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Il nostro personaggio giace dunque da centinaia di milioni di anni, legato
a tre atomi d'ossigeno e ad uno di calcio, sotto forma di roccia calcarea:
ha già una lunghissima storia cosmica alle spalle, ma la ignoreremo. Per
lui il tempo non esiste, o esiste solo sotto forma di pigre variazioni di
temperatura, giornaliere o stagionali, se, per fortuna di questo racconto,
la sua giacitura non è troppo lontana dalla superficie del suolo. La sua
esistenza, alla cui monotonia non si può pensare senza orrore, è
un'alternanza spietata di caldi e di freddi, e cioè di oscillazioni
(sempre di ugual frequenza) un po' più strette ed un po' più ampie: una
prigionia, per lui potenzialmente vivo, degna dell'inferno cattolico. A
lui, fino a questo momento, si addice dunque il tempo presente, che è
quello della descrizione, anzichè uno dei passati, che sono i tempi di
chi racconta: è congelato in un eterno presente, appena scalfito dai
fremiti moderati dell'agitazione termica.
Ma, appunto per la fortuna di chi racconta, che in caso diverso avrebbe
finito di raccontare, il banco calcareo di cui l'atomo fa parte giace in
superficie. Giace alla portata dell'uomo e del suo piccone (onore al
piccone ed ai suoi più moderni equivalenti: essi sono tuttora i più
importanti intermediari nel millenario dialogo fra gli elementi e l'uomo):
in un qualsiasi momento, che io narratore decido per puro arbitrio essere
nell'anno 1840, un colpo di piccone lo staccò e gli diede l'avvio verso
il forno a calce, precipitandolo nel mondo delle cose che mutano. Venne
arrostito affinchè si separasse dal calcio, il quale rimase per così
dire coi piedi in terra e andò incontro ad un destino meno brillante che
non narreremo; lui, tuttora fermamente abbarbicato a due dei tre suoi
compagni ossigeni di prima, uscì per il camino e prese la via dell'aria.
La sua storia, da immobile, si fece tumultuosa.
Fu colto dal vento, abbattuto al suolo, sollevato a dieci chilometri. Fu
respirato da un falco, discese nei suoi polmoni precipitosi, ma non
penetrò nel suo sangue ricco, e fu espulso. Viaggiò col vento per otto
anni: ora alto, ora basso, sul mare e fra le nubi, sopra foreste, deserti
e smisurate distese di ghiaccio; poi incappò nella cattura e
nell'avventura organica.
Il carbonio, infatti, è un elemento singolare: è il solo che sappia
legarsi con se stesso in lunghe catene stabili senza grande spesa d
energia, ed alla vita sulla terra (la sola che finora conosciamo)
occorrono appunto lunghe catene. Perciò il carbonio è l'elemento chiave
della sostanza vivente: ma la sua promozione, il suo ingresso nel mondo
vivo, non è agevole, e deve seguire un cammino obbligato, intricato,
chiarito (e non ancora definitivamente) solo in questi ultimi anni. Se
l'organicazione del carbonio non si svolgesse quotidianamente intorno a
noi, sulla scala dei miliardi di tonnellate alla settimana, dovunque
affiori il verde di una foglia, le spetterebbe di pieno diritto il nome di
miracolo.
L'atomo di cui parliamo, accompagnato dai suoi due satelliti che lo
mantengono allo stato di gas, fu dunque condotto dal vento, nell'anno
1848, lungo un filare di viti. Ebbe la fortuna di rasentare una foglia, di
penetrarvi, e di esservi inchiodato da un raggio di sole. Se qui il mio
linguaggio si fa impreciso ed allusivo, non è solo per mia ignoranza:
questo avvenimento decisivo, questo fulmineo lavoro a tre, dell'anidride
carbonica, della luce e del verde vegetale, non è stato finora descritto
in termini definitivi, e forse non lo sarà per molto tempo ancora, tanto
esso è diverso da quell'altra chimica "organica" che è opera
ingombrante, lenta e poderosa dell'uomo: eppure questa chimica fine e
svelta è stata "inventata" due o tre miliardi di anni addietro
dalle nostre sorelle silenziose, le piante, che non sperimentano e non
discutono, e la cui temperatura è identica a quella dell'ambiente in cui
vivono. Se comprendere vale farsi un'immagine, non ci faremo mai
un'immagine di un happening la cui scala è il milionesimo di millimetro,
il cui ritmo è il milionesimo di secondo, ed i cui attori sono per
loro essenza invisibile. Ogni descrizione verbale sarà mancante, ed una
varrà l'altra: valga quindi la seguente.
Entra nella foglia, collidendo con altre innumerevoli (ma qui inutili)
molecole di azoto ed ossigeno. Aderisce ad una grossa e complicata
molecola che lo attiva, e simultaneamente riceve il decisivo messaggio dal
cielo, sotto la forma folgorante di un pacchetto di luce solare: in un
istante, come un insetto preda del ragno, viene separato dal suo ossigeno,
combinato con idrogeno e (si crede) fosforo, ed infine inserito in una
catena, lunga o breve non importa, ma è la catena della vita. Tutto
questo avviene rapidamente, in silenzio, alla temperatura e pressione
dell'atmosfera, e gratis: cari colleghi, quando impareremo a fare
altrettanto saremo "sicut Deus", ed avremo anche risolto il
problema della fame nel mondo.
Ma c'è di più e di peggio, a scorno nostro e della nostra arte.
L'anidride carbonica, e cioè la forma aerea del carbonio di cui abbiamo
finora parlato: questo gas che costituisce la materia prima della vita, la
scorta permanente a cui tutto ciò che cresce attinge, e il destino ultimo
di ogni carne, non è uno dei componenti principali dell'aria, bensì un
rimasuglio ridicolo, un'"impurezza", trenta volte meno
abbondante dell'argon di cui nessuno si accorge. L'aria ne contiene il
0,03 per cento: se l'Italia fosse l'aria, i soli italiani abilitati ad
edificare la vita sarebbero ad esempio i 15000 abitanti di Milazzo, in
provincia di Messina. Questo, in scala umana, è un'acrobazia ironica, uno
scherzo da giocoliere, una incomprensibile ostentazione di
onnipotenza-prepotenza, poichè da questa sempre rinnovata impurezza
dell'aria veniamo noi: noi animali e noi piante, e noi specie umana, coi
nostri quattro miliardi di opinioni discordi, i nostri millenni di storia,
le nostre guerre e vergogne e nobiltà e orgoglio. Del resto, la nostra
stessa presenza sul pianeta diventa risibile in termini geometrici: se
l'intera umanità, circa 250 milioni di tonnellate, venisse ripartita come
un rivestimento di spessore omogeneo su tutte le terre emerse, la
"statura dell'uomo" non sarebbe visibile ad occhio nudo; lo
spessore che si otterrebbe sarebbe di circa sedici millesimi di
millimetro.
Ora il nostro atomo è inserito: fa parte di una struttura, nel senso
degli architetti; si è imparentato e legato con cinque compagni, talmente
identici a lui che solo la finzione del racconto mi perette di
distinguerli. E' una bella struttura ad anello, un esagono quasi regolare,
che però va soggetto a delicati scambi ed equilibri con l'acqua in cui
sta sciolto; perchè ormai sta sciolto in acqua, anzi, nella linfa della
vite, e questo, di stare sciolti, è obbligo e privilegio di tutte le
sostanze che sono destinate a ( stavo per dire "desiderano")
trasformarsi. Se poi qualcuno volesse proprio sapere perchè un anello, e
perchè esagonale, e perchè solubile in acqua, ebbene, si dia pace:
queste sono fra le non molte domande a cui la nostra dottrina sa
rispondere con un discorso persuasivo, accessibile a tutti, ma fuori luogo
qui.
E' entrato a far parte di una molecola di glucosio, tanto per dirla
chiara: un destino nè carne nè pesce, mediano, che lo prepara ad un
primo contatto col mondo animale, ma non lo autorizza alla responsabilità
più alta, che è quella di far parte di un edificio proteico. Viaggiò
dunque, col lento passo dei succhi vegetali, dalla foglia per il picciolo
e per il tralcio fino al tronco, e di qui discese fino a un grappolo quasi
maturo. Quello che seguì è di pertinenza dei vinai: a noi interessa solo
precisare che sfuggì (con nostro vantaggio, perchè non lo sapremmo
ridurre in parole) alla fermentazione alcolica, e giunse al vino senza
mutare natura.
E' destino del vino essere bevuto, ed è destino del glucosio essere
ossidato. Ma non fu ossidato subito: il suo bevitore se lo tenne nel
fegato per più d'una settimana, bene aggomitolato e tranquillo, come
alimento di riserva per uno sforzo improvviso; sforzo che fu costretto a
fare la domenica seguente, inseguendo un cavallo che si era adombrato.
Addio alla struttura esagonale: nel giro di pochi istanti il gomitolo fu
dipanato e ridivenne glucosio, questo venne trascinato dalla corrente del
sangue fino ad una fibrilla muscolare di una coscia, e qui brutalmente
spaccato in due molecole di acido lattico, il tristo araldo della fatica:
solo più tardi, qualche minuto dopo, l'ansito dei polmoni potè procurare
l'ossigeno necessario ad ossidare con calma quest'ultimo. Così una nuova
molecola d'anidride carbonica ritornò all'atmosfera, ed una parcella
dell'energia che il sole aveva ceduta al tralcio passò dallo stato di
energia chimica a quello di energia meccanica e quindi si adagiò nella
ignava condizione di calore, riscaldando impercettibilmente l'aria smossa
dalla corsa ed il sangue del corridore. "Così è la vita",
benchè raramente essa venga così descritta: un inserirsi, un derivare a
suo vantaggio un parassitare il cammino in giù dell'energia, dalla sua
nobile forma solare a quella degradata di calore a bassa temperatura. Su
questo cammino all'ingiù, che conduce all'equilibrio cioè alla morte, la
vita disegna un'ansa e ci si annida.
Siamo di nuovo anidride carbonica, del che ci scusiamo: è un passaggio
obbligato, anche questo; se ne possono immaginare o inventare altri, ma
sulla terra è così. Di nuovo vento, che questa volta porta lontano:
supera gli Appennini e l'Adriatico, la Grecia l'Egeo e Cipro: siamo sul
Libano e la danza si ripete. L'atomo di cui ci occupiamo è ora
intrappolato in una struttura che promette di durare a lungo: è il tronco
venerabile di un cedro, uno degli ultimi; è ripassato per gli stadi che
abbiamo già descritti, ed il glucosio di cui fa parte appartiene, come il
grano di un rosario, ed una lunga catena di cellulosa. Non è più la
fissità allucinante e geologica della roccia, non sono più i milioni di
anni, ma possiamo bene parlare di secoli, perchè il cedro è un albero
longevo. E' in nostro arbitrio abbandonarvelo per un anno o per
cinquecento: diremo che dopo vent'anni (siamo nel 1868) se ne occupa un
tarlo. Ha scavato la sua galleria fra il tronco e la corteccia, con la
voracità ostinata e cieca della sua razza; trapanando è cresciuto, il
suo cunicolo è andato ingrossando. Ecco, ha ingoiato ed incastonato in se
stesso il soggetto di questa storia; poi si è impupato, ed è uscito in
primavera sotto forma di una brutta farfalla grigia che ora si sta
asciugando al sole, frastornata ed abbagliata dallo splendore del giorno:
lui è là, in uno dei mille occhi dell'insetto, e contribuisce alla
visione sommaria e rozza con cui esso si orienta nello spazio. L'insetto
viene fecondato, depone le uova e muore: il piccolo cadavere giace nel
sottobosco, si svuota dei suoi umori, ma la corazza di chitina resiste a
lungo, quasi indistruttibile. La neve e il sole ritornano sopra di lei
senza intaccarla: è sepolta dalle foglie morte e dal terriccio, è
diventata una spoglia, una "cosa", ma la morte degli atomi, a
differenza della nostra, non è mai irrevocabile. Ecco al lavoro gli
onnipresenti, gli instancabili ed invisibili becchini del sottobosco, i
microrganismi dell'humus. La corazza, coi suoi occhi ormai ciechi, è
lentamente disintegrata, e l'ex bevitore, ex cedro, ex tarlo ha nuovamente
preso il volo.
Lo lasceremo volare per tre volte intorno al mondo, fino al 1960, ed ha
giustificazione di questo intervallo così lungo rispetto alla misura
umana faremo notare che esso è invece assai più breve della media:
questa, ci si assicura, è di duecento anni. Ogni duecento anni, ogni
atomo di carbonio che non sia congelato in materiali ormai stabili (come
appunto il calcare, o il carbon fossile, o il diamante, o certe materie
plastiche) entra e rientra nel ciclo della vita, attraverso la porta
stretta della fotosintesi. Esistono altre porte? Sì, alcune sintesi
create dall'uomo; sono un titolo di nobiltà per l'uomo-fabbro, ma finora
la loro importanza quantitativa è trascurabile. Sono porte ancora molto
più strette di quella del verde vegetale: consapevolmente o no, l'uomo
non ha cercato finora di competere con la natura su questo terreno, e
cioè non si è sforzato di attingere dall'anidride carbonica dell'aria il
carbonio che gli è necessario per nutrirsi, per vestirsi, per
riscaldarsi, e per i cento altri bisogni più sofisticati della vita
moderna. Non lo ha fatto perchè non nè ha avuto bisogno: ha trovato, e
tuttora trova (ma per quanti decenni ancora?), gigantesche riserve di
carbonio già organicato, o almeno ridotto. Oltre al mondo vegetale ed
animale, queste riserve sono costituite dai giacimenti di carbon fossile e
di petrolio: ma anche questi sono eredità di attività fotosintetiche
compiute in epoche lontane, per cui si può bene affermare che la
fotosintesi non è solo l'unica via per cui il carbonio si fa vivente, ma
anche la sola per cui l'energia del sole si fa utilizzabile chimicamente.
Si può dimostrare che questa storia, del tutto arbitraria, è tuttavia
vera. Potrei raccontare innumerevoli storie diverse, e sarebbero tutte
vere: tutte letteralmente vere, nella natura dei trapassi, nel loro ordine
e nella loro data. Il numero degli atomi è tanto grande che se ne
troverebbe sempre uno la cui storia coincida con una qualsiasi storia
inventata a capriccio. Potrei raccontare storie a non finire, di atomi di
carbonio che si fanno colore o profumo dei fiori; di altri che, da alghe
minute a piccoli crostacei, a pesci via via più grossi, ritornano
anidride carbonica nelle acque del mare, in un perpetuo spaventoso
girotondo di vita e di morte, in cui ogni divoratore è immediatamente
divorato; di altri che raggiungono invece una decorosa semi-eternità
nelle pagine ingiallite di qualche documento d'archivio, o nella tela di
un pittore famoso; di quelli cui toccò il privilegio di fare parte di un
granello di polline, e lasciarono la loro impronta fossile nelle rocce per
la nostra curiosità; di altri ancora che discesero a far parte dei
misteriosi messaggeri di forma del seme umano, e parteciparono al sottile
processo di scissione duplicazione e fusione da cui ognuno di noi è nato.
Ne racconterò invece soltanto ancora una, la più segreta, e la
racconterò con umiltà e il ritegno di chi sa fin dall'inizio che il suo
tema è disperato, i mezzi fievoli, e il mestiere di rivestire i fatti con
parole fallimentare per sua profonda essenza.
E' di nuovo fra noi, in un bicchiere di latte. E' inserito in una lunga
catena, molto complessa, tuttavia tale che quasi tutti i suoi anelli sono
accetti dal corpo umano. Viene ingoiato: e poichè ogni struttura vivente
alberga una selvaggia diffidenza verso ogni apporto di altro materiale di
origine vivente, la catena viene meticolosamente frantumata, ed i
frantumi, uno per uno, accettati o respinti. Uno, quello che ci sta a
cuore, varca la soglia intestinale ed entra nel torrente sanguigno: migra,
bussa alla porta di una cellula nervosa, entra e soppianta un altro
carbonio che ne faceva parte. Questa cellula appartiene ad un cervello, e
questo è il mio cervello, di me che scrivo, e la cellula in
questione, ed in essa l'atomo in questione, è addetta al mio scrivere, in
un gigantesco minuscolo gioco che nessuno ha ancora descritto. E' quella
che in questo istante, fuori da un labirintico intreccio di sì e di no,
fa sì che la mia mano corra in un certo cammino sulla carta, la segni di
queste volute che sono segni; un doppio scatto, in su ed in giù, fra due
livelli d'energia guida questa mia mano ad imprimere sulla carta questo
punto: questo.
[Il
racconto riportato è stato tratto da: Il Sistema Periodico, Primo
Levi, Ed. Einaudi]
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