La stella del mattino
Laboratorio per il dialogo religioso
n.1 gennaio-marzo 2001
opuscolo trimestrale
indice
Presentazione
In cammino
Materiali
Senza maestro o senza Maestro
Voci
"Figli d'altri"
Something about love
Canzoniere
Recensioni
Shunryu Suzuki-roshi, Rami d’acqua scorrono nell’ombra
Agostino, Amore assoluto e "terza navigazione"
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Presentazione
Il guado e la sponda
Di Federico Battistuta
Sto
scrivendo queste pagine introduttive in una brumosa e umida giornata di
febbraio. Ricordo di aver letto da qualche parte che nella Roma arcaica il mese
di febbraio era considerato un tipico periodo di passaggio: da una parte segnava
il tramonto dell’anno vecchio e dall’altro annunciava la nascita del nuovo.
Un periodo di passaggio caotico in cui tutto si rimescolava, verso il
rinnovamento del cosmo manifestato dalla primavera. (Non a caso qualche autore
latino spiegava l’etimologia dal mese connettendola alla parola latina
februare che significa appunto purificare). Forse non poteva esserci mese più
adatto per l’uscita di questa nuova serie de "La Stella del
Mattino". I lettori dell’opuscolo, così come i frequentatori della
casa-madre di Galgagnano, sono già a conoscenza del momento di passaggio e di
maturazione a cui, come ogni viva cosa, l’intera esperienza di cammino posta
sotto il nome della "Stella del Mattino" è chiamata. E proprio l’esperienza
ci è maestra mostrandoci che ogni cambiamento è autentico contenendo e l’opportunità
e la difficoltà. Di ciò si parla in alcune parti del presente opuscolo e
sicuramente se ne parlerà ancora nei prossimi numeri . Ma è mio desiderio dire
più specificatamente dei mutamenti strettamente inerenti all’opuscolo stesso
che, procedendo sulla strada intrapresa, intende essere fino in fondo un
laboratorio per il dialogo religioso. Dove l’attributo religioso riferito al
dialogo vuol essere un approfondimento della natura intima del dialogo che ne
manifesta l’aspetto religioso, prima ancora di indicare un particolare settore
di discussione (c’è un dialogo religioso che si occupa di ‘cose religiose’,
come ce n’è uno politico o culturale e così via, con il pericolo di parlare
di religione in forme irreligiosissime).
Questo
opuscolo esce rinnovato, non solo nella veste ma anche nei contenuti, vedendo la
partecipazione di un nucleo di persone che si è mostrato disponibile e
sensibile al lavoro di incubazione, di preparazione e di promozione, dando vita
ad un lavoro di coordinamento. Con l’augurio che le collaborazioni, di
qualsiasi natura possano essere, crescano, dimostrando che questo è veramente
uno strumento di dialogo e di sincero aiuto per tutti quanti nel cammino della
vita. Sono state mantenute alcune sezioni, altre sono state aggiunte. Ogni
numero, dopo le pagine di presentazione che intendono essere innanzitutto una
guida ragionata e quindi un invito alla lettura, si aprirà con gli interventi
di p. Luciano e Jiso, posti nella sezione titolata "In cammino". Nel
presente numero la riflessione a cui Jiso ci invita è quella del rapporto tra
la conoscenza di sé e la conoscenza della via autentica, affrontandolo fuori da
artifici retorici autocompiacenti. Invece p. Luciano affronta il tema della
presenza del Cristo nella malattia e nella guarigione. Segue una nuova sezione
chiamata "Materiali", che si propone di sottoporre, di volta in volta,
testi di diversa provenienza (traduzioni di articoli o di passi di libri
stranieri, riproposizione di testi già comparsi su altre pubblicazioni ma
passati inosservati, interviste, articoli composti ad hoc, ecc.), che ben si
inseriscono nell’ordine di meditazione e di discussione di chi segue "La
Stella del Mattino". In questo caso abbiamo un intervento di Mauricio
Yushin Marassi, confratello di Jiso, che affronta un tema apparentemente
specialistico, come la definizione dello statuto di maestro nelle scuole
buddhiste zen, ma in realtà quanto mai attuale e vicino, in quanto pone il
problema su chi guida chi in un cammino che si vuole definire religioso.
Continuando a sfogliare le pagine incontriamo poi la rubrica "Voci",
che intende dare appunto la parola al racconto di esperienze di confronto con
gli aspetti consueti della vita quotidiana, senza voler abbellire
artificialmente ciò che nella sua manifestazione ordinaria custodisce la
dinamica bellezza degli opposti che manifestano la vita. In queste pagine
compaiono due voci femminili, che confrontandosi con esperienze diverse, si
propongono entrambe di raccontare, pur da esperienze differenti, aspetti
pregnanti della vita familiare, quali la dinamica di coppia e l’accudimento
dei figli. Con il petrarchesco titolo "Canzoniere" vogliamo proporre
ai lettori una pausa che ci auguriamo piacevole, proponendo di volta in volta
alcuni versi di qualche famoso poeta che, in forma più meno diretta, riesce ad
esprimere una particolare sensibilità religiosa. E’ la volta questa del poeta
gallese Dylan Thomas, con un estratto dal poema Vision and Prayer, e dell’italiano
Giorgio Caproni. Come accadeva già negli anni passati, sotto il nome
"Recensioni" compaiono alcune segnalazioni di libri usciti di recente
che costituiscono una sorta di indicatori nell’attuale babele dell’editoria.
In certi casi i testi presentati sono anche consultabili presso la piccola
biblioteca della casa-madre di Galgagnano. Una nuova sezione è quella delle
"Lettere". Anche se in questo numero trattasi di un breve annuncio, e
di una proposta di un lettore (il quale ha scelto di firmarsi con uno
pseudonimo), è nostra intenzione pubblicare in futuro delle lettere (con il
consenso degli autori) su temi di interesse comune, seguite da una risposta in
modo da amplificare la condivisione di vissuti e pensieri. Chiudono l’opuscolo
- come di consueto - alcune notizie di carattere generale sulle attività
gravitanti intorno alla "Stella del Mattino".
Nella lettera di apertura dell’ultimo numero si parlava della possibilità di
transizione da opuscolo a rivista. E’ un salto, una scommessa interessante,
coraggiosa e anche divertente, su cui vale la pena puntare in questo preciso
momento. Ci troviamo nel guado, se prendiamo l’immagine dell’attraversamento
di un fiume o di un torrente.
E’ un passaggio obbligato se si desidera raggiungere la nuova sponda, ma tutti
sappiamo quanto una collocazione del genere sia sconveniente prolungarla nel
tempo. Compiamolo insieme allora questo passaggio.
Federico Battistutta
In cammino
Ab initio
Di Jiso G. Forzani
Diversamente da quanto è avvenuto quasi sempre finora, il mio contributo a
questo numero dell’opuscolo non è la presentazione di un testo della
tradizione Zen orientale o una riflessione su di esso. Questo per alcuni motivi
che riassumo. Innanzitutto, per ragioni di tempo: gli ultimi mutamenti accaduti
nella mia vita, hanno fatto sì cheio non sia riuscito a dedicare l’attenzione
e la quantità di tempo dovute a elaborare un testo in modo consono. Una delle
cose che mi ripropongo, millennio adveniente, è di impegnarmi a fare soltanto
le cose che ho la ragionevole possibilità di riuscire a far bene (salvo
emergenze). L’elaborazione in lingua occidentale di un testo tradotto dal
giapponese antico è una di quelle cose che richiedono tempi di ponderazione che
non è possibile quantificare in anticipo: sottoporli alla restrizione di una
data di scadenza prefissata, come è l’uscita di un numero dell’opuscolo,
significa costringersi a un tipo di fretta che rischia di mortificare la buona
intenzione di fornire al lettore un’opera valida, che renda giustizia dell’originale e sia fruibile nella
nuova veste. Inoltre, questa sezione dell’opuscolo di cui mi è affidata una
parte perché io la riempia periodicamente di un contenuto ispirato al messaggio dell’insegnamento
Zen, muta d’ora in poi il suo nome: si chiamava prima Sulle orme, si chiama
adesso In cammino. Questo mi autorizza a una certa discrezionalità. Se prima
infatti non ho utilizzato quello spazio per diffondere le mie considerazioni
personali (ché avrebbe potuto essere frainteso come se io le stimassi orme da
seguire) ma mi sono sempre preoccupato di annunciare un testo tradizionalmente
riconosciuto come riferimento normativo (anche nel caso in cui ho diffuso un mio
commento l’ho sempre denunciato come tale, riferendolo a un testo
"canonico") ora che si tratta di cammino, mi sento autorizzato anche a
usare questo spazio in modo più personale, visto che in cammino ci siamo tutti,
e non è detto in nessun modo che chi scrive stia davanti a lasciare impronte
che altri dovrebbero seguire. Non si inquieti, comunque, chi legge: non è mia
intenzione profittare dell’occasione, e riempire d’ora in poi questo
contenitore, generosamente messo a mia disposizione, con le elucubrazioni che
sgorgano dal mio pensiero: intendo continuare anche ad occuparmi di antichi
messaggi e della loro attualità. Ultimo motivo, in ordine di esposizione ma non
di importanza, per cui mi sto prendendo la libertà di scrivere ciò che vado
pensando in questo periodo, è che, come accennavo, mi trovo a un nuovo punto di
partenza, occasione in cui è quasi doveroso fermarsi un attimo a fare il punto
della situazione. E non sono io solo a ritrovarmi ab initio: anche l’anno, il
secolo, il millennio (per chi si diletta di dar misura al tempo) han girato l’angolo
e ripartono da uno, anche questo nostro opuscolo manifesta fin nella veste
editoriale il suo rinnovamento, e tutta la vicenda del cammino che ci accomuna,
chi qui scrive e chi qui legge, vive un momento di nuovo inizio. Ora, credo che
guardare dove sono i propri piedi, e riflettere su come e dove e perché mettere
il piede che dà spazio e forma al passo successivo, non siano operazioni
estranee a ciò che chiamiamo cammino religioso. E quindi, in questo particolare
momento, pormi domande di questa natura come tema di un articolo da rendere
pubblico potrà forse tediare il lettore, ma assolve lecitamente al compito che
mi è stato dato di scrivere qualcosa attinente al cammino religioso. Quanto poi al fatto che questo articolo
rappresenti la voce della tradizione religiosa del buddismo zen, permettetemi
per questa volta di considerare questo aspetto in un’accezione un po’
particolare, ma, credo, non illecita. Partire da se stessi, dal luogo che ora è
la forma della propria posizione di vita, è evidentemente l’unica cosa
possibile per capire dove si è e dove val la pena di andare. Questa banalità
di base può infastidire chi pretende di non partire da io, ma quel fastidio è il
sintomo o di uno squilibrio di fondo o di un uso improprio del linguaggio. Posso anche riferirmi ai cieli e alle stelle come
termini di paragone, ma gli strumenti di valutazione (siano essi i miei occhi, i più raffinati metodi di indagine, le più estatiche esperienze
mistiche) sono posizionati sempre là dove io sono. Uno dei motivi per cui ho
scoperto la mia profonda affinità con il buddismo sta proprio in questo rigore
metodologico che rifiuta ogni alibi, ogni paravento. Con tutti i rischi che
questa operazione comporta, non posso che partire dal fatto che la vita dice io
in me. Se la vita non dicesse io in ciascuna delle infinite forme che la
realizzano, nulla sarebbe. E siccome dal mio punto di vista dice io in me, non
posso che partire da quel me per indagare cos’è la vita, cosa vuol dire che
dice io, cos’è la relazione fra tutti gli io che sono la vita. Per conoscere
cosa è io, non c’è che da partire da io. Così Doghen può affermare, come
starting point: Conoscere la via di Budda è conoscere se stesso. Non è quindi
scorretto sostenere che partire da sé per un’indagine sul sé è un’operazione non estranea allo Zen: affermazione che non vuole certo
identificare lo Zen con la mia posizione (Zen = io ; io = Zen), ma che ha una valenza metodologica. Ecco perché mi pare non illegittimo asserire che
queste considerazioni attengono allo Zen.........
.....Il seguito di questo articolo sull'opuscolo
Il Cristo: la forza che guarisce
Di
padre Luciano Mazzocchi
Dice che se tu lo benedici, guarirà
L’episodio avvenne nel settembre 1970. Avevo fatto ritorno in Italia per
alcuni mesi di riposo, dopo i primi sette anni di vita in Giappone. Ogni tanto,
qualora sia possibile, fa bene al corpo e allo spirito ritornare a respirare l’aria
fisica e culturale del paese natale e, come si dice, per gustare una poppata di
latte materno, finché la provvidenza lascia vicino a sé quella donna che con
tutti i suoi limiti ci ha voluto bene senza limiti. Avevo approfittato di quei
tre mesi per raccontare a tanti amici le scoperte umane e geografiche che avevo
potuto realizzare nella vita missionaria. L’ultima domenica italiana la
trascorsi a Collecchio, ospite del parroco, un vecchio amico dai tempi del
Seminario. Avevo parlato alla gente affluita in chiesa per la messa domenicale,
ovviamente esaltando la vita missionaria. Nel primo pomeriggio, un uomo di media
età si presentò alla chiesa chiedendo di me. "Tornato a casa dalla messa,
ho parlato di te e della tua opera missionaria a mio figlio, ancora studente, ma
ormai grave per un tumore al cervello. Soffre molto, ma lui vuole guarire a tutti i costi. Mi ha pregato
di condurti da lui, perché è sicuro che se tu lo benedici guarirà. Vieni
presto!" D’un tratto mi sentii come un pallone sgonfiato, colpito da un
freccia improvvisa. Le gambe mi tremavano! Proprio la fiducia che quel giovane
riversava su di me, avendo sentito da suo padre la sicurezza che mostravo in
ciò che io missionario stavo facendo per il bene del mondo, mi sconvolse e mi
fece perdere la fiducia in me stesso. La fiducia in me, dell’altro nella
sofferenza, mi fece perdere la fiducia in me che mi dicevo il salvatore degli
altri. Perplesso, trovai la scusa che comunque prima di assentarmi avrei dovuto
dirlo al parroco di cui ero ospite. E in quel frangente il parroco non si
trovava in casa. Conclusione del discorso: tergiversai, finché quell’uomo si
allontanò. Passai gli ultimi giorni italiani nella confusione e il giorno della
partenza telefonai al parroco. Il giovane era già morto! Non dimenticai mai
quell’episodio! Eppure il Vangelo è pieno di racconti su Gesù che guarisce i
malati. "Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i
malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì
molti che erano afflitti da varie malattie e scacciò molti demoni; ma non
permetteva ai demoni di parlare, perché lo conoscevano. Al mattino si alzò
quando ancora era buio e, uscito di casa, si ritirò in un luogo deserto e là
pregava" (Mc 1,32-35). Prima di lasciare la scena di questa terra comandò
ai suoi discepoli di guarire i malati, come parte essenziale della predicazione
del Vangelo: "Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà
battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato. E questi saranno i
segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno i demoni,
parleranno lingue nuove, prenderanno in mano i serpenti e, se berranno qualche
veleno, non recherà loro danno, imporranno le mani ai malati e questi
guariranno" (Mc 16,15-18). Probabilmente io non ho ancora capito l’intima
natura del Cristo di cui mi dico missionario!
Guarigione e miracoli
È il 15 febbraio 2001, mattina, ore 7.45! Sto scrivendo queste riflessioni,
quando la campana della chiesa parrocchiale, con i suoi caratteristici rintocchi
mesti per queste occasioni, annuncia al paese che qualcuno è morto. Nemmeno
Giovanni, l’uomo anziano mio inquilino sempre informato di tutto ciò che
accade nel paese, sa rendersi conto dell’accaduto. Senz’altro dev’essere
stata una morte repentina! Telefono al parroco: è morta una giovane mamma di 29
anni, ieri sera. Un embolo l’ha agghiacciata madida di sudore freddo sul letto
dell’ospedale dove era appena stata condotta. Solo due settimane fa la
diagnosi medica le aveva rivelato un tumore in metastasi! Forse l’embolo s’è
staccato anche perché la paura aveva assalito il suo corpo e il suo spirito,
paralizzando l’energia che reagisce al male e risuscita il bene. Luisella, è
questo il suo nome, lascia Azzurra, la figlioletta, il giovane marito e i due
genitori anziani. Era toccato a me amministrare il battesimo ad Azzurra, e
ricordo la gioia che straripava in quella casa alcuni anni fa in quell’occasione. Il nonno di
Azzurra, il papà della defunta, a ogni primavera è venuto a portarci le
piantine di lattughe, pomodori e altri ortaggi che faceva germogliare nel suo
vivaio anche per "La stella del mattino". Per la mamma di Azzurra non
ci fu nemmeno il tempo di pregare il Cristo, colui che guarisce, affinché le
facesse la grazia della guarigione. Ma per altre mamme che ho potuto conoscere
bene, quel tempo ci fu. Pregammo tutti: i famigliari, la comunità parrocchiale,
qualcuno pellegrinò perfino a Lourdes o da padre Pio, per intercedere.
Pregarono i giovani mariti. Pregarono anche tre bimbi di 10, 8 e 5 anni,
chiedendo a Dio di lasciare loro quella donna che li aveva generati e del cui
calore avevano ancora tanto bisogno! Ma la mamma morì. Con questi ricordi, non
riesco a gioire quando mi giunge la notizia di un avvenuto miracolo, come quelli
che vengono addotti per la proclamazione dei santi. Ho letto anche delle
preghierine sulle immaginette di persone morte in odore di santità, come si
dice, in cui si chiede un miracolo affinché quel tale sia dichiarato santo.
Quindi il malato dovrebbe guarire per la glorificazione di un santo? Gesù, dopo
aver guarito i malati, comandava il silenzio assoluto: "Mosso a
compassione, stese la mano, lo toccò e gli disse: "Lo voglio,
guarisci!". Subito la lebbra scomparve ed egli guarì. E, ammonendolo
severamente, lo rimandò e gli disse: "Guarda di non dir niente a
nessuno"" (Mc 1,41-43). Qui c’è senz’altro una grande differenza
fra i racconti evangelici e i nostri pii racconti. A cui si aggiunga che Gesù, colui che guariva, fu poi dichiarato bestemmiatore, quindi condannato a
morte; mentre le nostre storie di miracoli finiscono sempre in gloria! Un giorno feci visita a una donna ricoverata all’ospedale. Questa mi disse:
"Dica pure a quelli della parrocchia di non venirmi più a trovare".
"Ma! Che dice mai, signora! Non è forse piacevole una visita di chiunque
sia, quando si è malati?", replicai quasi incredulo. "No! Dica pure
di non venire più! L’ultima volta mi hanno spiegato che vengono a trovarmi
perché fanno parte di una pia associazione che ha come regola di andare a
trovare un malato la settimana. Pensavo venissero per me; e invece vengono
perché hanno la loro regola! L’ultima volta volevano che promettessi di
entrare anch’io nel loro gruppo, quando fossi ritornata a casa! Non mi
piacciono!". Quanto baccano attorno alle pie opere di misericordia! Gesù,
colui che guarisce, comandava il silenzio. Con tutti i miei dubbi sui miracoli, tuttavia
non posso cancellare dal Vangelo il grande ruolo che vi svolgono le guarigioni
operate da Gesù! Forse io non le comprendo ancora, perché nella vita non mi
sono ancora imbattuto in vere malattie, quelle che abbattono e distruggono i
progetti ideati con tanta cura! Come ha fatto il tumore nella vita e nella casa
di Luisella.......
.....Il seguito di questo articolo sull'opuscolo
Canzoniere
da "Visione e preghiera"
Dylan Thomas (1914-1953)
Perché colui che ora apprende il sole e la luna
Del latte di sua madre possa fare ritorno
Prima che le labbra avvampino e fioriscano
Alla stanza sanguinante della nascita
Dietro l'osso di scricciolo
Del muro e ammutolisca
E il verde
Che Generò
Per
Tutti gli
Uomini l'adorata
Luce infantile o
L'abbagliante prigione
Si spalanchi al suo arrivo.
Nel nome di tutti i dissoluti
Smarriti sopra il monte non battezzato
Nel centro delle tenebre io lo prego
traduzione di Ariodante Marianni
Shunryu
Suzuki-roshi, Rami d’acqua scorrono nell’ombra. Commento zen al Sandokai,
Roma, Ubaldini, 2000.
Il libro che presentiamo raccoglie una serie di discorsi tenuti da S. Suzuki
nell’estate del 1970 allo Zenshinji di Tassajara in California (monastero da
lui stesso fondato), che hanno per oggetto un testo cinese fondamentale nella
tradizione del soto zen : il Sandokai di Sekito Kisen (Shitou Xiqian- 700/790
d.C.). Ricordiamo che la traduzione del Sandokai ed un commento allo stesso sono
stati presentati nel numero 1,1998 de "La stella del mattino", curati
da Jiso Giuseppe Forzani. Il titolo di questo sutra viene tradotto come "L’armonia
di differenzae uguaglianza", e potremmo dire che l’intero lavoro di
esplicitazione dei versi condotto da Suzuki non è altro che un continuo
ritornare al contenuto del titolo,che racchiude già in sé lo sviluppo di tutto
il
componimento, come un seme. E’ difficile rendere con una recensione il ritmo e
il tono di una serie di discorsi che, prendendo spunto da pochi versi per volta,
giungono spesso a toccare argomenti che si allontanano dal modello di una
esegesi classica, connettendo spesso i contenuti speculativi del sutra a
situazioni vive, presenti nel momento in cui Suzuki sta parlando, insieme ai
suoi discepoli e interagendo con essi. Questi discorsi non sono mai stati
scritti da Suzuki, ma raccolti da alcuni suoi discepoli dopo la sua morte,
avvenuta un anno e mezzo dopo aver dato questi insegnamenti, il 4 Dicembre 1971.
Prima di tutto ci viene ricordato che Sekito Kisen, nato nella provincia del
Guandong in Cina, scrive questi versi anche per dirimere una disputa che a quei
tempi agitava lo zen cinese. Si tratta cioè della distinzione tra Hoku zen, o
zen settentrionale (la via graduale di Daitsu Jinshu) e Nan zen, o zen
meridionale (la via dell’illuminazione improvvisa del sesto patriarca Daikan
Eno), che generava conflitti, inutili paragoni ed inevitabili dibattiti sull’autenticità
e fedeltà dell’una o dell’altra scuola. Dal punto di vista di Sekito,
queste dispute non hanno alcun senso. "La mente del grande saggio dell’India
/ è intimamente trasmessa dall’ovest all’est ./ Mentre le capacità umane
sono acute o ottuse, / la via non ha patriarchi settentrionali o
meridionali." La mente del grande saggio dell’India, dice Suzuki,
"è la grande mente entro cui esiste ogni cosa...La mente che abbiamo
durante la pratica di zazen è la grande mente"; cioè una mente che non
discrimina, che non separa, che non recide, che non concepisce, che non
comprende niente.. ma che nemmeno rifiuta, nega, dissimula, vela. Una mente
povera, che vista dalla nostra cultura teoretica sembra piccola, proprio perché
rinuncia a ciò che riteniamo essere il carattere distintivo di una "grande
mente": la capacità di distinguere, di comparare, di riunire e di
ordinare. Da qui allora, ogni distinzione geografica, culturale, religiosa è
solo un
aspetto di "qualcosa" che si presenta sempre accompagnato dal
carattere opposto, che nel bel mezzo della distinzione predica l’unità. Nel
fondo
dell’insegnamento non ci sono distinzioni, ma anche accettare l’identità
"ancora non è illuminazione". Rifiutare l’illusione, la
transitorietà dei fenomeni (termine che include sia le cose, che i pensieri, le
emozioni, gli stati soggettivi e oggettivi) per schierarsi con il principio, con
l’unità, con ciò che nel sutra viene chiamato "l’oscurità",
cioè l’indistinto, anche questa è un’altra illusione. In fondo illusione e
risveglio potrebbero essere considerati da un buon praticante buddista, gli
opposti per eccellenza, gli archetipi di ogni opposizione; ma secondo il vecchio
principio di non contraddizione, o l’uno o l’altro, ma mai entrambi.
Dovremmo però ricordare che per Aristotele i principi della logica avevano la
funzione di organizzare il discorso, o meglio la dimostrazione, non certo la
dimensione del "particolare", della vita , che era riservata all’etica
(dell’individuale non si dà scienza, diceva il filosofo greco). La logica
poco può dirci sulla coerenza o sulla incoerenza degli istanti che
costituiscono la nostra vita (che non è un discorso, o lo è solo in parte), ed
illusione e risveglio, lungi dall’escludersi l’uno con l’altro, si cedono
gentilmente il passo. "Nella luce c’è l’oscurità, / ma non
considerarla come oscurità. / Nell’oscurità c’è la luce, / ma non vederla
come luce./ La luce e l’oscurità si contrappongono / come il piede davanti e
quello dietro mentre si
cammina." Coincidentia oppositorum, direbbe la mistica occidentale, ma tale
sintesi non può essere dialettica, perché in verità non c’è nessuna
separazione.e tutto si risolve in una bella passeggiata! "Ascoltando le
parole, comprendi il significato;/ non creare criteri personali." Dopo aver
detto e ridetto nel sutra l’unità degli opposti, la continuità di ciò che
non possiamo fare a meno di vedere separato, Sekito conclude come animato da una
preoccupazione: che le sue parole, che ogni parola, non prendano il posto dell’attenzione
che giorno e notte dobbiamo riservare alla via che abbiamo dinanzi agli occhi,
al sentiero su cui camminiamo. Proprio sul criterio e sul metodo, Suzuki dice
"Non creare criteri personali. Forse all’inizio nessuno di noi coglierà
il punto. La maggior parte della gente inizia a studiare lo zen per capire che
cosa sia. Questo è già un errore. Sono tutti alla ricerca di una qualche
comprensione o di regole da seguire. Il modo per studiare lo zen dovrebbe
somigliare al modo in cui i pesci trovano il cibo. Non cercano
di prendere nulla. Si limitano a nuotare qui e là e se arriva qualcosa di
buono, snap!..Anche se non ottenete nulla, in realtà state studiando, come il
pesce che sembra non sapere cosa sta mangiando. Ecco tutto."
Emiliano Ferrari
Agostino,
Amore assoluto e "terza navigazione" - Commento alla Prima Lettera di
Giovanni e al Vangelo di Giovanni (secondo discorso), a cura di G. Reale,
Milano, Bompiani, 2000
Talis est quisque, qualis eius dilectus est
(Ciascuno è ciò che egli ama) Agostino, commento alla Prima lettera di Giovanni,
IX 190
Volentieri ho acquistato di recente questo volume su Agostino che, a mio avviso,
unisce alcuni pregi che non sempre si ritrovano nelle diverse edizioni dei suoi
scritti: la presenza cioè del testo latino a fronte, nonché un nutrito numero
di pagine introduttive, le quali costituiscono quasi un saggio sul tema
dell'amore nella filosofia greca e cristiana. Inoltre, l'edizione è corredata
di note, parole chiave e diversi indici analitici i quali consentono di
identificare chiaramente i riferimenti a cui il testo rimanda, e di avere in
sintesi la scansione con la quale il testo stesso si sviluppa. Tra i tanti
motivi per i quali si potrebbe consigliare la lettura di testi
"classici" nell'ambito filosofico-teologico, credo siano poco
interessanti, e in definitiva superficiali, quelli che tendono a usare i
medesimi per una apologia a buon mercato delle posizioni di una data religione
(quella cristiana cattolica in questo caso). Ritengo,invece, che l'opportunità di riprendere e riscoprire autori appartenenti ai primi
secoli della storia di una tradizione religiosa, sia un esercizio utile, a volte
forse indispensabile, per chiarire sempre meglio quei rapporti e intrecci che
intercorrono, fin dalle origini, tra "cultura" e
"religione". In questo senso, forse, Agostino è più
"tradizionalmente" noto per alcune posizioni da lui sostenute (a volte
a lui soltanto attribuite) riguardo la ripresa, in ambito cristiano, di quel
dualismo relativo al rapporto anima-corpo mutuate da un certo pensiero greco.
Meno conosciuto, probabilmente, è quell'Agostino che fu una delle
figure determinanti per lo sviluppo del cristianesimo delle origini, capace di
unire "in sé l'energia creatrice di Tertulliano e la larghezza di spirito
di Origene con il senso ecclesiastico di Cipriano, l'acutezza dialettica di
Aristotele coll'idealismo e la speculazione di Platone, il senso pratico dei
Latini con la duttilità spirituale dei Greci", come ebbe a dire di lui uno
dei massimi studiosi di quel periodo. Inutile dire che queste righe mi trovano
d'accordo nel ritenere che,
per chi abbia interesse, o anche solo curiosità, per i temi a cui si è
accennato, non sia inutile affrontare questo autore di cui spesso si ritiene di
sapere, anche fra gli "addetti ai lavori", ma che credo rimanga per lo
più poco conosciuto. In questo senso, sarà pure interessante leggere il buon
saggio che il
Reale premette al testo proposto, saggio che tenta di chiarire il concetto
dell'amore e della croce in Agostino e il capovolgimento rivoluzionario di
alcuni concetti-cardine del pensiero greco in generale e di Platone in
particolare; sostanzialmente si tratta di un saggio condivisibile nelle
tesi proposte, anche se alcuni nodi tematici affrontati andrebbero, a mio più
che modesto parere, resi in modo più "problematico", soprattutto
quelli relativi al rapporto tra
pensiero platonico/neo-platonico e traduzione in chiave speculativa dei
contenuti del messaggio cristiano. Risulterebbe utile, a tal proposito,
riferirsi anche a testi più propriamente "filosofici" dello stesso
Agostino, quali i Soliloquia, il Contra Academicos e altri, nei quali meglio
sono approfonditi i temi sui quali tale rapporto si andò via via chiarendo e
sviluppando. Ma torniamo decisamente ad un piano meno specialistico, certamente
accessibile a tutti i lettori, anche a chi non si diletti nelle problematiche a
cui finora si è accennato. Gli scritti proposti in questo volume, infatti, non
sono opere di carattere teorico o sistematico: sono invece discorsi che
Agostino, ormai vescovo, presentava a viva voce ai suoi cristiani. Contenuto di
queste riflessioni sono il Vangelo e la Prima Lettera di Giovanni, riflessioni
che costituiscono innanzitutto l'occasione per una lettura
"spirituale" prima che ogni altra. A tal proposito, la traduzione del
Reale si fa apprezzare anche per un abbondante uso degli "a capo",
accorgimento che consente di alleggerire la lettura e soprattutto di tentare di
rendere, anche nel testo scritto, quella vivacità nella comunicazione
tramite la parola in cui Agostino era espertissimo. Anche in quest'opera,
quindi, si può ritrovare quella caratteristica di "non-sistema"
propria del suo pensiero, quella continua presenza di "mediazione" e
"immediatezza" che prendono dimora nell'interiorità, dove si svolge
il colloquio con sé stessi e con Dio. Ancora una volta, si potrà riscontrare
come egli non sia mai stato "....da un lato, un puro filosofo in senso
razionalistico...né, dall'altro, ...un mero fideista ad esclusivo vantaggio
della fede. Anzi, si può ben dire che [egli] ha costruito un modello di
pensiero in cui ragione e fede sono strutturalmente mediate, in modo dinamico e
fecondo" (dall'Introduzione). Concludo augurando una lettura
"buona" a chi vorrà avvicinarsi a questi scritti, con un invito a
considerare come, anche per noi oggi, risulti del tutto attuale la problematica
che Agostino visse in prima persona, come, cioè sia indispensabile per ognuno
mantenere viva la ricerca di un chiarimento reciproco tra i contenuti di una
fede religiosa (qualunque essa sia) e le istanze della "ragione" che
sola può consentire a una "fede" di meglio conoscersi ed
esprimersi.
Giuliano Burbello
Notizie generali
Domenica 4 febbraio a Galgagnano, in conclusione del ritiro mensile c'è stato
un incontro per fare il punto della situazione riguardante gli aspetti
organizzativi della " Stella del Mattino" e in particolare la gestione
della casa-madre. L'incontro era preceduto da una lettera inviata da p. Luciano,
Jiso e Federico ai coordinatori dei gruppi locali e a coloro che seguono in
maniera più assidua gli incontri a Galgagnano. In essa si parlava
dell'opportunità di modificare alcuni elementi della struttura della
"Stella del Mattino", in modo da calibrare maggiormente alla realtà
dei fatti quelle decisioni maturate nel corso del seminario di quest'estate e
rese pubbliche sull'opuscolo (v. gli ultimi due numeri dell'anno passato). Più
precisamente si diceva che: 1) la responsabilità e la cura della casa-madre
sarebbe stata assunta da p. Luciano in collaborazione con il comitato dei laici
e con chi ha a cuore la vita della casa; 2) Jiso, dal canto suo, avrebbe
concentrato il suo impegno per animare il nuovo centro a Lodi, affiancando
Federico nell'attività di coordinamento dell'opuscolo. Peraltro veniva
considerato attuale l'invito ai laici e al comitato che li rappresenta a
partecipare in forma diretta e costruttiva all'esperienza della "Stella del
Mattino". L'incontro del 4 febbraio, che ha visto la partecipazione di
circa una ventina di persone, è stato ricco di interventi, dimostrando il vivo
interesse dei presenti agli sviluppi futuri dell'esperienza in corso, chi con
fiducia, chi con preoccupazione. Quanto segue è il testo steso da p.Luciano,
nei giorni successivi all'incontro, e concordato con Jiso e Federico.
Sguardo sul futuro
Assumo volentieri la responsabilità della conduzione della casa di Galgagnano,
sia per la mia intima convinzione, sia per la calda richiesta da parte di Jiso,
sia l'unanime auspicio espresso dalla ventina di laici convenuti alla riunione
sull'argomento il 4 febbraio scorso. Assumo la suddetta responsabilità che
intendo svolgere in un continuo rapporto di fraterno rispetto con Jiso e in un
costante dialogo con il comitato dei laici per il coinvolgimento negli stessi
ideali e situazioni concrete di cammino. Vedo questi quattro anni che precedono
il contratto d'affitto (31 dicembre 2004) come il tempo in cui verificare questa
fisionomia della casa, ciò che la tiene unita e ciò che la diversifica; in
particolare la fedeltà all'idea iniziale di spazio o laboratorio del dialogo, e
contemporaneamente la nuova situazione in cui si è preso maggiore coscienza
delle differenze delle due posizioni religiose e si intende significare ciò con
l'autonoma conduzione di due centri geograficamente distinti. Riconosco che
l'aspetto più delicato della conduzione della casa di Galgagnano nel prossimo
futuro consiste proprio nel conservare in certe iniziative il clima di
laboratorio dell'incontro in cui i due messaggi religiosi sono ugualmente attori
di testimonianza e di proposta, mentre per molte altre iniziative la casa andrà
assumendo il ruolo più specifico della sponda cristiana. Mentre riconosco che
la situazione è di fatto molto cambiata e che la casa non può più essere
amministrata come negli anni passati, tuttavia ribadisco con mie parole
convinte, il parere espresso da alcuni circa il bene di conservare, almeno in
parte, la fedeltà all'idea originaria da cui è nata questa casa: ossia come
ambiente di laboratorio del dialogo religioso Vangelo e Zen. Sono convinto che
un luogo che significhi visivamente e anche geograficamente ciò verso cui si
cammina
sia necessario: qualcosa che sia un passo avanti in confronto del punto in cui
noi siamo, un segno che ci sproni, che ci rammenti, e che ci inviti a camminare.
La casa non ospita solo il bisogno attuale, per esempio dei due che si sposano o
di altri che per un motivo o un altro mettono su casa assieme; ma ospita anche
la loro speranza futura. La speranza va ospitata, affinché nasca. I quattro
anni che seguono sono il banco di prova perché si evidenzi ciò che è bene che
nasca. Senza forzature, ma anche aiutando a nascere ciò che si fa evidente che
vuole nascere.
p. Luciano
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