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La Stella del Mattino

Laboratorio per il dialogo religioso

nuova serie – trimestrale

n. 4 ottobre-dicembre 2003

 

 

 

Presentazione

Affrettarsi senza fretta

 

 

In cammino

Giuseppe Jiso Forzani

Ovviamente…la libertà (a seguire: Eihei Dogen, Shoji – Vita e morte)

 

 

Mauricio Y. Marassi

Gesù visto da un buddista

Luciano Mazzocchi

Delle onde e del mare

 

 

Canzoniere

Preghiera per il giorno che sta per cominciare

 

 

Voci

Ken Knabb

Due saggi critici sul buddismo impegnato

 

Federico Battistutta

Apertis verbis dicere. Nota a Ken Knabb

 

Mauricio Y. Marassi

L’incubo del terzo millennio: la politica buddista

 

 

Schede

a cura di Giuliano Burbello e Valeriano Massimi

 

 

Notizie

 

 

 

 

Redazione: Federico Battistutta, Giuseppe Jiso Forzani (coordinatori), Alberto Braida, Giuliano Burbello, Luciana Della Flora. Mauricio Yushin Marassi e Silvia Papi

Sede: via Gaffurio 11, 26900 Lodi

Tel. e fax: 0371.424801

E-mail: laequilibrista@libero.it

Sito web: web.tiscalinet.it/stellamattino, a cura di Andrea Zaniboni

Abbonamento ordinario: Euro 15,50

Abbonamento sostenitore: Euro 25,90

Conto corrente postale: 41527219 intestato a Associazione Culturale L’Equi-librista

Stampa: Cooperativa sociale "Eredi Gutenberg", Piacenza

Autorizzazione del Tribunale di Lodi n. 334/02 del 5.4.2002

Direttore responsabile: Federico Battistutta

Proprietà: Associazione Culturale L’Equi-librista

 

 

 

 

Arretrati:

 

Opuscolo di gennaio - marzo 2001

Opuscolo di aprile - giugno 2001

Opuscolo di luglio - settembre 2001

Opuscolo di ottobre - dicembre 2001

Opuscolo di gennaio - marzo 2002

Opuscolo di luglio - settembre 2002

Opuscolo di ottobre - dicembre 2002

Opuscolo di gennaio - marzo 2003

Opuscolo di aprile - giugno 2003

Opuscolo di luglio - settembre 2003

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Presentazione

 

 

 

 

Affrettarsi senza fretta

 

A volte, un ritardo, scandito ciclicamente, diviene una forma di puntualità. E’ quanto sta accadendo al nostro periodico. Ciò può accadere ad iniziative editoriali che nascono prima di tutto per un bisogno di ricerca e di approfondimento e che si devono scontrare con le incombenze, grandi e piccole, che per forza di cose costellano la vita ordinaria di una rivista. Questa veniale ammissione può valere più di una richiesta di scuse che lascia poi le cose come stanno. Con il nuovo anno che inizia ci auguriamo di proseguire il cammino intrapreso senza adagiarci sui risultati ottenuti. E l’incoraggiamento che ci proviene dagli abbonati e dai lettori che ci seguono sia davvero stimolo, per noi, e pungolo a rinnovarci, non per lo spettacolo del nuovo ad ogni costo, ma per riscoprire la novità di ciò che da sempre abbiamo sotto gli occhi e che continuamente si rinnova.

Quali sono gli elementi che compongono questo numero della rivista? La prima sezione della rivista appare ricca di materiali. Il primo intervento, se si vuole, costituisce la naturale prosecuzione di un discorso iniziato, attraverso alcuni significativi contributi, nel precedente numero. Partendo da un breve ma denso testo del maestro zen Dogen vengono, per così dire, dette alcune cose sulla vita e sulla morte, affrontando in questo modo di petto il nucleo più intimo dell’interrogazione religiosa. "Colui che pensa di doversi distaccare da vita e morte, deve veramente chiarificare questo punto", dice nel testo Dogen.

L’articolo che segue si situa invece all’interno del genere di indagine da sempre caro alla "Stella del Mattino", quello del dialogo fra le religioni. Lo sguardo su Gesù proposto potrà forse stupire, magari risultare inaccettabile a qualcuno, a chi si riconosce esclusivamente in una prospettiva ortodossa o dogmatica, ma d’altro canto se si è disposti da accettare una riflessione che nasce da punto d’osservazione eccentrico a quello cristiano, occorre la disponibilità ad abbandonare quei bagagli che possono risultare ingombranti verso un sincero dialogo. Nella fattispecie, l’autore dell’intervento sostiene che il messaggio contenuto nella letteratura che narra di Gesù può essere accettato e quindi praticato da un buddista solo quando sia totalmente universalizzato.

Il testo di p. Luciano Mazzocchi che presentiamo consiste in una riflessione sulle evocazioni e sul richiamo spirituale e religioso che è intrinseco all’elemento dell’acqua. E’ anche l’anticipazione di un saggio (di cui è prevista la pubblicazione) a sfondo autobiografico dell’autore, nel quale focalizza il periodo di vita missionaria trascorso in Giappone, in cui egli ha avuto modo di sperimentare con intensità il dialogo con la spiritualità zen.

Dopo l’intermezzo poetico, costituito questa volta da una preghiera, proveniente dalla tradizione cristiana orientale, dedicata alla vita quotidiana, la sezione "voci" offre alcuni contributi critici riguardanti quel filone chiamato ‘buddhismo impegnato’ o ‘sociale’. Questa lettura viene proposta anche con l’intenzione di sviluppare pure in Italia una riflessione cha da alcuni anni è in corso in molte parti del mondo. Gli interventi di un autore americano, già apparsi su altre riviste e tradotti in diverse lingue, sono affiancati da brevi commenti di autori italiani.

Le schede di letture e le consuete notizie chiudono il numero.

F.B.

 

 



In cammino

 

 

 

Ovviamente…la libertà

Giuseppe Jiso Forzani

 

 

Mi accingo, e chi non è disposto graziosamente a perdonarmi in via preventiva quantomeno ipotetica fa bene a esimersi dalla lettura, a dire alcune cose sulla vita e sulla morte. No, non sono impazzito, almeno non mi pare guardando le reazioni ai miei comportamenti da parte di chi mi è abitualmente vicino: non sono preda né di un delirio di onniscienza, per cui credo di sapere e di avere da dire cose che non siano già nella mente di tutti riguardo a un problema su cui, a rigore, non ci sarebbe niente da dire, né di un’ansia di banalità, per cui desidero ridurre una questione che tutti ci sovrasta e condiziona, a un discorsetto consolatorio o eticheggiante. Se mi appresto a cedere a questa tentazione, fra Scilla del narcisismo e Cariddi dell’insipienza, è proprio perché sono sicuro di non avere niente di risolutivo da dire: quel poco di esperienza, di pratica e di studio che mi hanno condotto fin qui, mentre mi hanno aiutato a chiarire alcuni aspetti del problema, soprattutto per quanto riguarda il suo posizionamento, mi hanno nel contempo permesso di acclarare quello che è probabilmente the heart of the matter: la soluzione definitiva del problema della vita, quando e dove costituisca problema, si dipana soltanto vivendo, mentre la soluzione definitiva del problema della morte, se così lo intendiamo e vogliamo chiamare, si avvera soltanto morendo. Ovviamente. Ovvietà, però, non banale né insignificante, anzi, terribile e consolante a un tempo. Grazie ad essa, mi accingo a discorrere a cuor leggero, libero dal pericolo di voler fornire risposte anticipate che ignorano la verità della domanda, consolazioni fasulle come salvagenti sgonfi, formule salvifiche velenose come medicine guaste. Non ho nulla da dire che chiunque non sappia: bene, dirà qualcuno, e allora a che scopo affaticare il foglio bianco? Beh, qui sono un po’ meno sicuro della sincerità delle mie affermazioni: ma direi che il motivo principale sta nel fatto che trattiamo il tema (se così si può chiamare) dal numero scorso della rivista e abbiamo deciso di presentare un testo di Dogen che già in passato abbiamo diffuso e che ci è parso opportuno riproporre dopo averlo rivisto. Questa rilettura ha stimolato in me alcune considerazioni, uno zibaldone di pensieri e parole la cui incoerenza poggia sul paradosso che la tematica si porta dietro. Ho deciso di proporli alla lettura, non come semplice commento al testo, ma come cornice che può avere un suo senso e valore (stabilisca chi vuole) anche senza il quadro: alla mia età è arrivato il tempo di smettere, ogni tanto, il vezzo di parlare solo al riparo del paravento "l’ha detto Lui" (ognuno ha il suo Lui di riferimento) e di prendersi la responsabilità di ciò che si dice: consapevole del debito insaldabile verso chi prima e meglio di me ha parlato delle medesime cose, forgiando così anche il mio pensiero. Del resto la mia vita è viva con me, la mia morte muore con me: se non ne parlo io, chi mai potrà dirne qualcosa?

Il problema della vita e della morte fa da sottofondo alla condizione umana. Da quando, osservando la morte di altri esseri viventi, fa capolino il sospetto, quantomai realistico, che la morte riguarda non solo gli altri ma anche noi stessi, questo problema occupa un posto del tutto particolare nella sensibilità umana. Direi che diventa in un certo senso paradigmatico: e cercherò di spiegare innanzitutto cosa intendo con questa affermazione. Cerchiamo di identificare i termini del problema. Penso che si debba prima di tutto notare che quando diciamo problema della vita e della morte intendiamo parlare soprattutto della morte, o per meglio dire del fatto che, stando al nostro punto di osservazione, vivere implica necessariamente il fatto di morire. Io mi so vivo, e dentro a questo mio sapermi vivo fa capolino il pensiero, che non so smentire, di essere destinato a morire. Il problema dunque è che fare con la morte, o meglio con il pensiero della morte, che non è un pensiero aleatorio e campato in aria ma estremamente verosimile. Diciamo subito che la morte che fa veramente problema è solo la mia: la morte altrui, infatti non è un problema di morte ma di vita. Un paradosso che subito sperimentiamo è questo: la morte che io vedo, di cui posso parlare e su cui posso riflettere è solo la morte altrui: ma la morte altrui cade sempre dentro la mia vita, è un problema della mia vita, è un problema di vita, non di morte. La morte altrui può essere così straziante da stravolgermi la vita fino al punto che per me sia insensato continuare a vivere: e proprio questo dimostra che è un problema interno alla mia vita, è un problema di vita non di morte. Dunque il problema della morte altrui io lo devo affrontare come un problema della mia vita, cosa che invece non posso fare con la mia morte. Io infatti non posso pensare alla mia morte dentro alla mia vita: o c’è la mia vita o c’è la mia morte, qualunque cosa essa sia. Il problema della morte, dunque, è un problema essenzialmente individuale: l’unica morte che c’è è la mia morte, essendo tutte le altre morti, per me, questioni di vita.

Nel contempo, questo problema essenzialmente individuale riguarda ciascuno, nessuno escluso. La vita di ognuno di noi è del tutto diversa da quella di ciascun altro: sotto quella che appare come una generale similitudine (tutti nasciamo, respiriamo, ci nutriamo, cresciamo, operiamo, pensiamo…..) si cela una diversità incommensurabile, perché tutte queste cose ognuno le fa in modo del tutto diverso da chiunque altro: nessun’altro da me è nato come, dove e quando sono nato io, nessuno respira come respiro io l’aria che respiro io e via dicendo. Questa innegabile diversità incommensurabile veicola però un’altrettanto innegabile similitudine generalizzata, che potremmo chiamare il funzionamento: solo io respiro come respiro io, ma il funzionamento del respirare è così simile in ciascuno che dicendo "io respiro" tutti i respiranti coscienti di respirare sanno più o meno di cosa sto parlando. Io posso comunicare con gli altri e sapere più o meno di cosa sto parlando, tutte le volte che parlo di un’esperienza di vita, di esperienza della vita: ogni forma di cultura, di scienza, di religione, nasce da qui: dalla possibilità, per quanto imperfetta di poter comunicare esperienza di vita, fosse anche l’esperienza dell’incomunicabilità, sulla base di un funzionamento generale assimilabile. Dunque le esperienze sono tutte diverse e comunicabili: o meglio, l’esperienza della comunicazione è parte integrante di ogni singola differente esperienza di vita umana, grazie al fatto che i nostri individuali modi di funzionare sono simili in senso generale. Si tratta solo (e non è poco) di trovare dei linguaggi convenzionali che permettano di comunicare in modo relativamente esatto l’esperienza individuale ad altri individui. Ogni tentativo di comunicazione è narrazione, ogni narrazione nasce di qui, dal tentativo di trovare linguaggi commensurabili per dire esperienze incommensurabili. C’è una sola esperienza (?) che è per definizione davvero totalmente incomunicabile ed è nello stesso tempo l’unica esperienza davvero identica per tutti e per ciascuno: quella della propria morte. Io non posso raccontare la mia morte neppure a me stesso. Non la posso neppure pensare. Eppure, guardando da vivo la morte di altri, io vedo che succede (?) sempre la stessa cosa: c’è tutto della vita, ed ecco non c’è più niente. Fra una persona viva e un cadavere la differenza è la stessa che dal tutto al niente. Non si può dire cosa è successo, quando è successo, non si può neanche dire che è successo qualcosa: forse perché è successo tutto. La similitudine del sonno è la più insulsa che ci sia: c’è maggior radicale differenza fra un dormiente e un cadavere che fra un dormiente e la sua fotografia. La morte non assomiglia a null’altro che a se stessa, e proprio per questo è uguale per tutti: è davvero la livella. Ecco un altro paradosso: nulla si può dire della morte, perché è impensabile, indicibile, indescrivibile: eppure è contemporaneamente innegabile.

Abbiamo identificato due paradossi concomitanti: l’unica morte che ha senso chiamare morte è la mia, essendo tutte le altre elementi della mia vita, eppure la mia morte è l’unica cosa cui non posso neanche pensare, perché non saprei che pensarne: non ho nessun elemento per strutturare una narrazione della morte che non sia l’allucinazione di un vivo. Nello stesso tempo la mia morte è una sorta di certezza: è non meno certa della mia vita. Ed è un’esperienza (uso il termine con la dovuta cautela, in mancanza di ogni altro termine adatto) uguale per tutti, a vederla da fuori, nel senso che provoca la stessa identica indescrivibile eppur innegabile impressione: c’è un identità di assenza in tutti i cadaveri.

Diciamo subito qui che i cadaveri non sono i morti: i cadaveri sono parte della vita. E’ proprio il fatto che il morto è evidentemente altrove (o comunque non qui) che fa di un cadavere un cadavere. Ciò che impressiona in un cadavere è proprio ciò che non c’è, non quello che c’è. Possiamo dire che il cadavere è vivo, è nella vita, (e infatti prosegue il suo processo biologico) mentre il morto non c’è (nella vita): e questo è il punto.

 

Il problema della vita e della morte è paradigmatico perché sintetizza il paradosso e ci costringe a guardarci dentro meglio e più a fondo.

Noi diciamo, lo abbiamo detto spesso, che il fatto stesso di nascere comprende il morire: moriamo perché nasciamo, se non fossimo nati neppure morremmo ecc…. Questo appare come un paradosso costitutivo della nostra realtà. Ma questo è vero se diamo verità a un assioma che invece è tutto da dimostrare: e cioè che quello che vive e quello che muore siano la stessa cosa. Se cioè noi postuliamo un io (materiale o spirituale che sia, qui non fa differenza) che "prima" (ora) è vivo e "poi" (in un quando indefinito ma certo) è morto. Nulla però giustifica questo modo di pensare e credere: anzi. Non posso fidarmi fino a questo punto del mio pensiero associativo, deduttivo e comparativo. Io so qualcosina (poco) del funzionamento di quella cosa che chiamiamo vita – e quello che ne so è talmente poco che ancora non mi ha permesso (a me in quanto rappresentante del genere umano) di imparare (dopo quante migliaia di anni?) a vivere su questa terra in maniera appena decente – e quel poco che so non mi autorizza assolutamente a pensare che quella cosa che chiamiamo morte assomigli in qualche modo alla vita. Anzi, tutto ciò che so mi porta a concludere che non vi è nessun termine di paragone fra vita e morte e proprio questo è il problema: che le due cose appaiono relative mentre non hanno nessuna relazione fra loro. Tutto ciò che so, che penso, che sperimento è nell’ambito della vita. Quella cosa che chiamo "io", comunque la si voglia intendere, è pertinente a un io vivo. Non si limita certo alla coscienza dell’io: io sono prima di sapere di essere, prima ancora di nascere, e anche quando sono incosciente. Quella catena che porta poi alla mia coscienza di essere e alla possibilità di darmi dell’io comincia certo ben prima della mia nascita: in questo senso i discorsi sull’identità degli embrioni sono meno campati in aria di quanto sembrano (strumentale e ipocrita è l’uso di parte che se ne fa). La si faccia comunque risalire fin dove si vuole, sempre di vita si tratta: il tempo della vita è tutto tempo di vita, la morte non c’entra. La vita e la morte non possono coesistere: dove e quando c’è una, l’altra non c’è. Non può essere giorno e notte insieme: quando è giorno, c’è solo il giorno, la notte non c’è. Nel tempo del giorno, tutto funziona come giorno: nessuno spazio per la notte e per le sue caratteristiche. Inoltre, non si può certo dire che il giorno diventa notte: non c’è qualcosa che prima è giorno e poi è notte. Sarebbe qualcosa che in sé non è né giorno né notte e che diventa giorno o notte a seconda di circostanze esterne: ma tale entità non esiste, perché non c’è una entità (che per essere deve avere un suo modo d’essere in un suo tempo) che non sia appunto "situata". Ora, se parliamo di giorno e di notte, non c’è altra situazione possibile: o giorno, o notte.

Non è dunque il giorno che diviene notte, né la notte che diviene giorno. Fin qui tutto è abbastanza semplice e chiaro. Il problema, per le nostre facoltà di pensiero, comincia qui. Se il giorno non diviene notte, ma io posso però dire, anche di giorno, che la notte è (ha un suo tempo e un suo modo d’essere) anche se di giorno la notte non c’è, e non c’è nulla della notte che sia pertinente al giorno, di giorno la notte dov’è? La questione in questi termini è mal posta: qui la metafora del giorno e della notte raggiunge il suo limite e lo denuncia. Infatti, pur se è vero che il giorno è tutto giorno e la notte è tutta notte, io ho una legittima idea di continuità del mio esserci sia di giorno che di notte: sarà pure il mio io di giorno un io tutto diurno e il mio io di notte un io tutto notturno, ma la continuità della mia idea di io trascorre attraverso giorno e notte. Coesiste, nella mia esperienza e nella sua comunicabilità, tanto l’istantaneità che realizza il tempo in ogni attimo, quanto la continuità che estende il tempo alla sequenza degli attimi. Questo vale per il giorno e per la notte, ma non vale, invece, per la vita e per la morte. La morte appare essere proprio la rottura di questa coesistenza di puntualità ed estensione: della morte cogliamo (per intuito) la puntualità ma non possiamo vederne l’estensione. Essa dunque resta inafferrabile perché insituata, un punto che non ha né tempo né luogo in cui situarsi, stando alle nostre possibilità di osservazione ed esperienza in quanto vivi.

Ma il fatto che io non possa, con le mie facoltà, sperimentare da vivo il tempo della morte, dice il limite delle mie facoltà molto più di quanto non dica sulla natura e sulla realtà della morte. Dice, inequivocabilmente, il limite di un’identità. Questo è un passaggio che non si fa mai volentieri, da cui si cerca di sgusciare con ogni possibile escamotage. Di fronte all’intrinseca impossibilità del pensiero a superare se stesso e ad afferrare l’inafferrabile, invece di smettere congetture e ipotesi sotto specie di credenze e di fedi, stiamo lì ad armeggiare con un attrezzo inadatto, come chi si ostinasse a svitare con un cacciavite a stella una vite con la capocchia a taglio. Siamo disposti a inventare di tutto, pur di non ammettere che quella facoltà di pensiero con cui tendiamo a identificarci è appunto una facoltà, stupenda e meravigliosamente funzionante, se vogliamo, ma con limiti costitutivi invalicabili: e che dunque si rivela inutile per affrontare problemi che non può risolvere, non diversamente da come sono inutili le braccia umane per spiccare il volo.

Ciò non significa che soluzione non sia. Anzi, è proprio qui che ha inizio ciò che noi chiamiamo la Via di Buddha: qui, dove depongo gli attrezzi spuntati e dove utilizzo tutto me stesso per procedere. La Via di Buddha è detta Via di mezzo, nel senso che passa a traverso, attraversa la vita, quando la realtà è vita, attraversa la morte, quando la realtà è morte. Altra risposta non c’è, che non sia traversare.

È la via ovvia, anche nel senso etimologico del termine, la via che ho sempre di fronte (ob viam), l’unica che c’è. Viverla come il territorio e la situazione della mia libertà (nirvana) o della mia schiavitù (samsara) è la mia parte nel gioco.

 

Su questo piano si situa il testo di Dogen. Prima di passare alla sua lettura, propongo alcune considerazioni intese a spiegare alcuni aspetti terminologici e di inquadramento.

 

 

A proposito del testo

 

Il fatto che di questo testo non esista il colophon, cioè il manoscritto con indicato il nome dell’autore e la data di pubblicazione, oltre a varie altre ragioni di stile e di impostazione, ha fatto ritenere ad alcuni studiosi che Shoji non sia in realtà opera di Dogen, anche se una tradizione secolare glielo attribuisce. Certo egli stesso non lo incluse nella versione dello Shobogenzo in 75 sezioni compilata prima di morire. Shoji fa parte invece del cosiddetto Himitsu Shobogenzo (Shobogenzo Segreto), che conta 28 sezioni e che fu completata probabilmente verso il 1350, ad esclusivo uso dei monaci di Eiheiji. Fu pubblicato per la prima volta nel 1690 da Kozen Zenji, trentacinquesimo abate di Eiheiji, che redasse una versione dello Shobogenzo in 95 sezioni. Pertanto è solo a partire dalla fine del XVII secolo che questo testo esce dal ristretto circolo del monastero di Eiheiji. Oggigiorno la critica tende a riconoscerne l’autenticità, anche se alcuni motivi di dubbio legittimamente sussistono.

Sia come sia, alcune espressioni qui contenute sono divenute di uso corrente nell’ambito dei fedeli buddisti giapponesi, anche grazie al fatto che in uno dei testi oggigiorno più usati nelle funzioni religiose del Buddismo Zen Soto, intitolato Shushogi, che è una miscellanea di frasi estrapolate dall’opera di Dogen, si ritrovano, in apertura, le espressioni iniziali di Shoji. Quel testo si usa soprattutto nei funerali e nelle commemorazioni dei defunti, per cui si può dire che moltissimi giapponesi hanno udito quelle espressioni nei momenti del dolore e dell’interrogativo sul senso dell’esistere. La frase finale, poi, è usatissima nelle omelie e nei sermoni rivolti ai fedeli, perché spoglia l’immagine del cammino buddista da quell’alone di inaccessibilità per chi non sia votato a una vita di ascesi e di rinuncia in stile monastico e lo rivela a portata di ogni uomo e di ogni donna, che ne intendano il richiamo e ne intuiscano la direzione.

Per Dogen il problema di vita e morte è problema centrale, come ribadisce spesso, nell’arco di tutta la sua opera, in modo inequivocabile: un esempio per tutti la frase "Chiarire cosa è vita (nascita), chiarire cosa è morte è l’elemento costitutivo della cosa principale della dimora di Buddha" che si trova in Shoakumakusa - Non fare male alcuno. Altrove, il problema della vita e della morte è sinteticamente indicato come daiji, la grande cosa, la grande faccenda o questione.

Nonostante l’importanza del tema, anzi, forse proprio per questo, Dogen lo tratta in modo specifico solo in due brevi testi della sua vasta opera: Shoji, esplicito pure nel titolo, e Zenki - Il funzionamento totale. Entrambi sono molto brevi e scritti in una lingua semplice, accessibile a tutti in quanto a terminologia, anche a chi ignora il linguaggio buddista, che in giapponese utilizza frequentemente termini che non si ritrovano nel linguaggio comune.

Il titolo merita un breve commento a sé. Shoji è parola del lessico comune anche se di uso non molto frequente: ma ha anche una sfumatura particolare, come vedremo, legata alla terminologia buddista. E’ composto da due ideogrammi, sho e ji, e forma un’unica parola mentre i due significati risaltano distinti. L’ideogramma che qui si legge sho (e che scritto nell’identico modo ha anche molte altre letture) copre una gamma di significati la cui ampiezza di sfumature ha dell’incredibile per chi è abituato alle lingue fonetiche: sta a significare (solo per citare i più rilevanti) vita – vivere, nascita - nascere, crescita – crescere, coltivare, rivitalizzare, resuscitare, dar vita, esistere, portare frutti, essere gravida, produrre, creare, nutrire, accadere, risultare, e poi fresco, genuino, non adulterato, raro, rozzo, senza esperienza mentre ji (che da solo si legge shi) vuol dire soltanto morte - morire. Quindi shoji indica in un unica parola le inconciliabili realtà della vita e della morte e contemporaneamente ciò che sta fra la nascita e la morte, esse comprese. Ho preferito introdurre la congiunzione "e" fra le due parole chiave, anziché un trattino inteso a voler sottolineare l’unità dell’espressione: infatti la congiunzione serve proprio a far vedere congiunte cose che sono anche totalmente disgiunte, per cui quell’e, se ben intesa, unisce mantenendo la distinzione molto più di un trattino che separa proprio mentre vorrebbe fondere. Ho deciso di tradurre vita e morte anziché nascita e morte, come altri preferiscono, perché vita mi pare indichi meglio quella dimensione a un tempo puntuale ed estesa di cui parlo altrove, mentre nascita indica più propriamente un evento specifico. Va anche tenuto conto che shoji è utilizzato come equivalente, nella terminologia buddista, del termine sanscrito samsara, nell’accezione di concatenazione ciclica di nascita e morte: implica quindi la nascita, la morte e ciò che vi sta in mezzo, e noi di solito chiamiamo vita questa totalità. In alcuni casi, come il lettore rileverà, alterno il significato di vita e quello di nascita, come il termine giapponese invita a fare, e a mia volta invito il lettore a giocare con i significati secondo la sua sensibilità.

A un certo punto, verso la metà del testo, Dogen sostituisce il termine morte (ji) con il termine estinzione (metsu – che significa anche perdita – perire, rovina – rovinare – essere rovinato, distruggere, sterminare…). Ho inteso voglia indicare con un termine più "mobile" di quanto non sia morte – morire, ciò che è tutt’altro da nascita – vita, a essa incommensurabile e imparagonabile, e nondimeno con una propria intrinseca dinamicità.

Le prime due frasi del testo sono, secondo uno schema che Dogen usa molto spesso, una citazione di un episodio antico. Lo riporto integralmente, così come si trova nel Ching te chuan teng lu (Keitoku dentoroku), 7: è la storia di un dialogo fra due monaci zen cinesi Cha shan Shan hui (Kassan Zene 805-881) e Ting shan Shen ying (Jozan Shinei 771-853) che a un certo punto, come vedremo, chiamano in causa l’abate Ta mei (Dai Bai).

Mentre camminano fianco a fianco discorrendo, Jozan dice a Kassan: "Se nella vita e morte non c’è Buddha, allora non c’è neppure vita e morte." Kassan dice: "Se nella vita e morte c’è Buddha, non c’è illusione in vita e morte". Continuano così a discutere senza mettersi d’accordo. I due salgono al monastero sul monte, cercando di stabilire chi di loro sia vicino e chi lontano al vero. Quindi, finite le mansioni quotidiane, Kassan riferisce il precedente dialogo e chiede: "Non so come fare a stabilire chi è più vicino". Il maestro Dai Bai dice: "Uno è vicino, uno è lontano". Kassan chiede ancora: "Chi è vicino?". Il maestro dice: "Aspettate un po’, tornate domani". L’indomani Kassan chiede di nuovo e Dai Bai afferma: "Il vicino non chiede, chi chiede è lontano". In seguito Kassan dirà: "In quell’occasione Dai Bai mi ha mostrato che mancavo di visione".

Dogen, come non di rado usa fare di fronte a espressioni famose dei testi "canonici", ribalta l’ordine interno delle frasi oggetto della discussione: Se non c’è Buddha nella vita e morte...(Jozan) diventa Se c'è Buddha nella vita e morte, mentre Buddha nella vita e morte significa non illudersi riguardo a vita e morte (Kassan) lui lo legge Se nella vita e morte non c'è Buddha, non ci si inganna riguardo a vita e morte. Qual è il senso di questo détournement, di questa citazione volutamente inesatta, di questa attribuzione sbagliata a bella posta nella lettera, per mantenere la fedeltà al senso originario? Analizziamo questo episodio perché ci permette di osservare una metodologia di lettura dei testi religiosi che Dogen utilizza sovente e che manifesta una freschezza di rapporto e di partecipazione di cui sono carenti i molti e tiepidi esegeti del pensiero buddista. Il testo religioso ha un vizio inerente: cristallizza qualcosa che per sua natura non può essere fissato. Solo la sua lettura e il suo ascolto possono ridargli la vivacità che la lettera gli ha tolto nel momento stesso in cui è stato definito: ciò di cui il lettore si deve preoccupare sopra tutto, religiosamente parlando, non è la fedeltà filologica, la ricerca del "cosa ha veramente detto", lo scrupolo dell’ortodossia: è piuttosto di ridare vita a qualcosa che è stato detto per la vita ma conservato in forma morta: Biancaneve va baciata con le proprie labbra, non rimirata in adorazione da lontano. La proprietà di linguaggio consiste nel sapere cosa si vuol dire usando una certa parola e nel far capire come la si sta usando, non nel dare un valore assoluto alle parole stabilito una volta per tutte da una qualche autorità. La stessa parola può avere significati opposti a seconda dell’uso che se ne fa. Così il termine Buddha, il più degno di reverenza, può essere veicolo od ostacolo a seconda dell’accezione con cui lo si usa. La stessa frase può trasmettere significati opposti ed è bene quindi rivoltarla come un guanto per essere sicuri che ciò che si cerca è il significato vivo, non la lettera morta. Nel caso in questione Dogen cita a modo suo le due frasi di Jozan e Kassan, rimarcando subito che si tratta di parole veritiere, dette da persone della Via, e dunque frutto di lunga pratica, studio e riflessione. Grazie al détournement di Dogen le frasi diventano così quattro.

Lo schema che segue ripropone le quattro frasi che sono in gioco in questo frangente:

  1. Se non c’è Buddha nella vita e morte, non c’è né vita né morte. (Jozan)

  2. Buddha nella vita e morte significa non illudersi riguardo a vita e morte. (Kassan)

  3. Se nella vita e morte c’è Buddha, vita e morte non c’è. (Dogen cita Jozan)

  4. Se nella vita e morte non c’è Buddha, non ci si inganna riguardo a vita e morte. (Dogen cita Kassan)

Jozan, con la prima frase, dice che se non si introduce la distinzione Buddha - non Buddha, se non si enuclea una particolare concezione o idea chiamata Buddha, se non si dà luogo a quella frattura che inevitabilmente si origina nel momento in cui si nomina Buddha (dare realtà a "qualcosa chiamata Buddha" significa implicitamente riconoscere realtà a "qualcos’altro che è non-Buddha") allora ogni cosa è al suo posto: non c’è né vita né morte, perché il nostro chiamare vita la vita e morte la morte dipende dal fatto che valutiamo la vita sulla base della morte, e viceversa. Ma la vita non è il secondo termine di paragone della morte né la morte è il fine della vita: il valore e il senso della vita sono nella vita; il valore e il senso della morte sono nella morte. Se quindi non si dà origine a quella ambivalenza che si genera dicendo "Buddha / non-Buddha", non si origina neppure quella ambivalenza che si origina dicendo "vita / morte": e non c’è né vita né morte. In altre parole, semplificando al massimo, Jozan afferma: "niente nirvana, niente samsara – se non c’è nirvana, non c’è neppure samsara": siccome è affermando un termine di paragone che si dà realtà all’altro, è proprio l’affermazione del nirvana che dà realtà al samsara.

Kassan, con la seconda frase, sostiene che noi a un certo punto della nostra esistenza ci rendiamo conto che prima o poi moriremo. Cominciamo a distinguere vita e morte . Questa distinzione genera la ricerca di risolvere la contraddizione insita nel fatto che si muore perché si nasce ovvero si nasce per morire. Abbiamo bisogno di Buddha, come principio unificatore di risveglio alla realtà di vita e morte, per balzare oltre la contraddizione. In altre parole, Kassan afferma: "Noi viviamo nell’illusione al punto di non accorgerci che è illusione (samsara) quindi ci serve Buddha per vedere che di illusione si tratta (nirvana) – c’è samsara e quindi serve nirvana ". Possiamo dire che mentre Jozan afferma l’infondatezza intrinseca della dicotomia irrisolvibile vita-morte, e dunque l’inconsistenza del problema, per cui a rigor di termini non serve nessun Buddha, Kassan sostiene la necessità di un principio chiarificatore, di una presenza unificante, di un’esperienza illuminante che ci liberi dall’illusione di cui siamo prigionieri senza rendercene conto. È un’antica sempre attuale questione, che attraversa la storia del pensiero buddista riproponendosi in infinite varianti. Vediamo che il maestro Dai Bai, pur se riluttante, è costretto dall’insistenza di Kassan ad affermare che, per quanto entrambi siano sulla Via, il modo di intendere e di dire di Jozan è più aderente di quello di Kassan (non ignoriamo che proprio l’insistenza di Kassan a voler dirimere la questione è un elemento che gioca un ruolo significativo nella risposta finale di Dai Bai: "Chi chiede…")

Dogen con un semplice rimescolamento delle carte pareggia il conto e ridà dignità nuova a entrambe le affermazioni.

La terza frase (che coniuga la premessa della seconda con la conclusione della prima) dice che verificare che Buddha è nella vita e morte e non in un mondo, in una realtà separata, vuol dire smantellare il problema della vita e della morte. Il nirvana non è altro dal samsara, proprio il samsara è il nirvana. Buddha nella vita e morte significa che tutta la vita è Buddha, tutta la morte è Buddha. Morte non nega vita, vita non nega morte. Questo risulta inconcepibile perché noi diciamo vita perché abbiamo un’idea di vita limitata fra la nascita e la morte, e un’idea di morte come il limite che determina la vita. Buddha è la visione non comparativa della realtà, è la visione non costituita da limiti.

La quarta frase (che coniuga la premessa della prima con la conclusione della seconda) chiude il cerchio e ci dice che la medicina può essere veleno. Nella sensibilità di Dogen il dialogo fra Jozan e Kassan non è una diatriba da risolvere, ma un colloquio fra persone della Via: infatti non cita il responso del maestro Dai Bai, perché in questo modo di intendere non c’è vicino e lontano: chi è sulla via è sempre ovunque vicinolontano, partitoarrivato. Ciò che Kassan ha da dire al compagno Jozan non è un’altra cosa, bensì la stessa detta in altro modo. Siccome samsara è nirvana, è quando non c’è nessun Buddha da rivendicare, nessun satori da sbandierare, nessun salvatore da impetrare che la realtà si rivela per ciò che è, libera, evidente, attuata. La libertà dalla nascita e dalla morte sta nel vivere la vita come vita, nel morire la morte come morte. A che pro chiamarla Buddha?

Due cose voglio ancora dire in questa sede a proposito del testo. La prima riguarda l’espressione: Essere convinti di passare dalla vita alla morte, questo è l’errore. Vita occupa lo spazio del tempo tutto intero, è già prima, è ancora dopo. Perciò nel dharma di Buddha, la vita è propriamente detta non nata. Qui più che altrove tradurre vita oppure nascita delinea scenari diversi, entrambi interessanti, entrambi diversamente veridici. Invito all’esercizio di entrambe le letture.

La seconda cosa riguarda un’altra espressione su cui desidero far posare l’attenzione: Proprio questa vita e questa morte, sono la Vita stessa di Buddha. Dogen usa per Vita di Buddha un altro termine (inoci) rispetto a vita (sho) di vita e morte. Come abbiamo già fatto notare, shoji richiama il senso di samsara, una concezione di vita e morte come terra del dolore, dell’illusione, del continuo confronto con la frustrazione e con il limite. Inoci, invece, è un termine dai contorni più indefiniti: nel caso in questione sta a indicare quello che, utilizzando un’altra terminologia, potremmo chiamare principio vitale, realtà costitutiva, natura intrinseca, o anche spirito, evitando ogni interpretazione spiritualistica del termine. Buddha vede il samsara come nirvana, e non cerca se stesso altrove.

Si tratta dunque di abbandono, sia nel senso di abbandonare che in quello di abbandonarsi. Tanto la vita che la morte richiedono totale dedizione, utilizzano tutto il nostro essere, sia che siamo ben disposti o mal disposti. Proprio della nostra disposizione il testo di Dogen parla.

 

 

Shoji – Vita e morte

Eihei Dogen

 

Se c’è Buddha nell’ambito di vita e morte, allora non c’è più né vita né morte. Ma è anche detto che se non c’è Buddha nell’ambito di vita e morte, allora non c’è più inganno in vita e in morte.

Queste sono parole di due maestri Zen, Kassan e Jozan, e vanno al cuore del problema. Sono parole di uomini che hanno percorso la Via, e dunque non sono state scelte e pronunciate a caso.

Colui che pensa di doversi distaccare da vita e morte, deve veramente chiarificare questo punto essenziale. Cercare Buddha altrove da vita e morte, è come dirigere la barra a nord per recarsi in un luogo che è a sud, è come volgere lo sguardo a sud per vedere la Stella Polare. Chi si comporta così infittisce ulteriormente la trama costitutiva di vita e morte, e quindi sempre più smarrisce la via della liberazione. Convinciti soltanto che proprio la vita e morte è il nirvana, e allora non c’è più da odiare una in quanto vita e morte, non c’è più da desiderare l’altro perché è il Nirvana. In quel momento, per la prima volta si verifica l’aspetto del distacco da vita e morte.

Essere convinti di passare dalla vita alla morte, questo è l’errore. Vita occupa lo spazio del tempo tutto intero, è già prima, è ancora dopo. Perciò nel dharma di Buddha, la vita è propriamente detta non nata. Anche l’estinzione occupa lo spazio del tempo tutto intero, a sua volta è il prima, è il dopo. In base a questo, l’estinzione è propriamente detta non estinzione. Nel tempo che chiamiamo vita, non c’è altro che vita; nel tempo che chiamiamo estinzione, non c’è altro che estinzione. Perciò se giunge la vita, c’è solo vita; se giunge l’estinzione, bisogna mettersi al servizio dell’estinzione. Non odiare questa, non desiderare quella.

Proprio questa vita e morte, è la Vita stessa di Buddha. Cercare di disfarsene con disprezzo, significa in realtà perdere definitivamente la Vita di Buddha. Del resto, attaccarsi a vita e morte, lì arrestandosi, anche questo è perdere la Vita di Buddha, è arrestare la realtà di Buddha. Nulla di detestabile, nulla di concupibile, in questo momento per la prima volta sei nel cuore di Buddha. Però non si può valutare usando il cuore, né dirlo usando le parole. Quando, dimentico del mio corpo e del mio cuore me ne libero, e mi precipito nella casa di Buddha, lasciandomi agire dal versante di Buddha e operando in accordo a esso, senza dover forzare, senza esagerare l’importanza del cuore, libero da vita e morte, divengo Buddha. Chi mai può fermarsi dentro il proprio cuore?

Per divenire Buddha, c’è una via molto semplice: non fare nessun tipo di male, non avere uno spirito attaccato a vita e morte, sii profondamente compassionevole verso tutti i viventi, onora ciò che è in alto, sii compassionevole verso ciò che è in basso, non avere il cuore che odia alcunché, non avere il cuore che brama, non avere pensieri nel cuore, non essere preoccupato: questo è ciò che chiamiamo Buddha. Non cercare null’altro.

 

 

 

Per le note e i riferimenti vedere la rivista

 

 

 

Delle onde e del mare

Il mistero della trinità divina in una goccia d’acqua

Luciano Mazzocchi

 

 

 

Mi è stato richiesto di scrivere una riflessione sul richiamo spirituale e religioso che è intrinseco nell’acqua, sor aqua direbbe Francesco. Se tutto evoca Dio, origine di tutto, in modo particolare ciò è vero nel caso dell’acqua, proprio per la sua funzione così fondamentale e universale in ordine alla vita di ogni essere. Così l’acqua è una immagine cara a tutte le religioni. Senz’altro è molto cara al Cristianesimo il cui alveo d’origine fu la terra semidesertica della Palestina. La gente costruisce le sue case nei pressi degli affranti nascosti e interni delle rocce, dove sgorga l’acqua, tesoro incomparabile per tutte le forme della vita. Al lato delle abitazioni umane, i recinti per gli animali. Il profeta Giovanni battezzava le persone nella corrente del fiume, perché l’acqua da una parte lava via ciò che è sudicio, dall’altra rigenera il vigore vitale. "In verità, in verità ti dico, se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio" (Gv 3,5), proclamò Gesù al fariseo Nicodemo.

La Chiesa nei secoli ha molto mistificato il messaggio di Gesù, mortificando il suo aspetto naturale e umano. Gesù tendenzialmente è stato identificato nel suo aspetto divino, mortificando il suo aspetto umano. Nella comune mente dei cristiani Gesù è come un robot disceso dal cielo, esente per sua natura dal dover crescere attraverso le prove e i dubbi come ogni uomo, toccando anche il fondo del suo limite umano mentre conserva la consapevolezza della sua natura divina. Quindi anche il battesimo che si rifà al suo nome è inteso prevalentemente come opera dello Spirito, mentre la sorella acqua fungerebbe solo da accessorio simbolico. Eppure la sua espressione è limpida: "se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio". La funzione dell’acqua ha la stessa importanza di quella dello Spirito, per entrare nel regno di Dio. Così è la funzione del pane e del vino nella celebrazione eucaristica, il banchetto in cui l’uomo si nutre della sua carità. Il Cristianesimo, inteso come evoluzione storica del Cristo operata dagli uomini secondo i loro schemi mentali, ha ridotto la natura a cosa creata da Dio, priva di ogni valore originario. In questo declassamento della fisionomia originaria della natura, da qualità divina originaria insieme con lo Spirito a cosa semplicemente creata e quindi passiva, sta la difficoltà più profonda del decantato rinnovamento della Chiesa di oggi, comunemente chiamato nuova evangelizzazione.

Nelle parole che Gesù ha pronunciato proprio al riguardo del battesimo, sacramento dell’iniziazione cristiana e quindi porta d’ingresso, la sorella acqua occupa lo stesso posto dello Spirito: è il suo partner nell’opera della salvezza. Attraverso l’incontro con le religiosità orientali il Cristianesimo riconoscerà la radice divina della natura. Riconoscerà che lo Spirito, senza la sorella acqua, non salva. Perché le persone divine non sono Dio senza la natura. Il dogma cristiano dice infatti che Dio è tre nella persona e uno nella natura. Dio è il Padre, il Figlio e lo Spirito che, nella loro collaborazione trinitaria, svolgono la funzione personale della salvezza. Noi crediamo che Dio è un Tu personale, trascendente e sempre più grande del nostro cuore. Al Tu delle persone divine ci rivolgiamo tramite la preghiera. Alla persona divina che ci crea diciamo: "Padre nostro…" e volgiamo gli occhi verso il cielo; alla persona divina che cammina con noi sulla terra diciamo: "Christe, eleison" e volgiamo gli occhi alla strada; alla persona divina che ci inabita nell’intimo diciamo: "Vieni Spirito Santo…" e con la mano ascoltiamo il palpito del nostro cuore. Ma Dio, dice il dogma, è contemporaneamente uno nella Natura: ossia le persona divine sono radicate in un unico terreno divino che le sostenta. È la Natura; è il seno dell’essere, in cui Dio è Dio nel coro trinitario delle persone; e la creazione è la creazione nella sua infinita gamma di forme, dall’uomo alla stella, dal fiore al pulviscolo, dal mare alle onde. L’aspetto personale distingue le unicità di ciascuno; l’aspetto naturale abbraccia tutto nell’unico seno dell’essere. Secondo l’aspetto personale, Dio è distinto da noi, sempre più grande del nostro cuore. Secondo l’aspetto naturale, Dio è abbracciato dalla stessa Natura insieme con tutte le creature. In quell’abbraccio Dio fa la parte di Dio, l’uomo quella dell’uomo, la formica quella della formica. L’acqua ha la potenza di svelarci i rapporti più intimi e santi dell’essere.

A seguire un capitolo del libro Delle onde e del mare di prossima pubblicazione.

 

 

Essere esistere divenire

 

Era la domenica che segue la Pentecoste, dalla liturgia della Chiesa dedicata alla Santissima Trinità. Padre Marco aveva dormito otto ore di fila, di quel sonno che abitualmente è dato ai bambini e solo raramente anche agli adulti, dopo una giornata faticosa. Erano le cinque, ma sembrava ancora notte, benché fosse un giorno di giugno, per colpa delle dense nuvole che eclissavano il sole e la luce. Pioveva a dirotto! Il missionario accudì alla pulizia personale e infine scese nella cappella. Una goccia riusciva a penetrare attraverso la protezione del tetto, quindi scendere da qualche fessura lungo la parete del primo piano e infine gocciolare a intermittenza regolare sul pavimento della cappella. Padre Marco corse a prendere una bacinella per porre rimedio a quella dispettosa invadenza. Quando sul fondo della bacinella si fu accumulato un certo strato d’acqua, la goccia, che prima batteva schizzando, ora si tuffava nella massa d’acqua accumulata con un suono piacevole e armonioso, al punto che padre Marco cominciò a gustare la melodia dell’incidente. Aprì la porta della cappella e lasciò entrare la frescura dell’aria umida di pioggia. Lontano, si udiva il risucchio delle onde marine che, infrantesi sugli scogli, si dissolvevano nel ventre del mare; mentre dallo stesso ventre altre onde avanzavano, create dal vento.

Padre Marco si lasciò andare a una meditazione sulla Santissima Trinità di tipo laico: gli ripugnava, in nome delle spiegazioni esaustive del catechismo imparate a memoria da ragazzo, tagliare corto con i messaggi che la Natura dice a tutti attraverso i fenomeni della quotidiana esistenza. Aveva assunto un po’ della sensibilità orientale del rito del tè che praticava da anni, in cui non si scavalca nessun dettaglio, ma si procede un gesto per volta, riversandovi tutta l’attenzione. Se tutto è creato attraverso Dio, attraverso il suo Spirito e la sua Natura, anche una goccia di pioggia lo deve rivelare. Basta ascoltare fino a percepire la più sottile rivelazione! Chiuse gli occhi ed entrò nell’ascolto profondo. Allora, immedesimato con la sorte della goccia, ne udì la voce profonda.

La goccia diceva: io sono acqua, la stessa acqua del mare e delle nubi; io esisto goccia, in questa piccola e precaria forma, che però è tutta la mia storia; io goccia divengo, scorro e compio tutte le mie funzioni, nelle quali io muoio e risorgo! Il missionario aggiunse: io sono creazione, io sono umanità; io esito con il mio cognome e nome, carattere, storia; io divengo la donazione di me stesso per gli altri, in cui io muoio e risorgo! Essere, esistere, divenire! Padre Marco percepì che questi tre verbi sono la celebrazione laica della vita divina della Santissima Trinità.

Tutto è! Tutto ha la base e l’origine su cui posarsi. Tutto ha la primordiale dignità di essere. Sì, perché a tutto ciò che vedo e tocco sottostà il fondamento che lo sostiene a esistere nel tempo e nello spazio. È l’essere che sostiene l’esistere di ogni cosa! E perfino al nulla sottostà la qualità di essere: infatti è nulla! È identico nel granulino di sabbia come nell’immenso oceano sul cui fondo il granulino riposa da milioni di anni. È identico nella foglia e nella radice; nell’insetto e nell’uomo; nel santo e nel peccatore. È il bene ed è il male. L’essere è lo spirito ed è la materia. È il campo energetico primordiale in cui i Dharma, correlandosi, sono. L’essere è la custodia dei Dharma e il palcoscenico della loro correlazione. Fermando un attimo lo scorrere della sua mente in queste intuizioni, il missionario ascoltava il concerto della pioggia battente, a cui, in sordina, si accompagnava il contrappunto della goccia ribelle che si tuffava nella bacinella. L’essere è come la musica della Nona Sinfonia ancora silenziosa nelle fibre dell’anima e del corpo di Beethoven, finché queste cominciarono a vibrare e l’essere cominciò a esistere in suoni e i suoni formarono il concerto. L’essere non si rinchiude in sé, ma ha la natura divina a exstare, ad accogliere la vocazione di riversarsi nelle forme limitate dell’esistenza, come la melodia originaria si riversa nelle note scritte una a una sul pentagramma.

Tutto esiste! L’essere istintivamente exstat - sta fuori – esiste, felicemente, senza rimpiangere la perfetta calma della sua primordiale identità come essere puro. L’essere, mentre sostiene e trattiene tutto nell’uno, istintivamente si comprime affinché dall’uno sia generata la molteplicità. Così nascono le idee perfette, le quali si riversano fuori se stesse, sacrificano la loro perfezione e prendono corpo, esistendo come le singole cose concrete, ciascuna con il suo pregio e nel suo limite. Tutto pullula di vitalità, di nascita, di crescita, di progresso, di storia. Chissà quante gocce di pioggia saranno cadute durante le otto ore in cui ho dormito profondamente! La grande nube dell’essere, sospesa nel cielo vuoto, ha distillato infinite gocce di esistenza! Così rifletteva padre Marco; e aggiungeva: Nel buio della notte, pudicamente, ogni goccia è caduta con tanta dignità, espletando la sua parte nel concerto cosmico dell’esistenza. Ogni goccia, scorrendo lungo le tegole, si è fusa con le altre e insieme ha fatto ritorno nel grembo delle acque, nel mare! Così è di tutto ciò che dall’essere scaturisce all’esistenza: infatti, ciò che esiste è chiamato a trasformarsi e a fondersi, offrendosi alla legge della vita. Perché ciò che esiste ha una natura divina che lo tiene libero dall’attaccamento alla propria esistenza. Così, tutto ciò che dall’essere è scaturito all’esistenza, sospinto da una vocazione che gli è intima, diviene: ossia si offre, si trasforma e muore.

Tutto diviene! Sia le gocce di pioggia, la cui esistenza copre un attimo del tempo, sia il diamante più resistente! Tutto si offre al pellegrinaggio della trasformazione e, infine, della morte. Gli antichi filosofi della Grecia si domandavano perché le cose divengano. Divengono, si auto rispondeva il missionario, perché l’esistere non può dimenticare la sua casa paterna che è l’essere. Divengono perché l’essere non si appropria mai dell’esistere, nemmeno quando questo fa ritorno a lui. Il divenire è la danza dell’essere che ama partorire l’esistere, e dell’esistere che ama far ritorno all’essere. Così le gocce di pioggia scorrono in una continua metamorfosi della loro forma, perché l’essere da cui provengono le lascia scorrere, e perché le singole forme in cui le gocce esistono amano sciogliersi e far ritorno all’oceano. È la natura intima a ciò che è, che stimola il cielo dell’essere a piovere in una miriade di gocce di esistenza; è la natura intima alla miriade di esistenze che riscalda le gocce, le scioglie e infine le evapora nuovamente nelle nuvole del cielo. È la natura intima all’essere e all’esistere che fa sì che anche una goccia di pioggia, danzando la relazione fra l’essere dell’immenso oceano e l’esistere della piccola goccia, divenga le infinite funzioni che l’acqua espleta per la vita e l’armonia universale.

Essere, esistere, divenire: è la Santissima Trinità della natura delle cose!

Nel frattempo il livello dell’acqua nella bacinella si era avvicinato all’orlo. Padre Marco provvide un’altra bacinella vuota. Mentre il missionario stava ancora posizionandola sul pavimento, vi cadde la prima goccia che si rifranse in minutissimi frammenti a investire il suo volto. Era l’aurora e un chiarore tenue si diffondeva attorno. Padre Marco aprì il libro della preghiera liturgica del mattino.

 

"Benedite, acque tutte, che siete sopra i cieli, il Signore…

benedite, piogge e rugiade il Signore…"

 

Terminata la preghiera, si accinse a preparare la colazione. Nel frigorifero il latte, lasciato lì prima della partenza per gli esercizi spirituali, bollendo si coagulò perché inacidito. Ne ricavò un cucchiaio di ricotta che con un po’ di miele sostituì egregiamente la consueta scodella di caffè latte. Padre Marco era cresciuto in una cascina della pianura parmense, e la scodella di latte al mattino era il rito che apriva le sue giornate. La pioggia, nel frattempo, non sembrava acquietarsi. Alcune molecole di quella marea d’acqua, un giorno, saranno trasformate in latte.

Questa considerazione sfiorò la mente del nostro missionario; segno che un po’ gli mancava la tazza di un buon cappuccio mattutino, casalingo!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Canzoniere

 

 

 

Preghiera per il giorno che sta per cominciare

 

Pubblichiamo questa splendida orazione nata all’interno della tradizione cristiana orientale. L’autore è uno starec del Monastero di Optina. Il testo è tratto dall’antologia curata da Enzo Bianchi, Il libro delle preghiere, Torino, Einaudi, 1997.

 

 

Signore è l’alba.

 

Fa’ che io vada incontro nella pace

a tutto ciò che mi porterà questo giorno.

Fa’ che io mi consegni totalmente

alla tua santa volontà.

Donami in ogni momento la tua luce e la tua forza.

 

Qualunque notizia io riceva oggi,

insegnami ad accettarla nella quiete

e nella fede salda che nulla può accadere

se tu non lo permetti.

 

In ogni mia azione e parola

dirigi i miei pensieri e i miei sentimenti.

In tutti gli eventi inattesi,

non farmi dimenticare che ogni cosa proviene da te!

 

Insegnami ad agire con apertura e intelligenza

verso tutti i miei fratelli e le mie sorelle

e verso tutti gli uomini,

senza mortificare o contristare nessuno.

 

Signore, donami la forza di portare

la fatica del giorno che si avvicina,

e di tutti gli eventi inclusi nel suo corso.

 

Guida la mia volontà,

insegnami a pregare, a credere,

a perseverare, a soffrire, a perdonare…

e ad amare!

 

 

 

Voci

 

 

Due saggi critici sul buddismo impegnato

Ken Knabb

 

 

 

1. Dure lezioni per il buddismo impegnato

 

Avete preso lezioni solo da quelli che vi hanno ammirato, trattato con tenerezza e vi hanno lasciato la via libera? Non avete appreso anche grandi lezioni da quelli che vi rifiutano e che si oppongono a voi ostinatamente o che vi trattano con disprezzo o che vi contendono il passaggio?

 

Walt Whitman

 

 

In piena guerra del Vietnam, Thich Nhat Hanh, accompagnato da alcuni monaci, religiosi e laici buddisti, rompeva con una tradizione apolitica vecchia di 2.500 anni fondando l’Ordine Tiep Hien, cercando in questo modo di riavvicinare le pratiche etiche e contemplative buddiste alle questioni sociali. I membri dell’ordine organizzarono delle manifestazioni contro la guerra, il sostegno ai renitenti e diversi progetti di soccorso e di assistenza sociale. Benché questo movimento sia stato presto represso nel Vietnam, Nhat Hanh ha continuato a condurre attività simili durante il suo esilio in Francia, e la nozione di "buddismo impegnato" si è diffusa ovunque. Una delle sue principali espressioni in Occidente, il Buddhist Peace Fellowship, si propone di "apportare una prospettiva buddista agli odierni movimenti pacifisti, ecologisti, di azione sociale" e "di sollevare domande di ordine ecologico, femminista, pacifista e di giustizia sociale presso i buddisti occidentali".

L’apparizione di un buddismo impegnato è uno sviluppo salutare. Malgrado i guasti che accomuna il buddismo a tutte le religioni (superstizione, gerarchia, maschilismo, complicità con l’ordine stabilito), ha sempre avuto un cuore di penetrazione autentica, basato sulla pratica della meditazione. E’ questo cuore vitale, come il fatto che il buddismo generalmente non impone dei dogmi, come fanno le religioni occidentali, che gli ha permesso di radicarsi con facilità in Occidente, compresi gli ambienti più sofisticati delle differenti culture. Quelli che lottano per il cambiamento sociale potrebbero mettere a profitto l’attenzione consapevole, l’equanimità e l’autodisciplina favorita dalla pratica buddista; e non farebbe alcun male ai buddisti apolitici confrontarsi con le questioni sociali.

Però fino ad ora la coscienza sociale dei buddisti impegnati è rimasta estremamente limitata. Se hanno cominciato a riconoscere certe realtà sociali flagranti, dimostrano poca comprensione alle loro cause o alle possibili soluzioni. Per alcuni, l’impegno sociale si riduce semplicemente ad alcuni lavori caritatevoli e benevoli. Per altri, ispirati forse dalle osservazioni di Nhat Hanh sulla produzione di armi o sulla carestia del Terzo Mondo, si risolvono a non mangiare carne o a non coinvolgersi con la produzione di armamenti. Tali gesti possono avere un significato personale, ma i loro effetti reali sulla crisi mondiale sono trascurabili. Se milioni di poveri muoiono di fame nel Terzo Mondo, non è per mancanza di nutrimento, ma perché non vi sono benefici da ricavarne. Finché sarà possibile arricchirsi fabbricando armi o devastando l’ambiente, qualcuno lo farà, malgrado gli appelli morali alla buona volontà. E se certe persone coscienziose rifiutano di prendervi parte, una moltitudine di altri spingeranno per prendere il loro posto.

Altri, sentendo che tali gesti individuali non bastano, si sono avventurati in attività più "politiche". Ma facendo questo, non hanno fatto che seguire gruppi pacifisti, ecologisti e progressisti, le cui tattiche e prospettive sono abbastanza limitate. A parte rare eccezioni, questi gruppi ritengono il sistema sociale attuale di per sé ovvio, manovrando al suo interno per promuovere obiettivi particolari, spesso a spese di altre cause. Come hanno detto i situazionisti: "Le opposizioni parcellari sono come i denti delle ruote dentate, aderiscono e fanno girare la macchina, dello spettacolo, del potere".1

Alcuni buddisti impegnati si rendono conto che è opportuno superare il sistema attuale; ma, senza giungere a riconoscere fino a che punto è solidamente impiantato nella sua tendenza a perpetuarsi all’infinito, immaginano di poter modificarlo gradualmente dall’interno, urtando così contro delle contraddizioni costanti. Uno dei precetti dell’Ordine Tiep Hien dice: "Non possedete nulla che appartenga ad altri. Rispettate la proprietà privata, ma impedite ogni profitto procurato dalla sofferenza di altri esseri". Come è possibile impedire lo sfruttamento della sofferenza se si "rispetta" la proprietà, nella misura in cui quella è l’espressione dello sfruttamento? E che fare se i proprietari rifiutano di abbandonare i loro beni pacificamente?

Se i buddisti impegnati non si sono opposti esplicitamente al sistema socio-economico e si sono limitati a cercare di alleggerire qualcuno dei suoi effetti maggiormente devastatori è per due ragioni. In primo luogo, non comprendono bene qual è la posta in gioco. Resistendo a qualsiasi analisi che sembra "seminare la divisione", come possono sperare di comprendere un sistema fondato sulla divisione in classi e sul conflitto d’interessi? Come quasi tutti hanno piattamente accettato la versione ufficiale, secondo la quale il crollo dei regimi del capitalismo di Stato staliniani in Russia e nell’Europa dell’Est avrebbe dimostrato il carattere inevitabile della forma capitalistica occidentale.

Inoltre, come il movimento pacifista in generale, considerano che bisogna evitare la "violenza" ad ogni costo. Questa attitudine non è solamente semplicista, è ipocrita: loro stessi tacitamente fanno assegnamento su ogni sorta di violenza di Stato (esercito, polizia, prigioni) per proteggere i propri congiunti e le proprietà, e sicuramente non si sottometteranno passivamente alle condizioni contro cui rinfacciano ad altri di essersi rivoltati. In pratica, il loro pacifismo si rivela generalmente più tollerante nei confronti dell’ordine dominante che nei confronti dei suoi avversari. Gli stessi organizzatori che rifiutano i partecipanti che possono intaccare la purezza delle loro manifestazioni nonviolente, si vantano spesso per aver sviluppato delle intese amichevoli con la polizia. Non è granché sorprendente che i dissidenti che hanno avuto esperienze differenti con la polizia siano poco impressionati di fronte a tale genere di "prospettiva buddista".

E’ vero che diverse forme di lotta violenta, come il terrorismo o i colpi di Stato di minoranze, sono incompatibili con il tipo di organizzazione aperta e partecipativa che è necessaria per creare una società mondiale realmente libera. Una rivoluzione antigerarchica non può essere realizzata che dall’insieme del popolo, non attraverso qualche gruppo che pretende di agire per conto loro; e una maggioranza così schiacciante non avrebbe alcun bisogno di utilizzare la forza se non per neutralizzare quegli elementi della minoranza dirigente che tenterebbero eventualmente di mantenere il potere con la violenza. Ma ogni cambiamento sociale comporta inevitabilmente degli aspetti violenti. Non sarebbe più onesto riconoscerlo, cercando di minimizzare il più possibile tale violenza?

Questo dogmatismo nonviolento di per sé sospetto diviene francamente ridicolo quando si oppone pure a ogni forma di "violenza spirituale". Certamente non vi è nulla da ridire sul fatto di cercare di agire "senza la collera nel cuore", evitando di essere presi nel circolo vizioso dell’odio e della vendetta. Ma in pratica, tale ideale spesso non serve che da pretesto per rifiutare ogni analisi e ogni critica penetranti, qualificandole come "colleriche" o "arroganti". In seguito alla considerazione, certamente corretta, del fallimento del gauchisme tradizionale, i buddisti impegnati hanno concluso che ogni tattica "conflittuale" e ogni teoria "che semina la divisione" sono incaute e fuori luogo. Questo atteggiamento finisce per non tenere in alcun conto la storia delle lotte sociali, ignorando completamente un gran numero di esperienze ricche d’insegnamento (gli esperimenti anarchici di organizzazione sociale durante la rivoluzione spagnola del 1936, per esempio, o le tattiche situazioniste che hanno provocato la rivolta del maggio "68 in Francia), non lasciando a loro che condividere le insulsaggini new age più inoffensive e promuovere azioni collettive più che tiepide.

E’ sorprendente che persone che sono capaci di apprezzare il vigore di certi aneddoti zen non arrivino a rendersi conto che queste tattiche di risveglio potrebbero essere messe su altri terreni. Malgrado tutte le loro evidenti differenze, vi sono analogie interessanti tra i metodi zen e quelli situazionisti: entrambi insistono sulla realizzazione delle loro idee piuttosto che su un’accettazione passiva di una specifica dottrina. Entrambi impiegano mezzi energici per scuotere le abitudini mentali, sino al rigetto di qualsiasi dialogo inutile e al rifiuto di offrire alternative positive prefabbricate. Ed entrambi sono accusati di "negatività".

Un vecchio detto zen dice: "Se incontri il Buddha, uccidilo". I buddisti impegnati sono riusciti a "uccidere" Thich Nhat Hanh nella loro mente? Oppure sono ancora attaccati alla sua immagine affascinati dalla sua mistica, consumando passivamente le sue opere e accettando i suoi pareri senza spirito critico? Nhat Hanh ha un bell’essere una persona meravigliosa e i suoi scritti hanno un bell’essere ispiranti e illuminanti sotto diversi aspetti: la sua analisi sociale resta ingenua. Se sembra radicale, non è che in confronto ad altri buddisti che, in maggioranza, sono ancora più ingenui. Molti fra i suoi ammiratori resteranno urtati, fors’anche scandalizzati, di poter pretendere di criticare un personaggio di simile santità, cercando di negare valore a questo testo, classificandolo come la manifestazione di un’ideologia gauchiste violenta e bizzarra, supponendo (a torto) che è stato scritto da qualcuno che non ha alcuna esperienza della meditazione buddista.

Altri potrebbero riconoscere la pertinenza di alcune di queste osservazioni, ma domanderanno subito: "C’è un’alternativa pratica e costruttiva, o non fai altro che criticare? Che proponi di fare?" Non c’è bisogno di essere capomastri per mostrare che il tetto perde. Se questa critica riuscirà a stimolare qualcuno a riflettere, a vedere più in là di qualche illusione, finanche a elaborare da sé nuovi progetti, non è già un risultato veramente pratico? Quante azioni costruttive ottengono altrettanto?

Circa la domanda su ciò che si dovrebbe fare: la cosa più importante è smettere di aspettare che altri dicano ciò che è bene fare. Meglio fare propri errori che seguire il maestro più saggio. Non solo è più interessante, ma è anche più efficace fare esperienze dirette, per quanto possano essere modeste, che essere un numero in un reggimento di numeri. E’ bene contestare ogni gerarchia, ma prima di tutto quelle in cui si è direttamente implicati.

Una delle scritte del maggio "68 diceva: "Siate realisti, chiedete l’impossibile". Fin quando restano nell’ambito dell’ordine stabilito, le "alternative costruttive" sono quanto meno limitate, provvisorie, ambigue; in questo modo tendono ad essere recuperate e divenire una parte del problema. Sicuramente siamo obbligati a occuparci di certe urgenze come la guerra o le minacce contro l’ambiente. Ma se lo facciamo accettando i termini del sistema, ci limitiamo solamente a reagire verso ogni nuovo problema che produce, senza mai trasformarlo dalle fondamenta. Non potremo uscire da una vita ridotta alla semplice sopravvivenza che rifiutando il suo ricatto, contestando un’organizzazione sociale che, in ultima analisi, reprime ogni possibilità di vita. I movimenti che si limitano a semplici proteste difensive e timide non raggiungeranno altro che il povero obiettivo di garantire la semplice sopravvivenza.

(ottobre 1993)

 

 

2. Eludendo la trasformazione del reale: l’impasse del buddismo impegnato

 

 

Errore molto popolare: avere il coraggio delle proprie opinioni: si tratta piuttosto di avere il coraggio di attaccare le proprie opinioni!

 

Friedrich Nietzsche

 

 

Nel 1993 ho scritto "Dure lezioni per il buddismo impegnato", un testo nel quale definivo l’apparizione del buddismo impegnato come uno sviluppo salutare, pur segnalando alcuni problemi. Alcune migliaia di esemplari sono stati distribuiti a Berkeley e a San Francisco nel corso di apparizioni di Thich Nhat Hahn o inviati a gruppi buddisti impegnati in giro per il mondo. Successivamente, io e i miei amici abbiamo continuato a diffonderlo durante interventi locali di Gary Snyder, di Robert Aitken, del Dalai Lama, ecc. E’ stato riprodotto diverse volte, anche su "Turning Wheel", la rivista del Buddhist Peace Fellowship, e ora si trova on line sul sito del Bureau of Public Secrets (www.bopsecrets.org).

Nonostante le reazioni negative prevedibili ("come osate criticare Thich Nhat Hanh?"), ed anche alcuni tentativi di impedire la circolazione del testo, la grande maggioranza delle reazioni è stata positiva ("Era ora che qualcuno sollevasse queste domande!"). Sfortunatamente, la maggior parte di queste reazioni positive non sembrano aver avuto sviluppi pratici. Benché numerose persone, tra cui molti autori e membri del consiglio del Buddhist Peace Fellowship, mi abbiano informato privatamente che erano d’accordo con me, i loro scritti ulteriori non hanno fatto alcuna menzione al mio testo ed né hanno discusso pubblicamente le questioni che ho posto. Per contro, spero che le osservazioni seguenti suscitino un pubblico dibattito.

Non credo di sbagliarmi affermando che l’ambizione del Buddhist Peace Fellowship possa così venire riassunto: 1) il buddismo può contribuire ai movimenti sociali radicali; 2) i buddisti hanno ugualmente delle lezioni da imparare da tali movimenti.

Sono d’accordo con la prima proposizione (sennò non mi darei la pena di formulare queste critiche), ma quello che vorrei sottolineare qui è che i buddisti impegnati hanno nella maggior parte ignorato le seconda proposizione. Benché lascino intendere costantemente che gli attivisti sociali farebbero bene ad adottare la meditazione, l’attenzione consapevole, la compassione, la nonviolenza e altre pratiche buddiste, è raro che essi stessi ammettano di avere da imparare dai non-buddisti – se escludiamo le lodi prevedibili indirizzate ad alcuni personaggi come Gandhi o Martin Luther King, in cui l’attivismo d’ispirazione spirituale non fa altro che confermare le loro concezioni di partenza. Se si azzardano di quando in quando nel dominio profano, non è altro che per fare eco alle più ordinarie idee progressiste di qualche commentatore alla moda, come Ralph Nader, Jerry Brown, Jeremy Rifkin o E. F. Schumacher, nessuno dei quali presenta una sfida radicale all’ordine sociale dominante, anche se le denunce delle assurdità più flagranti sono in genere pertinenti.

Questi due aspetti sono in correlazione. Poiché i buddisti impegnati non si sono dati la pena di studiare seriamente i movimenti veramente radicali, tali movimenti sono rimasti ugualmente indifferenti ai consigli provenienti dal buddismo impegnato (supponendo che siano perlomeno coscienti della sua esistenza, e il più delle volte non lo è).

Nel 1992, un certo numero di buddisti di diversi paesi, apparentemente scontenti del livello di dibattito su queste domande all’interno del Buddhist Peace Fellowship e dell’International Network of Engaged Buddhists, organizzarono un Gruppo buddista per l’analisi sociale. Più recentemente, alcuni di loro hanno formato un gruppo internet di "riflessione buddista" chiamato Think Sangha. La prima espressione pubblica ragguardevole su questo sviluppo apparentemente promettente è un libro intitolato Entering the realm of reality: towards dhammic societies, un’antologia curata da Jonathan Watts, Alan Senauke e Santikaro Bhikku.

Nella loro introduzione i curatori evocano la necessità di introdurre nuove prospettive, ma cadono rapidamente in un miopia pretenziosa:

 

Abbiamo bisogno urgente di visioni e di piani. Alcuni di noi sono l’avanguardia del cambiamento sociale, lavorando con i rifugiati, i prigionieri, i senzatetto e le vittime dell’AIDS. Altri sono impegnati in campagne per l’abolizione delle armi nucleari, delle mine antiuomo o delle armi esplosive, questioni d’importanza differente ma provenienti tutte dalla stessa sorgente: paura e odio. Altri ancora proteggono il nostro ambiente fragile, schierandosi in difesa degli alberi, delle acque e del grande catena di tutti gli esseri. (p.9)

 

In realtà, ben lontane dall’essere "l’avanguardia del cambiamento sociale", la maggior parte di queste attività non hanno nulla a che vedere con tale cambiamento sociale. Quelle che sono state elencate all’inizio sono semplicemente delle forme di servizio sociale; le altre, delle reazioni difensive contro alcuni fra gli abusi più evidenti del sistema sociale. Questo non implica che tali attività non siano lodabili. Si tratta semplicemente di sapere bene ciò che si fa e ciò che non si fa.

 

Le domande di strutture sociali hanno bisogno di essere affrontate in maniera socialmente organizzata. I grandi slanci individuali non risponderanno a questi problemi. Lasciamoli ai film di cow-boy. Creiamo comunità ad ogni scala, laiche o monastiche,da Dawn Kiam a Suan Mokkh nel Siam e dal Plum Village in Francia fino a Sarvodaya, la vasta rete di comunità cooperative dello Sri Lanka. (pp. 9-10)

 

Il fatto che le questioni sociali debbano essere regolate in fin dei conti collettivamente non implica che il primo passo in questa direzione stia nel creare comunità. La realtà è che la maggior parte delle pretese comunità alternative degli ultimi due secoli (colonie utopiche, gruppi collettivi, cooperative, gruppi di affinità, ecc.) sono naufragate. Quando si sono affermate, hanno sempre finito per essere recuperate, rinforzando di fatto il sistema che volevano oltrepassare. Uno degli articoli del libro riconosce gli insuccessi di Sarvodaya (pp. 256-260), ammettendo che tali organizzazioni svolgono principalmente una funzione di soluzioni temporanee nelle zone trascurate dallo sviluppo capitalista e che sono in genere abbandonate non appena un tale sviluppo diventa accessibile a loro.

 

Quando le persone sono malate, quando hanno fame o quando sono piene di acredine e di odio, non basta consigliare loro la rinuncia a sé o mostrare come meditare (…) Il nostro compito difficile è innanzitutto comprendere la natura della relazione complessa che intratteniamo con la loro sofferenza, poi cercare di cogliere insieme le condizioni fondamentali della nostra comune identità per una liberazione collettiva. Allora, verrà forse il momento per insegnare la meditazione." (p.10)

 

E’ detto bene, salvo che è discutibile la priorità assegnata alla "relazione complessa che intratteniamo con la sofferenza". In pratica, tali esortazioni esistenzialiste e moralizzatrici, del tipo "siamo-tutti-in-parte-colpevoli", tendono ad occultare le vere possibilità. Come altri, i buddisti impegnati perdono molto tempo a colpevolizzarsi per la supposta complicità con dei mali provenienti da un sistema sociale che possono a malapena influenzare, però trascurano di mettere in causa quelle mancanze personali che potrebbero superare se solamente dimostrassero un po’ d’iniziativa (come la dipendenza passiva nei confronti dei leader o la loro ignoranza della storia radicale).

 

Senza un’analisi sociale buddista, rischiamo di non sapere dove dirigere la nostra attenzione e la nostra energia. Senza una visione sociale aperta e flessibile non sappiamo dove andiamo. (p. 11)

 

Un’analisi sociale è evidentemente essenziale, ma i curatori presumono che debba essere buddista. Un’analisi veramente aperta e flessibile, che esamina i problemi sotto tutti gli aspetti senza idee preconcette, potrebbe condurre a conclusioni che contraddicono alcuni aspetti del buddismo. Benché si possa accreditare ai buddisti impegnati di avere attirato l’attenzione su episodi vergognosi della storia buddista (un eccellente esempio recente è il libro Zen alla guerra di Brian Victoria), loro continuano ancora ad accettare il buddismo in blocco come in sé buono – essendo il suo unico problema che talvolta verrebbe (non si sa bene perché) corrotto o male interpretato. Allo stesso modo dei cristiani con la Bibbia, si dedicano a elaborate contorsioni per far entrare il loro partito preso etico e politico in un quadro buddista, cercando quelle citazioni scritturali fuori contesto che, con un minimo sforzo, potrebbero accordarsi con le loro vedute, ignorando in questo modo tutto ciò che potrebbe contraddirli. Lasciano così intendere che il buddismo autentico (supposto che si possa identificarlo) è già la soluzione per ogni problema.

Nell’introduzione, per esempio, gli autori dichiarano senza alcuna esitazione che "il nostro egocentrismo violento, e per estensione le tendenze egocentriche della società, sono la radice dei nostri problemi" (p.8). Si può riconoscere che un egocentrismo ristretto e poco illuminato può creare o esacerbare i problemi; ma il dogmatismo irriflessivo di questi autori gli fa dimenticare che le persone sono rimaste oppresse perché sono state condizionate a subire un sistema gerarchico senza essere sufficientemente "egocentrici" per rivendicare condizioni più eque. L’idea che dovremmo "limitare le nostre speranze", essere più altruisti o anche pronti a sacrificarci, torna ad accettare questa truffa sociale, rigettando la responsabilità di un sistema sfruttatore e assurdo sulle sue vittime, "troppo avide".

Il libro è pieno di queste confusioni. Le "analisi sociali" sono generalmente ingenue e riflettono spesso un dualismo piatto (Est contro Ovest, Nord contro Sud, globalizzazione contro comunità locali, modernizzazione contro costumi tradizionali, consumismo contro astinenza). I complessi processi dialettici del sistema sono ridotti a termini quantitativi semplicisti: "il problema fondamentale è quello della scala" (p.230). "Piccolo è la parola d’ordine; gigantesco orrido" (p.9). Peraltro gli autori sembrano accettare l’inevitabilità delle enormi istituzioni in gioco. Non essendo mai contemplata la prospettiva di un rovesciamento, la solo opzione sembra essere quella di convincere il sistema a riformarsi da sé. "Quando saremo più desti, potremo unirci ad altri per fare pressione sui governi affinché cambino le loro politiche" (p.232). Le grandi società commerciali devono essere rese più "più responsabili"; riduzioni d’imposta per le cooperative e le piccole imprese condurranno "al pieno impiego e a mercati veramente liberi" (p.236). Dirigenti buddisti coreani vengono lodati per aver consigliato "i ricchi e i padroni ad essere più generosi con i poveri ed i lavoratori, e per aver domandato al governo di migliorare il sistema di assistenza sociale e proteggere i diritti umani" (p.203).

All’infuori della fantasia utopica di Ken Jones, di una banalità insipida, e alcune congetture assai vaghe nell’articolo di Santikaro intorno a ciò che costituirebbe un "socialismo dharmico", il libro contiene poche discussioni su un’eventuale società alternativa. Nessuno dei collaboratori dimostra la minima seria nozione sul modo in cui potremmo arrivare a una tale società. Jones immagina la sua società utopica inaugurata da un "Grande Mutamento" giunto, non si sa bene come, dopo che "un nuovo genere di persone è entrato in politica" (pp.282,284). Aitken considera che "la nostra rete umana diventa sempre più attrattiva quanto più il potere stabilito continua a disgregarsi", ma ammette che quest’ultimo "potrebbe sprofondare trascinando tutto il reste con sé" (pp.7,9). La maggior parte degli altri collaboratori di quest’opera non affronta per nulla la questione. Tutti sembrano sperare che il sistema dominante sparirà da sé quando finalmente saremo capaci di sviluppare una rete sufficientemente estesa di Organizzazioni Non Governative, di comunità alternative e di generali buone vibrazioni. Nel libro c’è poco più di una menzione dei movimenti che hanno realmente contestato il sistema. Gli autori presumono, così pare, che tali movimenti non siano pertinenti perché troppo "violenti" o troppo "materialisti" o troppo "collerici"; o più semplicemente perché, fino ad ora, hanno fallito (ma il buddismo è riuscito?).

Il buddismo considera l’ignoranza la radice fondamentale dei nostri problemi. Il primo passo per superare l’ignoranza è divenirne consapevoli, essere coscienti di ciò che non sappiamo. I buddisti impegnati cosa sanno veramente di Marx (in opposizione al "comunismo" pseudo-marxista)? O su anarchici come Piotr Kropotkin e Emma Goldman? O su visionari utopici come Charles Fourier e William Morris? O sulle critiche socio-psicologiche come quelle di Wilhelm Reich e Paul Goodman? O sui situazionisti come Guy Debord e Raoul Vaneigem? O sulle rivoluzioni popolari e anti-autoritarie, come quelle di Spagna nel 1936, di Francia e Cecoslovacchia nel 1968, del Portogallo nel 1974, della Polonia del 1980? O di avvenimenti più recenti come l’occupazione di piazza Tienanmen o la rivolta dei disoccupati in Francia? ("Non vogliamo il pieno impiego, ma una vita piena!"). Quanti buddisti impegnati hanno esplorato con serietà almeno uno di questi movimenti? Quanti ne conoscono l’esistenza?

Non è sufficiente rispondere: "Bene, parlamene, ho cinque minuti di tempo." I buddisti dimostrano spesso un’assiduità esemplare nei loro studi e nelle pratiche spirituali, ma, cosa curiosa, quando si tratta di questioni sociali, sembrano credere che una conoscenza a livello di "Reader’s Digest" sia sufficiente. Da secoli milioni di persone hanno cercato di trasformare radicalmente la società, utilizzando varie tattiche. E’ un processo vasto e complesso che si è concluso anche con disastri e impasse, ma che ha ugualmente prodotto un certo numero di scoperte promettenti. Un esame accurato è necessario per discernere le tattiche erronee da quelle che potrebbero essere utili. Come non è possibile pretendere di capire il buddismo o lo zen leggendo un solo articolo, non si può sperare di cogliere veramente il ventaglio di possibilità radicali senza un minimo di esplorazione e di sperimentazione personale.

Non si tratta solamente di informarsi su ciò che proviene da altri, da altre epoche e ambiti, ma anche guardare dappresso la nostra situazione attuale. L’adorazione acritica di persone in vista del buddismo come Thich Nhat Hanh o "Sua Santità" il Dalai Lama è bastevolmente puerile quando si limita al livello puramente "spirituale"; ma quando si estende al piano socio-politico diventa semplicemente reazionaria. Anche se le manipolazioni gerarchiche non costituiscono un problema importante fra i buddisti impegnati più indipendenti, e anche se i loro gruppi sono spesso sufficientemente democratici e partecipativi, resta nondimeno un problema più sottile. Quelli che si trovano in ruoli di responsabilità sembrano relativamente liberi dal desiderio di mantenere tali posizioni, ma restano generalmente molto attaccati all’idea di proteggere i loro sangha, le comunità e le organizzazioni che hanno costruito nel corso degli anni. In quanto esitano dall’affrontare le domande compromettenti, le tendenze diverse non maturano in rivalità salutari. Si cerca di risolvere i conflitti attraverso la "riconciliazione" (che, come ha ben osservato Saul Alinsky, implica il più delle volte che la gente al vertice conserva il potere e quelli in fondo alla scala si rassegnano ad accettare tale condizione), quietando e neutralizzando così quelli che hanno sollevato il problema. ("E’ un punto di vista estremamente interessante! Ti ringraziamo di averci fatto partecipi. Unisciti a noi per lavorare su queste domande.")

Quando questi tentativi di recupero non funzionano, le critiche come le mie sono spesso respinte e qualificate come arroganti e sprezzanti. Riconosco di non avere una grande opinione di buona parte delle idee e delle tattiche dei buddisti impegnati. Ma ho sufficiente rispetto per le persone in modo da rivolgermi a loro con sincerità. Mi sembra che le persone veramente sprezzanti sono quelle che hanno posizioni influenti e che evitano di discutere pubblicamente di questioni importanti con il motivo che il pubblico non sarebbe in condizione di assimilarle, trovandole disturbanti e scoraggianti. A proposito dell’arroganza, non si trova piuttosto in quelli che pretendono di introdurre nuove prospettive in movimenti radicali ignorando del tutto e con spregio la storia di tali movimenti?

(luglio 1999)

(Traduzione di Federico Battistutta)

 

 

 

Apertis verbis dicere. Nota a Ken Knabb

Federico Battistutta

 

 

 

1. Gli interventi di Ken Knabb che presentiamo in traduzione italiana sono già apparsi sia in versione cartacea che on line, oltre che nell’originale inglese in altre lingue. Recentemente il materiale è comparso sul sito francese www.zen.occidental.net che fa riferimento alle iniziative di Eric Rommeluère per la diffusione del buddismo zen in Europa. Le righe redazionali che precedono il testo di Knabb mettono sull’avviso il lettore francese circa il tono provocatorio del testo, ma al contempo riconoscono che, pur non condividendo in toto sia le idee espresse che la loro formulazione, le questioni sollevate non possono venire sdegnosamente ignorate con un’alzata di spalle. Del resto una sana provocazione non può mai nuocere, in quanto è, letteralmente, un chiamare fuori, un invito ad esporsi, a mettersi in gioco.

Non è dato sapere se la premessa redazionale posta dal sito francese sia il risultato dell’ossequio a formule politically correct o altro, né ci interessa particolarmente appurarlo, qui semplicemente desideriamo porre alcune note a margine del testo di Knabb con l’intenzione di contribuire a sviluppare la discussione anche in Italia. Non molti sono i pensieri che aggiungiamo e quei pochi li esplicitiamo apertamente. Apertis verbis dicere, appunto.

 

2. Partiamo dal tono. Dice una partecipazione appassionata, incarnata. E un linguaggio diretto non è preferibile al dire ambiguo di tanti discorsi manierati, purtroppo largamente adoperati anche in campo religioso? Attaccare delle idee non significa aggredire delle persone. Addurre invece come argomento che una è sempre e comunque l’anticamera dell’altra è quantomeno pretestuoso e a ben vedere risulta essere una sottile forma di intolleranza, un modo fastidioso di azzittire, fastidioso proprio perché subdolo. Per prendere un esempio illustre, possiamo leggere nel Convivio dantesco (IV, XIV) un passaggio del genere: "rispondere si vorrebbe non con le parole ma col coltello a tanta bestialitade." Non credo di sbagliare nell’affermare che nessuno ha mai ravvisato in queste righe una dichiarazione di omicidio volontario da parte del ‘sommo poeta’.

Certo lo stile libellistico del testo può lasciare insoddisfatti, si vorrebbe vedere un approfondimento maggiore di alcuni temi. Ma è bene ricordare che si tratta originariamente di materiale agile, concepito per essere distribuito durante conferenze o incontri pubblici. Queste considerazioni ci introducono a parlare della sostanza del discorso.

Qual è il nocciolo? Il buddismo impegnato, dice Knabb, si fa promotore di una serie di attività a scopo umanitario e caritatevole, di per sé lodevoli e da sostenere, ma si astiene da rivolgere l’attenzione alle cause sociali dell’ingiustizia, facendo risalire l’origine a categorie quali l’ignoranza, la paura o l’odio, poste così, come entità metafisiche, senza ulteriori declinazioni o contestualizzazioni sul versante sociale, proprio laddove sarebbe auspicabile una maggiore messa in gioco. Da qui al rischio di generalizzazioni senza incisività o scivoloni new age ("Dobbiamo guardarci dentro", ecc.) il passo, come si dice, è breve.

Niente di nuovo, del resto. Ad esempio, analoghe osservazioni, pur con referenti teorici assai differenti rispetto a quelli di Knabb, va facendo da diversi anni in ambito cristiano la Teologia della Liberazione: non basta l’assistenzialismo di beneficenza, occorre denunciare ogni forma di ingiustizia e agire concretamente per una trasformazione delle persone e delle strutture sociali. Come è stato espresso con esemplare chiarezza da Nikolaj Berdjaev, se il problema del mio pane è una questione materiale, quello del pane per gli uomini di tutto il mondo è una questione spirituale.

Qualcuno però potrebbe obiettare che molti sogni riguardanti una trasformazione radicale della società umana in una sorta di paradiso in Terra hanno finito per realizzare un inferno alla portata di tutti. Troppo spesso si sono visti i ribelli di ieri indossare i panni degli aguzzini. Ma questo buonsenso, supposto realista, diviene sospetto quando discorsi simili sono coronati con l’elogio dell’attuale sistema sociale inteso come il migliore dei mondi possibili. Ora, tali ragionamenti prima ancora di urtare contro le visioni utopiche secolari cozzano con la componente profetica custodita dal cuore delle religioni. Ci riferiamo non solo alla complessa tradizione ebraico-cristiana, alla religione dell’Esodo e del Regno (un Regno che si rivela conflittuale), ma a quella visione, peraltro presente anche nel buddismo, che esprime la tensione fra la realtà in quanto ciò che è e la fisionomia autentica, la qualità intrinseca della realtà, quel volto originario a cui fare costantemente ritorno.

3. Un’integrazione a quanto detto sopra. Se non si desidera che l’alternativa a venire si riduca ad altro che un prolungamento del passato e delle sue categorie, surrettiziamente reintrodotte, se si vuole salvaguardarne la novità radicale, diciamo che, a questo riguardo, il pensiero non può essere ricerca di formule, regole o elargizione di consigli, ma in primo luogo dev’essere elaborazione critica e suo affinamento. Usando un’immagine, non è possibile racchiudere la luce nella sua formula, ma eliminare gli ostacoli alla visione, questo sì: la critica distrugge gli ostacoli lungo il cammino, ne mostra la loro inconsistenza, l’azione, allora, sorge naturale dallo sguardo sul reale.

Detto questo, aggiungiamo: non è augurabile che tale alternativa debba mai concretizzarsi applicando religiose etichette di denominazione di origine controllata, attraverso una ‘società dharmica’, un ‘socialismo buddista’ o altro. Disincanto, secolarizzazione, desacralazzazione sono termini ormai entrati nel lessico contemporaneo occidentale per descrivere l’irrilevanza attribuita all’accettazione dei valori delle religioni, intesi come elementi fondanti l’intera compagine sociale e quindi i vari ambiti della vita - l’educazione, la famiglia, il lavoro, la politica, la scienza, ecc. -, come invece avveniva nelle società tradizionali, dove ogni sapere era risucchiato in quello religioso. (En passant, chi scrive concorda con chi ritiene che non saremo giunti al termine del cammino di secolarizzazione sino a quando non avremo secolarizzato finanche le religioni e la spiritualità; senza dimenticare che la secolarizzazione è un mito che va in quanto tale oltrepassato). Forse la vocazione della religione è proprio questa: niente di più e niente di meno che scoprirsi sale della terra, uno sciogliersi e dissolversi nella vita. A questo proposito, non si possono non evocare le parole profetiche di D. Bonhoeffer, l’annuncio radicale di un cristianesimo senza religione: essere cristiano - diceva Bonhoeffer - non significa essere religioso in qualche maniera particolare (asceta, santo, penitente, ecc.), ma essere semplicemente un uomo immerso nel mondo, capace di partecipare fino in fondo alla pienezza della vita. E’ possibile questo anche per il buddismo impegnato?1

 

 

 

 

L’incubo del terzo millennio: la politica buddista

Mauricio Y. Marassi

 

 

 

Sollecitato da un intervento (Due saggi critici sul buddismo impegnato di Ken Knabb) che Federico mi ha spedito, dopo breve meditazione non buddista, benché da buddista qual sono, esprimo la mia opinione sul tema I buddisti e l’impegno politico.

Scartata, durante la breve meditazione, la birbante tentazione di dare una risposta schietta, che avrebbe il pregio della brevità ma il difetto di essere "alla maniera di", mi permetto di argomentare che il buddismo cioè i buddisti come istituzione, chiesa (if any), gruppo, nome o quant’altro non dovrebbero (a parte eccezioni le più estreme, momentanee e sempre criticabili) mai propugnare, schierarsi con, intervenire in, aggrupparsi secondo o comunque elaborare qualsivoglia idea, tendenza o proposta politica. Men che meno dovrebbero definire "buddista" qualsiasi tipo di forma politica.

A parte gli inequivocabili segni del passato e del presente che ci mostrano quanto sia deleterio, sia per la società laica sia per quella religiosa, che le religioni (cristiana, islamica, ebraica o buddista che siano) per tramite di persone che se ne dicono i propugnatori o i testimoni, si azzuffino usando come carne da cannone proprio le masse che dicono di essere intervenute a difendere, è proprio nella differenza inconciliabile tra politica e buddismo (religione tout court?) che trovo motivo alla mia posizione. Che spero, il signor Ken Knabb, trovi radicale a sufficienza.

Far politica "da buddisti" o "in quanto buddisti", ovvero tentare una via buddista alla politica sarebbe come sarchiare le insalatine di un minuto orticello con un cingolato da quaranta tonnellate. O tentare di sfamare un cavallo con un sottile filo d’erba. Operazioni tutto sommato non sorprendenti (si è visto di peggio, o di meglio) nel paradossale mondo dei buddisti, ma forse leggermente sopra le righe in qualsiasi accezione politica.

Il buddismo è la via che conduce alla liberazione totale assoluta dalla sofferenza e dalle angosce di questo ed altri (se del caso) mondi. In particolare il buddismo zen, di cui il signor Knabb si dice far parte, è l’aspetto più radicale in questa storia; la via diretta, spietata perché non c’è posto neppure per la pietà. Verso sé stessi naturalmente. La posta in gioco è tale per cui la disposizione a porre la propria (ribadisco: la propria) vita letteralmente in bilico tra riuscita e sconfitta, è il minimo indispensabile per accedere alla partita. Intendo dire, per esempio, che se per tutte le cause, i motivi di cui chiunque si sia cimentato in questa via è ben al corrente, magari proprio all’inizio si è sbagliato nell’associarci ad una persona, ad un gruppo, ad una pratica o a un modo di praticare e non ci si è accorti in tempo dell’abbaglio: ffffhh, la nostra vita è andata, sprecata, buttata al vento. E non c’è un’altra chance: tutto finito. E così pure -tutto finito, andato, irrecuperabile- naturalmente è, alla fin fine, anche nell’altro caso, quello in cui avessimo scelto le giuste compagnie e la buona pratica.

La politica è l’arte del possibile - lo dice anche il signor Knabb - del compromesso, del mettersi d’accordo in un modo nell’altro. "Tutto s’aggiusta..." era il motto di uno dei politici più longevi della prima repubblica, in Italia.

Non penso che fra i due mondi, quello buddista e quello della politica, fra gli ambiti nei quali intervengono, tra gli strumenti che legittimamente vi sono ammissibili, vi possa essere contatto, se non casuale, o apparente.

Diverso, rispetto alla politica buddista, è il discorso dei buddisti che fanno politica. È un nostro diritto dovere. Vediamo di non farci turlupinare, perché alla fine del mese dobbiamo arrivarci anche noi; respiriamo anche noi la stessa aria inquinata da questo e da quello.

Si può fare zazen anche nell’indigenza, con i figli attorno che piangono per il freddo, fra il sibilo delle pallottole, ma, insomma, siamo tutti figli di mamma, di carne, ossa e...

 

 

 

 

 

 

 

Schede

 

 

Maurice Bellet, La quarta ipotesi, Gorle, Servitium, 2003

 

 

Quale futuro per il cristianesimo, per questa tradizione religiosa che ha avuto in occidente un influsso potente, a partire dalla crisi attuale che lo attraversa?

Il libro del sacerdote francese, psicanalista e filosofo, ruota intorno a questo interrogativo, tentando di sondare le motivazioni di tale sentimento di "assenza di centro" che caratterizza il sentire dell’ uomo contemporaneo, anche "religioso", fino a delineare possibili scenari per l’avvenire di questa tradizione e "…dell’intuizione (se così si può dire) che ne è all’origine. Potrebbe forse, quest’intuizione, risvegliarsi…?".

Tutta l’analisi è motivata dall’autore come un tentativo, prima di lanciarsi nel confronto con altre tradizioni (spazio del dialogo interreligioso) o con le diverse sapienze o filosofie, di "sapere dove ci si trova" in rapporto al fenomeno cristiano, esigenza valida anche per chi cristiano credente non è, imprescindibile condizione per chiunque viva nell’orizzonte del nostro universo culturale.

Non lasci trarre in inganno l’argomento in esame, apparentemente consueta materia di ambito teologico od analisi a sfondo sociologico nel tentativo di indagare in maniera oggettiva quanto invece soggetto alla vitalità di un organismo vivo, quale dovrebbe essere una fede vissuta, più che riflessa o pensata.

Infatti, già dalle prime righe ci si imbatte in un linguaggio inconsueto che procede a sprazzi, quasi pennellate che tentano di definire un quadro i cui contorni non possono che risultare sfumati, ricco di allusioni, salti concettuali, punteggiatura che tende a travalicare la consueta sintassi, pensiero "dialogante", nel tentativo di rendere la complessità dell’esperienza interiore di fronte alla crisi dell’ "evento cristiano" quando si assuma in tutta serietà la possibilità che esso scompaia (e con esso anche il Gesù della fede), oppure si risolva nei valori laici di una società secolarizzata, o ancora che soltanto permanga nell’istituzione, voce virtuale di un popolo che ormai non crede più.

Di fronte a queste reali possibilità, più che mai reali, Bellet propone una "quarta ipotesi": che qualcosa stia inesorabilmente morendo (il cristianesimo seguendo la medesima sorte di tutti gli altri –ismi della modernità, idealismo, materialismo, …) dove questo qualcosa per molti rappresenterebbe ancora il nucleo centrale del loro credere, la fine di un mondo.

Nel contempo, l’ipotesi in considerazione è che questo accadimento possa essere vissuto come un nuovo-inaspettato "spazio di vita" aperto dalla "parola inaugurale" che è custodita nel vangelo di Gesù, l’inaudito, il non ancora inteso, vangelo come "… disordine fondamentale rispetto a tutto ciò che si presenta come l’ordine necessario", esperienza radicale che "…mette in questione tutto ciò che costituisce l’umano dell’uomo".

Le pagine si susseguono nello sforzo di enucleare quanto si possa dire "fondante" l’esperienza cristiana, dense di piste di analisi dell’attualità e suggestioni che anticipano possibili esiti nella vita dei singoli e delle piccole comunità che potrebbero riaggregarsi intorno a una nuova convivialità, in forme nuove, variabili, senza per questo situarsi fuori dalla "Chiesa".

Il testo si conclude con alcune pagine di indicazioni per un possibile "uso" dei materiali proposti, perché essi altro non sono che un pre-testo per ciò che ne può seguire, non tesi ma sollecitazioni, interrogativi per ognuno, invito a "…mettersi in cammino, a trovare compagni di strada, a creare la vita nuova nell’ascolto ritrovato di quella Parola" che, fin dal principio, era…

Giuliano Burbello

 

 

Arthur Schopenahuer, Il Mondo come volontà e rappresentazione, Milano, Mursia, 1991

 

W. Jones ne Le Ricerche Asiatiche, 1815 circa, a p. 40: "Il dogma essenziale della scuola Vedanta consisteva non nel negare la solidità della materia (questo sarebbe una pazzia), bensì nel correggere la concezione volgare, sostenendo cioè che la materia non possiede esistenza indipendentemente dalla percezione mentale, poiché esistenza e percettibilità sono termini equivalenti".

Il mondo infatti, da un primo punto di vista, non è che rappresentazione, dall’altro non è che volontà. Verità grave, di tal natura da far molto riflettere se non tremare: "Il mondo è la mia volontà".

Schopenahuer sentiva di avere qualcosa da dire, qualcosa che il mondo poteva da lui imparare e che non avrebbe potuto dimenticare. Il Mondo come volontà e rappresentazione inizia con le parole divenute famose "il mondo è una mia rappresentazione"; questo è l’inizio del primo libro sulla teoria della conoscenza; che sia "rappresentazione" ogni nostro ciò che si apre davanti, non ha nulla di nuovo, dichiara lo stesso Schopenahuer. Già lo aveva sostenuto Cartesio, o anche Berkeley, ma anche gli stoici del terzo secolo prima di Cristo e infine Kant.

Tuttavia, continua il Nostro, vi è un’intima ripugnanza degli uomini ad ammettere che il mondo sia una mia rappresentazione. Benché il negarlo sia impossibile, conclude.

Subito dopo, abbiamo una "verità grave" che deve far tremare l’uomo: "Il mondo è la mia volontà". E ci ritroviamo parti di quell’unica volontà che si agita cieca e irrazionale, in tutte le cose, eternamente insoddisfatta in noi come in tutto l’universo. Ne consegue, che tutti gli elementi mossi da questa unica forza primordiale cerchino di affermare sé a danno degli altri, con spietata contrapposizione di egoismi, che costituisce la solita tragedia della vita.

A questo punto, Schopenahuer indica anche le vie per una liberazione dalla radicalità di questo male plenipotenziario. Intanto, bisogna considerare i sacri Veda, Platone e Kant propedeutici alla lettura de Il Mondo. Passati questi, si potrà sentire nel profondo la sua risposta.

La prima via di liberazione è l’arte (terzo libro). Nella sua intuizione estetica si arriva a definire l’arte come "contemplazione disinteressata del mondo". Ma la liberazione che può offrire l’arte potrà essere solo momentanea, legata com’è ai brevi scorci di contemplazione.

Quindi, dalla negazione provvisoria nell’arte, Schopenauer passa alla negazione definitiva nell’ascesi.

Qui, nella sua ipotesi, si apre un regno di pace profonda e di beatitudine, un regno della grazia, oltre il mondo cieco e violento della volontà. Ora, la filosofia porta, al massimo, in un mondo di negazione, relativo quindi. Ma questo superamento si rivela solo nell’esperienza mistica, che Schopenauer riporta al suo razionalismo metafisico.

Una bella e piacevole prosa che assurge ad una sua poeticità.

Malgrado il suo invito alla salvezza, Arthur Schopenahuer (1788-1860) passò quasi inosservato. A posteriori, la speculazione filosofica-religiosa trova estimatori e "amici" da varie parti. Kierkegaard e Nietzsche lo ritennero faro per le sue nuove, iconoclastiche aperture.

Valeriano Massimi

 

 

 

 

NOTIZIE

 

 

 

Seminari, ritiri, corsi a Galgagnano (Lodi)

 

 

Comunità La Stella del Mattino, via Martiri della Cagnola, 69 – 26832 Galgagnano (LO)

 

- Seminario condotto da p. Luciano Mazzocchi e Jiso Forzani caratterizzato dallo studio e dalla ricerca comunitaria su aspetti importanti e attuali del cammino religioso e culturale nel dialogo fra l’Oriente e l’Occidente.

 

Tema di quest’anno: Il tempo nella religiosità buddista e cristiana

Prossime date: 31 gennaio-1 febbraio 2004; 1-2 maggio 2004; 2-7 agosto 2004

Tel: 0371.68461 – 0371.424801

 

- Ritiri guidati da p. Luciano Mazzocchi

Il ritiro (Vangelo, eucaristia, zazen, lavoro e studio) inizia il venerdì sera e termina con il pranzo della domenica

Date: tutti i fine settimana che precedono la prima domenica del mese (eccetto novembre, febbraio e giugno)

Tel: 0371.68461

 

- Ritiri guidati da Jiso Forzani

Il ritiro (pratica dello zazen) inizia il venerdì sera e termina con il pranzo della domenica.

Date: ogni fine settimana che precede la terza domenica del mese (eccetto dicembre e aprile)

Tel: 0371.424801

 

 

Corso sul buddismo a Verona

 

Nei giorni 1-2 giugno presso il Centro Unitario di Cooperazione Missionaria di Verona si è tenuto un corso dedicato alla conoscenza del buddismo (origine e sviluppo storico) con la partecipazioni dei migliori esperti sull’argomento. Nel mese di gennaio 2004 si terrà il secondo corso, precisamente sull’impatto del buddismo con la cultura occidentale e in particolare con il cristianesimo. I relatori saranno alcuni esponenti della cultura occidentale che hanno accolto il buddismo nella loro vita e alcuni teologi della Facoltà di Missiologia della Pontificia Università Gregoriana. Per informazioni e iscrizioni rivolgersi a p. Luciano Mazzocchi (tel. 0371.68461).

 

 

 

 

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