesse potuto esserle accanto, a
persuaderla... chi sa! E cominciò a fremere di nuovo e a struggersi tra le
smanie e a sentirsi divorata dalla rabbia per quella barbarie del principe, che
la costringeva a star lí. E perché poi? che cosa rappresentava, che cosa stava a
far lí, lei? No, no, no; voleva andar via, scappare, fuggire, o sarebbe
anch’essa impazzita! Decise di scrivere al fratello, scongiurandolo di venir
subito a riprendersela, a liberarla da quella galera, o con le buone o con le
cattive.
Lieto della chiamata del
principe di Laurentano, Ignazio Capolino si disponeva a scendere a Colimbètra,
quando nella saletta d'ingresso udí la vecchia serva respingere sgarbatamente
qualcuno, che chiedeva di lui. Si fece avanti, sporse il capo a guardare, vide
due donne vestite di nero, con uno scialle pur nero in capo, stretto attorno al
viso pallido e smunto. Erano le due figliuole del Pigna, Mita e
Annicchia.
Capolino,
come intese il nome, le fece entrare nel salotto e, dopo averle costrette a
sedere, domandò loro che cosa desiderassero. Per pudore della loro miseria e per
sostenere con dignità il cordoglio, resistevano entrambe alla commozione
irrompente Lo sforzo che facevano per non piangere, intanto, e la suggezione,
impedivano la voce. E tutte e due stropicciavano forte, sotto lo scialle nero,
il pollice della mano sinistra sulla costa dell'ultima falange dell'indice,
ottusa, incallita, annerita e bucherata dall'assiduo passaggio dell'ago e del
filo, quasi che soltanto nella sensibilità perduta di quel dito potessero trovar
la forza e il coraggio di parlare. Alla fine, Mita, levando appena gli occhi
offuscati, riuscí a
dire:
«Signor deputato,
siamo venute a
pregarla...»
E l'altra
subito suggerí,
corresse:
«Le diamo
l'incomodo... col dolore che deve avere in
sé...»
«Dite, dite
pure,» le esortò Capolino. «Sono qua ad
ascoltarvi.»
«Sissignore,
ecco... Vossignoria saprà,» riprese Mita facendosi improvvisamente rossa in
viso, «che nostro padre e il Lizio, che
è...»
«Marito d'una
nostra sorella,« tornò a suggerire
Annicchia.
Mita le
rivolse con gli occhi un pietoso
rimprovero.
«Sono stati
arrestati, signor
deputato!»
«Innocenti,
signor deputato,
innocenti!»
«Siamo
testimonie noi, che non sapevano nulla, proprio nulla del
fatto...»
Capolino,
confuso tra l'ansia affannosa e incalzante con cui le due sorelle ora parlavano,
domandò:
«Di qual
fatto?»
«Come!» fece
Mita. «Del fatto, che vossignoria,
purtroppo...»
«Oh
Signore!» esclamò Annicchia. «Ce ne trema ancora il
cuore.»
E Mita
riprese:
«Sono stati
arrestati anch’essi, innocenti come Cristo... Siamo testimonie noi, che sono
rimasti sbalorditi e senza fiato, quando se ne sparse la notizia; non sapevano
nulla di nulla...»
«E
vossignoria può credere,« aggiunse Annicchia, «che non avremmo avuto il coraggio
di venire qua a parlarne a vossignoria, se non fossimo piú che sicure che sono
innocenti...»
E Mita
con gli occhi bassi,
tremante:
«La sua
signora,» disse, «noi l'abbiamo servita e sappiamo quant'era buona... signora
affabile... e bella, oh quant'era bella... che
pena!»
Capolino strizzò
gli occhi, si torse un po' sulla seggiola, e domandò con voce
grossa:
Avete avuto una
perquisizione in
casa?
«Sissignore,»
risposero a una voce le due sorelle. Seguitò Mita: «Guardie, delegati,
giudici... come tanti diavoli... hanno messo tutto
sossopra...»
«E che
hanno
trovato?»
«Niente!»
«Oh,
Maria, proprio niente... Qualche lettera... giornali...l'elenco dei
socii.»
«Socii per modo
di dire... non veniva
nessuno...»
«Libri...
carte... Si son portato via tutto... anche un capo di biancheria, signor
deputato, con una goccia di sangue che m’ero fatto io, qua al dito,
cucendo...»
Capolino si
strinse la bocca con una mano sotto il naso, e rimase un pezzo accigliato, a
pensare; poi disse:
«Se
non verrà fuori qualche
compromissione...»
«Ah,
nossignore!» esclamò subito Mita. «Col fatto per cui sono stati arrestati,
nessuna; certo nessuna! Vossignoria può
crederlo...»
«Non
saremmo venute da vossignoria...» ripeté
Annicchia.
Capolino
tese le mani per fermarle, si raccolse di nuovo a
pensare.
«Sapete,» poi
domandò che io non sono benvisto dall'autorità? Sapete che, per scusare trenta e
piú anni di malgoverno, si vuol far credere che tutti questi torbidi in Sicilia
siano suscitati sotto sotto dal partito clericale, a cui io
appartengo?»
«Vossignoria...
ma come!» disse Annicchia, con le mani giunte. «Se vossignoria ha avuto... se a
vossignoria...»
«Tanto
piú! Tanto piú!» troncò Capolino. «Diranno: «Ecco, vedete che c'è l'accordo? Il
cuore è una cosa; la politica, un'altra! Viene lui, lui stesso, a intercedere
per gli arrestati«. Cosí
diranno!»
Le due
sorelle restarono smarrite,
oppresse.
«E come si
può credere una tal cosa?...» domandò
Mita.
«Ma non la
credono affatto!« rispose con un sorriso di sdegno Capolino. «Fingono di
credere! È la loro scusa. E io, andando, voi lo capite, farei il loro gioco,
senza ottenere nulla per voi. È proprio cosí! Anche nel 1866, che voi altre non
eravate neppur nate, la sommossa popolare a causa delle iniquità politiche e
amministrative, fu addebitata a questo capro espiatorio del partito clericale. È
la scusa piú comoda, per i governanti, e di sicuro
effetto!»
Le due
sorelle rimasero un pezzo in silenzio, assorte, quasi a veder la speranza che le
aveva condotte lí, rintanarsi nella pena, cacciata da una ragione inattesa che
non riuscivano a intendere
chiaramente.
«C'eravamo
figurate,» disse poi Mita, «che se vossignoria avesse detto una parola... non
solo di fronte all'autorità... ma anche per il paese... Viviamo del lavoro che
facciamo noi due, io e questa mia sorella... Nessuno ce ne vuol piú dare adesso,
perché tutti, per quest'arresto, credono che nostro padre e nostro cognato siano
complici nel fatto che giustamente ha indignato tutto il paese... Ora, se
vossignoria, che è stato piú di tutti offeso, dice una parola...
l'innocenza...»
«E c'è
anche questo, signor deputato! «proruppe Annicchia, non riuscendo piú a
trattenere le lagrime,«che nostra sorella, signor deputato, quando sono venute
le guardie ad arrestare il marito e nostro padre, aveva il bambinello attaccato
al petto. Le si è attossicato il latte, signor deputato; e ora il bambino sta
morendo, e non sappiamo come curarlo; e nostra sorella pare impazzita per il
figlio che le muore, col padre in carcere! Siamo rimaste cinque sorelle in casa;
ci volgiamo da tutte le parti e non sappiamo che ajuto darle... Per questo siamo
venute qua, a supplicarla, signor
deputato!»
Capolino
s’alzò, come sospinto dalla
commozione.
«Vedrò...
vedrò di fare qualche cosa...» disse. «Datemi un po' di tempo... Bisogna che
veda... per la mia... dico per la mia responsabilità politica... Il cuore, ve
l'ho detto, è una cosa; la politica, un'altra... Ma vedrò... non m'impegno...
Quietatevi, quietatevi... e coraggio, figliuole mie... È un momento orribile per
tutti, credete... e nessuno riesce a vederci uno
scampo...»
Le
accompagnò, cosí dicendo, fino alla saletta d'ingresso; non volle scuse né
ringraziamenti; richiuse pian piano la porta alle loro
spalle.
Pur senz'alcuna
fiducia in quella vaga promessa d'ajuto, le due sorelle, appena uscite su la
via, provarono un certo sollievo per il passo che avevano fatto, quasi
un'ebbrezza d'aver saputo parlare, per cui si sentirono alquanto riconfortate.
Ma presto, pensando al luogo ove erano avviate, ricaddero nell'avvilimento d'una
vergogna scottante. Si recavano alla Posta a riscuotere un po' di denaro che
Celsina aveva mandato da Roma, e di cui non sapevano che pensare.. E altro
danaro in quei giorni, poco, oh poco, e frutto d'un'altra vergogna ben nota,
veniva dalla sorella maggiore, da Rosa, a quelle loro povere mani logorate dal
lavoro e ora forzate dall'ozio, forzate ad accogliere il tristo peso di quei
soccorsi non chiesti.
Che agli occhi altrui
figurasse d'andare a Colimbètra non di sua volontà, ma chiamato, piaceva molto a
Capolino. Era là, adesso, appesa al ramo una pera, rimasta un tempo acerba alla
sua brama; ma che ora, a quanto poteva congetturare da notizie recenti, doveva
esser piú che matura, lí lí per cadere a una scrollatina cauta e ardita della
sua mano. Sarebbe stato questo, il perfetto compimento della sua vendetta! E
tutto pareva meravigliosamente preordinato perché si compisse presto e bene.
Adelaide Salvo figurava nubile tuttora davanti allo stato civile. L'avrebbe
spinta a fuggire con lui a Roma, a riparare in casa della sorella Rosa.
Prudentemente, per raffermar bene il suo diritto di salvatore, si sarebbe prima
trattenuto alcuni giorni a Napoli con lei che, poverina, doveva aver tanto
bisogno di quegli svaghi che solamente una città come Napoli poteva offrirle. A
Roma, si poteva senza chiasso contrar le nozze civili. Francesco Vella avrebbe
trovato modo di farlo entrare in qualità d'avvocato consulente
nell'amministrazione delle ferrovie; e non era detto che non dovesse piacergli
che egli, divenuto di nuovo suo cognato, restasse con quella medaglietta
ciondolante sul panciotto. Col tempo anche Flaminio Salvo, per intercessione di
don Francesco e di donna Rosa, si sarebbe forse placato e non gli avrebbe
attraversato la via. Il vero punto, adesso era persuadere Adelaide d'affrontar
lo scandalo della fuga, in quel momento sciagurato della pazzia della nipote. Ma
monsignor Montoro gli aveva detto che il principe proibiva assolutamente alla
moglie di recarsi a Girgenti anche per una visita in casa del fratello. Un'altra
congiuntura maravigliosamente propizia era nell'opera pietosa offerta da quel
caro Niní De Vincentis alla povera ragazza. Che se Dianella fosse stata portata
a Colimbètra presso la zia come il principe aveva proposto, altro che pensare
alla fuga, egli non avrebbe potuto piú neanche mettervi il piede! Ma poteva
bastare ad Adelaide questa vaga speranza, questa magra consolazione da lontano,
di sapere inginocchiato innanzi alla nipote demente quel povero San Luigi? In
fondo tutto quell'ardore, per quanto sincero, di visitare la nipote, doveva
essere un pretesto per uscir da Colimbètra. Le ragioni delle sue smanie
perduravano tutte, esacerbate per giunta da quella proibizione. Né Flaminio
Salvo si sarebbe mai indotto a persuadere il principe di concedere alla sorella
quell'uscita. Bisognava insistere su questo punto, dimostrare ad Adelaide che il
fratello non era uomo da venir meno ai patti stabiliti col principe per nessuna
considerazione; cosicché ella, perduta ogni speranza nell'ajuto del fratello e
vedendosi condannata a struggersi lí nel dispetto e nella noja, non vedesse piú
altro scampo che in lui, e trovasse nella disperazione il coraggio della
fuga.
Questi pensieri e
ricordi e propositi rivolgeva in sé Capolino, scendendo da Girgenti a Colimbètra
in vettura. Ma non gli suscitavano dentro né ansia, né calore. Avvertiva anzi
una frigidità nauseosa, come se la vita gli si fosse rassegata; sentiva che
quella sua vendetta era per cose che restavano indietro nel tempo, irrevocabili,
e già morte nel cuore, e che però non ne avrebbe avuto né gioja, né promessa di
bene per l'avvenire. Vendicava uno che, un giorno, era stato respinto da
Adelaide Salvo; ma era piú ormai quell'uno? Tante cose non avrebbero dovuto
accadere, che purtroppo erano accadute, e di cui sentiva in sé, nel cuore, il
peso morto, perché avesse ora qualche gioja della sua vendetta. E appunto tutte
queste cose morte gliela rendevano cosí facile. Ecco perché sentiva quella
frigidità nauseosa. In Nicoletta Spoto aveva potuto trovare un certo compenso,
un rinfranco alla nausea della sua abiezione, per quella e con quella, valeva
quasi la pena d'esser vile... Ma suscitare adesso un nuovo scandalo, fare un
affronto a un uomo come don Ippolito Laurentano, per Adelaide Salvo... Forse
però, in fin dei conti, sarebbe stato anche un sollievo per don Ippolito
portargli via quella moglie! Sul momento, l'amor proprio ne avrebbe un po'
sofferto; ma non era male che a lui cosí favorito sempre dalla sorte, bello,
nobile, ricco, che aveva potuto prendersi il gusto e la soddisfazione di tener
sempre alta la fronte, la sorte stessa, ora, all'ultimo, con la mano di lui
Capolino, allungasse uno scappellotto, cosí di
passata.
Ancora
un'altra agevolazione, e questa davvero inaspettata, e tale da fargli quasi
cader le braccia, trovò, appena arrivato alla villa. Don Ippolito, sdegnato da
un canto dalla sfiducia del vescovo, dall'altra al tutto disilluso dalla
risposta di Lando, arrivatagli la sera avanti da Palermo, circa la possibilità
di venire a un accordo col partito clericale, s’era rifugiato, come in tante
altre occasioni bisognoso di conforto, nel culto delle antiche memorie,
nell'opera da lungo tempo intrapresa sulla topografia
akragantina.
Come per
l'acropoli, cosí per l'emporio d'Akragante, s’era messo contro tutti i topografi
vecchi e nuovi, che lo designavano alla foce dell'Hypsas. Quivi egli invece
sosteneva che fosse soltanto un approdo, e che l'emporio, il vero emporio,
Akragante, come altre antiche città greche non poste propriamente sul mare, lo
avesse lontano, in qualche insenatura che potesse offrire sicuro ricovero alle
navi: Atene, al Pireo; Megara attica, al Niseo; Megara sicula, allo Xiphonio.
Ora, qual era l'insenatura piú vicina ad Akragante? Era la cosí detta Cala della
Junca, tra Punta Bianca e Punta del Piliere. Ebbene là, dunque, nella Cala della
Junca, doveva essere l'emporio
akragantino.
A questa
conclusione era arrivato con la scorta d'un antico leggendario di Santa
Agrippina. Ed era lieto e soddisfatto di una pagina che aveva trovato modo
d'inserire nell'arida discussione topografica, per descrivere il viaggio delle
tre vergini Bassa, Paola e Agatonica, che avevano recato per mare da Roma il
corpo della santa martire dell'imperatore Valeriano. Non era dubbio che le tre
vergini fossero approdate col corpo della santa alla spiaggia agrigentina, in un
luogo detto Lithos in greco e Petra in latino, quello stesso oggi
chiamato Petra Patella, o Punta Bianca. Orbene, nell'antico agiografo si leggeva
che al momento dell'approdo delle tre vergini un monaco che usciva dal monastero
di Santo Stefano nel villaggio di Tyro presso l'emporio, avviato ad Agrigento,
s’era fermato, attratto dal soave odore che emanava dal corpo della santa, ed
era poi corso alla città ad annunziare quel prodigio al vescovo San Gregorio.
Se, come volevano i vecchi e nuovi topografi, l'emporio era alla foce
dell'Hypsas, e dunque pur lí il vicus di Tyro e il monastero di Santo
Stefano, come mai quel monaco, avviato ad Agrigento, s’era potuto imbattere a
Punta Bianca nelle tre vergini che approdavano col corpo della santa martire?
Era del tutto inammissibile. Il monastero di Santo Stefano di Tyro doveva esser
lí, presso Punta Bianca, e dunque pur lí l'emporio. E la prova piú convincente
era nel nome di quel villaggio, uguale a quello della grande città fenicia:
Tyro. Questo nome probabilmente lo avevano dato i Cartaginesi al tempo del loro
attivo commercio con gli Akragantini, e tale per qualche monte che doveva
sorgere presso il villaggio: tur, difatti, in fenicio significa monte. Ne
sorgeva forse qualcuno presso la foce dell'Hypsas? No; il monte, designato anzi
come per antonomasia il Monte Grande, sorge là appunto, presso Punta Bianca, e
domina la Cala della
Junca.
Don Ippolito,
quella mattina per tempissimo, s’era recato a cavallo, con la scorta di
Sciaralla e di altri quattro uomini, a visitar piú attentamente quei luoghi, e
in ispecie la costa di quel Monte Grande, nella contrada detta Litrasi, ove sono
certi loculi creduti da alcuni topografi tombe fenicie, ma che a lui parevano
molto piú recenti e disposti e scavati in uno stile uso in Sicilia al tempo del
basso impero, sicché potevano risalire agli anni del vescovado di San Gregorio,
cioè al tempo che colà erano sbarcate le tre fedeli vergini Bassa, Paola e
Agatonica con la salma odorosa della santa martire
Agrippina.
Di ritorno,
benché da ogni parte gli si stendessero amenissimi allo sguardo nel tepore quasi
primaverile immensi tappeti vellutati di verzura, qua dorati dal sole, là
vaporosi di violente ombre violacee, sotto il turchino intenso e ardente del
cielo, don Ippolito, guardando le sue mani appoggiate su l'arcione della sella,
non aveva pensato piú ad altro che alla morte, alla sua scomparsa da quei
luoghi, che ormai non doveva essere lontana. Ma contemplata cosí, sotto quel
sole, in mezzo a tutto quel verde, mentre il corpo si dondolava ai movimenti
uguali della placida cavalcatura, la morte non gli aveva ispirato orrore, bensí
un'alta serenità soffusa di rammarico e insieme di compiacenza, per la
gentilezza e la nobiltà dei pensieri e delle cure, di cui aveva sempre intessuto
la sua vita in quei luoghi cari, a cui tra poco avrebbe dato l'ultimo addio. E
s’era immerso a lungo in quel sentimento nuovo di serenità, come per mondarsi
del terrore angoscioso ch’essa, la morte, gli aveva cagionato finora, e a cui
doveva quelle indegne sue seconde nozze che avevano profanato il decoro della
sua vecchiezza, l'austerità del suo
esilio.
Poco dopo
mezzogiorno, rientrando a Colimbètra, stanco della lunga cavalcata, sorprese nel
salone Capolino e donna Adelaide in fitto colloquio: questa, accesa e in
lacrime; quello, pallido e in fervida agitazione. Si fermò su la soglia, con un
piglio piú di nausea che di
sdegno.
«Oh,
principe...» fece subito Capolino, levandosi in piedi,
smarrito.
«State,
state...» disse don Ippolito, protendendo una mano, piú per impedirgli
d'accostarsi, che per fargli cenno di restar seduto. «Non vi chiedo scusa del
ritardo, perché la signora, vedo... mi avrà dipinto anche a voi per un cosí
barbaro uomo, che non vi sarete doluto se vi è mancata finora la mia
compagnia...»
«No...
la... la principessa... veramente...» barbugliò
Capolino.
Don Ippolito
s’impostò fieramente e disse con accigliata
freddezza:
«Può andare,
se vuole. Ma sappia che ciò che oggi le impedisce di uscire dal cancello della
mia villa, le impedirà domani di rientrarvi. E ora seguitate pure la vostra
conversazione.»
Si
mosse per uscire dal salone. Capolino tentò di sostenere, innanzi alla donna, la
sua dignità maschile, e gli disse dietro, quasi con aria di sfida, ma che poteva
anche parer di
scusa:
«Voi, principe,
mi avete fatto
chiamare...»
Don
Ippolito, già arrivato all'uscio, si voltò appena, tenendo scostata con la mano
la portiera:
«Oh, per
una cosa da nulla,« disse. «Ormai... ubbie!
ubbie!»
E passò,
lasciando ricadere la
portiera.
«La
risposta... la risposta...« proruppe subito donna Adelaide, alzandosi soffocata
e con gli occhi tumidi e insanguati dal pianto, aspetto fino a domani la
risposta, o che venga lui qua a dirmi se debbo proprio crepare e farmi pestar la
faccia cosí...»
«Ma
certo! ma certo! ma certo!« ribatté Capolino, andandole dietro. «Come vuoi che
Flaminio ti
dica...»
«Me lo deve
dire!» lo interruppe lei, frenetica, mostrando i denti e le pugna. «Questo mi
deve dire, con la sua bocca; e allora sí, allora sí, subito! faccio lo
sproposito! sono pronta! faccio lo
sproposito!»
Entrò in
quel punto Liborio, il cameriere favorito del principe, in preda a un'ansia
spaventata, e restò un momento perplesso alla vista del pianto e dell'agitazione
della
signora.
«Eccellenza...
Eccellenza...« disse, «il signor don
Salesio...»
«Che
cos’è?» domandò con rabbia donna Adelaide. «Che
vuole?»
«Niente,
eccellenza... pare
che...»
E Liborio alzò
una mano a un gesto vago, di
benedizione.
«Ah,» fece
allora donna Adelaide, piantando duramente gli occhi in faccia a Capolino e
restando un tratto a guardarlo accigliata e a bocca aperta, come per saper da
lui se fosse bene o male, che giusto in quel punto quel poveretto morisse.
«Meglio... meglio cosí!» esclamò poi, «meglio cosí, pover'uomo... Andiamo,
Gnazio, andiamo a
vederlo...»
E corse
dietro a Liborio, seguita da Capolino, frastornato e
turbato.
«L'ho tenuto
qua con me...» gli diceva, andando, «l'ho trattato... l'ho curato... Bella gente
siete stati vojaltri, ad abbandonarlo cosí... povero vecchio... Meglio,
meglio... si leva di patire... Anch’io l'ho trascurato in questi ultimi
giorni... Assassini! Gli hanno dato il colpo di grazia... Ma anche lui però,
bisogna dirlo, mangiava troppo... troppi
dolci...»
«Eh sí,
eccellenza,» sospirò Liborio, «glielo dicevo anch’io...
troppi...»
«Piglia,
piglia, Gnazio... m'è caduto il fazzoletto. Oh Bella Madre Santissima, che puzzo
qui!»
E si turò il naso
con una mano, restando davanti alla soglia della cameretta in cui il povero
vecchio moriva, sostenuto sul letto dal cuoco, accorso alla chiamata di Liborio.
Trattenuti dall'orrore istintivo della morte, ma forse piú dal ribrezzo per
l'estrema magrezza di quel volto cartilaginoso, dai peli stinti, dai globi degli
occhi già induriti sotto le pàlpebre semichiuse, donna Adelaide e Capolino
stavano a guardare, ancora lí su la soglia, allorché videro la bocca del
moribondo aprirsi, aprirsi sempre piú, spalancarsi smisuratamente, come forzata
con violenza crudele da una molla
interna.
«Oh Dio!»
gemette donna Adelaide. «Perché fa
cosí?»
Non aveva finito
di dirlo, che da quella bocca springò fuori, di scatto, qualcosa, orribilmente.
Donna Adelaide gettò un grido di raccapriccio e levò le mani quasi a riparo del
volto. Liborio andò a guardare sul letto e, scorgendovi una dentiera
aperta:
«Niente,
eccellenza!» disse con un sorriso pietoso. «Ha finito di
mangiare...»
Il cuoco
intanto adagiava sul cuscino il capo esanime del povero vecchio.