La stella del mattino
Laboratorio per il dialogo religioso
n.2 aprile - giugno 2001
opuscolo trimestrale
indice
Presentazione
Il cambiamento della natura e
la natura del cambiamento
In cammino
De naturae rebus. Le cose della natura
Materiali
Per un'etica della responsabilità verso gli esseri umani e laterra
Voci
In girum imus nocte et consumimur igni
Canzoniere
Arretrati:
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Presentazione
Fare
riferimento all'opuscolo
In cammino
Riflettendo
di Luciano Mazzocchi
Da tempo si vociferava che "La stella del mattino", finora da noi
trattato come opuscolo casalingo, in un prossimo futuro potrebbe uscire di casa
e comportarsi alla grande: potrebbe bussare alla porta anche di chi non ci
conosce, presentandosi come rivista vera e propria, con le carte in regola e senza la paura di brutte figure! Finalmente la redazione pare
davvero intenzionata a concretizzare ciò che finora era solo voce sommessa.
Auguri! Auguri! Questo numero quindi può essere, per il sottoscritto, come il
punto d'arrivo di un passato, e contemporaneamente la passerella verso un
futuro. Un momento giusto per me per fare un po' di chiarezza attorno alle
parole di cui maggiormente faccio uso, quasi ne fossi il legittimo proprietario.
A volte capita che il disco del mestiere si incanti, strascicando all'infinito
la stessa musica e gracidandola sempre più a ogni giro, per l'erosione della
ripetizione. Le parole che vorrei chiarirmi, per quanto mi è possibile in
questo specifico momento, sono: cultura, religione, dialogo! Chiarirmi ciò che
già tante altre volte avevo supposto di avermi chiarito! Quindi nella
consapevolezza che anche il chiarimento più recente rimane sempre incompleto, probabilmente da
superare. Cultura, religione e dialogo: entrando però dalla porta della
cultura. Parto da una esperienza culturale recente.
Il frumento e il riso Cascina Caremma, azienda agricola e agrituristica. Ero colà il 28 marzo scorso,
invitato a offrire spunti di meditazione sul tema "buono come il pane" a circa 120 persone riunite per apprendere a fare il buon pane
casalingo, come una volta, impastando la farina con il lievito e cuocendolo nel forno riscaldato a legna. Ovviamente, dopo la meditazione sul
pane e le lezioni rilasciate dagli esperti sul metodo di preparazione e di
cottura, l'incontro terminò con le degustazione del pane appena sfornato,
mangiato insieme con il companatico pure locale, quali sotto oli o sotto aceti
casalinghi, salame nostrano ecc. L'esperto di storia del pane disse che il
metodo usato fino alla fine dell'ultima guerra, quello che anche mia madre
seguiva nella settimanale cottura del pane, ha dettato legge per cinquemila anni
ininterrottamente, già usato tale e quale dagli antichi Egizi, poi dai Greci,
poi dai Romani, fino appunto al 1950 circa. Infine il sovvertimento del
progresso sotto l'egida della fretta e del rendimento quantitativo: lievito di
birra al posto di quello preso dalla pasta precedente e lasciato fermentare alla
temperatura giusta per più giorni, forno elettrico al posto di quello in
mattoni riscaldato a legna, ecc. Quindi pane che, raffreddandosi, si permuta in
sostanza gommosa, da potersi tirare come una massa di plastica. Sì, perché il
lievito sintetico, a differenza di quello naturale, non contiene i batteri che a
loro volta fanno funzionare il lievito. Chi di noi era ragazzo alla fine
dell'ultima guerra, senz'altro conserva il ricordo
del profumo del pane sfornato la mattina presto; profumo che pervadeva anche
tutto l'abitato circostante. Mentre invece, ora, uno può abitare vicino a un fornaio, senza accorgersi di avere un tale inquilino. Ricordo anche
il profumo, più tenue ma ugualmente familiare, del riso appena cotto, in
Giappone. Generalmente in ogni casa la mattina viene fatto bollire il riso per
tutta la giornata: riso bianco, senza sale, che verrà mangiato in compagnia di
legumi scottati, di frittate, di carne o di altro. Per la cottura del riso si fa
uso di una pentola che non è una fra le tante, ma è la Pentola, con l'iniziale
maiuscola. Si chiama kama. Dopo una sommaria lavatura del riso, questo viene
lasciato in acqua per una mezz'ora circa, finché i grani siano pregni. La
quantità dell'acqua dev'essere quella giusta: né troppa, né poca, perché la
pentola, una volta chiusa e acceso il fuoco, non va più scoperchiata fino a
completa cottura. Proprio come il forno, che va aperto solo a perfetta cottura
del pane. Sia per cuocere il buon pane come il buon riso occorre preparare nel
modo giusto, attendere nel modo giusto, aprire al momento giusto. L'Occidente,
soprattutto il Mediterraneo, è la casa del frumento. Così i nostri antenati da
sempre hanno trattato questa graminacea con una cura che direi religiosa. Al
primo ricavato dal frumento è stato dato un nome proprio: Pane. I nostri
antenati hanno vezzeggiato il pane con aggettivi affettuosi, ne hanno fatto il
protagonista di molti proverbi. Il pane è assurto a maestro della sapienza. Nel
Medio Evo alcuni missionari cristiani arrivati fino in Cina ritornarono in Italia portando la
semente del riso. Fu piantato e irrorato con l'acqua dei fiumi alpini, in
mancanza delle piogge monsoniche proprie dell'Oriente. Il riso crebbe, si
diffuse e divenne un paggio del grande fratello, il pane di frumento. Sulla
tavola dell'occidentale può comparire il risotto; ma poi deve fare la sua
immancabile comparsa anche il pane, perché il paggio altro non fa che preludere
l'arrivo del principe. In modo simile, scambiando le parti, avviene in Giappone.
Gli antichi non conoscevano il frumento e, quindi, nemmeno il pane. Al punto che
fra i circa sessantamila ideogrammi cinesi non c'è quello di frumento.
Tutt'oggi in giapponese frumento è detto komughi: ossia piccolo orzo. Il
frumento non ha un nome proprio. Tuttavia di recente è arrivato anche là e
anche là si cuoce il pane, di cui si fa uso soprattutto per le merende fuori
pasto. Nei pasti ufficiali ovviamente il principe è il riso bollito che, come
il pane per il frumento, assume un nome proprio: Gohan - il nobile (santo) cibo.
In oriente il riso e il suo primogenito, il gohan, furono vezzeggiati dagli
orientali con tanti aggettivi affettuosi e usati come protagonisti di tanti
proverbi. Il frumento e il riso sono pianticelle simili; ma anche tanto diverse!
Il frumento ama terreni argillosi che non trattengono l'acqua; il riso
preferisce lo stagno. Il frumento produce una spiga compatta, in cui tanti grani
stanno assiepati l'uno accanto all'altro come elementi di una un unico edificio;
il riso invece matura una spiga a grappolo, in cui i grani stanno appesi
separati l'uno dall'altro. Soprattutto la vocazione del frumento e del riso si
fa diversa lungo il processo di trattamento. I chicchi di frumento hanno la
vocazione a essere macinati e, perdendo la loro individualità, formare l'unica
montagna di farina che, ulteriormente impastata con acqua, diventerà la madre
di tante pagnotte da mettere nel forno. Come la pagnotta calda e profumata
compare sulla tavola, viene ulteriormente spezzata o affettata; solo così è
gustata dagli esseri umani convenuti alla festosa mensa. I chicchi di riso
invece conservano fino all'ultimo la loro individualità. Cuociano assieme,
senza fondersi; riempiono le ciotole dei convenuti a tavola rimanendo però
tanti singoli chicchi che riempiono la ciotola; infine sono portati alla bocca a
zolle di tanti chicchi che si tengono assieme grazie all'amido che emettono, ma rimanendo fino alla fine singoli chicchi. Come è disgustoso un pane non ben
impastato, in cui qualcosa sia rimasto singolo, così è disgusto un piatto di riso in cui i chicchi di riso si siano fusi in una massa collosa,
perdendo la loro singolarità, per la troppa cottura. Il frumento e il riso, il
pane e il gohan sono l'immagine viva di due culture differenti e egualmente
ricche di sapore e di profumo.
La cultura - le culture
È questa una parola verso cui vado percependo sempre più interesse e affetto.
Cultura proviene dal verbo latino colere, in italiano coltivare: significa
quindi l'opera del coltivare. Avvenne che un giorno un essere vivente, che
ancora si muoveva solo per istinto, cominciò a osservare e a comprendere ciò
che finora ai suoi occhi accadeva solo meccanicisticamente. Cominciò a leggere
le grandi leggi della natura e quelle del suo cuore; a far interferire le une e
le altre. Si accorse che le grandi leggi perseguono un senso e camminano in una
direzione: conducono verso l'utile e il bello. Il frutto che il melo porta a
maturazione, contemporaneamente mette in atto utilità, la sua nutriente polpa,
e bellezza, la sua variopinta e profumata buccia. S'accorse che ogni singola
cosa e ogni aspetto delle singole cose hanno un tempo e uno spazio in cui
l'utile e il bello si coniugano e si esprimono assieme. Forse un antico
occidentale che si cibava di chicchi di frumento cresciuti spontaneamente sulle
colline argillose degli Appennini o nelle secche pianure egiziane fecondate una
volta all'anno dalle alluvioni del Nilo, un giorno lasciò cadere dalla sua
bocca una zolletta di frumento macinato coi denti e impastato di saliva, che
cadde sui sassi arroventati dal fuoco. Quando un po' più tardi quell'uomo lo
rimise in bocca, s'accorse che era diventato più buono! Così apprese a
macinare, a impastare e a cuocere. Forse un giorno s'accorse che una
zolletta di pasta, lasciata lì per dimenticanza e fatta cuocere qualche giorno
dopo, era ancora più saporita, più tenera, più digeribile della pasta fatta
cuocere all'istante. Così apprese a lasciar fermentare la pasta, finché
s'accorse che un grumo di pasta fermentata lasciata lì da alcuni giorni, mescolata con la nuova pasta ne
accelerava la fermentazione. Insomma, lungo i secoli imparò a fare il buon pane. Forse un antico orientale che si cibava di chicchi della spiga di
riso, un giorno s'accorse che il riso cresciuto nell'acqua era più gustoso e
tenero, per la maggiore presenza di amidi anche se il nostro antico orientale
non conosceva questi termini scientifici. S'accorse pure che i chicchi che gli
erano caduti nell'acqua bollente erano più saporiti e digeribili di quelli
frantumati crudi coi suoi denti. Poi s'accorse che la cottura con una certa quantità di acqua, a un certo grado di calore, dà un
riso proprio buono. S'accorse che il riso è ancora più gustoso se mangiato con questa e con quella erba, con questo e quell'altro cibo. Così
l'orientale si affezionò al riso che cominciò a chiamare con più nomi a seconda del suo momento di crescita e trasformazione: il giapponese
tutt'oggi lo chiama kome quando è chicco, ine quando è pianticella, gohan quando è cotto. La cultura è il coltivare le cose.
Coltivare è conoscere le cose così come sono e conoscere se stesso come avente
la capacità di influire sulle cose affinché, nel rispetto della loro natura,
esse emettano il loro profumo e il loro sapore. La coltura, in sintesi, è
l'opera del fecondo legame fra l'utile e il bello, nella cura consapevole
dell'uomo che ricerca l'utile perché necessario alla sua sussistenza, e il
bello perché rende questa profumata e saporita. Questo legame che l'uomo scopre
attraverso il contatto con le cose, a sua volta coltiva l'uomo a divenire capace
di coltivare tale legame nelle cose. Come la zolla presa dalla massa della pasta
precedente, nel tempo diviene il lievito della pasta seguente. La natura educa
l'uomo e l'uomo educa la natura. O, meglio, natura e uomo cooperano dentro la
vitalità di uno stesso legame. Un uomo che ignori il legame fra l'utile e il
bello, non può diventare attore culturale. La sua vita resterà determinata da
ciò che accade e ignorerà la libertà che crea nuova libertà. L'utile educa
il bello a restare semplice e umile. Il bello purifica la ricerca dell'utile
che, da sola, potrebbe scadere nell'ingordigia e nella libidine. C'è un modo di
trattare, c'è un comportamento, in cui il bello è utile e l'utile è bello. Così come c'è un processo attraverso cui il frumento diviene buon pane
e il riso diviene gohan. Si può affermare che la cultura è l'atmosfera che è creata dal dialogo fra l'uomo e le cose, nella relazione di
utile e di bello. Ma si può pure affermare che la cultura è l'atmosfera che
promuove il dialogo. Come la coltivazione dei campi comporta la semina del seme
precedente e la produzione di quello seguente. La coltura è legame fecondo del passato e del futuro, nel presente.
La cultura è la ricchezza qualitativa dei popoli. Le cittadine che i popoli italici hanno costruito sui dossi delle colline della nostra penisola
sono come un buon pane. Case e case che si fondono in un'unica via, con facciate differenti ma come se l'una volesse l'altra per formare un
unico caseggiato, un unico buon pane. Qua e là un campanile si staglia
nell'atmosfera: non per dominare, ma piuttosto sono le stesse case che gli
stanno attorno come un gregge a ergerlo quale segno del loro stare lì assieme. La campana emette il suono che abbraccia tutto nella
eco del suo rintocco. Le case si adagiano sul pendio e non si sa distinguere se il pendio della montagna si trovi lì chiamatovi dalle
case, oppure se le case siano lì chiamatevi dalla montagna. Fisicamente, tutti lo sanno, la montagna precede le case; ma ugualmente pare
come se da sempre la montagna sia fatta così perché le case vi si affidassero,
come da sempre il ventre di una donna è così per accogliere la vita che in
esso si moltiplica e cresce.
Il tempo per stagionare
Molti quartieri delle città giapponesi appaiono come agglomerati senza
un'anima. Una legge che regola l'edilizia di quel paese non permette che le case siano attigue fra loro; forse nel passato questa norma voleva
prevenire il dilagare degli incendi così facili fra gli edifici in legno. Ma i
nuovi quartieri non sono più costruiti in legno, bensì in cemento. Edifici
simili a enormi scatole che si susseguono in modo discontinuo e difforme: città
scialbe! Eppure, perfino io occidentale resto incantato da un diffuso senso di
semplicità e bellezza qualora mi inoltri in un rione dalle case in legno,
distanziate alcuni metri l'una dall'altra. Così è per esempio l'immenso
quartiere Sughinami di Tokyo in cui vivono alcuni milioni di persone: ogni casa
col suo tetto spiovente, ogni siepe che circonda la casa, ogni giardinetto che
si intravede dalle fessure della siepe! È la cultura della singolarità delle
cose! Quando l'orientale all'improvviso si mette a occidentaleggiare, forse per
il senso di sudditanza verso il nemico occidentale che lo ha vinto in guerra, o
al contrario quando lo vuole emulare e superare in occidentalità, i suoi
comportamenti si fanno goffi, squallidi. Così in gran parte è il Giappone di
oggi, sull'orlo di una seria crisi che è anzitutto culturale, e solo di
riverbero anche economica. Ha preferito trattare con l'Occidente, anziché
curare il rapporto fraterno con i paesi vicini e della sua stessa cultura. Il
Giappone oggi ha solo concorrenti; non ha amici. Quando l'occidentale
all'improvviso si mette a orientaleggiare, i suoi comportamenti diventano
evanescenti, inafferrabili, inconsistenti. Chiacchiera sulla pace della mente,
ma la sua mente non ha la pace della mente. Infatti chiacchiera senza posa.
Praticamente ricerca in modo dogmatico il non dogmatismo orientale. Ricerca il
suo Sé, a volte professando obbedienza cieca al maestro, altre volte scivolando
giù la deriva dello spontaneismo. Non coglie il nesso fecondo fra obbedienza e
spontaneità, perché non è radicato nell'humus orientale. È un albero che non
ha le sue radici! La cultura occidentale è fondata sulla fiducia nel pensiero.
Cartesio è giunto ad affermare: "Io penso: quindi sono!". Ma il pensiero detto
dalla filosofia occidentale, prima di essere il mio o il tuo o il suo pensiero,
è il pensiero grande e profondo verso cui si aprono il mio, il tuo e il suo
pensiero. Il pensiero è il dinamico confronto del mio punto di vista con il
pensiero eterno in cui tutto ha il suo senso perfetto, nella profonda
comprensione che il pensiero eterno e quello storico di ciascun essere umano
formano l'unico pensiero. Non c'è mio pensiero fuori dalla forza creatrice e
plasmatrice del pensiero eterno; e non c'è pensiero eterno che non crei e
plasmi il mio, il tuo, il suo pensiero storico. Il pensiero abita nella fiducia
che ciò che l'uomo giunge a conoscere è vero di quella verità eterna che si
manifesta senza abbagliare, secondo il grado di capacità di comprendere
dell'uomo che è in ricerca. Ma il pensiero, sradicato da questo humus di
confronto sincero nel legame dell'utile e del bello, si tramuta in assioma e può
paralizzare sia l'utile, sia il bello in vicoli ciechi. Ma il più delle volte
è l'utile che, impazzito, mortifica il bello. Come gli edifici a scatola delle
città giapponesi! Dentro le strutture più sofisticate per aperture e chiusure automatiche di porte, o di sistemi di
aria condizionata. Ma senza bellezza! Credo che la cultura orientale sia fondata
sul rispetto e direi sull'amore verso la naturalezza come fisionomia perfetta
dell'esistere. Sgorga da una religiosa fiducia verso la natura delle cose, alla
quale si accede sciogliendo se stesso e le cose, e lasciandole fluire nella loro
corrente della loro vera natura. L'occidentale che orientaleggia, generalmente
pretende con atteggiamenti artificiali il raggiungimento della naturalezza. La
sua ricerca non sgorga o non è lasciata sgorgare dall'afflato della
naturalezza. Così fraintende la naturalezza con il benessere di matrice
egocentrica; ed è quest'ultimo che prosciuga la vena della naturalezza. La
naturalezza dei maestri orientali è tanto amica del cielo terso e sereno, come
di quello nuvoloso e cupo. Benessere e malessere non sono il criterio
discriminante. Ma l'occidentale che orientaleggia non ha quelle radici e non sa
che spontaneità e obbedienza al maestro non indicano direzioni opposte, perché
spontaneità non è spontaneismo e obbedienza non è sudditanza. La parte
montana della provincia di Parma è attraversata da quattro vallate che scorrono
da Sud verso Nord, in parallelo, alla distanza di circa dieci chilometri l'una
dall'altra. Eppure i prosciutti stagionano nel modo giusto, con quel profumo e
sapore caratteristico, soltanto nella valle del torrente Parma. Sono state fatte
molte ricerche per dare ragione del fatto e pare assodato che due fenomeni ne
siano all'origine. La valle del Parma attraverso il crinale appenninico riceve i venti
che soffiano dalla corrispondente valle Lunigiana aperta sul mare. Questi
venti scendono a valle prosciugandosi e aromatizzandosi fra le fronde delle
numerose faggete che ricoprono i due versanti della Val Parma. Durante l'inverno
l'umidità delle nebbie fa sciogliere il sale applicato ai prosciutti facendolo
penetrare gradualmente e uniformemente; in primavera i venti freschi e asciutti
che soffiano dalle faggete fanno ritornare il sale che si deposita sulla
superficie dei prosciutti come una farina bianca. Il prosciutto è stagionato,
è prosciutto! Le culture sono comportamenti di vita stagionati dai venti, dalle
nebbie, dalla natura delle cose e dal dialogo che l'uomo instaura con tutto ciò.
La stagionatura comporta tempo! Così come la cottura del pane e del riso: guai
ad aprire il forno o la pentola prima che la cottura sia completa! Oggi i popoli
dell'Occidente viaggiano in Oriente e quelli dell'Oriente in Occidente. Nel
tempo le due culture, influenzandosi, potranno stagionare nuovi sapori e
profumi, senza tradire il proprio patrimonio. Ma la fretta dell'uomo è
deleteria, perché non lascia stagionare! L'uomo ha fretta; la natura no! Eppure
la cultura non è opera solo dell'uomo e nemmeno prevalentemente dell'uomo: è
opera in contemporanea e in accordo fra natura e umanità. La natura non
tradisce la sua parte; ma l'uomo lo può.
La transculturazione
La cultura, come la coltivazione di ogni pianta o vegetale, oltre al tempo
giusto esige anche il terreno adatto. Fuori dal suo terreno la cultura, come
ogni vegetazione, deperisce, perde vigore, sapore, profumo: non apporta né
utilità né bellezza. Sono goffi gli orientali che occidentaleggiano come gli
occidentali che orientaleggiano: né utili, né belli! Ho visto orientali
scontenti di non essere occidentali e occidentali scontenti di non essere
orientali. Come ci fosse una palma insoddisfatta per non essere un abete e
viceversa! Mi sono chiesto quale sia la causa della transculturazione.
L'attrazione? Oppure la disaffezione? Disaffezionato verso la propria cultura
perché attratto dall'altra? Oppure attratto dall'altra cultura perché
disaffezionato verso la propria? Probabilmente in molti casi la causa sta
proprio nella disaffezione, per cui l'attrazione verso un'altra cultura è
semplicemente il modo elegante per coprire la propria fuga. Così un orientale
che occidentaleggia non ha negli occhi la serenità dell'occidentale che
affronta il mistero dell'esistenza sostenuto dalla forza del pensiero.
Similmente l'occidentale che orientaleggia non ha negli occhi la pacata calma dell'orientale che affida la
sua esistenza alla grande natura, la quale opera tanto il nascere come il
morire, ciò che piace come ciò che non piace. Il transculturale imita sì gli
aspetti attraenti dell'altra cultura e se ne fa paladino; ma non ne ha dentro di
sé gli anticorpi che agiscono proprio quando si accostano i momenti difficili e
duri.. Agogna alle delizie dell'altra cultura; ma non ne conosce la via di
sofferenza da cui sgorgano. È come un uomo dell'Equatore trapiantato al Polo
Nord: le nevi perenni attraggono, ma nel suo sangue non ha gli anticorpi che lo
rendono resistente per affrontare un viaggio sulla neve. Oppure è come un
eschimese in un paese dell'Equatore: i bananeti delle oasi lo attraggono, ma
egli non ha nel sangue la gli anticorpi a proteggerlo dalle malattie del caldo.
Così il transculturale, nella sua confusione, vaneggia! Un giapponese che
voglia denigrare gli italiani può far menzione delle decine di governi che si
sono susseguiti nel nostro paese nel dopo guerra: una vera baraonda! Però egli
non sa darsi ragione come mai nonostante tanti cambiamenti, l'Italia abbia
perseguito un suo cammino di progresso; soprattutto non sa darsi ragione come
mai gli italiani amino così tanto la bellezza della vita. Se il Giappone fosse
scosso dagli stessi cambiamenti, cadrebbe in un vero caos! Il giapponese non
conosce gli anticorpi culturali che agiscono nei comportamenti degli italiani e
si meraviglia che, come dice una ricerca condotta sul fenomeno, un operaio
italiano sia più efficiente di quello giapponese, pur così dedito al suo
dovere! Alcuni anni fa' a Kobe per un violento terremoto crollarono molti
edifici, seppellendo migliaia di esseri viventi. Il giorno dopo molti volontari
erano accorsi per recuperare i corpi vivi e non più vivi da sotto le macerie.
Però le autorità politiche non avevano ancora definito il piano di soccorso:
quindi i volontari accorsi stettero a lungo immobili, attendendo ordini
ufficiali sul da farsi. Quando invece il terremoto sterminò molti villaggi
dell'Irpinia, ancor prima che la macchina statale si mettesse in moto, senza aspettarla, molti italiani si erano già messi a scavare, forse
con le mani, per soccorrere i seppelliti. Il giapponese non sa spiegarsi come mai l'italiano all'occasione trovi la coesione per superare le
difficoltà. Lo stesso principio di coesione che ha guidato i nostri antenati a costruire i centri storici delle città medioevali e rinascimentali, in cui le
case si appoggiano l'una sull'altra, in una lunga processione di varietà e di
bellezza. Eppure, anche in quell'epoca, l'Italia politicamente era a brandelli.
Un italiano che voglia denigrare i giapponesi può descrivere le file di turisti
che attraversano le vie di Roma in fila, o che attendono il loro turno per
salire sulla gondola al Canal Grande di Venezia, o che stanno a bocca aperta
davanti alle botteghe di gioielli sul Ponte Vecchio a Firenze con già una mano
al portafoglio per obbedire alla consuetudine che vuole che ogni turista
giapponese comperi qualche ricordo dove tutti l'hanno comperato prima di lui,
per mostrarlo al suo ritorno. Altrimenti che giro turistico sarebbe mai! Tutti
ossequienti alla guida che con la sua bandierina alzata dà ordini alla truppa!
Progresso costruito calpestando la libertà personale! Popolo messo in fila! Così
vede l'occidentale; ma sarà proprio così? La moglie di un muratore della ditta
edile, presso cui anch'io lavoravo come manovale, abbandonò la casa e i quattro
figli ancora piccoli per andare con un uomo ricco che l'aveva sedotta. La moglie
del capo ditta, senza alcun indugio, sentì il dovere di prendersi cura dei
figli di quel suo dipendente. Lo fece per alcuni mesi, finché la madre tornò.
L'occidentale, vedendo dal suo punto di vista, del comportamento dell'altro
coglie subito l'aspetto che a lui appare criticabile, dissimile ai suoi; ma può
non accorgersi del lato positivo che sottostà a tale comportamento che si è
consolidato nelle generazioni. Chi non custodisce in profondo le proprie radici
culturali non può accostarsi con il dovuto rispetto alla cultura altrui. Oggi
è l'epoca dei tanti incontri orizzontali, ma può rimanere un'epoca povera di
incontro verticale, come un albero che abbondi di rami ma non abbia radici. Fa
figura; ma è gracile. È dal terreno della serietà culturale che sboccia
l'afflato religioso. L'uomo, quando dalla vetta della sua cultura fissa il
cielo, si accorge che è sempre più alto, osserva l'orizzonte e scopre che è
sempre più vasto, allora avverte l'afflato religioso scaturire dal suo spirito.
Il cristianesimo
La vetta, ossia il punto forte della cultura occidentale, è il pensiero. Questo
può essere definito come la feconda interazione fra la realtà così com'è,
con la tensione a perfezionarsi intrinseca alla realtà stessa, al punto che la
permea fino al suo midollo. L'occidentale coglie questi due aspetti costitutivi
della realtà: coglie quindi il dinamismo della dualità, del già e del non
ancora, di cui è composto l'uno di ogni cosa esistente. Dualità è un termine
aborrito nella cultura orientale; mentre è intensamente dinamico nella cultura
occidentale. Nell'essere umano l'occidentale riconosce la sua individualità,
ossia il suo essere circoscritto così, e la sua personalità, ossia quella
punta dinamica che lo sospinge alla sua perfezione, superando il guscio dell'individualità. Quella punta, la persona,
è identica sia quando l'io individuale è infantile come quando è adulto, sia quando compie il male come quando opera il bene. Il pensiero, per
l'occidentale, non è un prodotto della individualità; nel qual caso sarebbe soltanto istinto. Ma è elemento originario che presiede
all'ambito spirituale della persona. Il pensiero non è il prodotto, ma la qualità dell'essere umano! L'occidente, terra fertile del
pensiero, nella sua storia ha conosciuto anche il male e il dolore che il
pensiero comporta quando tradisce se stesso: quando, anziché aprirsi verso il
cielo, si ripiega su un interesse. Allora il pensiero massifica la varietà
delle opinioni e si corrompe in ideologia spadroneggiante. L'ideologia declassa
l'uomo da persona a individuo, da essere che pensa in modo libero e responsabile
a bullone di un meccanismo o a numero di un sistema, come i prigionieri nei
campi di concentramento. In occidente la cultura che posa sul pensiero è di
ogni cittadino, credente o non, cristiano o appartenente ad altra religione. La
cultura rimane sempre un alveo più vasto e precedente la religione. Tuttavia è
un dato storico che il Cristianesimo ha trovato in occidente il terreno fecondo
in cui mettere radici e germogliare nella storia umana. Il Cristianesimo può
definirsi come la visita che la Verità, il Bene, la Pace, la Giustizia - sono
questi e tanti altri i nomi che noi diamo al principio dal quale e nel quale è
il nostro essere veri, buoni, in pace, giusti ecc. - fanno all'umanità intera
seguendo il sentiero che la cultura occidentale ha dissodato come accesso alla
Verità, al Bene, alla Pace, alla Giustizia ecc. Il Cristianesimo è l'incontro
con Dio che l'umanità compie mettendo in funzione l'orecchio e l'occhio di cui
la cultura occidentale l'ha dotata. L'occhio vede il cielo; mentre è un piccolo
organo che abita dentro il cielo immenso; l'orecchio intende, ma soltanto una
limitata gamma di suoni. Il Cristianesimo annuncia che tutte le idee perfette
che pullulano nel pensiero scaturiscono da una sola idea perfetta, il Verbo
divino nel quale tutto ciò che esiste si origina, cresce, giunge a maturazione,
si offre e si estingue. Il Verbo è divino come la forza che ha creato le cose.
Ma non si identifica mai con essa: permane sempre il dialogo fra forza e
pensiero, nel rapporto dell'amore. Il Cristianesimo annuncia che la fisionomia
perfetta dell'essere è la comunione delle differenze, è l'uno che unisce il
molteplice, è il molteplice che vivacizza l'uno, è il dialogo
permanente del soggetto con l'oggetto, è il dirsi "io" e
"tu" fra le varie esistenze. È questo anche il senso più profondo di
cattolico:
universale. È questo anche il senso del verbo creare con cui diciamo il
rapporto fra Dio, il Creatore, e le cose, creature. Dio crea: ossia dà l'esistenza alle cose costituendole come un "tu" di fronte a Dio
stesso. Creare è la funzione divina che sa dare l'esistenza a ciò che era
nulla, costituendola nello stesso tempo come un santuario di libertà personale
in cui nemmeno il Creatore entra senza bussare e chiedere permesso. L'uno,
nel Cristianesimo, non è mai la negazione del molti; non è mai il dominio
della forza sul pensiero, né del pensiero sulla forza. È la loro interazione
nell'amore. Il Cristianesimo non è monoteismo; ma relazione di persone divine
le cui differenze formano l'unico vincolo dell'amore. Nel Cristianesimo una
parola fondamentale è comunione. Così si chiama il gesto principale della
liturgia cristiana: la comunione eucaristica in cui l'uomo mangia il corpo di
carità del Verbo in cui tutte le esistenze comunicano. "Credo la comunione
dei santi", si professa nel Credo. Ogni santo attraversa la sua solitudine,
ma questa non lo separa, anzi lo unisce con tutti gli altri. Paolo testimonia:
«Poiché, come in un solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno
tutte la medesima funzione, così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo
corpo in Cristo e ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli altri.
Abbiamo pertanto doni diversi secondo la grazia data a ciascuno di noi. Chi ha
il dono della profezia la eserciti secondo la misura della fede; chi ha un
ministero attenda al ministero; chi l'insegnamento, all'insegnamento; chi
l'esortazione, all'esortazione. Chi dà, lo faccia con semplicità; chi
presiede, lo faccia con diligenza; chi fa opere di misericordia, le compia con
gioia. La carità non abbia finzioni: fuggite il male con orrore, attaccatevi al
bene; amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi
a vicenda. Non siate pigri nello zelo; siate invece ferventi nello spirito,
servite il Signore. Siate lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera, solleciti per
le necessità dei fratelli, premurosi nell'ospitalità. Benedite coloro che vi
perseguitano, benedite e non maledite. Rallegratevi con quelli che sono nella
gioia, piangete con quelli che sono nel pianto (Rm 12,4-15). Anche la preghiera ha il suo senso nella comunione. Infatti è la voce che si
origina dalla feconda tensione insita in ognuno di noi, fra ciò che è ora, e
ciò che percepisce come sua vera fisionomia che deve ancora attuarsi. Come un
seme che chiami il suo germoglio, il suo fiore, il suo frutto e poi il suo darsi
in cibo. Attraverso la preghiera ciò che è in me chiama ciò che deve essere
in me. La preghiera è il dialogo del mio intimo con ciò che rimane sempre più
intimo dentro di me. È il dialogo della mia persona con Dio. La preghiera in
ogni religione è una pratica importante; ma nel Cristianesimo è fisionomia
ultima della realtà, è natura autentica della persona umana.
.....Il seguito di questo articolo sull'opuscolo
De naturae rebus. Le cose della natura
Di Jiso G. Forzani
Anni addietro ho vissuto per svariate stagioni in un luogo, situato in un paese dell’Oriente, in cui d’inverno nevicava in grande abbondanza. Per tre, quattro mesi l’anno, dalla fine di Dicembre ai primi di Aprile una fitta coltre di neve ricopriva ogni cosa. Non si tratta in questo caso di un modo di dire preso a prestito dal baule degli stereotipi letterari: davvero una fitta coltre di neve ricopriva ogni cosa. D’improvviso iniziava a nevicare, in una notte se ne posava più di un metro e il mondo cambiava. Per tutto quel periodo da due a quattro metri di neve separavano il terreno dai piedi degli esseri, gravavano sui tetti, uniformavano avvallamenti, spianavano rilievi. Il bianco annichiliva ogni colore, e il silenzio della neve esercitava ininterrottamente una leggera inconfondibile pressione sui timpani: in quell'ovatta avvolgente si arrivava a sentire il rumor della neve cader sulla neve. Le rare uscite imponevano l’uso delle racchette da neve e il semplice fare quattro passi all’aperto diventava un esercizio di fatica e di equilibrio.
Poi, verso la fine di Marzo, l’odore dell’aria mutava, la neve cominciava a cambiare consistenza, rumori di gocce si facevano spazio attraverso il silenzio. Veloce come era venuta la neve spariva, e il terreno tornava alla luce con i suoi colori bruni, ancora un po’ livido per il peso sopportato ma subito pronto a sprigionare il verde. La sensazione più forte, per me, forse anche perché fino allora mai provata, era tornare a camminare con i piedi per terra. Sotto la pianta dei piedi, attraverso gli stivali di gomma, sentivo la consistenza del terreno, le rugosità, il tepore dopo tanto gelo, ne sentivo la vita. Non so bene dire sensazioni così corporee e sensuali e nello stesso tempo così profonde, sottili e delicate dello spirito. Niente di mistico, intendiamoci, nessun rapimento estatico di vibrazioni. Molto semplicemente, dovendo dire a parole, sentivo il terreno vivo e vivi i miei piedi, riconoscevo che davvero la pianta dei piedi è il piede di una pianta, semovente, che sono io, e che non c’è discontinuità alcuna fra la terra e me e la fogliolina che sboccia e il grande albero che allarga i suoi rami nel cielo. Mi pareva di essere ritornato a casa, ma come fosse un ritorno e una prima volta insieme: più ancora, era come ritrovare un pezzo del proprio corpo, o come sentirsi un pezzo che torna al suo posto a completare un incastro.
Allora ho cominciato a capire perché in Oriente c’è una comprensione della natura così diversa da quella predominante in Occidente.
La distinzione fra Oriente e Occidente che qui utilizzo non è geografica in senso stretto ma è un riferimento ideale. "Occidente" sta per una forma di civilizzazione che, nel suo esito attuale, riconosce nel progresso (economico, tecnologico, sociale) la canalizzazione positiva della spinta evolutiva dell’uomo verso il fine cui è destinato, partendo dal presupposto che a un fine collettivo l’uomo sia destinato. L’identificazione del bene umano nel progresso è tale che esso diventa il fine da perseguire: un progresso fine a se stesso che produce se stesso all’in-finito (nel senso di fino alla fine). Questa visione finalistica ha assunto varie connotazioni e vari nomi nel corso della storia, per giungere oggi a una concezione totalizzante della civiltà planetaria che va sotto il nome di globalizzazione, mondializzazione, villaggio globale, mercato unico ecc. Quindi, come è evidente, una visione e un processo che non si limitano all’Ovest (Europa e Nord America) poiché coinvolgono ormai il mondo intero, ma che senza dubbio nell’Ovest si sono originati, lì hanno avuto la loro culla e da lì traggono tuttora la loro linfa.
"Oriente", invece, sta per forme di civilizzazione che non partono dal presupposto che l’uomo abbia un fine collettivo e prestabilito da realizzare, ma che si strutturano a partire dalla cognizione che l’uomo (e più in generale ogni essere) debba vivere la vita secondo il posto che gli compete, uno per uno. In questa visione si riconoscono, più o meno, tutte quelle civiltà e culture (all’Est come al Sud, al Nord come all’Ovest del mondo) che non hanno elaborato alcuna idea particolare di progresso, ma hanno affinato il senso della vita nel presente. Se le raduno sotto la dicitura Oriente, non è per disconoscere tante altre civiltà che si sono espresse altrove che all’Est (penso agli abitanti originari del continente che oggi si chiama America, ai tanti popoli africani, agli autoctoni australiani ecc.) ma perché è in Estremo Oriente (dall’India al Pacifico, per intenderci) che quella visione si è
espressa in forme così mature e universali (nel senso di non locali, non legate a condizioni particolari di un luogo geografico) da poter rappresentare in qualche modo un contraltare alla cultura del progresso.Oggi è legittima l'impressione di esser giunti a danzare come orsi ubriachi sull’orlo di un baratro: l’uomo ha elaborato dei mezzi (non solo quelli direttamente distruttivi ma anche, paradossalmente, quelli concepiti come tecniche di "sviluppo") potenzialmente in grado di distruggere lo stesso ambiente naturale dell’uomo. Così qualcuno comincia a chiedersi come ciò sia potuto accadere e come mai si sia verificata questa pericolosa schizofrenia che aliena l'uomo da qualcosa da cui non può alienarsi senza perire, cioè la natura che lo fa vivere. Poco a poco, e con una paurosa accelerazione negli ultimi due secoli (che si è fatta vertiginosa da qualche decennio) si è instaurato in Occidente un rapporto non sano fra uomo e natura. Ciò che qui vorrei analizzare è il processo formativo di un modo di concepire la natura i cui esiti odierni potrebbero essere devastanti per l'uomo stesso. Proverò a prendere in esame alcuni elementi che mi paiono costitutivi del pensiero occidentale e, soprattutto, determinanti nell'aver prodotto quell'idolatria del progresso di cui tutti siamo, chi più chi meno, i cultori, e grazie alla quale si acuisce sempre più l'alienazione e l'estraniamento dell'uomo nei confronti della natura.
È sempre problematico e discutibile identificare delle cause specifiche quando si analizza un effetto, specie se la materia in esame è impalpabile come il processo formativo di una mentalità e di una cultura. Non pretendo di identificare in determinati semi la causa incontrovertibile che ha prodotto gli effetti che oggi subiamo. L'operazione sarebbe arbitraria e comunque confutabile. Però è un fatto che stiamo parlando di una situazione concreta che da qualche parte proviene. Ed è altrettanto evidente che si tratta dell'esito attuale della civilizzazione occidentale. Ha quindi un senso ricercare nella storia del pensiero occidentale quelle caratteristiche specifiche prevalenti che hanno favorito la formazione di questa forma di cultura e di civiltà, soprattutto quando quelle stesse caratteristiche sono assenti (o non prevalenti) in altre culture che non hanno prodotto forme simili di civilizzazione.
La riflessione filosofica occidentale nasce proprio come riflessione sulla natura. È significativo notare che quasi tutti i filosofi presocratici abbiano scritto (o sia stata loro attribuita) un’opera titolata Sulla natura (Anassimandro, Senofane, Eraclito, Parmenide, Zenone, Empedocle, Anassagora, Diogene…). A partire da loro, si incrina lo schema del mito che aveva informato di sé il mondo antico e viene progressivamente affermandosi un processo di idealizzazione. Ponendosi come osservatore nei confronti della natura (pur dichiarandosene osservatore partecipe ma comunque in posizione dialettica) l’uomo introduce surrettiziamente una dicotomia, una frattura fra sé e la natura che osserva. La speculazione filosofica dell’Occidente nasce da lì, e procede per secoli nel tentativo di conoscere la natura a partire dall’osservazione umana, la quale a sua volta è vagliata, sintetizzata ed espressa in forme modellate in base a categorie concettuali del pensiero umano. La ricerca di un principio unificatore non più mitologico ma "logico" (la sostituzione del mythos col logos), è il segno di una metodologia che pretende di applicare categorie proprie del pensiero umano (e sempre più, di una particolare forma di pensiero, il pensiero concettuale) a tutta la realtà, come se il pensiero dell’uomo potesse essere la misura di tutte le cose. Partendo dall’osservazione dell’evento fisico (natura in greco si chiama physis) i primi filosofi greci vanno alla ricerca di un principio costitutivo (arché) inferendo dall'osservazione che la natura sia governata da leggi e retta da un ordine "razionale", cioè commisurato alla natura stessa, che diventa così spiegabile. Tale nozione troverà la sua concettualizzazione più articolata in Aristotele. Secoli dopo, la saldatura del pensiero aristotelico con un’esegesi biblica ad esso omogenea e con una concezione espansionistica e quantitativa della visione messianica cristiana, diventerà la molla che condurrà al trionfo della cultura occidentale del progresso.
Utilizzare il pensiero come metro di misura della realtà, che è una sorta di implicito a priori caratteristico della cultura occidentale, significa di fatto identificare il pensiero con l'essere: il che equivale, visto che stiamo dalla parte del pensiero, sancire la supremazia del pensiero sull'essere. Scrive in proposito Raimon Panikkar nel suo ultimo libro, La Filosofia Interculturale, di prossima pubblicazione: "[...] il "Principio di Parmenide", come io ho chiamato il dogma capitale della cultura occidentale: la supremazia del Pensiero sull’Essere. Dico supremazia del pensiero sull’essere, perché, anche se Parmenide afferma l’identificazione fra pensiero ed essere, questa identificazione è proclamata dal pensiero e non dall’essere. [...] Dal punto di vista logico l’argomento è senza pecca, ma mette la logica razionale prima, anzi, sopra la realtà umana. Questo equivale a dire che non possiamo imparare a parlare se non sappiamo come parlare; ma non sapremo mai come parlare se non parliamo. O, tornando a Parmenide: pensare implica essere, perché questo è un postulato o un’intuizione del nostro pensiero (Cogito ergo sum). Senza il pensiero non possiamo essere consapevoli di essere. Ma il fatto che essere non appare senza il pensiero di essere e che il pensiero implica l’essere, è una necessità pensata del nostro pensiero che noi sovrapponiamo all’essere perché non possiamo fare altrimenti. Ma questo pensiero imprigiona il pensiero, non l’essere - a meno che non assumiamo preventivamente la loro identità. In altre parole, l’essere è libero dalle leggi del pensiero. Detto concisamente: possiamo scoprire degli a priori nel nostro pensiero; ma non possiamo proiettarli sull’essere senza trasgredire proprio le leggi del pensiero stesso".
L’Occidente è ancora sotto l’influsso del dogma di Parmenide e non ha ancora preso davvero in considerazione l’evidenza del fatto che l’essere è libero dalle leggi del pensiero e che questa evidenza coinvolge anche l’essere pensante per eccellenza, l’uomo.
Eppure basterebbe una piccola osservazione, se presa sul serio, a far comprendere che c’è un vizio proprio alla base della concezione occidentale del rapporto fra uomo e natura. Se per ipotesi tutt’altro che arbitraria il genere umano sparisse completamente e definitivamente dalla faccia della terra, gli effetti di questo evento sulla vita della terra (e sull’esistenza delle altre forme di vita della terra) sarebbero pressoché irrilevanti: forse un vago beneficio generico per il diminuito inquinamento e qualche problema per gli animali domestici. Ci si può persino risparmiare la fatica di immaginare come sarebbe la terra senza l’uomo, perché tanto nessuno di noi lo vedrebbe, ma si può intuire che per tutti "gli altri" non ci sarebbero problemi di sorta. Se invece sparissero, che so, tutti gli alberi, le conseguenze sarebbero devastanti per tutte le forme di vita, uomo compreso. Dovrebbe bastare questo a mettere in discussione la pretesa di centralità che l'uomo rivendica per se stesso, e che si basa esclusivamente sulla pretesa supremazia del pensiero.
Non vorrei essere frainteso quando parlo di "pretesa centralità dell'uomo": è evidente che l'uomo, dal punto di vista umano è centrale, non fosse che per il fatto che vede le cose (e non può fare altrimenti) da dove le vede, cioè da se stesso. Puramente ipotetica e irrilevante, quindi, in un'ottica umana, la supposta centralità della zebra per le zebre. La centralità del pensiero per l'uomo pensante non è in discussione per il semplice fatto che l'uomo non può "pensare" altrimenti. Il punto è che la centralità umana non è, in realtà, al centro di niente. L'uomo non può vedere le cose che da se stesso, ma proprio da dove le vede non può neanche non rendersi conto che la natura (visto che di natura si parla) può prescindere dall'uomo ma non l'uomo dalla natura. Quindi anche la questione della centralità è relativa. Acclarato che un centro centrale non c'è, il pensiero umano torna ad essere quello che è, un strumento, un talento fra tanti, ottimo se usato per l'ambito che gli compete, inutile se usato per funzioni che non lo riguardano (non serve per nuotare), pernicioso se considerato onnipotente.
L’Oriente non ha mai impostato la propria ricerca sulla dicotomia fra uomo e natura, pensiero ed essere. L’uomo orientale non ha mai neppure preso in considerazione qualcosa che non fosse la simbiosi costitutiva di uomo e natura, che considera indiscutibile, perché il solo discuterne è già il segno di una separazione. L’uomo non è mai uscito dal paradiso terrestre per il semplice fatto che non c’è mai "entrato", in quanto la natura non è luogo da cui si entra e si esce ma il luogo senza altrove, il corpo del mio corpo, dove corpo indica il mio essere che è carne, ossa, forza vitale, spirito, coscienza, pensiero, vita, morte…: in altre parole, la situazione (l’essere situato) di ogni momento di ogni cosa che è. L’uomo non è mai uscito dal paradiso terrestre perché non è mai uscito dalla terra la quale non è mai stata solo paradiso (il paradiso terrestre è una situazione ideale da cui non si può che decadere proprio perché non è la situazione così come è ma la situazione di un’idea) ma è, e sempre è stata e sarà, anche inferno e limbo e purgatorio, tomba e culla di ogni vita, di ogni essere senziente e insenziente. Il buddismo chiama rokudo - sei vie i sei mondi o modi di essere in cui ogni forma della vita prende vita: il mondo degli esseri celesti, quello degli umani, quello dei demoni bellicosi (asura), il mondo animale, quello degli spiriti famelici e l’inferno: uno schema semplificato per dire ogni condizione in cui ogni essere può trovarsi ad essere. Questo è la natura. Gli ideogrammi cinesi che noi consideriamo quelli più o meno corrispondenti al termine natura, in giapponese si leggono shi zen (ji nen nella lettura buddista) che vuol dire semplicemente io così, se stesso conforme: ogni cosa è se stessa facendo se stessa così come realmente è, e non c’è altra natura di quella cosa che la cosa stessa. Da notare che anche il termine jiyu (equivalente al nostro libertà) esprime lo stesso concetto: vuol dire infatti in base a se stesso, secondo sé. Libertà e natura significano entrambe che ogni cosa dice io nel modo suo proprio e che il modo autentico di dire io di ogni cosa in ogni situazione è la libertà conforme all’ordine naturale che realizza perfettamente quella cosa e la totalità della realtà.
"Questo essere così è la natura della natura della natura". Ho intitolato questo articolo De naturae rebus, parafrasando e ribaltando il De rerum natura di Lucrezio, per indicare che le cose della natura (di cui l’uomo è una) sono la natura stessa, e non c’è natura delle cose che non sia le cose stesse: e questo è, se vogliamo, il rebus della natura.
Non è quindi l’osservazione della natura da parte di un osservatore (già in sé dicotomia) che interessa ma la natura stessa prima di qualunque distinzione epistemologica. C’è una concezione della realtà, che permea dall’India al Giappone tutto l’Oriente, che mi pare meglio di ogni altra esprima la visione non dicotomica che può rappresentare, a livello speculativo, un antidoto alle aberrazioni cui la visione "progressista" sta conducendo il mondo: in sanscrito si chiama pratityasamutpada, termine per il quale non c’è un’unica traduzione in cinese o in giapponese, e men che meno in lingua occidentale. È la comprensione che descrive la realtà come la generazione inter-in-dipendente continua ed eterna, per la quale tutto è in perenne interrelazione di reciprocità con tutto, ogni cosa è causa ed effetto di tutte le cose. Niente a che vedere quindi con un susseguirsi meccanicistico di cause ed effetti (come qualcuno vuole riduttivamente comprendere la legge del karma) ma la trama che connette, giustifica e sostiene ogni singola cosa (dharma) come entità integrante del tutto. In tale visione è priva di senso la ricerca di un principio, sia in senso temporale che in senso causale, perché il principio è ovunque inerente e presente. Infatti sia in sanscrito che in cinese e in giapponese, la parola dharma che indica ogni singola cosa (dove per cosa non si intende un "oggetto" di fronte a un soggetto) è usata identica per indicare il principio che informa quella cosa stessa e il tutto. In questa visione l’uomo non ha una posizione centrale o particolare da cui osservare "il resto", perché non c’è alcun "resto" là dove ogni cosa comprende tutte le altre nella trama dell’inter-in-dipendenza. "Il tutto è il tutto che vive. [...] È detto anche il tutto che vive, gli esseri senzienti, la molteplicità delle forme di vita, la moltitudine delle varie specie di esseri. Dire ogni cosa che è, è dire il tutto che vive, è dire la molteplicità delle esistenze. Quindi ogni cosa che è, è natura di Buddha (natura autentica)".
Nella visione orientale il pensiero non è lo strumento privilegiato di indagine della natura e men che meno del rapporto dell’uomo con essa (avendo sempre presente che per natura, dal punto di vista umano, si intende contemporaneamente e inscindibilmente la natura propria dell’uomo e l’ambiente proprio dell’uomo, e per rapporto non una relazione io - tu ma l’interrelazione fra le infinite modalità che ha la vita per dire io). Anzi, senza andar "oltre" il pensiero concettuale, non è possibile cogliere la natura della natura della natura. Le leggi del pensiero, sorrette dal principio di non contraddizione, sono a loro volta inscritte nella "legge" più profonda e vasta nella quale la contraddizione non è contraddittoria ma costitutiva. Senza che si dischiuda quella visione, che non è del pensiero ma della prajna, nella quale non c’è il problema dell’oggettività perché non sussiste dicotomia fra soggetto e oggetto e dunque nulla ostacola o condiziona null’altro, non si può che restare intrappolati in una concezione inconciliata: la contraddizione si fa insormontabile e per riscattare la realtà è necessario sacrificarne una parte. Allora il dolore, il non senso, l’assurdo diventano il Male, i vari ostacoli e nemici che incontriamo diventano il Nemico, i demoni diventano il Diavolo, la sofferenza diventa il Dolore: la proiezione di uno schema mentale diventa la Realtà, alla quale a sua volta di cerca di uniformare la nostra visione delle cose. È significativo che non esista in lingua occidentale un termine che dica ciò che prajna vuol dire. Non che in Occidente non esista (non sia sempre esistita) e non si manifesti (non si sia sempre manifestata) prajna: ma non la si è coltivata come valore, di modo ché non le si è dato nome. Prajna è la saggezza che coinvolge corpo e spirito come unità non alienabile nella visione di sunyata, la vuotezza di sostanzialità di qualsivoglia realtà fenomenica, perché ogni cosa è sola inter-in-dipendenza di tutto con tutto.
.....Il seguito di questo articolo sull'opuscolo
Materiali
Per
un'etica della responsabilità verso gli esseri umani e la terra
Conversazione con Leonardo Boff
Quella che presentiamo è un'intervista al teologo brasiliano Leonardo Boff sul
rapporto tra religione e ambiente. Il testo è già apparso sul settimanale di
Bolzano "Il Segno" e sul sito web www. nonluoghi.org. Boff, uno dei più
importanti rappresentanti della teologia della liberazione, da tempo si occupa
di questi problemi. Su questi argomenti in italiano sono stati pubblicati:
Ecologia mondialità mistica, Assisi, cittadella, 1993, Sorella madre terra, Roma, Lavoro, 1995 e Il creato in
una carezza, Assisi, Cittadella, 2000.
Leonardo Boff, da tempo tu ti fai portavoce di un'etica universale, che ha nella
cura della Terra minacciata di morte il suo punto di forza. Però sembra che
questa etica sia un po' emarginata dalla riflessione culturale laica ed
ecclesiale. Come mai?La dimensione della cura, della responsabilità individuale
verso le creature e verso tutti gli esseri animati e inanimati, è pensata per
essere un'etica che va contro il sistema dominante. I problemi che affronta sono
globali. Pensiamo solo al problema sociale, quello dell'esclusione planetaria,
rappresentato drammaticamente da cinque miliardi di persone che vivono nel
cosiddetto terzo mondo. E pensiamo al problema ecologico, che dimostra come
l'equilibrio chimico e fisico della terra sia minacciato di morte per cui il
futuro della terra non è più garantito, ma è affidato alle decisioni
politiche dell'uomo. Io credo che questa situazione esige una rivoluzione, che
non può essere volontaristica, come è stata in passato per tutta la tradizione
rivoluzionaria, ma si impone come una "rivoluzione etica", che parte
da una base minima in cui tutti si ritrovano. E allora l'essenza dell'essere umano non è né l'intelligenza, né la razionalità, né la libertà,
ma la cura verso le cose. Dai bambini agli anziani tutti possono realizzare
questa spinta etica, vitale, che è la cura del prossimo e dell'ambiente vitale
che ci circonda. Qui risiede il patto che lega le culture diverse, le religioni,
i popoli del mondo. Però bisogna fare di questa prospettiva un progetto
politico e una centralità spirituale. E in questo senso mancano le mediazioni
politico-culturali per rendere questa etica riconosciuta una forza
rivoluzionaria.
Come mai anche nella Chiesa la riflessione sull'ambiente è così debole?
La Chiesa è diventata ecclesiocentrica e occidentalocentrica e non ha una sensibilità marcata verso i problemi globali dell'umanità. Ha una
sensibilità, però solo morale e non politica, intesa come indicazione di un
destino comune del genere umano. Io credo che bisogna aiutare la Chiesa a
recuperare questa sensibilità verso un futuro che coinvolge tutta l'umanità e
tutta la creazione. La Chiesa deve essere forza ispiratrice, pedagogica, stimolo
e coscienza critica verso tutto ciò che vive.
E la società civile come reagisce? In questi ultimi mesi si muovono i gruppi,
le associazioni di base, i movimenti ambientalisti per criticare duramente le
politiche neoliberiste e la globalizzazione dei mercati. Così è accaduto a
Seattle, così a Washington. E' una società civile che ha deciso di muoversi da
sola? Bisogna capire questa questione in termini dialettici. Da una parte
si è organizzato a livello globale il sistema finanziario, l'economia e il
mercato, ma dall'altra si è organizzata la globalizzazione della società
civile. Io penso che le manifestazioni di Seattle e le ultime a Washington
contro il Fondo Monetario internazionale e la Banca mondiale, abbiano, per la
prima volta, messo in moto le articolazioni di una società civile globale, che
vuole un'altra direzione della storia e che non vede nel mercato la merce come
centralità, ma vede, invece, come centralità la vita, la terra, la quarta e
quinta parte del mondo che sono i poveri.
E' possibile usare gli strumenti della società del mercato per impostare una
nuova società più giusta e riconciliata? Io credo che il mercato sia la
più grande invenzione sociale del mondo, però bisogna collocare il mercato
all'interno di un altro paradigma, che non fa del mercato la centralità di
tutto, ma lo rende uno strumento per la realizzazione di una comunione di uomini
e donne che si scambiano l'effusione della vita, il bisogno di soddisfare le
necessità di base dell'esistenza, che muovono le energie per i dialogo,
l'amicizia, la fiducia.
E' possibile trasportare questa etica della cura dentro la teologia? La mia
sfida personale è proprio questa: fare la teologia di questi nuovi fenomeni.
Dio è presente in tutti questi progetti e il luogo della fede discerne i figli
di Dio in questo processo e crea un linguaggio che lo rende visibile. Le chiese
devono assumere una visione ermeneutica di interpretazione del corso del mondo,
ma che è anche corso del progetto di Dio nella storia, dentro le sue
contraddizioni. Questa per me è la vera evangelizzazione: non creare discorsi,
ma svelare ciò che è nascosto nel progetto di Dio.
E la teologia della liberazione in America Latina come sta? E' in crisi, come
alcuni dicono o è solo in una fase di ripensamento? La teologia della
liberazione parte sempre dalla situazione reale di cristiani che lottano per la
vita, per la terra, per i diritti umani. Per tutte quelle chiese che hanno fatto
in sincerità l'opzione per i poveri contro la loro povertà e in favore della
vita, la teologia di riferimento è la teologia della liberazione. Tutti i
gruppi dei Sem Terra (dodici milioni solo in Brasile), le comunità di base
(100.000), i gruppi biblici di base (2 milioni) e tutti gli operatori che
lavorano per questa chiesa del grembiule, sentono come riferimento teorico
la teologia della liberazione, che non ha più la visibilità di una volta,
quando c'erano gli scandali, i discorsi clamorosi ecc., ma è una teologia viva,
naturale, quotidiana che si basa sull'articolazione di un progetto di lavoro,
che riflette profondamente i temi della povertà, della giustizia e della fede.
Voci
In
girum imus nocte et consumimur igni
Federico Battistutta
1. Da un po' di tempo sulle pagine di quest'opuscolo si parla del ruolo dei
laici all'interno di un esperienza di cammino religioso. Poiché sono e mi sento
direttamente coinvolto in questo genere di esperimenti è da tempo mio desiderio
provare a riflettere a voce a alta su ciò, non perché ami alzare la voce, ma
per fare in primo luogo chiarezza a me stesso, attraverso la raccolta di alcuni
pensieri sparsi, sottoponendoli a chi sente affinità con le medesime domande.
Queste note appaiono sotto la rubrica "voci", poiché di ciò si
tratta, nulla di più ma neppure di meno: sono il racconto e il tentativo di
elaborazione di un'esperienza personale, e appartengono, forse impropriamente,
al genere autobiografico, anche se l'uso del pronome di prima persona non
ricorrerà con frequenza, come sarà assente il ricorso alla narrazione di
episodi più o meno aneddotici.
Capiterà invece di incontrare qualche riferimento sia esplicito che indiretto a
letture cristiane e buddiste; con ciò voglio solo indicare che mi nutro di un
pensiero che viene molto prima del mio, poiché a queste due tradizioni da tempo
ho scelto di fare capo, non come sistemi dottrinari, ma come relazione dinamica
che mi mette in gioco nell'adesso. Mi auguro che ciò non renda eccessivamente
mediata la riflessione, come se volessi ricevere una garanzia dall'ipse dixit
dei testi canonici; (del resto i Vangeli ci mostrano che anche il diavolo sa
citare puntualmente versetti biblici). Riformulando il discorso: i testi
religiosi dicono quello che dicono, ma io cosa dico e dove sono rispetto ad
essi? Quando si parla di dialogo religioso talvolta si dà per sottaciuto che il
dialogo prima ancora di riguardare due tradizioni religiose è dialogo che parte
dalla propria esperienza, facendo vibrare ogni corda della propria pelle, carne,
ossa e midollo. Altrimenti si tratterebbe di esercizi di diplomazia curiale o giù
di lì. C'è invece il mio dialogo con il cristianesimo, c'è il mio dialogo con
il buddismo e c'è pure il mio dialogo con il dialogo tra cristianesimo e
buddismo. E' vero: questo è solo il presupposto da cui partire, ma che altresì
non posso ignorare. A questo proposito, confesso di nutrire un sentimento
fatto di tenerezza e di rispetto per i racconti di quelle persone le quali
narrano della propria fede ricevuta fin da piccoli in seno alla famiglia e alla
comunità in cui sono vissuti; una fede nutrita, coltivata nell'intreccio con i
ritmi della natura e le diverse dimensioni della vita. So però che questa non
è stata la mia storia, bensì si è trattato di un rapporto con la religione
passato attraverso vari momenti, da un'educazione formale all'inizio, al successivo rifiuto, alla
ricerca in varie direzioni, inizialmente superficiale e confusa, poi via via
sempre meno vaga, ma comunque in continua costruzione. E all'interno di ciò, da
una parte colloco l'importanza assunta per me, come per altri della mia
generazione, della "svolta ad Oriente", la quale col tempo si sta
chiarendo (avendo assunto la forma del buddismo zen), e al tempo stesso va
ridimensionando un po' l'entusiasmo iniziale, riuscendo a cogliere - pur nella
mia generale ignoranza e pur abitando a latitudini storiche e culturali
distantissime - accanto alle luci custodite, anche le ombre, non sempre
facilmente decifrabili, ma la cui natura umbratile può rendersi presente a uno
sguardo via via esercitato; dall'altra, riconosco viva in me una riscoperta del
cristianesimo, pur nella tensione, dinamica sicuramente, ma fortemente
conflittuale, tra il richiamo verso una Chiesa intesa in un'accezione mistica,
sacramentale e l'impossibilità ad accettarla nell'altra veste, come res publica, come entità giuridica.
2. Tornando al punto iniziale: qual è il significato di laico in relazione a
religioso (sacerdote o monaco che sia)? Per me, non è una di quelle parole che
mi fa sentire a mio agio indossandole. La mente spontaneamente l'associa al
pensiero di origine liberale e risorgimentale che postula l'indipendenza del
pensiero e dell'azione dei cittadini dall'autorità ecclesiastica, e in questo
contesto l'espressione non appare particolarmente azzeccata. Ma, evidentemente
non è qui la questione. Si è fatto notare che 'laico' deriva dalla parola
greca laos che vuol dire 'popolo'. (Del resto il termine 'liturgia' che suole
designare nelle religioni il complesso delle cerimonie cultuali contiene al suo
interno la stessa parola laos). Invece 'monaco' deriva da monos, 'unico',
'solo', indicando prima ancora dell'appartenenza a un determinato ordine
monastico il cammino di unificazione interiore (a cui allude pure la parola religione,
religio) Allora, a rigor di termini, tutti siamo laici e monaci, al medesimo
tempo, poiché membri di una comunità nella quale cerchiamo di manifestare e
approfondire l'unicità della vita che si esprime attraverso noi.
Fin qui le definizioni che sembrano metter le cose al loro posto, ma oltre ai
discorsi che possono diventare una trappola raffinata, cosa vuol dire per me
essere per davvero su un cammino religioso laicale? In che forma riconosco e
declino in me la presenza di questi due poli? E ha senso e sono in grado io di
dirlo, dal momento che di simili temi è bene parlarne poco o niente, poiché
quando se ne parla lo si fa per lo più invano?
3. Quanto segue è forse solo un preludio a una riflessione sul cammino
religioso laicale, ma mi pare che senza certi ingredienti il discorso slitterebbe in questioni, in ultima istanza, di ordine tecnico circa le
definizione delle quote di partecipazione laica alla gestione di una confessione
religiosa. Parto da questa affermazione, apparentemente banale: solo un
laico può raccontare la via religiosa dei laici. Ma cosa permette di
qualificare detto cammino come religioso, rispetto ad altre scelte che una
persona può compiere nella vita? Sul numero precedente di quest'opuscolo Jiso
Forzani nel suo intervento si soffermava a ricordare che la prima cosa che un
individuo deve comprendere e su cui è giusto che s'interroghi con rigore è la
domanda su cosa sta veramente a cuore e su cui impostare la propria vita. Cosa
voglio fare davvero nella vita? A questa domanda, nella sua crudezza, tutti
siamo chiamati a confrontarci, indipendentemente dalle scelte di campo,
religiose o meno. Non farlo significherebbe ingannare in primo luogo noi stessi,
secondariamente chi ci sta appresso. E le scelte religiose non costituiscono un'eccezione, al punto che, tanto per intenderci, l'orientarsi
verso attività religiose può essere motivato da un'infinità di ragioni che
con il senso religioso della vita hanno poco o nulla a che spartire; forse
talvolta sarebbe bene dirselo. Nell'articolo a cui facevo sopra riferimento
viene riportata una frase di Doghen, molto famosa, che è di aiuto per
avvicinarmi alla comprensione della domanda sul senso di un cammino religioso.
La frase dice così: conoscere la via autentica è conoscere se stesso;
conoscere se stesso è dimenticare se stesso; dimenticare se stesso è essere
inverato da tutte le cose. Il conoscere se stessi di cui si parla - comune
pressoché a tutte le tradizioni religiose e sapienziali - ha poco a che vedere
con una conoscenza psicologica (o comunque è da essa appena lambita). E' invece
contemporaneo agli altri due aspetti: conoscenza della via e oblio di sé. Il
mio io (e la conoscenza che ne ho) non è separabile dalla via e dalla vita (e
dalla conoscenza che ne ho). Ancora: conoscere me stesso è un importante punto
di partenza (messo in moto spesso da un disagio interiore), ma indugiarvi è
atteggiamento autocelebrativo o narcisistico. Allora nasce il dimenticare me
stesso, che non è un intenzionale ignorare me stesso, in particolare le ombre
della mia personalità che gradirei non vedere. Tutt'altro: quando ad esempio
sentiamo che i santi parlano di sé come peccatori, non compiono un esercizio retorico di autodenigrazione per apparire
umili agli occhi del prossimo, ma raccontano la verità perché dicono le ombre e i demoni che abitano in loro. Dimentico me stesso invece
quando non ne posso più e lascio andare la presa, rendendomi conto che per fortuna la vita ha un abbraccio più ampio di quanto mi permette
di calpestare il mio ristretto teatrino interiore (o, se si preferisce, il mio
giardino zoologico mentale) con tutte le altalenanti ambizioni di realizzazione
(anche spirituali). Ma dimenticare me stesso
rinvia anche al dimenticare la via; e ciò la natura laicale, quando non
subentra l'inganno che confonde l''oblio di' con la 'fuga da', ha la potenzialità
di esprimerlo con intensità, calandosi dentro ogni aspetto della vita
quotidiana, per balzare oltre quel paradosso secondo cui le religioni che si annunciano come universali e unitive diventano fonte di
radicali divisioni, dentro e fuori la persona, potente e sofisticato strumento per nascondere l'uomo a se stesso. Allora dimenticare la via è
realizzare la via, oltre le appartenenze confessionali e le guerre sante dentro e fuori di noi; forse è per questo che mi capita di provare un po'
d'invidia quando vedo uomini e donne che riescono a vivere una profonda
sensibilità e rispetto nei confronti della vita senza adottare lessico e
paludamenti religiosi. Non solo: mi rendo anche conto che quando rifiuto e nego
questi elementi tra loro connessi partecipo sempre all'intero percorso che mi
accoglie: c'è ricerca perché c'è smarrimento, e mi smarrisco perché sto
cercando, poiché la ricerca non mi fa certo trovare ciò per cui all'inizio mi
ero messo in cammino.
Conoscere me stesso, dimenticare me stesso, conoscere la via, dimenticare la via
sono quindi aspetti su cui poggia ogni mia personale cognizione e che, mi sembra di capire, si conclude in quel non sapere che
chiamano fede. La domanda iniziale: "Cosa voglio io dalla vita?",
il mio io la orienta riformulandola in questo modo: "Cosa vuole la vita dal
mio io?" Posso chiamarla 'vocazione', ma è sempre il mio io che obbedisce alla chiamata e potrebbe farne a meno. (Giustamente la Bibbia conserva
un racconto - sto pensando alla storia del profeta Giona - in cui il
protagonista a simile chiamata ha voluto, almeno in un primo tempo, sottrarsi).
Non credo che vi sia particolare merito nell'opzione verso le cose religiose, in
quanto si ha semplicemente la fortuna di adempiere a delle scelte auspicate. Io
faccio quello che faccio perché non posso fare altrimenti (soprattutto le volte
in cui mi sento un po' autentico, sia nella realizzazione di quello che mi
propongo che nella trasgressione. Anche il mio io sperimenta la verità di non
compiere il bene che si propone, ma di agire il male che non vuole).
4. Ancora: cosa rende dunque religioso il mio cammino di uomo tra i miliardi di
altri esseri umani il cui cuore in questo momento sta battendo?
C'è una frase del maestro giapponese Kodo Sawaki che mi ha
particolarmente colpito. Dice così: "Ognuno immerge sé stesso nella sua propria vita e vive. [.] In realtà la vita dell'essere umano non differisce da
quella delle rondini: i maschi procurano il cibo e le femmine covano le
uova". Certo, la natura dell'essere rondine non è la natura dell'essere
umano, e sarebbe un'ingenua romanticheria immaginarsi che l'uomo possegga una
naturalità del genere. Ma è vero anche che entrambi sono immersi in un'unica
grande natura, a cui vi partecipano in forme differenti. Non siamo divisi, né
divisibili da quell'unica grande natura, anche se non possiamo affermare con
questo che non vi sia differenza fra la nostra natura umana e quella delle altre
creature. Per quello che ci è dato sapere secondo la nostra prospettiva
umana,noi, a differenza delle rondini, manifestiamo una natura complessa, non
definita, costitutivamente aperta, la quale contempla fra le più diverse
possibilità anche quella di rinnegare (coloro "che mai non fur vivi",
chiama Dante chi fa così) l'immersione in quella vasta natura che costituisce
la fonte e l'origine di ogni cosa. Ma questa apertura, pur variamente modulata e
declinata, alla fine realizza la fedeltà a sé stessa solo nell'immersione
piena nella vita, attraverso le relazioni con chi ci è vicino e con l'ambiente
che ci circonda. Allora la vita è questo: procurarsi il cibo e covare le uova;
perché è questo che la vita nella sua essenzialità mi chiede, nella vocazione
(religiosa, c'è bisogno di dirlo?) ad essere semplicemente uomini e donne, vale
a dire esseri creati a immagine e somiglianza di Dio, come dice la Bibbia, non
nella distinzione tra laici o religiosi, perché abbiamo un volto prima di
indossare questi abiti, i quali dovremmo nel punto definitivo della nostra vita
deporli senza possibilità di ricorso. Fare quello che c'è da fare perché è
da fare e basta, senza secondi fini, quali il successo, il denaro, il potere, la
sicurezza garantita (economica, affettiva o spirituale), l'acquisizione di
status symbol o le proiezione verso i figli. L'unica vera aspirazione che posso
avere nelle vita è quella di immergermi nella vita, facendo la mia parte nella
maniera più autentica che mi è possibile. Allora, o la religione mi aiuta a
ricollegarmi a tutto questo o sto perdendo il mio tempo, riducendo la religione
a oppio dei popoli o a sospiro della creatura oppressa. Non è che noi abbiamo
poco tempo, è che ne perdiamo molto, ricordava Seneca. Perderlo poi
cincischiando con pratiche religiose mi sembra lo spreco peggiore.
Alla domanda: a cosa serve seguire un cammino religioso?, rispondo allora che mi
è di aiuto, anche se non ne traggo alcun vantaggio personale. Non serve a niente, ma serve a me per essere battezzato in spirito e
fuoco nell'immersione nella vita. In girum imus nocte et consumimur igni, recita
un noto palindromo (si dice palindromo una parola o una frase che si può
leggere indifferentemente sia da sinistra che da destra). Andiamo in giro di
notte e veniamo consumati dal fuoco. Sentire che la vita mi consuma mentre io
consumo la vita. E' la vita che consuma la vita: io e vita non sono termini
separati, così come vita e morte non sono distinte pur essendo due. Questo è
il vero perdere tempo che non teme di consumarsi e allora si dà nella perdita.
Sentire ed essere questo quando svolgo il mio lavoro, quando aiuto mia moglie
nei mestieri di casa o i bambini nei compiti significa per me essere come una
rondine. Allora, quando sono laico fino in fondo, sento anche di essere
religioso fino in fondo. Mi spiacerebbe però che un simile discorso venisse
percepito come un quadretto a tinte morbide dove ogni cosa brilla al suo
posticino. La vita quotidiana, lo sappiamo, non è così. Comprende un insieme
di gesti che solo a volte vivono quella ritualità naturale che riconosciamo
nella vita delle rondini. Spesso invece è priva di grazia e attenzione,
diventando una sequenza grigia e meccanica di azioni in cui predomina la
ripetitività, la frustrazione, la noia o la rabbia; ad esempio, nelle frequenti
interruzioni a cui vengo sottoposto in casa mentre provo a scrivere queste
righe. Allora sento che lì mi sfuggo e sfuggo alla vita, quando la mente
galoppa baloccandosi con immagini dove luoghi, persone, attività possano
finalmente essere come desidero io, prive di qualsiasi genere di spigolosità,
in cui tutto scorre secondo le mie aspettative in modo appagante. Poi qualcuno o qualcosa mi ridesta,
riportandomi al luogo dove mi trovo e mi rimetto al lavoro.
Minimario
Minimario
a cura di G.J. Forzani
Di che si tratta
Questa sezione della nostra rivista in fieri si presenta come una raccolta più
o meno disordinata di pensieri sparsi e di aforismi. Non nego di aver presente,
per quanto riguarda la forma, i Minima moralia di Adorno, che anche il titolo in
qualche modo riecheggia: nego categoricamente di volermi misurare in qualche
modo con la complessità e la ricchezza culturale di quell'opera. Mi piace però
l'idea di misurarmi con un rischio, che è quello di maneggiare un genere letterario
(dello zibaldone, della raccolta di aforismi) assai mal ridotto, in quanto si
presta a fungere da ricettacolo dei più caratteristici vizi estetici
contemporanei. Il tentativo di racchiudere in una frase o poco più un pensiero
compiuto è un invito a nozze per la sentenziosità apodittica, per la
provocazione fine a se stessa, per la dichiarazione impudica di banalità
insopportabili. Dato che sfugge per sua stessa struttura al confronto con
l'approfondimento del pensiero analitico, il pensiero sciolto si presta ad
essere l'asilo e il pulpito del pensiero pigro e presuntuoso e, come tale,
andrebbe accuratamente evitato. Qualora però una breve raccolta di pensieri
sparsi sia inserita in un contesto organico più completo, come pausa fra testi
più elaborati, mi pare possa svolgere una funzione di stimolo inconsueto,
obbligando il lettore a un tipo di attenzione affatto diversa da quella cui
inevitabilmente si abitua nel corso della lettura di una rivista tutto sommato
monotematica come la nostra. Ho pensato così che inserire alcune estemporanee
riflessioni su temi vari, potesse dare al lettore l'occasione di riflessioni un
po' diverse, ma non necessariamente più futili, di quelle indotte dagli altri
apporti qui pubblicati, senza correre troppo il rischio di diventare quella
fiera della vanità che la raccolta di aforismi spesso rappresenta. Il titolo
Minimario è un giochino di parole multiverso. Oltre al riferimento nobile di
cui sopra, indica un minimo diario, una piccola traccia di diario, che
ricollegandosi principalmente ad alcuni accadimenti riferisce dei pensieri che
ne sono derivati nel lasso di tempo che trascorre fra un numero e l'altro della
rivista. Sta a significare una raccolta di minime, che sono il contrario delle
massime, perché non vogliono prestarsi a essere incise su lapide, e perché non
si occupano dei massimi sistemi ma dei minimi, spesso ignorati (per fortuna?)
dai maître à penser, pur essendo costitutivi del quotidiano ordinario. De
minimis non curat praetor, il giudice non si occupa delle cose minime, dicevano
i latini: e infatti noi non siamo giudici ma spettatori partecipanti. Allora
minimario è anche un mare di mine, un andirivieni di pensieri vaganti che spero
facciano saltare il dormiveglia dello "spettatore addormentato" che
spesso siamo. Come tale ospita anche pensieri eccessivi e non politicamente
corretti, proprio perché quel tipo di artefatta correttezza è spesso
nient'altro che l'alibi per non correre rischi. L'equilibrio di cui siamo
fautori è l'arte di camminare su un filo sospeso nel vuoto come se fossimo su
un ampio ponte, e non quella di camminare su un ampio ponte come fossimo su un
filo sospeso.
Il dialogo vincente. Molti lamentano l'asfissia in cui versa il dialogo fra le
culture, fra le visioni del mondo, fra le religioni, in un periodo in cui
l'osannata globalizzazione fa circolare caoticamente merci ed emigrati, notizie
e suggestioni, producendo più paura che comprensione, più sospetto che
conoscenza. Chi considera il dialogo un bene prezioso che aiuta a conoscere se
stesso attraverso l'altro e a relativizzare la propria posizione e le proprie
sicurezze (non c'è libertà senza mettere in discussione la sicurezza, a scorno
di chi promette sicurezza dietro lo scudo della libertà) si intristisce a vedere come la paura di perdere il
proprio preteso primato percorra come un brivido le schiene degli uomini (politici, religiosi, intellettuali) che si chiudono a riccio nelle loro
tiepide certezze, minacciate dall'ombra del fantasma dell'altro. Ma non c'è da
deprimersi. Chi sa guardare vede trionfare il dialogo. C'è pieno accordo (nel
senso etimologico, di cuori che battono all'unisono) fra i diversi che si stanno
di fronte. Lo dimostrano alcune notizie che il vento ci porta. Il 27 febbraio,
per fare un buon esempio, i giornali ne riportano due non immediatamente
collegate ma innegabilmente concordi. Prima notizia: il mullah dei Talibani
dell'Afganistan, il cui nome ignoro senza rammarico, ha annunciato che le grandi
statue di Buddha di Bamyan, scavate nella roccia dalle mani pagane di centinaia
di fedeli buddisti centinaia di anni fa, verranno distrutte, al pari di ogni
altra immagine antropomorfica e non, in ossequio alla Vera Religione, l'unica,
che non consente rappresentazioni figurative a imitazione delle creature: i
guardiani vigilano come si conviene. Ho visto quei luoghi e quelle statue
nell'estate del 1972: sono fra i fortunati che li hanno avuti negli occhi, da
dove, per interni canali, sono passati nel cuore, e nessun professionista della religione potrà scrostarli da lì. D'ora in poi a nessun
altro toccherà più in sorte quest'empia fortuna. Seconda notizia: il cardinale
della Chiesa di Roma guardiano della fede cattolica, ha ottenuto un ennesimo
successo: il teologo Dupuis ha ammesso le sue devianze e riconosce che il
proprio pensiero può dar la stura a pericolosi fraintendimenti. D'ora in poi il
suo libro "incriminato" sul pluralismo religioso dovrà contenere un
avviso che mette in guardia il lettore: un po' come i produttori di tabacco, che
possono mettere in vendita la loro merce a patto che la descrivano come
gravemente nociva per la salute. Già, la salute: perché la salus (salvezza) è
appannaggio della Vera Religione, l'unica, che non consente elaborazioni
intellettuali in proprio non autorizzate dai guardiani che vigilano. L'accordo,
come si vede, è di sostanza e di metodo: si può chiedere di più? Forse la
Chiesa di Roma è in leggero vantaggio su quella di Kabul, perché sanzionare il
pensiero è più sottile ed efficace che sanzionare le immagini: ma sono
particolari di contorno. Nulla turba il dialogo ai massimi livelli, e l'ordine
regna all'Ovest come all'Est.
Antropolatria
La mucca impazza, l'afta epizootica dilaga: abbattere 1.200.000 capi qua,
abbattere 30.000 capi là. Diffusa preoccupazione per l'allevatore e per il consumatore (atroce termine dal sapore necrotico), tanto l'allevato (il
consumato non più consumabile) è comunque carne da macello. Ogni anno il
brav'uomo uccide 100.000.000 di squali nei mari del mondo (la metà viene poi
buttata via, servono solo le pinne, l'Italia è in testa). Sacralità della
vita. Crociate in difesa della vita, dotti e perentori distinguo sul momento
d'inizio della vita (?!). Domanda: da qual punto di vista un embrione umano di
mezz'ora e mezzo millimetro val più di una mucca viva e vegeta, di un suino
sgambettante, di un pesce che nuota tranquillo....? Piacerebbe sapere. La
concezione della vita appare perlomeno di parte. Dall'antropomorfismo
all'antropocentrismo all'antropolatria: che sia questo il progresso? Buon
viaggio. Verso, chissà, l'antropofagia. Buona fine.
Chi ha paura di chi?
Le carceri rigurgitano di extracomunitari (spaziosa concezione di comunità
umana quella che considera extra i nove decimi degli abitanti del pianeta).
Nell'ultimo anno 138 donne straniere sono state uccise nel nostro Bel Paese:
incremento dal 4% scarso al 24% abbondante del totale degli omicidi in un anno.
Un esercito di prostitute straniere, almeno metà non consenzienti, langue lungo
le strade d'Italia, in attesa di nostrani acquirenti. Ai semafori la corte dei
miracoli del terzo millennio respira gas di scarico in cambio del nostro
fastidio. E poi siamo noi ad aver paura di loro.
Piccolo mostro antico
Il pudore domanda silenzio. Eppure una cosa va detta. La signorina sedicenne che
assieme all'amante diciasettenne ha massacrato sua madre e suo fratello minore è un piccolo mostro antico: piccolo anagraficamente, ma
potente nella sua mostruosità archetipa. Ha scoperchiato un abisso e se ne è
lasciata invadere. Non sono i fidanzatini, come la morbosità dei commentatori
li chiama. Hanno infranto tabù antichi, hanno violato leggi "sacre",
oltre a quelle della convivenza. Che poi l'abisso si sia richiuso, che ora non
siano più quel che per alcuni eterni momenti sono stati, quale sia la pena da
comminare e quale lo spiraglio da lasciare aperto anche per loro, sono altri
discorsi. La loro legittimità può discendere solo dal fatto che si chiamino le
cose con il loro nome e non si cominci a barare prima ancora di aver iniziato a
giocare.
Piccolo mostro moderno Il turbamento domanda parole. Ma non vanno sprecate. Sento alla radio
l'incredibile testuale commento del prete della scuola frequentata dagli
assassini di cui sopra: dopo un'assemblea in cui gli ex compagni di scuola si
sono detti favorevoli, quasi all'unanimità, a una pena esemplare: "Così facendo vi mettete sullo stesso piano di lei"
(l'assassina di mamma e fratello) ha detto loro quel piccolo mostro moderno. Qui
piccolo vuol dire che è un piccolo uomo, ma anche lui a modo suo mostruoso,
perché confonde le idee, corrompe le coscienze usando il perdono come arma di ricatto. Un mostro moderno, che vizia i giovani
dello stesso vizio (ancor più sottilmente colpevole) di chi compra loro tutto quello che chiedono e che non chiedono: l'atmosfera è la
stessa, permissivismo assoluto, qui si giustifica addirittura chi massacra la mamma, è stato uno sbaglio, non lo farà più (e come potrebbe?
mamma ce n'è una sola). Se questi sono gli educatori, che si pretende dai giovani? Poveri ragazzi, ma che volete da loro?
Canzoniere
Primavera incendiata
David Herbert Lawrence (1885 - 1930)
Questa primavera, come arriva, esplode in
falò verdi, selvatico soffiare verde di
alberi, di cespugli, fioritura di pruni che si
levano in ghirlande di vapori, tra
il bosco che brulica e brividi di giunchi
d'acqua.
Sono stordito a tutto questo sprigionarsi, questo
divampare di fuochi verdi, luci sul nero della terra, questa
folata di crescita, questi soffi di vapore che
vanno in selvatici vortici, come
volti di uomini sbocciati sotto il mio
sguardo.
E io, che specie di fuoco sono io, tra tutto
questo bruciare della primavera? Sono quello che manca,
io. Neanche pallido fumo come il resto della
gente, meno del vento che corre al fiammeggiante
richiamo.
Traduzione di Giuseppe Conte
Primavera
Haiku di autore anonimo giapponese
Se manca il sake,
velata
è la bellezza dei ciliegi in fiore...
traduzione di Irene Iarocci
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