Luigi Pirandello
I vecchi e i giovani
Parte II
VIII
Reduce da
quel suo pellegrinaggio a Roma, da cui tanta gioja e tanta luce di sogni
gloriosi s’era promesso di riportare a Valsanía per i suoi ultimi giorni, Mauro
Mortara, dopo la visita a donna Caterina Laurentano morente, a testa bassa,
senza arrischiar neppure un'occhiata intorno, quasi avesse temuto d'esser deriso
dagli alberi ai quali per tanti anni aveva parlato delle sue avventure, della
grandezza e della potenza derivate alla patria dall'opera dei vecchi suoi
compagni di cospirazione, d'esilio, di guerra, era andato a cacciarsi nella sua
stanza a terreno, come nel suo covo una fiera ferita a morte. Invano don Cosmo,
per circa una settimana, aveva cercato di scuoterlo, di farlo parlare, compreso
di quella sua pietà sconsolata per tutti coloro che giustamente rifuggivano dal
rimedio ch’egli aveva trovato per guarire d'ogni male. Alle sue insistenze, che
almeno salisse alla villa per il desinare e la cena, Mauro aveva risposto,
scrollandosi:
"Corpo di
Dio, lasciatemi
stare!"
"E che
mangi?"
"Le mani, mi
mangio! Andàtevene!"
In
un modo piú spiccio e piú brusco, il giorno dopo il suo arrivo, aveva risposto
ai colombi, che durante la sua assenza erano stati governati due volte al
giorno, all'ora solita, dal curàtolo Vanni di Ninfa: bum! bum! due
schioppettate in aria; e li aveva dispersi con fragoroso scompiglio. Né migliore
accoglienza aveva fatto alla festa dei tre mastini quasi impazziti dalla gioja
di rivederlo. La placida immobilità dei vecchi oggetti della stanza, impregnati
tutti da un lezzo quasi ferino, i quali parevano in attesa ch’egli riprendesse
tra loro la vita consueta, gli aveva suscitato una fierissima irritazione:
avrebbe preso a due mani lo strapunto di paglia abballinato in un angolo e lo
avrebbe scagliato fuori con le tavole e i trespoli che lo sorreggevano, e fuori
quel torchio guasto delle ulive, fuori seggiole e casse e capestri e bardelle e
bisacce. Solo gli era piaciuto riveder nel muro l'impronta degli sputi gialli di
tabacco masticato che, stando a giacer sul letto, era solito scaraventare alla
faccia dei nemici della patria, sanfedisti e
borbonici.
Piú volte,
la lusinga degli antichi ricordi aveva cercato di riaffascinarlo; piú volte,
dalla porta aperta, i lunghi filari della vigna, con gli alberetti già
verzicanti sparsi qua e là nel silenzio attonito di certe ore piene di smemorato
abbandono, gli avevano per un momento ricomposto la visione quasi lontana di
quel mondo, per cui fino a poco tempo addietro vagava nei dí sereni, gonfio
d'orgoglio, da padreterno, lisciandosi la barba. D'improvviso, ogni volta,
l'anima che già s’avviava affascinata da quella visione, s’era ritratta
all'aspro e fosco ronzare di qualche calabrone che, entrando nella stanza, lo
richiamava con violenza al presente e rompeva il fascino e sconvolgeva la
visione.
Che fare? che
fare? come vedersi piú in quei luoghi testimonii della sua passata esaltazione?
come piú attendere alle cure pacifiche della campagna, mentre sapeva che tutta
la Sicilia era sossopra e tanti vili rinnegati si levavano ad abbattere e
scompigliare l'opera dei vecchi? Da anni e anni, tutti i suoi pensieri, tutti i
suoi sentimenti, tutti i suoi sogni consistevano dei ricordi e della
soddisfazione di quest'opera compiuta. Come aver piú requie al pensiero ch’essa
era minacciata e stava per essere abbattuta? Contro ogni seduzione delle
antiche, tranquille abitudini, si vedeva costretto dalla sua logica ingenua a
riconoscere ch’era debito d'onore, per quanti come lui portavano al petto le
medaglie in premio di quell'opera, accorrere ora in difesa di
essa.
"La vecchia
guardia nazionale! la vecchia guardia! Tutti i veterani a
raccolta!"
E alla fine,
in un momento di piú intensa esaltazione, era corso come un cieco, per rifugio e
per consiglio, al camerone del Generale, ove finora non gli era bastato
l'animo di rimetter piede. Appena entrato, era scoppiato in singhiozzi, e senza
osare di riaprir gli scuri delle finestre e dei balconi, serrati con cura
amorosa prima di partire, era rimasto al bujo, a lungo, con le mani sul volto, a
piangere su l'antico divano sgangherato e polveroso. A poco a poco, i fremiti,
le ansie degli antichi leoni congiurati del Quarantotto che si riunivano lí in
quel camerone attorno al vecchio Generale, s’erano ridestati in lui a farlo
vergognare del suo pianto; le ombre di quei leoni, terribilmente sdegnate, gli
eran sorte intorno e gli avevan gridato d'accorrere, sí, sí, d'accorrere, pur
cosí vecchio com'era, a impedire con gli altri vecchi superstiti la distruzione
della patria. Nel bujo, da un canto di quel camerone, il malinconico leopardo
imbalsamato, privo d'un occhio, non gli aveva potuto mostrare quanti ragnateli
lo tenevano alla parete, quanta polvere fosse caduta sul suo pelo maculato ormai
anche qua e là da molte gromme di muffa! E Mauro Mortara era riuscito con occhi
atroci, gonfii e rossi dal pianto, e per poco non era saltato addosso a don
Cosmo che, passeggiando per il corridojo, s’era fermato stupito, dapprima, a
mirarlo in quello stato, e aveva poi cercato di trattenerlo e di
calmarlo.
"Se non
sapessi che vostra madre fu una santa, direi che siete un bastardo!" gli aveva
gridato, quasi con le mani in
faccia.
Don Cosmo non
s’era scomposto, se non per sorridere mestamente, tentennando il capo, in segno
di commiserazione; e gli aveva domandato dove volesse andare, contro chi
combattere alla sua età. Mauro se n'era scappato, senza dargli risposta. E
veramente, giú, nella sua stanza a terreno, aveva cominciato a darsi attorno per
la partenza. Alla sua età? Sangue della Madonna, che età? Si parlava d'età, a
lui! Dove voleva andare? Non lo sapeva. Armato, pronto a qualunque cimento,
sarebbe salito a Girgenti, a consigliarsi e accordarsi con gli altri veterani,
con Marco Sala, col Ceràulo, col Trigóna, con Mattia Gangi che certo come lui,
se avevano ancora sangue nelle vene, dovevano sentire il bisogno d'armarsi e
correre in difesa dell'opera comune. Se i nemici s’erano uniti, raccolti in
fasci, perché non potevano unirsi, raccogliersi in fascio anche loro, della
vecchia guardia? I soldati non bastavano; bisognava dar loro man forte;
sciogliere con la forza quei fasci, cacciarne via tutti quei cani a
fucilate, se occorreva. Certo c'erano i preti, sotto, che fomentavano; e anche
la Francia, anche la Francia dicevano che mandava denari, sottomano, per
smembrare l'Italia e rimettere in trono, a Roma, il papa. E chi sa che,
scoppiata la rivoluzione, non volesse sbarcar da Tunisi in Sicilia? Come rimaner
lí con le mani in mano, senza nemmeno tentare una difesa, senza nemmeno farsi
vedere dagli antichi compagni e dir loro: "Son qua"? Bisognava partire, partir
subito! Se non che, a poco a poco, quella sua furia s’era trovata impigliata,
come in una ragna, dalle tante reliquie della sua vita avventurosa, esumate da
vecchie casse e cassette e sacche logore e rattoppate e involti di carta
ingiallita, strettamente legati con lo spago. Avrebbe voluto farne uno scarto e
portarsene addosso quante piú poteva tra le piú care. Confuso, stordito,
frastornato dai ricordi risorgenti da ognuna, a un certo punto s’era sentito
fumar la testa e aveva dovuto smettere. No, non era possibile liberarsi con
tanta precipitazione da tutti quei legami. E aveva rimandato la partenza al
giorno dopo. Tutta la notte era stato fuori, per la campagna, farneticando. La
voce del mare era quella del Generale; le ombre degli alberi erano quelle degli
antichi congiurati di Valsanía; e quella e queste seguitavano a incitarlo a
partire. Sí, domani, domani: sarebbe andato incontro a quegli assassini; lo
avrebbero sopraffatto e ucciso; ma sí, questo voleva, se la distruzione doveva
compiersi! Che valore avrebbero piú avuto, altrimenti, le sue medaglie?
Bisognava morire per esse e con esse! E se le sarebbe appese al petto, domani,
correndo incontro ai nuovi nemici della patria. Perché la Sicilia non doveva
essere disonorata, no, no, non doveva essere disonorata di fronte alle altre
regioni d'Italia che si erano unite a farla grande e gloriosa! Il giorno dopo,
con l'enorme berretto villoso in capo, tutto affagottato e imbottito di carte e
di reliquie, le quattro medaglie al petto, lo zàino dietro le spalle e armato
fino ai denti, s’era presentato a don Cosmo per licenziarsi. E sarebbe partito
senza dubbio, se insieme con don Cosmo non si fosse adoperato in tutti i modi a
trattenerlo Leonardo Costa sopravvenuto da Porto Empedocle. Licenziatosi dal
Salvo, dopo la morte del figlio e ricaduto nella misera e incerta condizione di
sorvegliante alle stadere, Leonardo Costa aveva accettato, piú per non vedersi
solo che per altro, l'offerta pietosa di don Cosmo, di venire ogni sera da Porto
Empedocle a cenare e a dormire a Valsanía. Il cammino non era breve né facile al
bujo, le sere senza luna, per quella stradella ferroviaria ingombra e irta di
brecce. Dopo la sciagura, una stanchezza mortale gli aveva reso le gambe gravi,
come di piombo. Piú volte s’era veduto venire incontro minaccioso il treno; piú
volte aveva avuto la tentazione di buttarcisi sotto e finirla. Quando giú alla
marina non trovava lavoro, se ne risaliva presto alla campagna, e per suo mezzo,
da un po' di tempo, le notizie a Valsanía arrivavano senza ritardo. Se quel
giorno, non avesse recato quella dello sbarco a Palermo del corpo d'armata che
in un batter d'occhio avrebbe certamente domato e spazzato la rivolta, né lui né
don Cosmo sarebbero riusciti a trattenere Mauro con la forza. A calmarlo ancor
piú, era poi venuta la notizia della proclamazione dello stato d'assedio e del
disarmo. Nemmen per ombra gli era passato il dubbio, che l'ordine di consegnare
le armi potesse riferirsi anche a lui, o che potesse correre il rischio d'esser
tratto in arresto, se fosse salito alla città armato. Le sue armi erano come
quelle dei soldati; il permesso di portarle gli veniva dalle sue
medaglie.
Le notizie
recate dopo dal Costa avevano fatto su l'anima di lui quel che su una macchia
già arruffata dalla tempesta suol fare una rapida vicenda di sole e di nuvole.
S’era schiarito un poco, sapendo che a Roma Roberto Auriti era stato scarcerato,
quantunque soltanto per la concessione della libertà provvisoria, e che il
fratello Giulio aveva condotto con sé a Roma la sorella e il nipote; e
scombujato alla rivelazione inattesa che Landino, il nipote del Generale, colui
che ne portava il nome, era tra i caporioni della sommossa, e che era fuggito da
Palermo, dopo la proclamazione dello stato d'assedio, per sottrarsi all'arresto.
Dopo questa notizia s’era messo a guardare con cipiglio feroce Leonardo Costa,
appena lo vedeva arrivare stanco e affannato da Porto Empedocle. L'ansia di
sapere era fieramente combattuta in lui dal timore rabbioso che, a cuor leggero,
quell'uomo lo costringesse ad armarsi e a partire da Valsanía. Dacché era stato
sul punto di farlo, conosceva per prova quel che gli sarebbe costato staccarsi
da quella terra, strapparsi da tutti i ricordi che ve lo legavano, abbandonar la
custodia del camerone la sua vigna, i suoi colombi, gli alberi, che per
tanto tempo avevano ascoltato i suoi
discorsi.
Ma Leonardo
Costa, dopo le furie dell'altra volta, sapeva ormai quali notizie erano per lui,
quali per don Cosmo e per donna Sara Alàimo. Si era lasciata scappar quella
intorno al figlio del principe, perché supponeva che Mauro già lo sapesse
socialista e dovesse aver piacere conoscendo ch’era riuscito a
fuggire.
L'ultima
notizia che il Costa recò, nuova nuova, fu tra i lampi, il vento e la pioggia
d'una serataccia
infernale.
Mauro aveva
apparecchiato da cena, in vece di donna Sara da due giorni a letto per una forte
costipazione, e ora stava con don Cosmo nella sala da pranzo in attesa
dell'ospite che forse a causa del cattivo tempo, tardava a venire. Quell'attesa
lo irritava, non tanto perché avesse voglia di mangiare, quanto perché temeva
andasse a male la cena apparecchiata. Aveva fatto sempre ogni cosa con impegno,
e tra i tanti ricordi che gli davano soddisfazione c'era anche quello d'aver
fatto "leccar le dita" agli Inglesi, quando era stato cuoco prima a bordo e poi
a Costantinopoli. Una delle ragioni de suo odio per donna Sara era appunto la
gioja maligna manifestata piú volte da questa per la pessima riuscita di qualche
lezione di culinaria che aveva voluto impartirle. Fuori d'esercizio e con
l'animo sconvolto e distratto da tanti pensieri si cimentava da due giorni con
coraggio imperterrito nella confezione dei piú complicati intingoli, e
avvelenava l'ospite e il povero don
Cosmo.
"Come vi
pare?"
"Ah, un miele,"
rispondeva questi, invariabilmente. "Forse, però, ho poco
appetito."
"Al senso
mio," arrischiava il Costa, "mi pare che ci manchi un tantino di
sale."
"O
Marasantissima," prorompeva Mauro, "eccovi la
saliera!"
Donna Sara
era da due giorni
digiuna.
Tra gli urli
del vento, i boati spaventosi del mare, lo scroscio della pioggia, si udivano i
suoi scoppii di tosse, e lamenti e preghiere recitate ad alta voce. In preda,
certo, a un assalto furioso di mania religiosa, s’era asserragliata nella sua
cameretta e rifiutava ogni cibo e ogni cura. Di tanto in tanto don Cosmo,
sentendola tossire piú forte e piú a lungo, si recava premuroso a chiamarla
dietro l'uscio e a domandarle se volesse qualche cosa. Per tutta risposta donna
Sara gli gridava, appena poteva, con voce
soffocata:
"Pentítevi,
diavolacci!"
E
riprendeva a gridare avemarie e
paternostri.
Finalmente
arrivò Leonardo Costa, in uno stato miserando, tutto scompigliato dal vento, con
l'acqua che gli colava a ruscelli dal cappotto e con tre dita di fango attaccato
agli scarponi. Non tirava piú fiato e non poteva piú tener ritta la testa, dalla
stanchezza. Mauro, per ricetta, gli fece subito trangugiare un bicchierone di
vino, opponendo alla resistenza la solita
esclamazione:
"Oh
Marasantissima, lasciatevi
servire!"
Don Cosmo
s’affrettò a condurselo in camera e lo ajutò a cangiarsi d'abito, facendogliene
indossare uno suo che gli andava molto stretto, ma almeno non era bagnato.
Intanto Mauro aveva portato in tavola e gridava dalla sala da
pranzo:
" Santo
diavolone, venite o non
venite?"
Quando vide
comparire l'uno e l'altro con due visi stralunati, si mise in apprensione e
domandò
aggrondato:
"Che altro
c'è?"
Nessuno dei due
gli rispose. Don Cosmo, invece, domandò al
Costa:
"E Ippolito?
Ippolito?"
"Dormiva,"
rispose quello. "Alle tre di notte! Dormiva. Ma dice che, quando l'uomo di
guardia, costretto ad aprire il cancello, corse alla villa ad
avvertire..."
"Parlate
di don Landino?" lo interruppe a questo punto Mauro, cacciandosi tra i due
furiosamente. "Ditemi che
cos’è!"
"No, che don
Landino!" gli rispose il Costa, mostrando sul volto una trista gajezza. "Gli
hanno fatto l'ultima a quel degno galantuomo che è stato qua un mese a pestarvi
la faccia! So che voi lo amate quanto
me!"
"Il
Salvo?"
"Già!"
E
il Costa alzò un piede come per darlo sul collo del caduto.
Seguitò:
"Sua sorella,
la moglie del principe, ha preso la fuga, questa notte, col deputato
Capolino..."
"La fuga?
Come, la fuga?"
"Come,
eh? Ci vuol poco... Quello è venuto a pigliarsela con la carrozza, e son partiti
di nottetempo, con la corsa delle tre, per Palermo. Certo s’erano accordati
avanti..."
Don Cosmo,
ancora stralunato, mormorava tra sé in
disparte:
"Povero
Ippolito... povero
Ippolito..."
"Gli sta
bene!" corse a gridargli Mauro in
faccia.
"Mescolarsi con
una tal razza di gente," aggiunse il Costa con una smorfia di schifo. "Del
resto, sa, sí-don Cosmo? una certa mortificazione, forse, non dico di no... Lo
scandalo è grosso: non si parla d'altro a Girgenti e alla marina... Ma, dopo
tutto... già non la trattava nemmeno da moglie... dice che dormivano divisi e
che... a sentir le male lingue... quel cagliostro, dice, se la piglia com'era
prima del matrimonio... Quando l'uomo di guardia corse alla villa ad annunziare
la fuga e il cameriere andò a svegliare il principe, dice che egli non alzò
neanche la testa dal cuscino e rispose al cameriere: "Ah sí? Buon viaggio!
Penserò domani ad averne dispiacere, quando mi sarò
levato...".
Don Cosmo
negò piú volte energicamente col capo e
aggiunse:
"Non sono
parole d'Ippolito,
codeste!"
"Per conto
mio," riprese il Costa, sedendo con gli altri a tavola e cominciando a cenare,
"che vuole che le dica? Mi dispiace per il principe; ma ci ho gusto, un gran
gusto per l'onta che n'avrà il fratello... Ah, sí-don Cosmo, non so davvero
perché vivo! Vorrei salvarmi l'anima, glielo giuro; vorrei darle tempo di
superar la pena, perché almeno in punto di morte potesse perdonare e salirsene a
Dio... Ma no, sí-don Cosmo: la pena è piú forte e si mangia l'anima; l'odio mi
cresce e si fa piú rabbioso di giorno in giorno; e allora dico: perché? non
sarebbe meglio ammazzar prima lui e poi me, e farla
finita?"
"Forse,"
mormorò don Cosmo, "gli fareste un
regalo..."
"Ecco ciò
che mi tiene! "esclamò il Costa. "Perché sarebbe un regalo anche per
me!"
"Mangiate e non
piangete!" gli gridò
Mauro.
"Abbiate
pazienza, don Mauro," gli disse allora il Costa, forzandosi a sorridere. "Nei
vostri piatti, per il palato mio, ci manca sempre un tantino di sale. Qualche
lagrimuccia è
condimento."
Don Cosmo,
intanto, assorto, mirando attentamente un pezzetto di carne infilzato nella
forchetta sospesa, diceva tra
sé:
"Come due
ragazzini..."
E tra i
colpi di tosse donna Sara seguitava a gridar di
là:
"Pentítevi,
diavolacci!
pentítevi!"
All'improvviso,
mentre i tre seduti a tavola finivano di cenare, da fuori, ove il vento e la
pioggia infuriavano, tra il fragorío continuo degli alberi e del mare,
s’intesero i furibondi latrati dei mastini che ogni sera, su i gradini della
scala, stavano ad aspettar l'uscita del padrone dopo la cena. Mauro, accigliato,
si rizzò sul busto e tese l'orecchio. Quei latrati avvisavano che qualcuno era
presso la villa. E chi poteva essere a quell'ora, con quel tempo da lupi? Si
udirono grida confuse. Mauro balzò in piedi, corse a prendere il fucile
appoggiato a un angolo della sala, e s’avviò alla porta. Prima d'aprire, applicò
l'orecchio al battente e subito, intendendo che giú, innanzi alla villa, i cani
cercavano d'impedire il passo a parecchi che se ne difendevano gridando, spense
il lume, spalancò la porta e, tra lo scroscio violento della pioggia, nella
tenebra sconvolta, spianando il fucile, urlò dal
pianerottolo:
"Chi è
là?"
Un palpito di luce
sinistra mostrò per un attimo, in confuso, la scena. Mauro credette
d'intravedere quattro o cinque che, minacciando disperatamente, indietreggiavano
all'assalto dei
mastini.
"Mauro,
perdio! Questi cani! Ne ammazzo qualcuno! Ti chiamo da tre
ore!
"Don
Landino?"
E Mauro,
fremente, si precipitò dalla scala, tra il vento, sotto la pioggia
furiosa.
"Dove siete?
dove siete?
Alla voce
del padrone i cani desistettero dall'assalto, pur seguitando ad
abbajare.
"Mauro!"
"Voi
qua?" gridò questi, cercando, invece dei cani, d'impedir lui ora il passo.
"Avete il coraggio di rifugiarvi qua coi vostri compagni d'infamia? Non vi
ricevo! Andatevene! Questa è la casa di vostro Nonno! Non vi
ricevo!"
"Mauro, sei
pazzo?"
"In nome di
Gerlando Laurentano, via! Andatevene! Là, da vostro padre è il rifugio per voi e
pei vostri compagni, non qua! Non vi
ricevo!"
"Sei pazzo?
Lasciami!" gridò Lando, strappandosi dalla mano di Mauro, che lo teneva
afferrato per un
braccio.
Sprazzò sul
pianerottolo della scala un lume, che subito il vento spense. E don Cosmo,
accorso col Costa, chiamò di
là:
"Landino!
Landino!"
Questi
rispose:
"Zio Cosmo!"
e, rivolto ai compagni: "Sú, sú, andiamo
sú!"
"Don Landino!"
gl’intimò allora Mauro con voce squarciata dall'esasperazione. "Non salite alla
villa di vostro Nonno! Se voi salite, io me ne vado per sempre! Ringraziate
Iddio che vi chiamate Gerlando Laurentano! Questo solo mi tiene dal farvi fare
una vampa, a voi e a codeste carogne, sacchi di merda, che avete accanto! Ah sí?
salite? Un fulmine, Dio, che la dirocchi e vi schiacci tutti quanti! Aspettate,
ecco qua, tenete, compite la vostra prodezza! Vi consegno la
chiave!"
E la grossa
chiave del camerone venne a sbattere contro la porta che si
richiudeva.
"E pazzo! è
pazzo!" ripetevano al bujo Lando, don Cosmo, il Costa cercando in tasca i
fiammiferi per riaccendere il lume, mentre i compagni di Lando, storditi da
quell'accoglienza nel ricovero tanto sospirato e ora finalmente raggiunto
domandavano ansimanti e
perplessi:
"Ma chi
è?"
"Pazzo
davvero?"
"O
perché?"
Riacceso il
lume, i cinque fuggiaschi, Lando, Lino Apes, Bixio Bruno, Cataldo Sclàfani e
l'Ingrao, apparvero come ripescati da una fiumara di fango. Cataldo Sclàfani,
dalla faccia spiritata, già ispida su le gote, sul labbro e sul mento della
barba che gli rispuntava, era piú di tutti compassionevole: pareva un
convalescente atterrito, scappato di notte da un ospedale schiantato dalla
tempesta.
Fu per un
momento uno scoppiettío di brevi domande e di risposte affannose, tra
esclamazioni, sospiri e sbuffi di stanchezza; e chi si scrollava, e chi pestava
i piedi, e chi cercava una sedia per buttarcisi di
peso.
"Inseguiti?" "No,
no..." "Scoperti?..." "Forse!..." " Ma che! no..." "Sí..." "Forse Lando..." "A
piedi! E come?..." "Da tre giorni!" "Diluvio! diluvio!..." come, dico io,
senz'avvertire?
senz'avvertire?
Quest'ultima
esclamazione era – s’intende - di don Cosmo. L'andava ripetendo all'uno e
all'altro, sforzandosi di concentrarsi nella gran confusione che gli faceva
grattar la barba su le gote con ambo le
mani.
"Dico... dico...
Ma come?...
senz'avvertire?..."
E
chi sa fino a quando l'avrebbe ripetuto, se finalmente non gli fosse balenata
l'idea che bisognava dare ajuto in qualche modo a quei giovanotti. Che
ajuto?
"Ecco, venite,
venite qua!" prese a dire, afferrando per le braccia ora l'uno ora l'altro.
"Spogliatevi, subito... Ho roba... roba per tutti... qua, qua in camera mia...
nella cassapanca, venite con
me!"
Bixio Bruno e
l'Ingrao, meno storditi e meno stanchi degli altri, s’opposero energicamente a
quella strana
insistenza.
"Ma no! Ma
lasci!" gridò il primo. "Non c'è da perder tempo... È distante molto Porto
Empedocle da
qua?"
"Ecco, sí,"
esclamò Lando, rivolto allo zio. "Qualcuno... un contadino fidato, da spedire a
Porto Empedocle subito, per noleggiare una barca... qualche grossa barca da
pesca..."
"Prima che
spunti il giorno, per carità!" raccomandò lo Sclàfani, facendosi avanti con la
sua aria
spiritata.
"Dovremmo
essere in mare prima che spunti il giorno! Forse siamo stati
scoperti..."
"E dàlli!
Ti dico di no." gli gridò
l'Ingrao.
"E io ti dico
invece di sí" ribatté lo Sclàfani. "Alla stazione di Girgenti, Lando, potrei
giurare, è stato
riconosciuto..."
Leonardo
Costa fece osservare che il noleggio di una barca, in un frangente come quello,
non era incarico da affidare a un
contadino.
"Posso
andare io, se volete! Anzi, andrò io, ora
stesso!"
"Con questo
tempo?" domandò angustiato don Cosmo. "Signori miei, non precipitate cosí le
cose... Spogliatevi, date ascolto a me: prenderete un malanno... Vedete... ecco
qua... quest'amico mio... vedete... l'ho fatto cambiare io, or ora... C'è
roba... roba per tutti .. nella cassapanca, venite a
vedere!
Il Costa con un
gesto d'impazienza, domandò ai
giovani:
"Vorreste che
venisse qua sotto Valsanía, la
barca?"
"Sí, sí, qua!"
rispose Lando. "No, zio, per carità, mi lasci
stare!"
" Spògliati, ti
dico..."
"Non è
prudente," seguitò Lando, rivolto al Costa, mentre lo zio gli strappava per
forza il soprabito, "non è prudente mostrarci a Porto Empedocle. A quest'ora a
tutti i porti di mare sarà certo venuto da Palermo l'ordine della nostra
cattura.
"Ma sarà
difficile," fece notare allora il Costa, "che approdi qua sotto, di notte, una
tartana, con questo mare grosso... Basta; non mi tiro indietro... Si potrà
tentare..."
E corse a
prendere in sala l'ampio mantello a cappuccio, ancora zuppo di
pioggia.
"Amici!" gridò
l'Ingrao, "non sarebbe meglio seguire questo signore, ora che è notte e nessuno
ci vede? Ci terremo nascosti in prossimità del paese, fintanto che egli non avrà
noleggiato la
barca!"
Il consiglio
non fu accettato per una savia considerazione di Lino
Apes:
"Ma che dite?
Credete che una tartana si noleggi in quattro e quattr'otto, di nottetempo e con
questo tempo? Bisognerà trovare il
padrone..."
"Lo
conosco!" interruppe il Costa. "Ne conosco uno io, mio amico,
fidatissimo."
"E i
marinaj?" domandò l'Apes. "Il padrone solo non
basta."
"Certo!
Bisognerà trovare anche i marinaj," riconobbe il Costa, "e allestir la barca...
Prima di giorno non si farà a
tempo."
"E allora, no!"
gridò subito lo Sclàfani, rifacendosi avanti impetuosamente. "A Porto Empedocle,
no, di giorno! Converrà imbarcarci
qua!"
"Intanto, io
vado!" disse Leonardo Costa, che si era già
incappucciato.
"Povero
amico!" gemette don Cosmo. "Ma
proprio?..."
Il Costa
non volle sentir commiserazioni né ringraziamenti e s’avventurò nella tenebra
tempestosa.
Allorché
Lando seppe che costui era il padre di Aurelio Costa, barbaramente assassinato
insieme con la moglie del deputato Capolino dai solfaraj del Fascio
d'Aragona, guardò cupamente l'Ingrao e gli altri compagni. Interpretando male
quello sguardo, il Bruno manifestò, sebbene esitante, il sospetto non si fosse
quegli recato a Porto Empedocle per vendicarsi, denunziandoli. Don Cosmo allora,
accomodando la bocca, emise il suo solito riso di tre oh! oh!
oh!
"Quello?"
disse; e spiegò il sentimento e la devozione del suo povero amico, il quale,
facendo carico della morte del figliuolo soltanto a Flaminio Salvo, non pensava
neppur lontanamente ai socii del Fascio
d'Aragona.
"Oh, a
proposito!" disse poi, colpito dal nome del Salvo, venutogli cosí per caso alle
labbra. E si chiamò Lando in disparte per annunziargli la fuga di donna
Adelaide.
"Come una
ragazzina, capisci? Alle tre di
notte!"
Nel trambusto,
era rimasta finora inavvertita la voce di donna Sara Alàimo che, credendo forse
a una vera invasione di demonii in quella notte di tempesta, ripeteva piú
arrabbiata che mai dalla sua remota cameretta in fondo al
corridojo:
"Pentítevi,
diavolacci!"
Il grido
strano giunse spiccatissimo in quel momento di silenzio, e tutti, tranne don
Cosmo, ne rimasero sbalorditi; anche Lando, già sbalordito per conto suo dalla
notizia che gli aveva dato lo
zio.
"Chi
è?"
"Ah, niente, donna
Sara!" rispose quegli, come se Lando e i compagni conoscessero da un pezzo la
vecchia casiera di Valsanía. "Mi sta facendo impazzire, parola d'onore... S’è
chiusa da due giorni in camera, e grida cosi... E malata, poverina. Anche
di..."
E si picchiò con
un dito la fronte.
I
quattro compagni di Lando si guardarono l'un l'altro negli occhi. Dov'erano
venuti a cacciarsi dopo tre giorni di fuga disperata? Pazzo era stato dichiarato
il vecchio, che aveva fatto loro in principio quella bella accoglienza; pazza
era dichiarata ora anche quest'altra vecchia; e che fosse perfettamente in sensi
chi dichiarava pazzi con tanta sicurezza quegli altri due, non appariva loro, in
verità, molto evidente. Finora quello zio di Lando, tranne che per i loro abiti
bagnati e inzaccherati, non aveva mostrato altra
costernazione.
" State
ancora cosí?" esclamò, difatti, meravigliato, don Cosmo, dopo aver dato quel
ragguaglio sul grido di donna Sara, e corse ad aprir la cassapanca, ov'eran
riposti i suoi abiti smessi. "Qua, qua... prendete... vi dico che c'è roba per
tutti !"
I quattro
giovani non poterono piú tenersi dal ridere, e presero ad ajutarsi a vicenda per
spiccicarsi d'addosso gli abiti inzuppati di
pioggia.
"L'importante,
v'assicuro io," diceva don Cosmo, "è questo soltanto, per ora: di non prendere
un raffreddore. Minchionatemi pure, ma
cambiatevi."
Che ci
fosse roba per tutti, intanto, era soverchia presunzione. Lino Apes, non
trovando piú nella cassapanca nessun capo di vestiario per sé, gli si fece
innanzi con la tonaca da seminarista distesa su le braccia come una bambina da
portare al
battesimo:
"Posso
prender questa?"
"E
perché no? Ah, che cos’è, la tonaca? Eh... se vi
andrà..."
E sorrise
alle risa di quei quattro che si paravano goffamente degli altri abiti, esalanti
tutti un acutissimo odore di canfora. Cataldo Sclàfani s’era acconciato con la
napoleona e, poiché gli faceva male il capo, s’era annodato alla carrettiera un
bel fazzolettone giallo, di cotone, a quadri
rossi.
La gioventú a
poco a poco riprendeva il sopravvento. Nessuno pensò piú alla disfatta,
all'incertezza dell'avvenire. Tra gli spintoni e la baja dei compagni, Lino
Apes, stremenzito in quella tonaca di seminarista, corse in cucina a riaccendere
il fuoco. Avevano fame! avevano sete! Ma qua don Cosmo sentí cascarsi l'asino:
sapeva appena dove fosse la dispensa; e la chiave forse l'aveva Mauro con
sé.
"La chiave?" gridò
l'Ingrao. "L'ho
trovata!"
E corse a
raccattare dal pianerottolo della scala quella che Mauro aveva scagliata contro
la porta, rimasta là
fuori.
"Eccola qua!
eccola qua!"
Don Cosmo
stette un pezzo a
osservarla.
"Questa?"
disse. "No... Oh che cos’è? questa è la chiave del camerone! Dove l'avete
presa?"
Nella
confusione non aveva inteso l'ultimo grido di Mauro; e, come gli fu detto che
quella chiave era stata scagliata contro Lando, subito s’impensierí e,
volgendosi a
questo:
"Ma allora
vedrai che... oh per Dio!" esclamò, "se ti ha buttato la chiave, vedrai che se
ne va davvero... Forse se n'è già
andato!"
"Andato?
dove?" domandò Lando, costernato anche lui e
addolorato.
"E chi lo
sa?" sospirò don Cosmo. E narrò in breve come già a stento fosse riuscito una
prima volta a trattenerlo; poi, siccome gli altri quattro giovani ridevano dei
pazzi propositi e del sentimento di quello strano vecchio, gli bisognò dir loro
chi fosse, che avesse fatto, che cosa fosse per lui quel camerone e che
contenesse.
"Ah si?
Anche un leopardo
imbalsamato?"
E,
incuriositi, Lino Apes, l'Ingrao, il Bruno, lo Sclàfani, appena don Cosmo e
Lando si recarono a cercar di Mauro, ripresa quella chiave, entrarono nel
camerone.
Sott'esso
appunto era la stanza di Mauro
Mortara.
Don Cosmo e
Lando, con una candela in mano, erano entrati in uno stanzino segreto, ov'era
una botola che conduceva al pianterreno della villa; senza far rumore avevano
sollevato da terra la caditoja ed erano scesi per la ripida scala di legno non
ben sicura alla cantina; di qua eran passati nel palmento; avevano poi
attraversato due ampii magazzini vuoti, uno sgabuzzino pieno di vecchi arnesi
rurali affastellati, ed erano arrivati a un uscio interno della stanza di Mauro.
Chinandosi a guardare, Lando s’accorse, dalla soglia, che c'era
lume.
"Mauro!" chiamò
allora don Cosmo.
"Mauro!"
Nessuna
risposta.
Lando tornò a
chinarsi per guardare attraverso il buco della
serratura.
Veniva, di
sú, il frastuono di quei quattro, che rincorrevano per il camerone Lino
Apes vestito da seminarista, e gridavano, e
ridevano.
Mauro
Mortara, seduto davanti a una cassa, tratta da sotto il letto, stava con le
braccia appoggiate su l'orlo del coperchio sollevato, e il viso affondato tra le
braccia.
"C'è? che fa?
domandò don
Cosmo.
Lando levò
rabbiosamente un pugno verso il soffitto, donde veniva il fracasso dei compagni.
Sentiva, tra il dispetto acerbo contro questi e contro se stesso, un vivo
rimorso della fiera offesa recata al sentimento di quel suo caro vecchio, e un
angoscioso cordoglio di non potere in quel momento unire il suo richiamo
affettuoso a quello dello
zio.
"Che fa?"
ridomandò questi, piú
piano.
Che cosa facesse
Mauro, col viso cosí nascosto tra le braccia, lo dicevano chiaramente le
medaglie che, appese al petto e ciondolanti per la positura in cui stava,
traballavano a tratti. Piangeva... sí... ecco... piangeva... e aveva alle spalle
quel suo comico zainetto che già gli aveva veduto a
Roma.
"Mauro!" chiamò
di nuovo don Cosmo.
A
questo nuovo richiamo, Lando, ancora con l'occhio al buco della serratura, gli
vide sollevar la faccia e tenerla un po' sospesa, senza tuttavia voltarla verso
l'uscio; lo vide poi alzarsi e accostarsi di furia al
tavolino.
"Ha spento il
lume," disse allo zio,
rizzandosi.
Stettero
entrambi un pezzo in ascolto, perplessi nell'attesa di sentirgli aprir la porta.
Si videro lí, allora, come imprigionati; non avevan le chiavi né dei magazzini,
né del palmento, né della cantina, e dovevano dunque ritornar sú, se volevano
impedirgli d'andare; bisognava far presto, per non dargli tempo d'allontanarsi
troppo. Ma nessun rumore veniva piú dalla
stanza.
Don Cosmo fe'
cenno al nipote di risalire, in silenzio. Quando furono nel primo dei due
magazzini, si fermò e disse
sottovoce:
"Tanto, se
vuole andare, né tu né io potremmo trattenerlo con la forza. Forse ritornerà,
quando voi sarete partiti e gli sarà sbollita la
collera.
Lando guardò
quel suo vecchio zio, da lui appena conosciuto, in quel vasto magazzino, in cui
il lume della candela projettava mostruosamente ingrandite le ombre dei loro
corpi ed ebbe l'impressione che una strana realtà impensata gli s’avventasse
agli occhi all'improvviso, con la stramba inconseguenza d'un sogno. Da un pezzo
non vedeva piú la ragione dei suoi atti che gli lasciavan tutti uno strascico di
rincrescimento, un amaro sapore d'avvilimento; ma ora, piú che mai, di fronte
alla realtà cosí stranamente spiccata di quel suo zio fuori della vita, in
quell'antica solitaria campagna, lí davanti a lui, in quel magazzino vuoto, con
quella candela in mano. Fu tentato di spegnerla, come dianzi Mauro aveva spento
il lume nella sua stanza di là. Udí la voce del vento, i boati del mare: fuori
era il bujo tempestoso; anche quello della sorte che lo aspettava. Bisognava che
in quel bujo, a ogni costo, assolutamente, trovasse una ragione d'agire, in cui
tutte le sue smanie si quietassero, tutte le incertezze del suo intelletto
cessassero dal tormentarlo. Ma quale? ma quando? ma
dove?
"Passerà," diceva
poco dopo don Cosmo, con gli angoli della bocca contratti in giú, la fronte
increspata come da onde di pensieri ricacciati indietro dal riflusso della sua
sconsolata saggezza, e con quegli occhi che pareva allontanassero e
disperdessero nella vanità del tempo tutte le contingenze amare e fastidiose
della vita. "Passerà, cari miei...
passerà..."
I quattro
giovani avevano trovato da sé la dispensa e, poiché era aperta, avevan portato
di là in tavola quanto poteva servire al loro bisogno; ora, dopo il pasto e
saziata la sete, facevano sforzi disperati per resistere alla stanchezza
aggravatasi su le loro pàlpebre
all'improvviso.
Quell'esclamazione
di don Cosmo era in risposta alla rievocazione ch’essi avevano fatta, alcuni con
cupa amarezza, altri con rabbioso rammarico e Lino Apes con la sua solita
arguzia, degli ultimi avvenimenti tumultuosi. Guardandoli come già lontanissimi
nel tempo, don Cosmo non riusciva a scorgerne piú né il senso né lo scopo. Dal
suo aspetto, agli occhi di Lando, spirava quello stesso sentimento che spira
dalle cose che assistono impassibili alla fugacità delle vicende
umane.
"Avete visto il
leopardo?
"Sí, bello...
bello" brontolò l'Ingrao, cacciando il volto, deturpato dall'atra voglia di
sangue, tra le braccia appoggiate su la
tavola."
"Quello era un
leopardo vivo!"
Lino
Apes spalancò gli occhi e domandò, quasi con
spavento:
"Mangiava?"
"Lo
dico," riprese don Cosmo, "perché ora, cari miei, è pieno di stoppa e non mangia
piú. E quella lettera di mio padre? L'avete letta? Un foglietto di carta
sbiadito... E la scrisse una mano viva, come questa mia, guardate... Che cos’è
ora? Quel povero pazzo l'ha messa in cornice... Luigi Napoleone... il colpo di
Stato... gli avvenimenti della
Francia..."
Raccolse le
dita delle mani a pigna e le scosse in aria, come a dire: "Che ce n'è piú? che
senso hanno?".
"Realtà
d'un momento...
minchionerie..."
Si
alzò; s’appressò ai vetri del balcone che da un pezzo non facevano piú rumore, e
si voltò al
nipote:
"Senti che
silenzio?" disse. "Ti do la consolante notizia che il vento è
cessato..."
"Cessato?"
domandò Cataldo Sclàfani, levando di scatto dalle braccia, che teneva anche lui
appoggiate alla tavola, la faccia spiritata, da convalescente, col fazzoletto
giallo tirato fin su le ciglia. "Bene bene... C'imbarcheremo qua... Buona
notte!"
E si ricompose
a dormire.
"Cosí tutte
le cose..." sospirò don Cosmo, mettendosi a passeggiare per la sala; e seguitò,
fermandosi di tratto in tratto: "Una sola cosa è triste, cari miei: aver capito
il giuoco! Dico il giuoco di questo demoniaccio beffardo che ciascuno di noi ha
dentro e che si spassa a rappresentarci di fuori, come realtà, ciò che poco dopo
egli stesso ci scopre come una nostra illusione, deridendoci degli affanni che
per essa ci siamo dati, e deridendoci anche, come avviene a me, del non averci
saputo illudere, poiché fuori di queste illusioni non c'è piú altra realtà... E
dunque, non vi lagnate! Affannatevi e tormentatevi, senza pensare che tutto
questo non conclude. Se non conclude, è segno che non deve concludere, e che è
vano dunque cercare una conclusione. Bisogna vivere, cioè illudersi; lasciar
giocare in noi il demoniaccio beffardo finché non si sarà stancato; e pensare
che tutto questo passerà...
passerà..."
Guardò in
giro alla tavola e mostrò a Lando i suoi compagni già
addormentati.
"Anzi,
vedi? è già
passato..."
E lo lasciò
lí solo, innanzi alla
tavola.
Lando mirò i
penosi atteggiamenti sguajati, le comiche acconciature, le facce disfatte dalla
stanchezza de' suoi amici e invidiò il loro sonno e ne provò sdegno allo stesso
tempo. Avevano potuto scherzare; ora potevano dormire, dimentichi che dei
disordini provocati dalle loro predicazioni a una gente oppressa da tante
iniquità ma ancor sorda e cieca, s’avvaleva ora il governo per calpestare ancora
una volta quella terra, che sola, senza patti, con impeto generoso s’era data
all'Italia e in premio non ne aveva avuto altro che la miseria e l'abbandono.
Potevano dormire, quei suoi amici, dimentichi del sangue di tante vittime,
dimentichi dei compagni caduti in mano della polizia, i quali certo, domani,
sarebbero stati condannati dai tribunali
militari...
Si alzò
anche lui; si recò alla sala d'ingresso, desideroso d'uscire all'aperto, a
trarre una boccata d'aria, per liberarsi dell'angoscia che l'opprimeva, ora che
il vento e la pioggia erano cessati. Ma innanzi alla porta si fermò, vinto
dall'odore di antica vita che covava in quella villa ove suo nonno era vissuto,
ove con quel desolato sentimento di precarietà lasciava invano passare i suoi
tristi giorni quel suo zio, ove Mauro Mortara... Subito si scosse al ricordo del
suo vecchio snidato da lui crudelmente negli ultimi giorni da quella dimora che
il culto di tante memorie gli rendeva sacra; piú che per tutto il resto sentí
dispetto e onta dell'opera sua e dei suoi compagni per quest'ultima conseguenza
ch’essa cagionava: di cacciar via da Valsanía il suo vecchio custode, colui che
gli appariva da un pezzo come la piú schietta incarnazione dell'antica anima
isolana; e corse per tentar di placarlo, per gridargli il suo pentimento e
forzarlo a rimanere. La porta della stanza di Mauro era aperta; la stanza era al
bujo e vuota.
Su la
soglia stavano incerti e come smarriti i tre mastini. Non abbajarono. Anzi, gli
si fecero attorno ansiosi, drizzando le aguzze orecchie, scotendo la breve coda,
quasi gli chiedessero perché il loro padrone, seguito da essi come ogni notte, a
un certo punto si fosse voltato a cacciarli, a rimandarli indietro rudemente:
perché?
Da un balcone
in fondo venne la voce di don
Cosmo:
"Se n'è
andato?"
"Sí," rispose
Lando.
Don Cosmo non
disse piú nulla. Nella tetraggine, solenne e come sospesa, della notte ancora
inquieta, rimase a udire il fragore del mare sotto le frane di Valsanía e
l'abbajare piú o men remoto dei cani; poi, con una mano sul capo calvo, si
affisò ad alcune stelle, chiodi del mistero com'egli le chiamava apparse in una
cala di cielo, tra le nuvole squarciate.
Senza
curarsi del fango della strada, dove i suoi stivaloni ferrati affondavano e
spiaccicavano; con gli occhi aggrottati sotto le ciglia e quasi chiusi tutto il
viso contratto dallo sdegno; un agro bruciore al petto e la mente occupata da
una tenebra piú cupa di quella che gli era intorno, Mauro Mortara era, intanto,
piú d'un miglio lontano da Valsanía. Andava nella notte ancora agitata dagli
ultimi fremiti della tempesta, investito di tratto in tratto da raffiche gelate
che gli spruzzavano in faccia la pioggia stillante dagli alberi, di qua e di là
dalle muricce, lungo lo stradone. Andava curvo, a testa bassa, il fucile appeso
a una spalla, le due pistole ai fianchi, un pugnale col fodero in cuojo alla
cintola, lo zàino alle spalle, il berretto villoso in capo e le medaglie al
petto. Saliva verso Girgenti; ma voleva andare piú lontano; lasciare a un certo
punto lo stradone e mettersi per la linea ferroviaria; attraversare una breve
galleria, sboccare in Val Sollano, e di lí, nei pressi della stazione, avviarsi
per un altro stradone al paese di Favara, ove, in un poderetto di là
dall'abitato, viveva un suo nipote contadino, figlio d'una sorella morta da
tanti anni, il quale piú volte gli aveva offerto tetto e cure nel caso che,
infermo, avesse voluto ritirarsi da Valsanía. Andava lí, da quel suo nipote; ma
non ci voleva pensare. La testa, il cuore gli erano rimasti come pestati,
schiacciati e macerati dallo stropiccío dei passi di quei giovani, che per
supremo oltraggio s’erano introdotti a profanare il camerone del
Generale, mentr'egli nella sua stanza, sotto, s'apparecchiava a partire. Non
voleva piú pensare né sentir nulla; nulla immaginare dei giorni che gli
restavano. Tuttavia, il cuore calpestato, a poco a poco, sotto l'assillo del
pensiero che, forse, quel suo nipote contadino gli aveva offerto ricetto perché
s’aspettava da lui chi sa quali tesori, cominciò a rimuoverglisi dentro, a
riallargarglisi in émpiti d'orgoglio. Soltanto da giovane e dalle mani del
Generale, fino alla partenza per l'esilio a Malta, egli aveva avuto un salario.
Ritornato a Valsanía, dopo le vicende fortunose della sua vita errabonda, per
mare, in Turchia, nell'Asia Minore, in Africa, e dopo la campagna del Sessanta,
aveva prestato sempre la sua opera, colà, disinteressatamente. E ora, ecco, a
settantotto anni, se ne partiva povero, senza neppure un soldo in tasca, con la
sola ricchezza di quelle sue medaglie al petto. Ma appunto perché questa sola
ricchezza aveva cavato dall'opera di tutta la sua vita, "Sciocco," poteva dire a
quel suo nipote, "tu sei padrone di tre palmi di terra; e se te ne scosti d'un
passo, non sei piú nel tuo; io, invece, sono qua, sempre nel mio ovunque posi il
piede, per tutta la Sicilia! Perché io la corsi da un capo all'altro per
liberarla dal padrone che la teneva
schiava!
Preso cosí
l'aire, la sua esaltazione crebbe di punto in punto, fomentata per un verso dal
cordoglio d'essersi strappato per sempre da Valsanía, e per l'altro dal bisogno
di riempire con la rievocazione di tutti i ricordi che potevano dargli conforto
il vuoto che si vedeva
davanti.
Rideva e
parlava forte e gestiva, senza badare alla via: rideva al binario della linea
ferroviaria, ai pali del telegrafo, frutti della Rivoluzione, e si picchiava
forte il petto e
diceva:
"Che me
n'importa? Io... io... la Sicilia... oh Marasantissima... vi dico la Sicilia...
Se non era per la Sicilia... Se la Sicilia non voleva... La Sicilia si mosse e
disse all'Italia: eccomi qua! vengo a te! Muoviti tu dal Piemonte col tuo Re io
vengo di qua con Garibaldi, e tutti e due ci uniremo a Roma! Oh Marasantissima,
lo so: Aspromonte, ragione di Stato, lo so! Ma la Sicilia voleva far prima, di
qua... sempre la Sicilia... E ora quattro canaglie hanno voluto disonorarla...
Ma la Sicilia è qua, qua, qua con me... la Sicilia, che non si lascia
disonorare, è qua con
me!"
Si trovò tutt'a un
tratto davanti alla breve galleria che sbocca in Val Sollano, e stupí d'esservi
giunto cosí presto, senza saper come; prima d'entrarvi, guardò in cielo per
conoscere dalle stelle che ora fosse. Potevano essere le tre del mattino. Forse
all'alba sarebbe alla Favara. Attraversata la galleria e giunto nei pressi della
stazione di Girgenti, al punto in cui s’imbocca lo stradone che conduce a quel
grosso borgo tra le zolfare, dovette però fermarsi davanti alla sfilata di due
compagnie di soldati che, muti, ansanti, a passo accelerato, si recavano di
notte colà. Dal cantoniere di guardia ebbe notizia che, nonostante la
proclamazione dello stato d'assedio, alla Favara tutti i socii del Fascio
disciolto, nelle prime ore della sera, s’erano dati convegno nella piazza e
avevano assaltato e incendiato il municipio, il casino dei nobili, i casotti del
dazio, e che gl’incendii e la sommossa duravano ancora e già c'erano parecchi
morti e molti
feriti.
"Ah sí? Ah sí?"
fremette Mauro.
"Ancora?"
E si svincolò
dalle braccia di quel cantoniere che voleva trattenerlo, vedendolo cosí armato,
per salvarlo dal rischio a cui si esponeva d'esser catturato da quei
soldati.
"Io, dai
soldati d'Italia?"
E
corse per unirsi a
loro.
Una gioja
impetuosa, frenetica, gli ristorò le forze che già cominciavano a mancargli;
ridiede l'antico vigore alle sue vecchie gambe garibaldine; l'esaltazione
diventò delirio; sentí veramente in quel punto d'esser la Sicilia, la vecchia
Sicilia che s’univa ai soldati d'Italia per la difesa comune, contro i nuovi
nemici.
Divorò la via,
tenendosi a pochi passi da quelle due compagnie che a un certo punto, per
l'avviso di alcuni messi incontrati lungo lo stradone, s’eran lanciate di
corsa.
Quando, alla
prima luce dell'alba, tutto inzaccherato da capo a piedi, trafelato, ebbro della
corsa, stordito dalla stanchezza, si cacciò coi soldati nel paese, non ebbe
tempo di veder nulla, di pensare a nulla: travolto, tra una fitta sassajola, in
uno scompiglio furibondo, ebbe come un guazzabuglio di impressioni cosí rapide e
violente da non poter nulla avvertire, altro che lo strappo spaventoso d'una
fuga compatta che si precipitava urlante; un rimbombo tremendo; uno stramazzo
e...
La piazza, come
schiantata e in fuga anch’essa dietro gli urli del popolo che la disertava,
appena il fumo dei fucili si diradò nel livido smortume dell'alba, parve agli
occhi dei soldati come trattenuta dal peso di cinque corpi inerti, sparsi qua e
là.
Un bisogno strano,
invincibile, obbligò il capitano a dare subito ai suoi soldati un comando
qualunque, pur che fosse. Quei cinque corpi rimasti là, traboccati sconciamente,
in una orrenda immobilità, su la motriglia della piazza striata dall'impeto
della fuga, erano alla vista d'una gravezza insopportabile. E un furiere e un
caporale, al comando del capitano, si mossero sbigottiti per la piazza e si
accostarono al primo di quei cinque
cadaveri.
Il furiere si
chinò e vide ch’esso, caduto con la faccia a terra, era armato come un brigante.
Gli tolse il fucile dalla spalla e, levando il braccio, lo mostrò al capitano;
poi diede quel fucile al caporale, e si chinò di nuovo sul cadavere per
prendergli dalla cintola prima una e poi l'altra pistola, che mostrò ugualmente
al capitano. Allora questi, incuriosito, sebbene avesse ancora un forte tremito
a una gamba e temesse che i soldati se ne potessero accorgere, si appressò anche
lui a quel cadavere, e ordinò che lo rimovessero un poco per vederlo in faccia.
Rimosso, quel cadavere mostrò sul petto insanguinato quattro
medaglie.
I tre,
allora, rimasero a guardarsi negli occhi, stupiti e sgomenti.