OLTRE IL TEATRO

Per una Drammaturgia delle Arti

di Massimo Zanasi

1. Il teatro impossibile.

Tutto è già stato detto, tutto è già stato scritto. Tutto e il contrario di tutto. Il teatro contemporaneo va’ avanti a forza di volontà, come la vita, e quindi  partecipa  ad una continua crescita di bisogni, una spirale di ansia per il loro soddisfacimento ed un dolore sordo per la loro ineluttabile persistenza.Alla falsa gioia degli anni scorsi, all’anestesia della paura e all’edonistico appagamento degli scopi che ha permesso alla volontà di acquietarsi, è subentrato il sentimento della noia dell’esistenza, ancora più distruttivo della volontà. La maggior parte del teatro odierno partecipa a  questo naufragio dove gli individui e le poetiche s’incontrano in una futile gara di sopraffazioni, incapaci di togliersi dagli occhi la sabbia che di continuo vi sparge il presente.

Ma allora come può darsi oggi un teatro che sia differente, cioè che “differisca” da tutto questo senza per ciò coltivare razionali speranze sul positivo risolversi della sua stessa esistenza? In tre parole, un teatro senza spettacolo, un teatro  inutile  e finalmente  consapevole della sua assurdità? Intanto, impostando alcune precisazioni. Il teatro non rientra nel circuito della volontà, è un'avventura senza spazio, tempo, causalità. Anche quando cerca di ricreare un mondo vi si perde dentro, è una (de)generazione che elude la possibilità di essere al servizio di un volere come invece è tipico della conoscenza che deriva dalla rappresentazione.

Il teatro è trasfigurazione poetica,  non comunicazione postelegrafonica. Al sapere razionale, sempre compromesso con il disegno occulto della volontà, si contrappone così  la contemplazione intuitiva del genio teatrico.È questo tipo di sapienza inutile  che differenzia il compositore teatrico (l’artifex) e ne fa una specie a parte. Il suo contemplare è decondizionato dalle rappresentazioni comuni, è semmai un lungo e tortuoso esercizio del silenzio. Ma il silenzio va detto, perché possa essere percepito. Il silenzio va intonato perché ci si possa mettere all’ascolto,  come antenne umane, del rumore di fondo dell’universo.

E qui l’accento teatrale cade proprio sulla nozione di epoché : termine che significa alla lettera «sospensione» e che in filosofia , non certo nello spettacolo degli assessori, designa l'attitudine al depensamento, l'atteggiamento comportamentale  che sospende l’ovvietà del mondo, anche delle parole nel loro significare quotidiano, per cercare di cogliere i modi e le condizioni del suo darsi. È come un ritornare presso di sé per capire il senso autentico dell’esperienza e perdercisi dentro. Ma il teatro come epoché non è da intendersi come un modo di rimettere al centro di tutto il soggetto, quello stesso che, a partire da Cartesio, ha ridotto tutto il mondo a oggetto manipolabile e se stesso a pura funzione manipolatoria. Fare teatro, averne cura, manipolare realmente (dall’interno della cosa), infatti, può essere un’esperienza fondamentalmente statica che riporta l’individuo nella deiezione, nella chiacchiera, nel suo meschino essere artista, o, al contrario, il teatro può essere un’esperienza che deriva da una possibilità che l’artifex reperisce in se stesso.

In questo caso l’artifex trascende le condizioni dell’attore, dell’autore e del regista insieme, per riassumerle su di sé, per introdurre il proprio progetto, la propria s-composizione scenica: esce cioè dall’anonimato del “si” (ciò che si  dice, ciò che si  fa comunemente) e tenta un’esperienza autentica. Insistendo infine sugli aspetti etici ed estetici dell’epoché, per cui essa non è solo riflessione conoscitiva ma anzitutto un ritirarsi dal gioco affannoso degli interessi quotidiani, questo benedetto (quando è detto bene) teatro potrebbe offrire numerose ragioni per ripensare il suo stesso linguaggio e, più in generale, per rifare i conti con la radicalità di ciò che l’artifex ha da dire anche a chi non se ne occupa per mestiere.

2. La scena possibile

Il teatro non esiste, non è mai esistito. Esistono «i teatri» – semmai –, che vanno a costituire quel ben più ampio territorio di interazioni linguistiche che è possibile trovare sintetizzato nel termine scena, proprio così come esistono «le filosofie» e non un unico modello di pensiero. Perciò parlare di teatro oggi significa dover finalmente riprendere in considerazione tutte le specificità che lo costituiscono, tutti i linguaggi, i codici, le poetiche di cui è formato, per proiettarlo nella dimensione di un continuo autosuperamento, al di là dei tradizionali limiti politici, tecnici ed economici che lo hanno condizionato nel tempo. E' estremamente riduttivo e fuorviante pensare al teatro unicamente attraverso i modelli del cosiddetto teatro di regìa  che, almeno in Europa, dagli anni venti ad oggi ha incanalato il senso di qualsivoglia messinscena sulle orme di una convenzione che segna il passaggio da una gestione paleocapitalistica dello spettacolo teatrale ad un’altra che tende alla sua industrializzazione.In questo passaggio è in realtà concentrato il nucleo del problema artistico che nasce con la modernità, e non solo per quanto concerne i linguaggi dello spettacolo.

Proprio contemporaneamente al fiorire delle grandi avanguardie artistiche internazionali del novecento, infatti, nasceva la figura del regista come coordinatore generale dell’evento spettacolare, posto in verità a guardia del testo (del copione) e delle istanze dell’autore, considerati come l’espressione più autentica del mercato borghese mediato da pericolosi autoritarismi ed altrettanti protezionismi(1). L’annientamento della figura dell’attore mattatore (dell’attore–autore–regista) costituisce forse il prezzo più salato che il teatro odierno ha dovuto pagare per la sua industrializzazione e modernizzazione. Il momento in cui il pubblico non si accontenta più delle performances individuali ed esige, abilmente condizionato, delle messinscene d’insieme, coincide sempre con quei tentativi maldestri di rilanciare una perenne rivoluzione industriale e, più in generale, con il declino di un certo tipo di individualismo poetico in un sistema complesso che si realizza come società di massa(2).

Ma l’arte, come tutto ciò che si sviluppa nelle società stratificate del nostro pianeta, è anche inserita in un sistema di interdipendenze: come il ciclo dell’ossigeno è legato a quello del carbonio, così i cicli del teatro sono spesso legati a quelli della pittura, della musica, della letteratura. Nell’epoca degli spostamenti veloci, dell’informazione in tempo reale, delle aree interetniche e degli interscambi culturali, la scena comunica con i suoni, le immagini e i concetti che viaggiano più o meno contemporaneamente. Certo, un’arte non aspetta l’altra, l’evoluzione o le modificazioni dell’una non dipendono necessariamente da quelle dell’altra, ma se queste espressioni si sentono a vicenda esse non possono più fingere di esistere in modo isolato.Questo determina in chi lavora nei singoli «campi» una consapevolezza interattiva che non si traduce automaticamente in formule grossolane come quella tanto di moda di contaminazione. Anzi, diventa in questo frangente indispensabile distinguere i fenomeni di intrattenimento d’avanguardia – essenzialmente scenografici ed effettistici –, dalle vere e proprie ricerche, composizioni, possessioni e de-costruzioni che vengono trasversalmente effettuate sui linguaggi dell’arte da poeti, visionari, sciamani e attanti che non si qualificano sulla base di una appartenenza a questa o quella corrente (o moda), ma semplicemente per l’intensità delle loro opere e dei propri particolari procedimenti(3).

InterAzioni – il progetto da noi inserito nei programmi di studio e di ricerca artistica dell’Associazione Culturale Teatrale ARKA (H.C.E.) – nasce pertanto dalla rinnovata esigenza di confrontarsi parallelamente sui diversi linguaggi dell’arte contemporanea che ispirano il teatro come scrittura scenica vivace ed inquietante, e non solo come fattore d’intrattenimento. Questa idea di un laboratorio permanente di pensieri scenici e relative opere, ha richiesto sinora la definizione di contatti stabili ed estremamente stimolanti con altre direzioni artistiche con le quali poter ricomporre (non solo in Europa) i risultati di un particolare settore della sperimentazione che per sua natura non fabbrica quasi mai dei prodotti di consumo immediato. Perciò la scelta di presentare periodicamente ad un pubblico non impacchettato le ricerche di artisti provenienti da diversi ambiti ma uniti da una volontaria lateralità resistente rispetto alle istituzioni e al mercato attuali, finisce ineluttabilmente per assumere i connotati di una scelta politica a favore delle lingue tagliate e delle grandi minorità della storia (non solo dell’arte).

I volgari livellamenti su standard di produzione artistica che omologano la ricerca ai modelli della vecchia catena di montaggio, portano infatti all’esaurimento delle peculiarità proprie di ciascun autore e di ogni area di pensiero e di esistenza nonché ad una irreversibile perdita d’identità, qualunque essa sia. A questo proposito Jean Baudrillard, in una sua agile transestetica, ci suggeriva un sommario, seppur enfatizzato, della situazione attuale dove si gioca alla differenza senza crederci: «...bisogna notare come sia in realtà l’utopia artistica ad essersi materializzata ovunque sotto una forma operazionale. È del resto per questo che l’arte è forzata a farsi minimale, a disparire, a recitare la propria sparizione». E ancora: «È lo schema stesso del frattale ed è lo schema attuale della nostra cultura. E fin dentro la nostra ricerca individuale di identità e differenza. Non abbiamo più il tempo di cercarci un’identità negli archivi, in una memoria, in un passato, né del resto in un progetto o in un avvenire. Ci vuole una memoria istantanea, un collegamento immediato, una specie di identità pubblicitaria, che possa verificarsi nell’istante stesso»(4).

Nel nostro caso, come più volte è stato sottolineato, i parametri del teatro, delle arti visive, della musica, della poesia e della letteratura, sono insufficienti presi singolarmente e nell’utilizzarli occorre continuamente metterli a  registro tra loro con un approccio che sia anche antropologico e non solo estetico, perché l’artista del nostro tempo – che si muove spesso in una luce di tramonto e di declino dell’arte come fenomeno specifico, affogata com’è in una generale estetizzazione dell’esistenza –, oltre a saper dire, possa anche sempre sperimentare percorsi vecchi e nuovi per testimoniare dell’epoca in corso, per riscoprire continuamente ciò che deve dire. Non si tratta, infatti, come molti semplicisticamente intendono, di una perenne riattualizzazione della trinitaria argomentazione wagneriana (prima) e kandinskiana (poi) circa il wort–ton–drama e tutti i suoi derivati, ma di una ben più materialistica connessione tra filosofia e arte (teatrale e non), tra il destino dell’individuo, insomma, e il destino della comunità(5).

Per questo è stata coniata anche una vera formula che riassume un’estesa gamma di tensioni contrastanti riguardo ai modi e alle forme dell’espressione artistica contemporanea in campo scenico: Drammaturgia delle Arti, per sottolineare un ipotesi di sviluppo e di approfondimento del cosiddetto Teatro di Poesia attraverso ricerche comparate, aperte al confronto e alla cooperazione, per lo sviluppo dei rapporti poetici, etici e linguistici che intercorrono tra la parola, la visione, la scrittura e il movimento. Si tratta in sostanza di sviluppare la stessa nozione di scena per riscoprire, al di là delle strettoie dello “spettacolo”, cosa accade quando una voce entra nell’immagine, quando la musica dà melodia alla poesia, la pittura dà immagine alla musica e il movimento dà forma alla voce, sino al punto cruciale (uno dei teatri possibili) di una voce d’attore che diventa eco di tutto ciò in un progetto drammaturgico globale.

Da un osservatorio privilegiato quale è un’isola come la Sardegna, nel cuore del Mediterraneo – luogo di passaggio di razze e culture diverse –, ci sembra che sulla scia di queste InterAzioni anche altri organismi (scenici, musicali, poetici, visuali, ...) si stiano muovendo da tempo in questa direzione, ritrovando sorprendentemente il coraggio di rischiare. Ma mentre in Italia le esperienze più significative dello scorso decennio erano legate agli ensemble teatrali (o meta-teatrali) e, in modo minore, agli artisti visuali che si riferivano implicitamente all’ampio territorio mentale degli anni settanta, l’Europa di fine millennio riassume i frammenti di sé esportati in tutto il mondo dagli inizi dell’era moderna. I grandi naufragi verso l’Asia, le Americhe, l’Africa, il Medio Oriente e lo spazio cosmico, ci restituiscono oggi i sublimi relitti delle nostre culture come fuori dal tempo e dalla Storia, fuori di sé. Non si tratta però in questo caso di un semplice riflusso di citazioni e di atteggiamenti – né di un ritorno a casa, perché nel frattempo essa è andata distrutta – ma di un vero e proprio rendez-vous  ultraideologico sulle rovine di una nostra Troade. Le opere degli ultra-artisti – degli artifex che si pongono al di là delle specie catalogabili per il superamento dei tradizionali limiti “amministrativi” tra parola, corpo, suono, immagine, concetto –, dimostrano che l’impossibile rientro in patria non ci condanna solamente ad una vita da cavalieri erranti, da perenni viandanti, ma ci trasforma – come artisti e come poeti – in testimoni di un Finale  che si ripete, in demiurghi del Nulla... angeli senza aureola.

Qui sta pure l’assurdità del teatro, l’impossibilità del tragico. Perciò si può parlare della scena e del suo oltre soprattutto quando viene a cadere l’ottica convenzionale che «un» teatro impone come unica chiave di lettura e di organizzazione degli eventi. Prestiamo attenzione alle parole di Camille Dumoulié: «La drammaturgia è sempre stata una tecnica terapeutica: catarsi, esorcismo, terrore e pietà, castigat ridendo mores, straniamento brechtiano: tutto annuncia che il teatro è fatto per ammalati, debilitati e convalescenti inguaribili. Tanto che Nietzsche, dopo aver creduto in una rinascita della tragedia, si è detto disgustato da tutta questa teatrocrazia  e ha potuto definirsi come una natura essenzialmente antiteatrale. A teatro, scriveva, si contribuisce solo con la parte più volgare di sé, si diventa vicini di casa, gregge, femmine del serraglio. Il teatro è un plebiscito contro il buon gusto»(6).

In altri tempi Ettore Petrolini ipotizzava la realizzazione di un Padiglione delle Meraviglie  contro la pedanteria dei funzionari e la rigidità delle categorie estetiche. Ebbene: nuovamente impegnati sul piano antropologico, spesso sganciati da false fiducie “progressiste”, questa nuova specie di progettisti di mondi rappresenta, nella migliore delle ipotesi, un superamento delle formule stilistiche precedenti a favore di una visionarietà progettuale che ritrova i margini dell’assenza riflettendo non solo su se stessi, ma finalmente contro  se stessi. Così facendo, e perciò confinati nei settori dell’arte problematica, i ricercatori che si muovono nella direzione di una possibile (perché antichissima) drammaturgia delle arti restano – come avvertivamo all’inizio – pazientemente in ascolto, come antenne umane che cercano di decifrare il rumore di fondo dell’Universo. E l’ascolto più “commovente”, come in Samuel Beckett e in Francis Bacon, avviene sempre a metà strada tra l’orecchio, l’occhio e il cuore, tra la mente e il sentimento sonnambulo per una scena al di là delle forme e al di là della critica.

Massimo Zanasi


Note bibliografiche:

1.   V. Il grande massacro, di M.G.Gregori, ne “Il signore della scena”, Milano, 1979; e Nasce l’industria teatrale in Italia: il regista contro l’attore, di G.Livio in “Quarta Parete”, Torino, 1983.

2.   V.Teatro come differenza  di A.Attisani, Milano 1978, e Ravenna 1988; e Scena occidente  di A.Attisani, Venezia, 1995.

3.   V. Dopo il teatro moderno, di V.Valentini, Milano, 1989.

4.   V. La sparizione dell’arte, di J.Baudrillard, Milano, 1988.

5.   Per il complesso rapporto tra teatralità e immaginario moderno, v. Il ritmo e la voce di U.Artioli, Milano, 1984; e la relativa appendice di F.Bartoli Kandinsky tra  apocalisse e astrazione.

6.   V. Il teatro senza spettacolo, di C.Bene, Venezia, 1990.

 

 

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