COMUNICATO STAMPA N°19
MITO, LEGGENDA E STORIA DELL’ORIGINE
DEGLI SCACCHI
Come per ogni umana avventura, anche per il gioco degli scacchi son
fiorite nel corso dei secoli leggende sulle origini, sui personaggi famosi
che l’hanno inventato o praticato; portando in alcuni casi, così
indietro nel tempo la pratica del gioco degli scacchi da far sorgere
grossi dubbi in proposito.
Alcune leggende di epoca medioevale per esempio, ci riportano
in ambito biblico e testimoniano del diletto per gli scacchi di Abramo
o di Sem figlio di Noè; mentre manoscritti arabi testimoniano che
il gioco era praticato da Salomone e i suoi nobili.
Come altre attività dell’ingegno umano che risalgono molto indietro
nel tempo, anche gli scacchi hanno una loro protettrice tra gli abitanti
del pantheon greco-romano, è la driade, ninfa degli alberi, Caissa.
Di Caissa si ebbe per la prima volta notizia in un poemetto di titolo
omonimo di William Jones, letterato inglese del XVIII secolo. In questo
poemetto Jones attribuisce l’invenzione del gioco degli scacchi a Marte,
che, invaghitosi della bella ninfa e avendone netto rifiuto, con l’aiuto
di Eufrone si dà da fare per inventare un gioco che interessi la
fanciulla.
Il tentativo sortisce l’effetto sperato e Caissa, affascinata dall’intelligenza
del gioco, acconsente alla passione del dio della guerra.
Ben più datato è l’altro riferimento mitologico, anche
se ben più eminente letterariamente.
E’ Omero la fonte del riferimento, egli fa risalire l’invenzione a
Palamede, eroe greco della guerra di Troia, che imbeccato da Minerva, (e
da chi se non?) inventa un gioco in cui gli eserciti vengono diretti non
con la forza brutale ma con movimenti e strategie accorte.
Come ricorderà Bettleihm qualche millennio dopo: giocare a scacchi
è sublimare l’idea di una battaglia.
Ma è dalla Persia che degli scacchi ci vengono le prime certe
notizie ed il mito della scoperta o invenzione forse più convincente
e sicuramente più affascinante, anche per le implicazioni matematiche
che già allora venivano messe in evidenza.
E’ la leggenda di Sissa o meglio di Sussa Ibn Dahir al-Hindi, l’origine
universalmente accettata del gioco degli scacchi. Tale leggenda è
collocata nella prima metà del VII secolo dell’epoca volgare, in
un periodo in cui furono redatti molti testi in pahlavico, l’antico persiano,
che la riportano; essa è coeva della leggenda del re indiano Crosoe,
variante, indiana appunto, dell’invenzione degli scacchi.
Secondo gli storici è indubbio che in quel periodo il gioco
degli scacchi abbia raggiunto una regolamentazione e una connotazione da
renderlo simile all’attuale.
Ma parliamo della leggenda, che con alcune varianti di poco conto è
la stessa sia per Sissa che per Crosoe.
Sissa era un saggio, a cui l’antico rè dei Persiani aveva chiesto
di inventare un gioco; tale gioco era talmente piaciuto al re che invitava
Sissa riluttante a chiedere una ricompensa materiale , a chiedergliene
una qualunque, perché ad egli, Re dei Re, nulla era precluso.
Sissa, dopo essersi inizialmente schermito, decise di dare una lezione,
diremmo di stile, al sovrano, ma soprattutto una dimostrazione di quanto
incredibilmente potente e vasto fosse il gioco inventato.
Pertanto chiese al re una ricompensa in chicchi di riso, la quantità
dei chicchi doveva essere computata ponendo un chicco sulla prima scacchiera,
due sulla seconda, quattro sulla terza e così via raddoppiando sempre
fino alla sessantaquattresima casella.
(La versione indiana parla, in maniera anche più impertinente
verso il re e l’umana vanagloria, di sabbia.)
La storia è narrata in diversi testi del VII secolo sia persiani
che indiani; testi che assieme alla leggenda dell’invenzione danno spiegazione
del gioco e sempre fanno capire l’enormità della richiesta del saggio
al suo re. Il senso di impotenza di questi al crescere della quantità
di riso è reso dal seguente passo: “la spiegazione del principio
degli scacchi è questa: è cosa mediante intelligenza, in
conformità di quanto è stato detto dai saggi, la vittoria
sui potenti si ottiene con la mente”.
Il numero citato prima, 2 elevato alla sessantaquattresima potenza,
è un numero di 20 cifre, realmente impressionante anche oggi, dove
trova confronto solo su scala cosmologica. Di ciò se ne era ben
reso conto Dante, che agli scacchi sapeva giocare e delle leggende sulla
loro origine era al corrente dai trattati di Averroè e di Fibonacci.
Ed invero Dante, per testimoniare l’infinità del numero degli angeli,
nel XXVIII canto del Paradiso recita:
Lo incendio lor seguiva ogni scintilla ed eran tante, che il numer
loro più che il doppiar degli scacchi s’immilla.
Dante dice molto semplicemente che il numero degli angeli è
pari a 1000 alla 64a potenza, tagliando così sul nascere con tale
paragone ogni contestazione sulla potenza del divino esercito.
Ma contemporaneamente testimoniando il rispetto, già allora
universalmente accettato, per la potenza di un gioco che nulla lascia al
caso, in cui fra gli infiniti casi possibili è possibile scegliere
con libertà e responsabilità facendo derivare ogni conseguenza
da una libera scelta del giocatore.