di
Francesco De Sanctis
Conferenza
tenuta a Roma l’11 marzo 1883, e a Napoli a Circolo Filolofico il 30 marzo.
“Signori,
a guardare indietro non più che al 1860, noi siamo trasformati e non ne abbiamo
che un’oscura coscienza. Come la materia in noi si rinnova, così le nostre
opinioni, le nostre impressioni non sono più quelle; altro è il nostro modo di
sentire e di concepire. E questo corrisponde alla trasformazione del pensiero
umano, tirato per altre vie da una nuova forza impellente e dirigente apparsa
sull’orizzonte. Proprio nel 1860, in tanto fragore di battaglie, in tante
agitazioni di popoli e di razze, un uomo estraneo all’Europa, ai suoi sistemi e
alle sue querele, tornato da esplorazioni scietifiche in terre selvagge, già noto
per dotte memorie intorno a piante e ad animali, tutto chiuso nell’ambito della
sua scienza ed estraneo al mondo, attendeva alla pubblicazione della sua grande
opera sulla Discendenza della specie, che dovea essere completata
dall’altra sulla Discendenza dell’uomo.
Se
Darwin fosse stato solo un naturalista, la sua influenza sarebbe rimasta in
quella cerchia speciale di studi. Ma Darwin non fu solo lo storico, fu il
filosofo della natura, e dai fatti e dalle leggi naturali cavò tutta una teoria
intorno ai problemi più importanti della nostra esistenza, ai quali l’umanità
non può rimanere indifferente. E da questo rispetto, Darwin fu e sarà pel suo
quarto d’ora una forza dirigente, la cui presenza si sente in tutti gl’
indirizzi.
Una
parte del suo cervello rimane per trasmissione ereditaria nel cervello umano e
vi si evolve e fa parte della vita di quello.
Come
innanzi a lui Hegel, il suo nome fu bandiera di tutte le dottrine affini che
sorsero poi, positivismo, realismo, materialismo.
Tutto
questo complesso d’idee oggi è chiamato “il Darwinismo”.
Giorni
belli della mia vita furono quelli che io spesi a leggere le opere di Carlo
Darwin.
Lo scrittore mi tirava a sé con la novità e la
copia dei fatti e con la originalità delle induzioni; ma guadagnava la mia simpatia
la sua sincerità e la sua modestia. L’orgoglio di scienziato non gli ha
impedito, in quella maravigliosa catena di esseri da lui concepita,
d’inchinarsi innanzi al Primo, innanzi all’Inconoscibile. Confessa di avere
esagerato nei suoi effetti la legge di selezione, dando ragione ai suoi
avversarii. Nella legge di continuità non dissimula le interruzioni e le
lacune, e fa una storia mescolata di luce e d’ombra, con quei chiaroscuri che
rispondono così bene alla nostra natura ed attestano la sua sincerità.
E,
nella fine del libro, trovi queste parole memorabili:
I
fatti, miei o d’altri, qui addotti, sono inconcussi; ma il mio modo di vedere
può essere erroneo; e se questo m’è dimostrato, me ne compiaccio, perché un
errore tolto è un avviamento alla verità.
Non
mi è parso di scorgere in lui nessun segno della creta umana: non vanità, non
posa, non ciarlataneria, non invidia, niente di quel piccolo che pur senti in
molti grandi uomini. Riconosce e loda i suoi precursori; cita le fonti e gli
uomini da cui ha appreso; parla con rispetto degli avversarii; la sua persona
scompare nello scienziato. Io ho una inclinazione che mi tira a guardare nello
scrittore quanto vale l’uomo; ed ora mi compiaccio a dico: - In Carlo Darwin
l’uomo era così alto come lo scrittore -. Quando mi dimostrava la parentela
dell’uomo colla scimmia, io mi consolava nella immagine di lui, nella quale la
scimmia è demolita, e l’uomo elevato alla più alta gloria della sua evoluzione.
(applausi)
Io non ho intenzione di esporvi la sua dottrina. Me
ne manca la competenza e l’autorità. Non sono così dotto, che io possa
combatterla o accettarla: io la veggo passare, come uno dei grandi fenomeni
della intelligenza umana.
Ma
ciò che è più importante in una dottrina, è la sua influenza sulla vita. Ci
sono uomini che possono ignorare i libri, ed anche il nome di Darwin, ma, loro
malgrado, vivono in quell’ambiente, sentono i suoi influssi.
Io
voglio esaminare quale sia questo nuovo ambiente in cui viviamo noi.
Una
volta il nostro spirito era disposto a cercare le idee o i concetti delle cose,
l’«espirit des choses», la filosofia delle cose, filosofia della storia,
filosofia del linguaggio, filosofia del dritto. Oggi prendiamo un vivo
interesse a studiare le cose in sé stesse, nella loro esteriorità, nella loro
natura, nella loro vita. La base dei nostri studii erano grammatiche,
rettoriche, logiche, metafisiche, cioè a dire i segni e i concetti delle cose;
oggi chimica, storia naturale, anatomia, fisiologia, patologia non sono più
studi speciali, ma fanno parte della cultura generale, e senti la loro
influenza nella scienza, nella letteratura, nell’arte, e fino nella vita
comune. Nelle scuole popolari si è introdotta come parte principale la lezione
delle cose ed il metodo intuitivo. Non ci basta studiare le cose nei libri;
vogliamo guardarle nel libro vivo della natura; prendiamo gusto
all’osservazione, alle esplorazioni, all’esperienza; vogliamo il laboratorio
anche nelle scienze dette spirituali, come nella filologia e nella
giurisprudenza; siamo noi laboratorio a noi stessi, persuasi che il maestro non
ci dà la scienza bella e fatta; la scienza vogliamo cercarla ed elaborarla noi,
vogliamo vederla non come è fatta, ma come si fa. (bene!)
Perciò in noi si è più sviluppato il senso del
reale; un nuovo materiale è penetrato nella nostra cultura generale;
trasformati sono i nostri studii nella loro materia e nei loro metodi. Vogliamo
il metodo intuitivo sperimentale e genetico, cioè la cosa guardata nella sua
generazione.
Una
volta c’era un certo complesso d’idee o di principii che ci avviava alla
scienza; oggi il nostro studio è volto alle forze, onde nascono le forme, le
trasformazioni, le evoluzioni, la vita nella continuità delle sue formazioni.
Ond’è che in noi si è più sviluppato il senso della forza.
Non è più la nostra nemica e la nostra tiranna,
verso la quale in nome delle idee ci sentivamo ribelli; ma la forza è materia
cara dei nostri studii, e condizione della nostra vita. Cerchiamo di tirarla a
noi, farla nostra, educando il corpo, invigorendo la volontà, dilatando le
nostre conoscenze. Sentiamo che la forza trasformata diviene coraggio, che è
l’affermazione della nostra personalità nella sincerità e nella risolutezza
della nostra condotta. Non ci basta l’idea; vogliamo guardare in essa la sua forza,
quanto ci è possibile e di opportuno, e guardiamo col riso di Machiavelli agli
apostoli disarmati ed alle idee imbelli che pretendono governare il mondo.
All’antico motto: - Le idee governano il mondo, - è succeduto quest’altro: -
Dove non è forza, non è vita, né reale né ideale - . Siamo tanto trasformati,
che abbiamo potuto sentire senza ribellarci il motto di un uomo di Stato: - La
forza vince il diritto -.
Questa
maniera di concepire la vita ha indebolito in noi il senso del fisso e
dell’assoluto. Collocandosi in un ambiente di continua trasformazione,
concepiamo le cose nel loro divenire, in relazione con le loro origini e con
l’ambiente ove sono nate; si è sviluppato in noi energicamente il senso del
relativo.
Il
senso del reale, della forza e del relativo è il carattere della nostra
trasformazione.
Volgiamo
ora considerare questo in relazione con l’arte.
Quante
dispute intorno alle scuole, intorno ai tipi ed alle forme dell’arte, intorno
al classicismo ed al romanticismo! Questo preoccupava il pubblico e la critica
ed anche l’artista, e se ne cavavano regole e criterii per l’arte, ed erano la
base del giudizio e del gusto. Oggi ci siamo divenuti quasi indifferenti, e
sotto a tutte quelle differenze cerchiamo il fatto elementare dell’arte, e da
quello tiriamo il nostro giudizio.
Quando
un oggetto, o piuttosto l’immagine di un oggetto, si presenta nel nostro
cervello, noi ne riceviamo una impressione; e quando quella immagine vogliamo
tradurla al di fuori nella parola, questa contiene in sé non solo l’oggetto ma
l’impressione prodotta. Quella immagine è l’oggetto trasformato nel cervello. E
questa parola è arte nella sua forma più elementare, della quale si trovano i
vestigi anche presso i popoli più selvaggi. Col progredire della civiltà si
moltiplicano gl’ istrumenti dell’arte, vengono nuovi tipi e nuove forme secondo
il processo evolutivo della vita. Ma ciò che oggi domanda il critico ed il
pubblico, è questo solo: ci è in questo lavoro di arte quella tale immagine,
uscita da una impressione vera e viva nel cervello? Ci è nel cervello
dell’artista luce, calore, quella forza allegra che produce e che si chiama
genialità? Quel prodotto è figlio di una forza incosciente e geniale? E’ cosa
viva, e che fa vivere noi, destando nel nostro cervello sensazioni, impressioni,
emozioni? E se sì, il pubblico batte le mani e non pensa ad altro. Se al
contrario quella impressione non era viva, ed era reminiscenza, abitudine,
imitazione, artificio, convenzione; se quella forza non era che uno sforzo,
simulazione delle forza e confessione dell’impotenza; cosa sono quei prodotti?
Ohimè! sono come quelle migliaia di vite effimere, che la natura, anche poeta,
produce; esseri infermi e deboli destinati a scomparire nella lotta per
l’esistenza. (vivi applausi)
Il senso del vivo si è tanto sviluppato in noi, che
sforza la nostra educazione, i nostri preconcetti e fino il nostro senso
morale, e ci rende tollerabili ed anche applauditi certi argomenti, che una
volta sembravano impossibili al pubblico ed all’artista. C’è un nome pervenuto
a noi con tale aureola d’ignominia, che disgusta e spaventa il nostro senso
morale: voglio dire Nerone. Alfieri, persuaso che non fosse tragediabile, pure
l’arrischiò sulla scena, e costrusse un Nerone attraverso la paura della scena,
del pubblico e di sé stesso, del suo senso morale. Ma non può nascere vivo se
non ciò che è vagheggiato ed accarezzato. Così gli venne una costruzione
fredda, non derivata dalle vive ed immediate sorgenti della storia, ma dalle
preoccupazioni del cervello suo. La sua Ottavia, il suo Seneca, il suo Nerone
non hanno niente di vivo, e quella tragedia si ricorda solo per il nome del suo
autore.
In
tempo più a noi vicino, quando l’arte avea preso già forme ed intendimenti più
larghi, venne il Cossa, in cui si annunziava l’uomo nuovo, mescolato ancora con
l’uomo antico. Il Cossa arrischiò anche sulla scena Nerone; ponendolo sotto la
protezione dell’arte, vagheggiò un Nerone artista. Per rendere tollerabili i
suoi Neroni, le sue Messaline, le sue Cleopatre, ci appiccicava certe tirate
oratorie sulla libertà, sull’Italia, sulla teocrazia, solleticando il
patriottismo suo e del pubblico e facendo dell’Italia presente un manto di
porpora che ricoprisse la nudità antica.
Questo
è quello che voleva fare il Cossa; ma non è quello che ha fatto. L’artista non
fa quello che vuole, perché ciò che vuole appartiene al suo intelletto, ciò che
fa appartiene alla sua immaginazione incosciente ed inspirata.
Cossa
ci ha dato qualcosa di meglio, un Nerone vivo in un ambiente vivo, la vita sua
come vita di tutti, e nella quale per davvero l’imperatore è lui. Nel suo Nerone
l’uomo è dimenticato nell’animale. La sua vita è nei suoi istinti, nei suoi
appetiti, nelle orgie, nelle libidini, nella materialità dei suoi godimenti.
L’imperatore ci sta, ma come mezzo a variare e raffinare la sua vita di
animale. L’artista ci sta, ma che artista? Non profaniamo questo nome: ci sta
la velleità e la vanità dell’artista (bravo!), gli applausi del circo,
le rappresentazioni teatrali, le compagnie degli istrioni. L’artista in lui è
una qualità superstite dell’uomo, che serve all’animale (bene!); ci sta
come condimento e sapore di quella materialità stancata ma non sazia, e che
voleva essere stuzzicata. Se fosse stato un artista, avrebbe potuto godere un
incendio in immaginazione; ma la sua materialità è tale che non gli basta
l’immaginazione, vuole il senso, e per godere un incendio brucia Roma. Era il
verista di quel tempo (ilarità): voleva la cosa nella materialità della
sua esistenza.
Il
senso del vivo vi riconcilia con Nerone, e vi dispone anche ad applaudirlo
nelle sue volgarità, nelle sue vanità, nel suo comico che attenua ciò che in
lui è ripugnante; e voi preferite questa commedia a molte dotte tragedie e
drammi, dove il calore della vita vi giugne più languido e più di lontano.
Noi
preferiamo l’operetta, la farza, il bozzetto, la pittura di genere e fino la
parola trasformata in gesto o in suono, la mimica e la musica, perché siamo
divenuti impazienti, e sopprimiamo la distanza e l’intermediario, e godiamo di
quel subitaneo ed immediato guizzo di vita che si compie nel nostro cervello. (lunghi
applausi)
Vogliamo non solo il vivo, ma la vita in atto.
Accettiamo la forme fisse, come mezzo di educazione popolare e d’istruzione,
come metodo intuitivo; ma non le gustiamo come arte.
Vediamo
arte, quanto si crea una tale situazione di cose, che quelle forme sieno
costrette a muoversi, a manifestare la loro vita interiore, ad avere
un’espressione. Così ci piace la campagna romana nella imminenza di un uragano,
che la fa mobile e viva, come l’ha concepita il Vertunni, un uomo che ha
onorato Napoli in Roma, dove è stato per il suo quarto d’ora un caposcuola, e
dove oggi ancora, malgrado una malattia che gli rende poco abile il braccio, si
ostina nel lavoro e si mostra produttivo.
E
non solo vogliamo la vita in atto; ma la vogliamo nella sua continuità, come la
fa Natura. L’ultima forma dell’arte, l’arte ideale, tratta la forma come un
istrumento dell’idea; e perché l’artista può rappresentare la sua idea in
ciascuna forma, e in nessuna si acqueta, abbiamo l’indifferenza ed il dileguo
della forma, la forma evanescente nel sentimento:
Così
la neve al sol si disigilla [Paradiso, XXXIII, 64]
come
dice Dante.
L’artista,
collocato in quest’ambiente ideale, tratta la sua creatura come un mezzo a
sfogare i suoi sentimenti, e fa discontinua quella vita, la interrompe coi suoi
inni e colle sue elegie. Oggi l’artista si sente disposto ad avvicinarsi più
alla vita reale, e genera la sua creatura possibilmente simile a questa e
dimentica sé in lei e rispetta la sua autonomia; l’arte diviene obiettiva. Egli
cerca una più profonda intelligenza della vita nelle vie della natura, e la
coglie nelle sue origini e nelle sue gradazioni, nelle sue trasformazioni, in quel
tutto insieme che si dice l’ambiente. Al lirico ed al sentimentale succede il
descrittivo, non più come decorazione, ornamento, lusso, contorno, ma come
ambiente vivo, in cui ciascuna parte ha la vita sua e tutto insieme la vita
collettiva, l’organismo. Così la forma, già evanescente, ritorna plastica,
nella pienezza e nella compitezza della sua vita.
E
poiché l’organismo non è un fatto accidentale e volontario, ma è l’effetto
della sua origine e del suo ambiente, in noi si è sviluppato il senso del necessario,
del fatale. Non ci piacciono più gli accidenti, gl’ intrighi, le combinazioni
artificiali, le fantasie. Vogliamo vedere la vita nella necessità della sua
generazione, della sua evoluzione. L’arte ideale ha per base la dissonanza tra
il fatto e l’idea, tra la vita quale la natura la fa e la vita qual è pinta nel
nostro cervello, e trova in questa dissonanza il motivo lirico di quello che
chiama tragedia della vita. Perciò spesso fa discontinua la vita reale,
mescolandovi la vita sua. Oggi noi siamo trasformati in modo che
quell’imprecare alla vita, quel maledire alla natura ci pare cosa da fanciulli,
e ci mettiamo in guardia contro le
nostre illusioni.
L’illusione
perduta non è per noi una perdita che desti il nostro rimpianto, ma è un
guadagno, è la vita conosciuta meglio; ed in luogo di maledirla, ci sentiamo
disposti a studiarla, a contemplarla nel vario gioco delle sue forze, a
educarla, a migliorarla, e con tanto più interesse, dove la forza si rivela
maggiore.
Il
nostro sentire si è tanto trasformato che siamo inchini più ad ammirare i
Cesari, che a compatire i Pompei, e sentiamo meno interesse nella debolezza in
tutta la sua bontà, che nella forza, sia pure nella sua malvagità.
I
nostri protagonisti non sono più Fausto ed Otello, ma Mefistofele e Jago,
perché vediamo in questi la forza volente e dirigente che move quelli. (applausi)
Così quel sentimentalismo nervoso e febbrile si è trasformato in un sentimento
pacato. L’arte, concepita a questo modo, fa opera sedativa, ed attenua i fumi
del cervello e i patemi del core, le nostre illusioni e le nostre passioni. (benissimo!)
E, perché godiamo più dove la forza è maggiore,
l’arte si è avvicinata al popolo, più presso alla natura, dove le impressioni
sono più gagliarde e l’espressione più immediata e più rapida. Rappresentiamo
la società con l’ironia e col sarcasmo, e non gustiamo quella vita che ci viene
attraverso alle ipocrisie, alle convenienze, ai pregiudizi, al convenzionale ed
all’artificiale. Preferiamo come materia d’arte la vita del popolo nella sua
semplicità ingenua e nell’energia intatta delle sue forze.
Questo
non è senza influenza anche nei modi dell’espressione, nella lingua, nella
elocuzione, nello stile. Chi ricordi la lingua di venti anni fa e la paragoni
con quella che oggi è parlata, troverà ch’ella ha scosso da sé tutto il
bagaglio pesante di forme solenni, eleganti, oratorie, accademiche ed ha preso
un fare più spigliato e più rapido, più vicino ai dialetti ossia al linguaggio
del popolo. (applausi) Perché il popolo è il grande abbreviatore del
pensiero umano. Esso afferra le conclusioni e sopprime le premesse; e, poco
atto all’astrazione, traduce tutto in immagini, che gli vengono subitanee, da
impressioni vere. Il dialetto è destinato a divenire il nuovo semenzaio delle
lingue letterarie; vi sarà come un ritorno alle fresche sorgenti della vita
naturale.
Riassumendo,
in questo nuovo ambiente troviamo il senso del reale, della forza e del
relativo nella scienza e nella vita, e nell’arte troviamo sviluppato il senso
del vivo, l’autonomia della persona poetica, la popolarità della materia, la
naturalezza dell’espressione.
Mi
domanderete: - Cosa è quest’arte? Dov’è quest’arte? -. Una lineatura si vede
nel romanzo moderno, nella pittura, nella scultura; ma è troppo misera cosa se,
guardiamo ai grandi capolavori dell’arte ideale.
Ma,
signori, io non prescrivo, descrivo. E, se debbo dire proprio il mio pensiero,
quest’arte è più un presaggio che un fatto.
Egli
è che quest’arte è ancora nel suo stato di gestazione e di esagerazione, come il darwinismo è ancora
nel suo stato di transizione e di reazione.
Hegel,
per combattere lo scetticismo, edificò la filosofia dell’assoluto, e per
provare che quello che la natura fa e quello che l’uomo sa, è uno, pose un po’
dell’uomo nella natura, umanizzò la natura.
Darwin,
volendo provare la discendenza dell’uomo dalle specie inferiori, per necessità
di tesi era tirato ad esagerar le somiglianze e ad attenuare le differenze.
Così può dire come conclusione del libro: l’uomo porta nella sua impalcatura la
confessione della sua animalità. Con quanta finezza cerca di riempire
l’intervallo inesplorato che separa l’uomo dalla scimmia! E come s’industria a
trovare nelle specie inferiori gl’ inizii embrionali delle differenze umane,
l’intelligenza, la socievolezza, e fino le differenze meno riducibili, fino la
facoltà dell’astrazione e la facoltà del linguaggio! Ora l’influenza di una
dottrina non è nelle sue idee, ma nella sua tendenza. E non è a meravigliare
che oggi nell’uomo si guardi troppo l’animale.
Il
fine della vita umana si cerca nel fine della vita animale, conservare e godere
la vita. E come mezzo a raggiungere quel fine è la forza nella lotta per
l’esistenza, il diritto della forza è consacrato come mezzo legittimo, e la
guerra e la conquista e la schiavitù e l’oppressione delle razze inferiori sono
considerate come frutto di leggi naturali, e non generano più nel cuore degli
uomini avversione e protesta. E perché la vita è conseguenza fatale
dell’organismo, non c’è libertà, non c’è imputabilità: tutti siamo uguali
innanzi alla natura: non c’è lode e non c’è biasimo. Dottrine simili io le ho
viste sempre affacciarsi nei tempi della decadenza, quando, perduti tutti i più
cari ideali, non rimane nell’uomo che l’animale. Non senza inquietudine sento
oggi ripetere: il fine della vita è godere la vita.
Una
tendenza simile si rivela nell’arte. L’uomo v’è rappresentato principalmente
nella sua animalità; il sentimento diviene sensazione, la volontà diviene
appetito, l’intelligenza un istinto; il turpe perde senso e vergogna come
nell’animale; vizio e virtù è quistione di temperamento; il genio è
allucinazione vicina alla follia. (applausi)
Avevamo l’umanismo; oggi abbiamo l’animalismo nella
sua esagerazione. E’ chiaro che in questo nuovo ambiente c’è qualcosa di basso
e di corrotto, che vuol essere purificato. E ciò avverrà, ove il nostro spirito
sia disposto a guardare l’uomo meno nelle somiglianze già assorbite, e più
nelle sue differenze, che gli danno il diritto di dire: - Sono un uomo e non un
animale -.
Questo
pensiero mi ha pullulare nel capo una nuova materia, che vado elaborando e che
contiene il programma e la promessa di una nuova conferenza.”